ISABELLA Chiaramonte, regina di Napoli

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

ISABELLA Chiaramonte (Chiaromonte), regina di Napoli

Marcello Moscone

Nacque, probabilmente nel 1424, da Tristano, cavaliere francese di antico lignaggio giunto nel Regno napoletano al seguito di Giacomo di Borbone, conte della Marche - secondo marito della regina Giovanna II -, e da Caterina Del Balzo Orsini.

Nel 1415 Giacomo della Marche, volendo inserire ai vertici dello Stato e nei ranghi della feudalità regnicola elementi francesi a lui legati, diede in moglie a Tristano Chiaramonte Caterina Del Balzo Orsini, figlia di Raimondello, principe di Taranto, e di Maria d'Enghien, contessa di Lecce e moglie poi del re Ladislao. Tristano venne investito, in occasione delle nozze, della contea di Copertino, che faceva parte della ricca dote assegnata da Maria d'Enghien alla figlia e che, nel 1419, lo stesso Tristano assicurò per il valore di 1500 ducati sui castelli di San Vito degli Schiavi e San Giovanni in Terra d'Otranto. Dopo le nozze, Tristano e Caterina si trasferirono in Puglia, ove il conte di Copertino governò le proprie terre riscuotendo l'appoggio delle popolazioni locali. A seguito delle vicende che condussero la regina Giovanna II, nel maggio 1420, a riconoscere l'acquisizione del Principato di Taranto da parte di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, che ne acquistò i diritti da Giacomo della Marche per 20.000 ducati, Tristano, nel febbraio 1420, venne privato di quasi tutti i suoi feudi, in larga parte ceduti all'uomo d'arme Ottino de Caris. L'accusa era quella di complicità col conte Giacomo, ormai apertamente in rotta con la regina e la corte di Napoli e giunto al termine della sua parabola politica in terra italiana.

La madre di I. morì a Lecce il 24 nov. 1430 (Cutolo corregge la testimonianza di Coniger in 1429). A diciassette anni I. perse anche il padre e fu sottoposta alla tutela dello zio materno Giovanni Antonio Del Balzo Orsini.

Il 2 marzo 1443 morì Raimondello, unico figlio maschio dei conti di Copertino; l'anno successivo morì anche una sorella di I., Antonia. Le altre due sorelle, Margheritella e Sancia, sposarono rispettivamente Antonio Ventimiglia, figlio di Giovanni, marchese siciliano di Geraci, e Francesco Del Balzo, duca di Andria.

Dopo la conquista di Napoli, re Alfonso d'Aragona il Magnanimo promosse le nozze tra la figlia Maria e il marchese Leonello d'Este, signore di Ferrara, e quelle dell'altra figlia Eleonora con Marino Marzano, primogenito del duca di Sessa e principe di Rossano. Per il figlio illegittimo Ferdinando, Alfonso, fallito l'accordo con Filippo Maria Visconti, era entrato in trattative col re di Francia Carlo VII ma, nella primavera 1444, Alfonso apprese che durante una sua grave malattia i maggiori baroni del Regno, diffusasi la notizia della sua morte imminente, avevano tramato per impedire la successione al trono di Ferdinando. Decise allora, per garantire al figlio l'appoggio della grande feudalità regnicola al momento della sua scomparsa, di proporre ad Antonio Del Balzo Orsini il matrimonio tra Ferdinando e I., nipote prediletta del potente principe di Taranto, gran conestabile e primo tra i signori feudali del Regno, che stava allora trattando il matrimonio di I. con Tommaso Paleologo, despota di Morea e fratello dell'imperatore di Costantinopoli. Gli accordi matrimoniali tra il principe e il Magnanimo, discussi a Napoli, si conclusero rapidamente: il primo ottenne anche la conferma regia del Ducato di Bari e il diritto di libera esportazione di generi alimentari dai suoi territori.

Nel maggio 1444 gli ambasciatori di Barcellona presso Alfonso diedero comunicazione ai consiglieri della città catalana dell'avvenuto fidanzamento tra Ferdinando e I. e, nel settembre, il re invitò alle nozze, previste per l'aprile 1445, i rappresentanti delle città, del clero e della feudalità di Sicilia. La capitale accolse l'annuncio ufficiale del fidanzamento con grandi feste, giochi e tornei. Circa un mese dopo (15 giugno 1444), papa Eugenio IV concedeva a Ferdinando, duca di Calabria, la legittimazione per succedere al trono.

Alfonso inviò a Lecce Ximén Pérez de Corella, a capo di un corteo di nobili, col compito di prelevare I. e condurla a Napoli. I. dovette poi trattenersi per qualche tempo a Taranto, ove fu accolta calorosamente, per una caduta accidentale. Ripreso il viaggio in compagnia del principe di Taranto, I. si fermò anche a Venosa, dove incontrò lo zio e duca Gabriele Del Balzo Orsini.

Giunse allora a Napoli la notizia della morte di due sorelle di re Alfonso: Eleonora, regina del Portogallo, e Maria, sovrana di Castiglia. I festeggiamenti nuziali furono rinviati e Alfonso stabilì anche di celebrare le esequie del fratello Pietro, morto nel 1438, le cui spoglie furono trasferite da Castel dell'Ovo alla chiesa di S. Pietro Martire.

Infine le nozze, già fissate per il 15 aprile e poi per l'8 maggio, furono celebrate nella cattedrale di Napoli (secondo i Diurnali del duca di Monteleone in data 28 maggio; il 30 maggio per Zurita). A causa dei recenti lutti, però, i festeggiamenti non raggiunsero il calore e la gaiezza previsti. Poco dopo, tra l'altro, Alfonso apprese con dolore la notizia della morte del fratello Enrico. Dal 1445 al 1458 I. ebbe il titolo di duchessa di Calabria, in quanto consorte dell'erede designato al trono di Napoli. Il 4 nov. 1448 diede alla luce il primo figlio Alfonso. Il 21 (o il 22) luglio 1450 I. partorì Eleonora, che, falliti i progetti che la volevano moglie di Sforza Maria Sforza, sarebbe andata in sposa a Ercole I d'Este, duca di Ferrara. Poco più tardi, il 16 ott. 1451, nacque il terzogenito Federico, destinato a divenire l'ultimo e sfortunato re aragonese di Napoli.

Nel 1455 vennero ufficializzati gli accordi matrimoniali tra la corte aragonese di Napoli e quella ducale di Milano: Alfonso, appena investito del principato di Capua dal Magnanimo, avrebbe sposato Ippolita Maria Sforza, figlia del duca Francesco.

Ripresasi da una malattia che l'aveva colpita alla fine del 1455, I. diede alla luce, il 25 giugno 1456, il quartogenito Giovanni, tenuto a battesimo poco dopo dal duca di Urbino Federico da Montefeltro. Da una lettera di Antonio da Trezzo a Bianca Maria Visconti dell'agosto 1456 si apprende che I. fu sottoposta, dopo il parto, a un intervento chirurgico che la tenne a lungo convalescente: lo stesso Antonio, in un'altra lettera del novembre 1456, informava la Visconti del trasferimento di I., ormai in via di un definitivo recupero, a Pozzuoli.

Il 14 nov. 1457 I. diede alla luce Beatrice, che avrebbe sposato, nel 1476, Mattia Corvino re di Ungheria. Trasferitasi con i figli a Nola per fuggire la peste che infestava la capitale, I. scriveva, il 30 giugno 1458, a Francesco Sforza per informarlo della morte del Magnanimo avvenuta il 27 giugno, e del fatto che il marito Ferdinando era stato acclamato re durante una cavalcata per le vie di Napoli.

Le città di Terra di Lavoro e delle zone limitrofe, aggiungeva I., avevano innalzato il vessillo dell'erede. La successione di Ferdinando al trono fu però assai travagliata: ottenuto il giuramento del baronaggio e delle città nel Parlamento convocato a Capua il 25 luglio 1458, il nuovo re fu certo avvantaggiato dalla morte, il 6 agosto, del suo più aperto oppositore, papa Callisto III.

La disponibilità al dialogo del neoeletto Pio II portò alla ratifica degli accordi tra la parte pontificia e la corte di Napoli che spianarono la via all'incoronazione di Ferdinando I, il 4 febbr. 1459 a Barletta (a Bari secondo lo Zurita) per mano del cardinale Latino Orsini, legato del papa.

I., in qualità di regina, fu chiamata a un impegno maggiore sul piano politico e diplomatico: sino alla morte fu sempre parte attiva, a fianco del marito, nella difficile situazione apertasi con la sollevazione della grande feudalità regnicola, la cui ostilità doveva essere neutralizzata, nei progetti di Alfonso V, proprio dal suo matrimonio con Ferdinando. Destava preoccupazione il fatto che alcuni tra i maggiori baroni - tra cui il principe di Taranto, Giosia d'Acquaviva e Antonio Caldora - non avessero preso parte al Parlamento di Capua; né lasciava ben sperare il fatto che, già dall'11 maggio 1458, si trovasse a Genova, rappresentante del re di Francia, Giovanni d'Angiò, che era stato investito dal padre Renato del Ducato di Calabria al tempo del conflitto col Magnanimo. Sondata l'indisponibilità di Giovanni II d'Aragona a un'azione contro il nipote e considerato l'appoggio di cui godeva il re presso Pio II e lo Sforza, i baroni ribelli sancirono infatti un'alleanza col pretendente angioino.

Dopo una prima spedizione in Abruzzo (settembre-ottobre 1458) per ottenere l'obbedienza del Caldora e rinsaldare il legame con le città demaniali, Ferdinando fu impegnato in operazioni di contenimento del principe di Taranto dal novembre 1458 all'agosto 1459; poi, fino al novembre 1459, operò in Calabria contro Antonio Centelles, del quale ebbe ragione. Fu però costretto a un rapido rientro nella capitale: la potente flotta franco-genovese si era presentata nel golfo di Napoli il 25 ott. 1459. Durante la sua assenza, il re aveva affidato al figlio Alfonso il titolo di luogotenente generale e il governo della capitale; subentrati però dissidi tra questo e I., egli intervenne, il 3 marzo 1459, ordinando al figlio e a tutti di prestare obbedienza alla regina come alla sua stessa persona e stabilì che la luogotenenza generale fosse condivisa dal duca di Calabria con la sovrana. Fu di fatto I. a detenere il controllo di Napoli, coadiuvata da un Consiglio di reggenza appositamente istituito. Nello stesso anno, inoltre, si verificò la rivolta dei marinai napoletani contro i padroni di nave catalani, sedata dal tempestivo intervento della regina.

Nel giugno 1459 il re assegnò a I. la guardia di Sorrento, Vico e Massa; poco più tardi fece lo stesso col castello di Acerra, che la regina destinò a Martino di Santa Croce. Nell'agosto Ferdinando dava a I. direttive per tutelare gli interessi della Corona nella successione al Principato di Salerno e, nel settembre, fu deciso lo sgombero del borgo di Castellammare. Si stringevano inoltre accordi per la difesa di Procida e si ponevano in assetto da guerra Terracina, Gaeta, Ischia e Capri. I. aveva già fatto fortificare tutte le postazioni sulle coste campane; ne fece costruire di nuove e si preoccupò di difendere i luoghi vicini alla capitale. I. era dunque sicura di poter fronteggiare la flotta di Giovanni d'Angiò, avvistata a Ponza con le sue 19 galee e 4 fuste. Ultimati i preparativi per la difesa della città ed esortati i Napoletani e i cittadini di Terra di Lavoro a perseverare nella fedeltà al re, la capitale respinse l'assalto. Si narra che Giovanni avesse fatto riportare sulle sue bandiere il motto evangelico che recita "fuit homo missus, cui nomen erat Iohannes" e che I. abbia fatto scrivere sulle sue, di rimando, il versetto "et ipsi eum non receperunt". Ferdinando, intanto, faceva il suo ingresso trionfale a Napoli il 24 novembre. Lo sbarco delle forze angioine in Terra di Lavoro, dopo la resistenza di Pozzuoli e Ischia, e la sollevazione di molti baroni e città del Regno obbligavano il re a riprendere la battaglia. Le operazioni in Terra di Lavoro durarono da marzo a luglio 1460. Alla fine di maggio, in un incontro privato a Teano provocato ad arte col falso scopo di intavolare trattative, il re subì un attentato da parte del Marzano, cui scampò con abilità e coraggio e di cui diede notizia alla regina in una lettera. Il 7 luglio 1460 l'esercito regio subì la sconfitta clamorosa di Sarno: fu il momento più buio per Ferdinando dall'inizio della guerra. A proposito della disfatta del re e della cronica mancanza di denaro della corte, secondo la tradizione I., insieme con i figli, avrebbe chiesto ai Napoletani e a tutti i sudditi un contributo spontaneo per la difesa del Regno. Il Pontano riferisce inoltre che I., proprio il 7 luglio 1460, si sarebbe recata, col suo confessore e in abiti francescani, dal principe di Taranto chiedendogli, poiché egli l'aveva voluta regina, di farla anche morire tale. Già Notar Giacomo, però, ridimensiona l'episodio, raccontando che I. inviò presso lo zio, a Sarno, un uomo fidato (forse l'arcivescovo di Otranto Stefano de Pendinellis) per esprimere le sue rimostranze per i gravi recenti fatti contro la Corona. Non è comunque improbabile, al di là delle notizie più o meno attendibili giunte sino a noi, che I. possa avere esercitato una funzione di mediazione presso il principe di Taranto in un momento così difficile per la Corona.

I., che in varie occasioni aveva inviato denaro per le spese militari del sovrano, a causa delle gravi ristrettezze dell'Erario dovette provvedere a impegnare parte dei propri gioielli, a vendere stoffe da poco acquistate, a contrarre debiti e a imporre nuove tasse per raccogliere le somme necessarie alla difesa del Regno. Dopo la rotta di Sarno, inoltre, la necessità di provvedere all'approvvigionamento alimentare di Napoli, gli incarichi nell'amministrazione e nel governo e la sorveglianza sull'esecuzione degli ordini regi la coinvolsero in modo sempre più impegnativo.

La riscossa di Ferdinando culminò nella grande vittoria di Troia il 18 ag. 1462. Molti baroni, allora, attratti con promesse di ricompense o perdono, lasciarono la fazione antimonarchica, il principe di Rossano capitolò nel settembre 1463, quello di Taranto morì nel novembre dello stesso anno. Giovanni d'Angiò, ritiratosi a Ischia, lasciò il Regno nella primavera 1464 diretto in Provenza.

I., che il 16 dic. 1461 aveva dato alla luce il sesto figlio, Francesco, morì a Napoli il 30 marzo 1465 per una malattia di cui si ignora la natura e per curare la quale Ferdinando aveva fatto giungere da Roma uno dei maggiori medici del tempo, Serafino di maestro Ugo da Siena.

Fu sepolta, dopo esequie solenni, nella chiesa napoletana di S. Pietro Martire. I domenicani di questo convento avevano sempre goduto della protezione della regina, che aveva donato loro, nel 1464, vesti preziose, apparati liturgici e alcuni libri, tra cui una Bibbia e le Epistole di s. Girolamo (cfr. De Marinis, II, 1947, p. 138). Ferdinando, nell'aprile 1465, consegnò a Giovanni Puig Olivieri, ufficiale della Scrivania di ragione, 117 ducati per messe in suffragio di I. presso chiese e monasteri di Napoli; una simile donazione venne fatta, nel 1493, anche dalla figlia Beatrice.

I. attribuì grande importanza all'educazione culturale dei figli: il primogenito Alfonso ebbe come precettori il Panormita (A. Beccadelli) e poi il Pontano; Eleonora ebbe per maestro Diomede Carafa; per Federico furono scelti Andrea da Castelforte, Luigi Gallucci (Elisio Calenzio) e Baldassare Offeriano; Giovanni, che studiò con Pietro Ranzano e Rutilio Zeno, fu avviato alla carriera ecclesiastica e fu nominato cardinale da Sisto IV; Beatrice ebbe come istruttore l'abate Antonio "de Sarcellis". Le fonti tramandano inoltre che I. si dedicava assiduamente alla lettura di testi sacri e, tra l'altro, ricevette in dono dal cardinale Angelo Capranica un'operetta devozionale di s. Caterina da Bologna. Dal Pontano al Beccadelli, dai Diurnali del duca di Monteleone al Summonte, la storiografia ha tramandato un giudizio estremamente positivo sul ruolo politico e sulle doti umane di I., di cui sono state lodate la religiosità, la severità di costumi e la salda presenza di spirito. Celeberrimo è il ritratto letterario dedicatole da Giovanni Sabadino degli Arienti, che la definì "humanissima et affabile, honestissima in opere et in parole" (p. 249) e che la descrisse "alta de corpo, cum una grata macilentia, colorita biancheza; li suoi occhii tendevano un poco sul bianco; li capilli furono biondi et lungissimi" (p. 248). Così, l'altrettanto celebre immagine eseguita da Colantonio, che la ritrasse in preghiera insieme con i figli Alfonso ed Eleonora in un riquadro del celebre polittico di S. Vincenzo Ferrer nella chiesa di S. Pietro Martire, sembra evocare la lode del poeta catalano Benedetto Gareth, racchiusa nel verso "morigera, fidel, casta & prudente" (p. 410). I. fu anche ritratta, in una piccola immagine in miniatura, nel codice della Confraternita di S. Marta a Napoli, della quale Ferdinando e la consorte erano membri (cfr. Pontieri, 1969, p. 66 n. 109). Non ci è, di contro, pervenuto il Diarium Isabellae de Claramonte reginae ad Johannem Antonium Ursinum principem, attribuito da G.B. Tafuri al domenicano Pietro de Mastrettis, a lungo confessore, cappellano e consigliere della regina.

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