Invidia

Universo del Corpo (2000)

Invidia

Anna Sabatini Scalmati

L'invidia (dal latino invidere, "guardare biecamente", composto di in-, negativo, e videre) è uno stato emotivo in cui, in relazione a un bene altrui, si prova una profonda astiosità. I vantaggi materiali e le condizioni di vita di cui un'altra persona gode possono suscitare nell'invidioso un risentimento tale da fargli desiderare il male del fortunato rivale.

l. Definizione

Il verbo latino invidere localizza nella trasmissione visiva, nello sguardo bieco e traverso e nella recezione malevola e rancorosa, il vissuto portante di questo specifico sentimento. L'invidia prende vita all'interno di una relazione bipersonale, in una situazione in cui uno dei due possiede ciò che all'altro manca: un oggetto particolarmente ambito, un successo, un talento. Nel confronto, il bene acquisito dall'uno si configura per l'altro come una menomazione, una minaccia, un attentato all'immagine che egli ha di sé. La struttura dinamica del sentimento invidioso ruota attorno al desiderio di un bene o di un successo che si vorrebbero raggiungere, ma che il merito o la fortuna attribuiscono a un'altra persona. Il confronto accentua la sensazione di mancanza che apre la strada a vissuti di inferiorità, inadeguatezza e menomazione. Il desiderio frustrato, soddisfatto nell'altro, rende esplicita la rivalità. A livello fantastico si organizzano piani, che a volte si traducono in azioni, intesi a danneggiare l'invidiato rivale.

La scintilla che innesca la dinamica invidiosa non è tanto il bene in sé, ma il confronto con l'altro: "se lui sì, perché io no?". Il conflitto che agita l'invidioso è infatti essenzialmente interno e soggettivo. Chiuso in una reiterata affermazione di sé, l'invidioso si allontana da colui che invidia e, ossessionato dalla sua stessa ostilità, si aliena da qualsiasi forma di reciprocità e di rapporto e, conseguentemente, da ogni possibilità di acquisizione e apprendimento. L'invidia, che colora la relazione interpersonale di risentimento, malanimo e distruttività, diviene particolarmente acuta quando la persona invidiata appartiene allo stesso ambiente. Non si tollera, cioè, che il vicino, specie se questi è dello stesso sesso, età, condizione sociale e gruppo di appartenenza, abbia successi pari o superiori e che le sue qualità gli consentano di avere maggiore fortuna. Tuttavia, le realizzazioni e la superiorità di una persona non stimolano solamente invidia. Accade a volte che la felicità e il benessere altrui mettano in moto sentimenti di ammirazione e progetti di emulazione, cioè stati d'animo positivi, sia per il tono emotivo sia per le conseguenze comportamentali. In tale caso all'invidia viene meno il segno marcatamente negativo. Una situazione simile si verifica anche quando l'oggetto e lo stato invidiato non sono legati a una persona. Il bene, invidiabile in sé, suscita ammirazione. Il benessere, le doti, la fortuna possono essere invidiate proprio in quanto se ne riconosce l'intrinseco valore.

L'interpretazione psicoanalitica

L'invidia, universale emozione umana che provoca turbamenti e ostilità, ha ricevuto nei secoli una ripetuta, ma frammentaria attenzione. Tranne brevi ed episodiche riflessioni, manca a livello sia teologico sia filosofico una sistematica trattazione di essa. La stessa psicoanalisi, che per prima si è interrogata sul tema, ha dedicato all'argomento, se si escludono S. Freud e i seguaci di M. Klein, una scarsa attenzione. Freud affronta il tema dell'invidia in due diversi contesti. Nel suo Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921), attribuisce a un'invidia originaria la spinta dinamica che porta all'istituzione di norme per garantire l'equità sociale. In contrapposizione alle intense e violente dinamiche interpersonali che prendono vita all'interno del gruppo dei fratelli, nelle aule scolastiche e nei diversi gruppi sociali, data l'impossibilità per ogni singolo individuo di "essere di per sé il preferito", si leva la richiesta "che almeno nessuno degli altri lo sia". Dalla consapevolezza dei vissuti invidiosi, che invariabilmente contrappongono gli uni agli altri, e da un loro processo di metamorfosi, prende vita un'esigenza di giustizia, una richiesta di uguaglianza, uno spirito di corpo che "non smentisce la propria provenienza dall'invidia originaria" (1921, trad. it., p. 308).

L'altra, e molto nota, concettualizzazione freudiana su questo tema è quella relativa all'invidia della donna per il membro maschile. Pur rivelando sempre la sua inquietudine di fronte al femminile e riconoscendo la lacunosità del suo sapere al riguardo, Freud - lungo tutto il corso della sua riflessione teorica (a partire dal 1905 quando questo concetto appare per la prima volta nei Tre saggi sulla teoria sessuale) - ha sempre legato l'invidia del pene alla costituzione biologica femminile. Questa specifica invidia, a suo giudizio, è un elemento determinante, un tratto ineliminabile e non elaborabile della vita psichica della donna. Al reciproco, cioè all'invidia del bambino per l'essere femminile e la maternità, fa solo alcuni accenni in relazione al complesso edipico negativo. L'invidia del pene prende corpo quando la bambina, nella fase fallica dello sviluppo, fase centrale per l'organizzazione psicosessuale di ogni individuo, scopre la propria differenza anatomica. L'organizzazione genitale infantile si struttura, per Freud, sotto il segno di un solo genitale, quello maschile. Fino alla scoperta della vagina, che avviene nella pubertà, non si pone un'alternativa tra maschile e femminile, ma tra "genitale maschile da un lato e l'essere evirati dall'altro" (1923, trad. it., p. 567). Partendo da una presunta centralità della sessualità fallica e della masturbazione clitoridea nella bambina, Freud suppone che essa, allorché scopre nel maschietto un organo più grande e dotato del suo, sia colpita da una profonda mortificazione. Quando constata la 'propria inferiorità organica' la bambina non percepisce nell'assenza del pene il segno di una differenza, di un'alterità connessa al possesso di un organo diverso, la vagina, bensì in questa mancanza vede e sente il segno, il marchio, di un'evirazione. Suppone "di aver posseduto una volta un membro altrettanto grande e di averlo in seguito perduto per evirazione" (1924, trad. it., p. 32) e sente di essere deprivata dell'unico organo sessuale, privilegio invidiato del sesso maschile che la natura e la madre - per la quale nutrirà d'ora in poi un forte risentimento - le hanno negato. La clitoride si rivela quindi un organo evirato, un residuo, atrofizzato reperto di ciò che una volta anche per la bimba era un pene; la femminilità si istituisce sul registro del negativo e del mancante. "Con il riconoscimento della ferita inferta al suo narcisismo si produce nella donna - quasi fosse una cicatrice - un senso di inferiorità" (1925, trad. it., p. 212), il quale la fa cadere "in balia dell'invidia del pene, che lascerà tracce incancellabili nel suo sviluppo e nella formazione del suo carattere e che, anche nel più favorevole dei casi, non sarà superata senza grave dispendio psichico" (1933, trad. it., p. 231).

Attorno a questa invidia, repressa ma mai superata, e al 'fattore costituzione' che la determina, si istituisce un'intricatissima corrente emotiva in cui si gioca la costituzione psichica femminile e la separazione e l'attrazione tra i due sessi. Se alla mancanza del pene risale l'ostilità femminile verso l'uomo, da parte di quest'ultimo c'è svalorizzazione e disprezzo per la donna. Nella sua malinconica ricerca del pene, la donna si avvicina, tramite il desiderio di un figlio (che per Freud è da intendersi come sostituto simbolico del pene), al padre e, attraverso costui, all'uomo. Specularmente nell'uomo, tramite il desiderio della vagina, "dimora del pene e [...] l'erede del ventre materno" (1923, trad. it., p. 567) si mette in moto la ricerca e il desiderio della donna.

Negli anni Sessanta-Settanta del 20° secolo questa teoria è stata duramente contestata dal movimento femminista, che ha accusato Freud di avere fatto confusione tra biologia e cultura, tra anatomia e condizionamenti sociali e culturali e di aver perduto un'eccellente occasione per studiare gli effetti "della cultura della supremazia maschile sullo sviluppo dell'ego delle giovani". Gli è stato addebitato, come esponente della cultura patriarcale, di avere santificato "l'oppressione nei termini della legge inevitabile della 'biologia'" (Millet 1970, trad. it., p. 234).

La tesi freudiana è stata, peraltro, fin dall'inizio messa in discussione nell'area della psicoanalisi. H. Deutsch (1945), che ha dedicato allo studio della psicologia femminile molta attenzione, concorda con la teoria freudiana dell'invidia del pene, benché non faccia risalire a essa i più importanti conflitti della donna e non consideri questo nodo emotivo come elemento organizzatore dello sviluppo della personalità femminile; di contro K. Horney (1967), in polemica con Freud e con la Deutsch, nega il carattere narcisistico del desiderio femminile per l'organo maschile: per lei tutta la vicenda dell'invidia femminile perde di consistenza. Il connubio invidia-pene viene meno, tra gli anni Venti e Trenta, negli scritti di M.J. Eisler (1922), K. Abraham (1925), E. Glover (1924) e O. Fenichel (1932). Questi autori collocano l'origine di un tale stato affettivo, che vedono riprodursi nella relazione terapeutica, nella fase orale dello sviluppo, cioè nei primissimi mesi di vita. Se il piacere di succhiare non è correttamente appagato, si può sviluppare nel bambino un forte sadismo che si esprime primariamente nel mordere. In tale caso, il carattere si viene a modellare sotto il segno di una forte ambivalenza - desiderio/ostilità - in cui possono trovare notevole alimento tratti psichici invidiosi che instaurano, dapprima ovviamente con la madre, relazioni segnate da invidia e avidità. Nella fase successiva dello sviluppo, cioè nella fase anale, questi tratti del carattere si accentuano per cui "l'invidioso non mostra [...] soltanto di desiderare quel che l'altro possiede, ma unisce a questo desiderio impulsi di odio contro il privilegiato" (Abraham 1925, trad. it., pp. 181-82). E. Jones (1927), psicoanalista della prima generazione e biografo di Freud, considera fallocentrica la teoria freudiana e condivide con M. Klein la supposizione che la bambina abbia consapevolezza della vagina e delle potenzialità insite nel suo corpo. Klein, allieva di Abraham, e con lei il gruppo dei suoi collaboratori, ha attribuito all'invidia un ruolo centrale nello sviluppo della personalità sia dell'uomo sia della donna. L'invidia del pene diviene nel suo pensiero l'espressione dei sentimenti che i bambini, maschi e femmine, provano per il corpo della madre che immaginano, nelle prime fasi del complesso edipico, contenere il pene del padre. Dapprima, senza distinguerla dalla gelosia e dall'avidità, Klein fa risalire l'invidia al bisogno di cibo e di accudimento, all'impulso cioè di incorporare il seno sentito come fonte di vita e di sopravvivenza. Mosso da questi bisogni, il bambino immagina che, mentre lui viene allontanato dal seno, i suoi genitori ne fruiscano permanentemente: "È tipico dell'intensità emotiva e della bramosia infantile attribuire ai genitori uno stato permanente di reciproco soddisfacimento orale, anale e genitale " (Klein 1952, trad. it., p. 479). Nel saggio Invidia e gratitudine (1957), Klein fa un'accurata analisi di quest'emozione, che ritiene primaria e fondamentale, e la differenzia dalla gelosia e dall'avidità. L'invidia, riconducibile al primo ed esclusivo rapporto con la madre, implica una relazione con una sola persona, mentre la gelosia ne coinvolge tre: nel primo caso si aspira alla distruzione dell'oggetto, nel secondo si teme per l'oggetto amato, che si desidera avere in modo esclusivo; in campo vi sono sentimenti sia di amore sia di ostilità. In linea con l'ipotesi della pulsione di vita e di morte, avanzata da Freud in Al di là del principio di piacere (1920), Klein formula la tesi di un'invidia primaria che per prima cosa attacca e distrugge il seno, a causa della sua bontà. Più che dall'odio per l'oggetto frustrante, che tiene per sé il latte e l'amore e nega i propri doni e la propria ricchezza, a suo parere l'invidia è messa in atto dalla consapevolezza della bontà dell'oggetto e dalla percezione di essere da esso separati. L'invidia, che colpisce in modo specifico la capacità di provare gioia e gratitudine, aggredisce e deteriora l'oggetto e rende poi difficile, per l'angoscia persecutoria che si mette in campo, riavvicinarsi a esso. Gli stati di aggressività e di invidia, dovuti a fattori interni e a circostanze esterne, sono di norma transitori, per cui, di fatto, il bambino si riaccosta alla madre; le riconosce la bontà che le è propria e introietta elementi positivi sui quali struttura il suo Io. Se le esperienze positive prevalgono e l'invidia non è eccessiva, questa viene integrata ai moti affettivi e superata da sentimenti di gratitudine; tuttavia, se predominano le esperienze negative ed, eventualmente, l'invidia è molto intensa, l'introiezione del 'seno buono' diviene difficile. Un'intensa invidia inconscia è per la Klein alla base delle reazioni terapeutiche negative e di gravi forme di patologia. Opposta all'invidia è la gratitudine, stato affettivo strettamente legato alla pulsione di vita e ai sentimenti di amore che permette di ricevere e assimilare il primo oggetto d'amore e con esso il piacere e la gioia legati all'accudimento e all'allattamento. Questa concettualizzazione dell'invidia, ripresa e in più punti sviluppata dai suoi seguaci, fuori della scuola kleiniana non trova molti consensi. Viene fortemente criticato il concetto di pulsione di morte, quello di invidia primaria e la tesi kleiniana che presuppone che fin dalla nascita s'instaurino relazioni oggettuali. Una critica articolata al concetto di invidia kleiniano è stata formulata, in particolare, da W.G. Joffe (1969).

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