IPPIATRIA

Federiciana (2005)

Ippiatria

RRiccardo Gualdo

La cavalleria diviene il fulcro dell'esercito medievale già in età carolingia, e soprattutto dal sec. XII in poi il cavallo simboleggia la nobiltà e la forza cavalleresca in guerra (cf. Cuozzo, 1989; Bautier-Bautier, 1978, pp. 59 ss.). Ma una vera svolta si ha tra i secc. XII e XIII, quando cambiano le caratteristiche e gli usi del cavallo da tiro che, sostituito ai buoi nell'aratura, è il protagonista del decollo economico dei paesi dell'Europa del Nord. Le prime aziende di allevamento organizzato dei cavalli compaiono presso i sovrani anglo-normanni (haras o haraz, fine sec. XII, da cui anche l'italiano razza), e il prestigio associato al cavallo si accresce grazie alla raffinata pratica cortese delle battute di caccia con i rapaci (venationes) in pianure e zone umide, ricche di piccola cacciagione.

Il cavallo ha un ruolo importante nell'iconografia del potere federiciano. Alla simbologia di questo animale non è stata rivolta l'attenzione di cui invece, specie negli ultimi anni, ha goduto il falcone (cf. van den Abeele, 2000), ma basterà ricordare le molte rappresentazioni equestri dell'imperatore, dal criptoritratto scultoreo della cattedrale di Bamberga fino ai gruppi di Castel del Monte e Lagopesole; infine, il cavallo è significativamente associato al falcone nel cammeo raffigurante l'imperatore conservato a Parigi.

L'allevamento dei cavalli ‒ già florido nella Sicilia araba a detta di Goffredo Malaterra ‒ si consolida nel Sud d'Italia con la conquista normanna e prosegue sotto gli Svevi, coincidendo con l'epoca di massima floridezza ambientale ed economica delle regioni meridionali. Nel desiderio di riprodurre sul continente l'ambiente siciliano Federico II accresce il demanio regio; in un progetto che comporta significative trasformazioni nell'economia e nel popolamento, la provincia più coinvolta è la Capitanata. La presenza di equini nella Puglia settentrionale è già attestata nel Codice Diplomatico Pugliese, ma s'intensifica per quantità e qualità all'inizio del Duecento. Anche se resta non documentata la notizia di un trasferimento di ben seicento stalloni dalla Calabria (Porsia, 1986, p. 7), è certo che l'intervento dell'imperatore fu incisivo e sistematico.

Rispetto alla ridotta documentazione d'età normanna, molte notizie sull'amministrazione sveva si ricavano dal Registrum federiciano del 1239-1240, dal Quaternus excadenciarum Capitanate, dalle carte del Codice Diplomatico Pugliese. Sono anche molto utili ‒ per l'età angioina ‒ i regesti dei registri di Carlo I e Carlo II d'Angiò, ricostruiti nel Settecento da Filangieri (per un esame attento della documentazione, cf. ibid.).

Su modello siciliano nascono ‒ specialmente nelle zone pianeggianti e umide della Puglia nordorientale ‒ le massarie regie. Federico interviene sulla materia dell'allevamento equino con provvedimenti legislativi mirati, che documentano per la prima volta in Occidente l'organizzazione di stazioni di monta. In una lettera del 1239 approva l'organizzazione della sua marestalla Sicilie, stabilendo come dovesse avvenire la riproduzione e imponendo che le giumente fattrici fossero nutrite d'orzo per dare più latte ai puledri (Historia diplomatica, V, 1, p. 490). Un'altra lettera, del 31 marzo 1240 menziona il ricovero fatto costruire per i suoi puledri vicino alla residenza di Siracusa (ibid., p. 866); infine, un regolamento del 1241 organizza la custodia di giumente, stalloni e puledri nei pascoli, destina una quota di spesa d'olio tanto all'illuminazione quanto alla cura dei cavalli ed elenca il personale specializzato comprendente il marescallus, il custos equorum, e lo scuterius (Bautier-Bautier, 1978, p. 15). Nei documenti federiciani sono ricordate numerose marestalle, sulle cui caratteristiche e attrezzature dà informazioni precise il Quaternus excadenciarum. La marestalla, che comprende stalla, scuderia e ricovero dei cavalli, è il nucleo delle aratie, vere e proprie aziende zootecniche di produzione equina.

Secondo un piano complessivo di sottomissione della natura, che ne prevedeva anche un attento e spregiudicato esame scientifico, alle norme federiciane vengono ad affiancarsi i consigli veterinari di Giordano Ruffo, che si concentrano però sul cavallo da guerra, trascurando quello da tiro o da lavoro. Ruffo, oltre a soffermarsi sulle modalità con cui nutrire i cavalli, dedica attenzione agli aspetti pratici della mascalcia, avvertendo, per esempio, dei danni provocati da una cattiva ferratura. Le cure e i metodi operatori dei maniscalchi descritti da Ruffo, come pure la terminologia e la composizione dei medicamenti, rispecchiano i dati ricavabili dallo spoglio dei conti di scuderie reali e signorili nel meridione angioino e nella Francia di fine Duecento (Poulle-Drieux, 1994, pp. 331-333). Significative sono anche le congruenze tra la descrizione dei luoghi più adatti all'allevamento, praticato alternando pascolo e stabulazione, e le caratteristiche ambientali della Capitanata e dei contrafforti delle Murge (Porsia, 1986, pp. 27 ss.).

Nella corte federiciana, sulla scorta di stimoli provenienti soprattutto dalla scuola parigina di S. Vittore, si afferma una prospettiva di ricerca autonoma rispetto a quella definita nei curricula universitari coe-vi. Nell'intento di affrontare e risolvere questioni scientifiche circoscritte, vengono redatti manuali orientati alla pratica concreta e ispirati all'immagine del sovrano sapiente cara a Federico. Rientrano in questa manualistica, accanto al De arte venandi, il De balneis di Pietro da Eboli, il Regimen iter agentium vel peregrinantium di Adamo da Cremona, l'opera di medicina di Teodoro di Antiochia, i quesiti filosofici a Ibn Sab῾īn e quelli matematici di Leonardo Fibonacci, vari trattatelli oftalmologici e dietetici e, appunto, l'ippiatria di Giordano Ruffo.

Tra il 1210 e il 1220 Michele Scoto termina a Toledo le versioni latine dei tre principali testi zoologici di Aristotele, trasmessi dagli arabi in una sequenza di diciannove libri; negli anni trascorsi alla corte di Federico II (1227-1228) traduce dall'arabo anche il compendio realizzato da Avicenna (Abbreviatio Avicennae de animalibus, che nei codici compare spesso accanto alla raccolta aristotelica) e raduna nozioni di zoologia e medicina tratte da fonti arabe nel suo Liber introductorius. Alla sua morte, nel 1236, il ruolo di consigliere scientifico e traduttore di Federico II è assunto da Teodoro di Antiochia, cui si devono tra l'altro la continuazione della traduzione latina di Averroè e la traduzione del trattato arabo di falconeria noto come Moamin, intorno al 1240-1241 (cf. Gleßgen, 1996).

L'interesse per la trattatistica scientifica non si esaurisce alla morte di Federico, ma prosegue con Manfredi. Istruito sin da fanciullo sulla natura del mondo e del divenire dei corpi, Manfredi incoraggia la versione latina del Liber de pomo pseudoaristotelico e durante il suo regno Bartolomeo da Messina realizza importanti traduzioni dal greco, tra le quali lo pseudoaristotelico DePhysionomia e il trattato De curatione equorum di Ierocle. Nella linea della manualistica scientifica s'inquadra anche il De animalibus di Alberto Magno, composto tra il 1260 e il 1270, che in più luoghi tocca argomenti di veterinaria e ippiatria e che, nel capitolo De falconibus, forse più antico, rinvia esplicitamente alle conoscenze sulla materia sviluppate presso la corte federiciana.

Indiscutibili sono il rilievo e la fortuna dell'opera di Ruffo nella storia della veterinaria: ne sono debitori i capitoli di medicina veterinaria di Piero de' Crescenzi e i trattati trecenteschi di mascalcia di Lorenzo Rusio e Dino Dini, ma il suo successo arriva fino al precursore rinascimentale della veterinaria moderna, il bolognese Carlo Ruini (1598). Ciò nonostante, le notizie biografiche su di lui sono scarse e imprecise. Certa è l'origine calabrese della nobile famiglia Ruffo: l'aggettivo calabriensis accompagna il nome dell'autore negli incipit o negli explicit di molti manoscritti dell'opera e un "Jordanus de Calabria" è ricordato nelle due redazioni della cronaca di Riccardo di San Germano. Meno sicuri la data di nascita, intorno al 1200, e il luogo: Gerace, oggi in provincia di Reggio Calabria (Roth, 1928, pp. 4 ss.) o Monteleone di Calabria, l'attuale Vibo Valentia (Klein, 1969, p. 8). Lui stesso si vanta di avere a lungo soggiornato accanto all'imperatore "cum quo fui per magnum temporis spatium commoratus" e si definisce "Miles in marestalla quondam domini imperatoris Federici Secundi" (Giordano Ruffo, 1818, pp. 116 e I), offrendo così anche un terminus post quem per la stesura definitiva del suo libro (di cui tuttavia, non è escluso esistesse una prima versione già nel 1242, cf. Klein, 1969, p. 9).

La carica di miles in marestalla corrisponde al ruolo di un ufficiale di second'ordine, mentre maresciallo e gran maestro delle scuderie di Federico era stato Pietro Ruffo, vicario di Corrado IV in Sicilia e Calabria e conte di Catanzaro, a quanto ci dice Jamsilla (Gaulin, 1994, p. 425). Pietro è in gran parte delle fonti indicato come zio di Giordano, anche se Saba Malaspina lo ritiene suo fratello. Nella cronaca di Malaspina si narra che i Ruffo avevano preso le parti di Corrado e poi di Corradino contro Manfredi, e che a Giordano, imprigionato dalle truppe di quest'ultimo nel 1256, furono cavati gli occhi, notizia che fissa il terminus ante quem per la stesura dell'opera. Malcerte sono altre segnalazioni: un "Jordanus de Calabria" è citato da Riccardo di San Germano come castellano di Montecassino nel 1239 (Kantorowicz, 1988, p. 378). Errata è invece la notizia, che Roth e altri ripetono pedissequamente da Molin (Giordano Ruffo, 1818, p. VII), della sua partecipazione al testamento di Federico, dove compaiono invece Pietro e il poeta Folco (cf. Historia diplomatica, V, 1, p. 808; M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di L. Weiland, 1896, nr. 274, p. 388; Trolli, 1990, pp. 18-20).

Il maggior merito di Ruffo è di aver risollevato il sapere veterinario alla sfera nobile della cultura scritta (Gaulin, 1994, p. 425). Il testo originale del suo trattato è andato perduto; certamente fu scritto in latino (contro la tesi ottocentesca della prima versione siciliana v. De Gregorio, 1904, e Palma, 1924), ma venne precocemente volgarizzato. Anche il titolo è oscillante nella tradizione manoscritta: Mariscalcia equorum (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 2477), Liber de curis equorum (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 5331), Cyrurgia equorum (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 2764). Non è invece mai testimoniata la dizione De medicina equorum, adottata dal suo primo e sinora unico (cf. la ristampa a cura di Causati Vanni: Giordano Ruffo, 2000) editore moderno, Girolamo Molin, che non può averla tratta nemmeno dall'unico codice su cui si è fondato per l'edizione (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. Lat. cl. VI. 24 [= 3677], cc. 55-71).

Ad onta della sua enorme diffusione, e nonostante quanto dichiari lo stesso autore ("Rogatu quoque cujusdam mei amicissimi" e "instructus [...] plene per eundem Dominum [Fridericus] de omnibus supradictis"; 1818, pp. 1 e 116), l'opera ippiatrica di Ruffo non sembra connessa con un'esplicita commissione da parte dell'imperatore, né con una sua consulenza. Diversamente da quanto è accaduto per il De arte venandi, non ne sono conservati codici di lusso, almeno nell'arco della stagione di predominio culturale degli Svevi, visto che il prezioso codice berlinese della versione toscana è databile agli ultimi anni del Duecento se non ai primi del Trecento. Il trattato, tuttavia, risulta ben presente nelle biblioteche signorili italiane del Tre e Quattrocento, e conosce anche una certa fortuna in ambienti più modesti, come dimostrano gli inventari siciliani studiati da Henri Bresc (Gaulin, 1994, p. 435).

Precoci, come si è detto, furono le versioni volgari, non solo d'area romanza: toscano, siciliano, catalano, provenzale, francese, tedesco; è nota anche almeno una versione in ebraico. In attesa di un censimento accurato e soprattutto sistematico, ma sulla scorta degli studi più recenti e dei cataloghi, si può ritenere che i testimoni manoscritti del trattato siano oltre centocinquanta (ibid., p. 433, dà conto dei censimenti parziali sinora disponibili; il progetto di un censimento completo è in corso di realizzazione presso l'Università di Lecce). Ancora da studiare è anche la tradizione a stampa del testo volgare, che si apre con l'incunabolo contenente il volgarizzamento quattrocentesco del francescano Gabriele Bruno (Venezia 1493) e prosegue con vivacità nei primi decenni del Cinquecento. Il più antico testimone in volgare italiano è il ms. 78.C.15 del Kupferstichkabinett di Berlino, utilizzato come base per l'edizione diplomatico-interpretativa (per molti aspetti insoddisfacente) di Yvonne Olrog Hedvall (Giordano Ruffo, 1995) e per quella, di pochi anni precedente, di Thomas Hiepe (1990). Il codice, elegantemente illustrato, pare confermarsi duecentesco; assegnato fino a qualche tempo fa a botteghe napoletano-angioine, oggi sembra ascrivibile a un atelier di copisti e illustratori genovesi attivi a Pisa, come conferma anche il colorito toscano occidentale della lingua (Cigni, in corso di stampa). Nel corso del sec. XIV vengono realizzate due versioni siciliane parallele ma indipendenti, individuate da De Gregorio (1905) e poi analizzate da molti altri studiosi, che ne hanno ricostruito le vicende tuttavia ancora non del tutto perspicue (una sintesi in Rapisarda, 2000, pp. 477-478, che annuncia una prossima edizione completa). La versione francese è trasmessa da cinque manoscritti molto differenti, tanto che Gaulin (1994, pp. 433-434) giunge a ipotizzare tre diverse redazioni; Klein (1969), trascrive il ms. vaticano Reg. Lat. 1177 mentre Prévot (1991), si basa sul più antico Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Fr. 25341 (ca. 1300). Una versione in tedesco, mancante però della sezione ippologica, è pubblicata da Roth (1928).

Secondo quanto annunciato nel prologo, e così com'è trasmessa dalla maggioranza dei manoscritti latini e volgari, l'opera si compone di sei parti numerate e rubricate. Primo in Occidente, Ruffo introduce la suddivisione, presente presso i veterinari arabi, tra sezione ippologica (dedicata a nascita, allevamento, addestramento del cavallo) e vera e propria ippiatria (infermità naturali e accidentali, e loro cure). I primi quattro libri trattano l'allevamento, l'alimentazione, la riproduzione, l'igiene, la struttura fisica del cavallo, i morsi e la ferratura (Ruffo è il primo autore di veterinaria a occuparsene in modo diretto e a fondarne la terminologia, per esempio individuando la patologia dell'inclavatura; cf. Gaulin, 1994, p. 430, e Trolli, 1990, pp. 28-41). Gli ultimi due sono dedicati a descrivere le malattie, distinte in naturali (V) e accidentali (VI); quest'ultimo libro, che occupa l'85 per cento del testo ed è a sua volta suddiviso in circa sessanta capitoli, tratta le patologie, dalla testa agli zoccoli, e le loro cure. La descrizione segue un ordine fisso: localizzazione del male e suoi sintomi; eziologia e determinazione delle cure; denominazione della cura; trattamento (Prévot, 1991, p. 10).

Ruffo non fa mai riferimento a fonti antiche, scrive sempre in prima persona, e mette continuamente in rilievo la propria esperienza e la propria convinzione personale (cf. Gaulin, 1994, p. 427, e Trolli, 1990, p. 24). Un indice di originalità sta anche nella terminologia adottata, che non denuncia debiti espliciti verso la tradizione greca e araba ma che conserva tracce di lontana origine normanna e germanica (come cymoira). Un esame attento del lessico di Ruffo è stato condotto da Trolli (1990, pp. 26-37), che vi ha notato la tendenza a evitare la terminologia colta, ricorrendo a perifrasi composte.

Diverse le ipotesi sulle fonti utilizzate. D'impianto galenico, la trattazione della patologia potrebbe aver risentito dell'influsso salernitano, attraverso la Pantegni di Costantino Africano e dell'insegnamento di Ursone di Calabria, glossatore degli Aphorismi ippocratici (cf. soprattutto Zahlten, 1971, pp. 27-31), sebbene non si abbia notizia di testi salernitani sulla patologia animale (Trolli, 1990, p. 22). Sempre per Zahlten (1971, pp. 31 ss.), importanti analogie legherebbero inoltre l'ippiatria di Ruffo e il De arte venandi, soprattutto nell'impostazione teorica e nella visione laica della scienza. L'assenza dell'elemento magico, tipico della veterinaria popolare e frequentissimo nella trattatistica successiva, è stata rilevata da Resta (1973); manca però in Ruffo l'attenzione all'anatomia mostrata da Federico II. Da scartare è l'influsso diretto della Mulomedicina di Vegezio, recuperata probabilmente solo verso la fine del Duecento da Teodorico Borgognoni, mentre Roth ha supposto qualche relazione ‒ comunque mai letterale ‒ con la Mulomedicina Chironis. Ruffo non mostra di conoscere i capitoli dedicati ai cavalli nei trattati di agronomia del sec. XIII, che si fondavano su Varrone e Palladio. Più complesso il rapporto con la tradizione ippiatrica greca e bizantina. Heusinger (1847, pp. 42-43) non ravvisa alcuna conoscenza dei testi ippiatrici greci, ma probabile è un contatto con gli Hippiatrikà, miscellanea di veterinaria raccolta forse nel sec. X (ma la questione è ancora aperta; cf. Doyen-Higuet, 1981) sotto Costantino VII Porfirogenito (913-959). Una parte rilevante dell'ippiatria bizantina fa la sua comparsa in Italia proprio a ridosso della redazione del trattato di Ruffo, che potrebbe aver aperto la strada al suo recupero: si notano infatti interferenze con i testi ippiatrici di Ierocle e dello Pseudo Ippocrate appartenenti alla miscellanea (v. oltre). Mancano tuttavia elementi certi, sia dal punto di vista terminologico sia da quello contenutistico: i trattati bizantini si occupano diffusamente dell'allevamento degli asini e del modo di produrre muli e bardotti, temi che Ruffo trascura, e insistono sull'innata repulsione dei cavalli all'incesto, che invece Ruffo documenta (cf. Gaulin, 1994, pp. 428-430). Come s'è già detto, Michele Scoto e Teodoro di Antiochia avevano promosso, negli anni di Federico II, un'intensa attività di recupero della trattatistica scientifica minore. Negli anni Trenta e Quaranta del Duecento potrebbero esser venuti a conoscenza di Ruffo anche i trattati d'ippiatria arabi. I veterinari arabi ‒ pur debitori della tradizione bizantina ‒ sono i primi a occuparsi della frenatura e della ferratura dei cavalli e dedicano particolare attenzione alle affezioni esterne, trascurate dai bizantini a vantaggio di quelle interne; trattazione della ferratura e analisi delle patologie esterne caratterizzano anche l'ippiatria di Ruffo (Trolli, 1990, pp. 22-25).

La conoscenza dei principali testi di mascalcia greci e bizantini si deve all'iniziativa di Manfredi, alla cui corte operava Bartolomeo da Messina. Traduttore di vaglia (a lui pare alludere Ruggero Bacone quando scrive di un "traslator Manfredi nuper a domino rege Carolo devicti" (Opus Tertium, cap. 25, p. 91; cf. Impellizzeri, 1964, pp. 729-730), Bartolomeo latinizza, con il titolo di Liber Eraclei o De curatione equorum, i due libri d'ippiatria di Ierocle, che cominciano a introdurre un certo numero di grecismi nella terminologia ippiatrica (i testi sono ancora inediti, per un esame v. Trolli, 1990, pp. 37-41).

Concludiamo superando i confini dell'età federiciana per citare i trattati di mascalcia tradotti alla corte angioina da Mosè da Palermo, strettamente legati alla tradizione aperta da Ruffo e arricchita da Bartolomeo da Messina. Prima del 1277, su richiesta di Carlo I d'Angiò, l'ebreo palermitano Mosè (o Musa), primo traduttore dell'Almansore di Rasis, traduce in latino dall'arabo o dal greco il Liber Ipocratis de infirmitatibus equorum et curis eorum e il Liber mariscaltie equorum et cure eorum. Questi testi entrano vigorosamente nella tradizione ippiatrica successiva (li utilizzano Borgognoni, Dino Dini e nel Quattrocento Agostino Columbre), e sono presto tradotti nei diversi volgari italiani (i Trattati di mascalcia, 1865, li pubblicano ‒ in una versione forse compendiata ‒ insieme con alcuni volgarizzamenti). Secondo alcuni studiosi, vi potrebbero essere affinità con un ramo della tradizione degli Hippiatrikà bizantini, rappresentato dal quattrocentesco ms. Vossiano Gr. Q. 50 della Biblioteca Universitaria di Leida, riccamente illustrato (Doyen-Higuet, 1981, p. 267); è vero però che i due trattati recano vistose tracce di nomenclatura araba, tanto che Trolli (1990, pp. 45-49) vi ha ravvisato analogie con i pochi testi sinora tradotti della ricchissima produzione veterinaria araba.

Fonti e Bibliografia

Edizioni dei testi ippiatrici di epoca federiciana:

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Trattati di mascalcia attribuiti ad Ippocrate tradotti dall'arabo in latino da Maestro Moisè da Palermo, volgarizzati nel secolo XIII, a cura di P. Delprato-L. Barbieri, Bologna 1865.

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Th. Hiepe, Das Buch über die Stallmeisterei des Pferdes von Jordanus Ruffus aus dem 13. Jahrhundert, Diss., München 1990.

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