TOMASI, Isabella

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 96 (2019)

TOMASI, Isabella (in religione Maria Crocifissa della Concezione)

Sara Cabibbo

– Nacque ad Agrigento il 29 maggio 1645, seconda dei sei figli di Giulio Tomasi e di Rosalia Traina, duchi della città siciliana di Palma di Montechiaro.

Nel 1659, a quattordici anni, entrò nel monastero benedettino del SS. Rosario, fondato dalla coppia ducale, in cui dopo due anni fece la professione. Qui visse quarantaquattro anni lasciando memoria di sé per le rigorose pratiche ascetiche e le «manifestazioni eccezionali» di cui fu protagonista, per la fama di santità che la circondò in vita e dopo la morte, per «la gran quantità di scritture» (lettera di Giuseppe Tomasi, 24 ottobre 1669, Archivio generale padri teatini, Roma) redatte per obbedienza al confessore. Questi elementi promossero l’avvio di un iter di beatificazione, la cui prima tappa fu il processo ordinario apertosi il 20 ottobre 1700 ad Agrigento, al termine del quale il canonico Girolamo Turano compose una biografia della serva di Dio, pubblicata nel 1704, che riporta alcuni scritti. La prima fase del successivo processo apostolico si tenne nel 1737 nella vicina città di Licata; poi gli atti si trasferirono a Roma e solo nel 1787 Isabella fu proclamata venerabile da Pio VI.

La sua figura riassume i caratteri della ‘monaca esemplare’ declinati da quanti si occuparono di diffondere le pratiche e i benefici della clausura postridentina destinata soprattutto ad accogliere le nobili fanciulle escluse dal mercato matrimoniale. Isabella Tomasi è anche testimonianza di pratiche sociali e sensibilità culturali e religiose che nel XVII secolo coinvolsero le antiche e, soprattutto, le nuove élites aristocratiche italiane. Impegnate a perseguire un progetto di visibilità e prestigio sociale che si prolungasse nei secoli addentrandosi anche nei sacri territori dell’eternità, esse si fecero infatti portatrici di valori, strategie e comportamenti. Ciò consentì loro di tracciare i destini delle future generazioni nonché di acquistare meriti con l’esercizio di ‘negozi’ mondani e attraverso la pratica di quelle virtù cristiane che contribuirono alla formazione del panorama urbano controriformistico, popolato di chiese, conventi, confraternite, istituzioni caritatevoli.

Si tratta di un percorso di edificazione materiale e spirituale che nel caso della famiglia Tomasi trova riscontro nella lettera del 18 ottobre 1664 inviata dal cardinale Pietro Sforza Pallavicino al padre di Isabella. Congratulandosi per la scelta di aver indirizzato il primogenito Giuseppe alla carriera ecclesiastica facendosi chierico regolare teatino a Roma, e di aver destinato le quattro figlie al monastero del SS. Rosario, lasciando il compito di perpetuare il casato a Ferdinando, l’illustre prelato concludeva: «Questa è la prudente maniera di fondar le Case non solo in Cielo ma eziandio in Terra: sacrificar il più umile che habbiamo a chi è unico Signore del Cielo e della Terra» (Lettere dettate dal card. Sforza Pallavicino di gloriosa memoria..., Venezia 1669, p. 277). Di questo intreccio fra potere mondano ed edificazione religiosa fanno fede sia le biografie dedicate a diversi componenti della famiglia Tomasi, sia la documentazione conservata negli Archivi di Stato di Agrigento e di Palermo. I documenti consentono di seguire le tappe del processo di aristocratizzazione della famiglia e della sua progressiva acquisizione di prestigio politico e sociale nella Sicilia spagnola di Filippo IV (San Martino De Spucches, 1926 e 1927). Questo percorso, svoltosi nel corso di tre generazioni, passò attraverso i matrimoni degli uomini con ereditiere di feudi, l’acquisizione del titolo di baroni e successivamente di duchi, la fondazione della città di Palma Montechiaro (con il mero et misto imperio e la relativa licentia populandi), la costruzione a partire dal 1637 del palazzo ducale trasformato successivamente nel monastero del SS. Rosario, l’edificazione, infine, di chiese e luoghi di culto e di assistenza nei diversi quartieri di una città la cui pianta, corrispondente alle case astrologiche al momento della fondazione, era stato delineata nella Chronologia Terrae Palmae da Giovan Battista Hodierna. Questa strategia fu inoltre accompagnata e sostenuta dalla scelta di una carriera ecclesiastica nella Roma dei papi da parte di chi abbandonò il ‘secolo’ mantenendo uno strettissimo legame con la famiglia, orientandone scelte, inclinazioni, devozioni sulla base dei rapporti intessuti negli ambienti curiali e della conoscenza delle dinamiche che potevano attivarsi fra il piccolo ducato siciliano e la capitale della Cristianità. È il caso del già nominato Giuseppe che rinunciò alla primogenitura in favore del fratello Ferdinando e, nella generazione precedente, di Carlo, gemello di Giulio destinato alla successione, che preferì lasciare gli onori e gli oneri al fratello, il ‘duca santo’.

Nel palazzo ducale, all’ombra di una devozionalità fatta di digiuni, mortificazioni, atti di pietà praticati da tutti i membri della famiglia, Isabella trascorse i suoi primi quattordici anni. Di questo periodo è lei stessa a dare notizia in una serie di relazioni scritte tra il 1670 e il 1688 su ordine del confessore, che richiese alla benedettina, ormai al centro dell’attenzione per i suoi fenomeni mistici, di ricostruire il proprio passato: di salute cagionevole, poco attratta dai giochi dei fratelli, si confessava e comunicava due volte la settimana, recitava ogni giorno il rosario dedicando, compiuti i dieci anni, mezz’ora all’orazione mentale senza tralasciare l’esame di coscienza, per il quale annotava scrupolosamente i peccati con la sua ancora incerta grafia. Per mortificarsi – scrive in una relazione del 6 marzo 1670 – era solita «tenere in bocca con sminuzzarle scorze d’aranci verdi ed alle volte leccava con la lingua alcuni schifosi sputi, ed altre cose simili» e non era per nulla attratta dal matrimonio nei cui confronti provava un sentimento di «abborrimento». Diffidente verso chi «se ne sta nel Mondo, inclina al Mondo [...] come si usava dire nella modestissima casa del padre», studiò grammatica e musica, essendole stato detto che le regole di quest’ultima erano «quelle della Perfettione» (relazione del 1° febbraio 1688, in Relazioni che dà di se stessa...). Attraverso la lettura delle vite dei santi e dei martiri del primo cristianesimo, maturò inoltre quella vocazione alla santità eroica promossa dai decreti urbaniani e dalla cultura agiografica postridentina volta a ricostruire, su basi storiche e filologiche, le vicende degli antichi campioni della fede e a ricercarne e autenticarne le reliquie.

Da questo pio interesse, diffuso anche in Sicilia attraverso i ‘Baronio locali’ alla ricerca dei resti di santi nativi o conservati nell’isola, Isabella fu coinvolta in prima persona allorché i Tomasi si impegnarono, facendo appello alla propria rete di relazioni in Italia e Spagna, perché le ossa contenute in una cassetta approdata fortunosamente sulla marina di Palma nel dicembre del 1653 fossero autenticate come reliquie di fra Alipio, un agostiniano scalzo palermitano martirizzato a Tunisi nel 1645: un’esperienza di contatto con i resti di un recente martire per la futura monaca che fino ad allora aveva conosciuto le imprese degli antichi campioni della fede attraverso i libri; una sorta di inventio per la famiglia ducale desiderosa di disporre di un patrimonio sacrale a complemento della propria devozione. Poiché «le anime dei Santi anderanno a pigliare i loro corpi e Reliquie nelle città dove sono» – scrisse il duca al fratello dopo il ‘miracoloso’ ritrovamento – avrebbe desiderato possedere «il corpo di alcun santo di Palma, o altro [...] che per sua particolare Provvidenza ci havesse miracolosamente inviato, o destinato il Signore» (F.M. Maggio, Vita e morte del venerabile F. Alipio di S. Giuseppe, scalzo di S. Agostino, palermitano della congregazione d’Italia, Roma 1657, p. 150).

Con alle spalle questo vissuto, Isabella fece il suo ingresso il 12 giugno 1659 nel monastero benedettino del SS. Rosario, «fabbricato e dotato da Giulio Tomasi e Rosalia Traina nella loro propria casa» (Costituzioni..., 1690, p.1). Con lei entrarono, oltre alle sorelle Francesca e Antonia, altre sei giovani donne: un’istitutrice e la badessa, suor Antonia Traina, sorella della duchessa e già benedettina nel monastero del Cancelliere di Palermo. Poco dopo avrebbero varcato la soglia anche l’ultimogenita Alipia e, come terziaria, la stessa duchessa divenuta suor Maria Sepelita nel 1670, dopo la morte del consorte.

Un monastero ‘di famiglia’, dunque, questo dei Tomasi, dotato delle sue Costituzioni elaborate da Giuseppe e successivamente pubblicate dal teatino Francesco Maria Maggio, in cui avrebbero fatto la professione le donne della piccola aristocrazia di territori vicini; un monastero di famiglia le cui monache aggiunsero al proprio nome religioso l’attributo ‘della Concezione’, in omaggio a quel concezionismo mariano che impegnò la Corona spagnola e molti Ordini religiosi nella difesa di Maria sine labe concepta. Un monastero di famiglia, infine, che ricalcava le orme di quelli più prestigiosi delle farnesiane, delle barberine, delle viperesche sorti recentemente nella città del papa: modelli tenuti presenti da Carlo Tomasi che informava il fratello di aver ottenuto per le benedettine di Palma il privilegio di ornare il loro abito con uno scapolare raffigurante la Vergine con in braccio Gesù bambino, simile a quello adottato dalle clarisse romane di Francesca Farnese.

Fra queste mura suor Maria Crocifissa visse fino alla morte, tranne un periodo nel corso del noviziato in cui la rigida disciplina monastica ne consigliò il ritorno a casa. Rientrata e fatta la professione, diventò una monaca come tutte le altre, secondo quanto riportano le Cronache redatte dalle consorelle, dove viene descritta come obbediente alle regole e ai ritmi del monastero e solerte nell’alternare il lavoro manuale con la preghiera e la lettura dei libri presenti al SS. Rosario. Della pratica della lettura e dei metodi usati per trarne profitto scrive Isabella ad anni di distanza: «Se alle volte dovea prendere delle cose a sorte, o sentenze, o lezione del Gersone [Jan Gerson] – ricorda il 31 marzo 1670 illustrando la pratica in uso fra le bendettine di estrarre a sorte dei foglietti in cui erano riportati passi di testi di devozione – io ho avuto sempre costume pigliare quella che incomincia per la lettera M (Maria) o U (Umiltà)», aggiungendo di essere poi solita tappezzare con queste «polizze» (relazione del 31 marzo 1670, in Relazioni che dà di se stessa...) le pareti della sua cella per meditarvi.

Alla fine degli anni Sessanta risale anche l’unico scritto di Isabella che non abbia carattere spirituale: una vita del fratello Ferdinando, rimasta manoscritta presso il monastero del SS. Rosario, che narra la breve esistenza dell’erede della famiglia. Il giovane venne educato secondo la precettistica nobiliare e sposò la figlia del principe d’Aragona da cui ebbe il figlio Giulio Maria. Rimasto vedovo dopo un anno di matrimonio, morì l’anno seguente, appena diciannovenne.

In queste pagine, richieste dal confessore perché costituissero il canovaccio di una biografia di Ferdinando, Isabella manifesta una tristezza e una tenerezza che, pur all’interno della visione provvidenzialista, rimandano al tema dell’onore familiare e della necessità di lasciarne memoria nel divenire storico.

Una fase dell’epopea della famiglia, e forse anche della sua vita di monaca, sembra chiudersi agli occhi delle benedettina, consapevole che a continuare l’opera del vecchio e malato ‘duca santo’ resta solo il piccolissimo Giulio Maria; e non è forse un caso che negli anni immediatamente successivi Giuseppe Tomasi, ormai distintosi per le doti spirituali e la cultura teologica, prendesse contatto con alcuni biografi perché componessero le biografie di Carlo, Giulio e Ferdinando Tomasi, iscrivendoli in una genealogia che radicasse le origini del casato nell’antichità.

Nel 1668, all’età di ventitré anni, Isabella smise di condurre la vita devota e obbediente fino ad allora praticata sbalordendo e impensierendo per tre mesi la comunità a causa di un incomprensibile comportamento definito dalle consorelle «stato di bambina» e dal futuro biografo Turano «prodigioso rimbambimento». Regredita sino a non riuscire a parlare ma solo balbettare, incapace di riconoscere i volti delle sue compagne e di mangiare da sola, trascorreva molte ore immobile per poi improvvisamente scoppiare in risa fanciullesche; né rispose ai rimedi praticati dai medici che registrarono la mancanza di dolori e di febbre. La ‘diagnosi’ del confessore, il gesuita Fortunato Alotto, impresse una svolta: attribuite queste manifestazioni a qualcosa di soprannaturale, consigliò alle consorelle di mettere per iscritto ogni atto di Isabella per cogliere gli eventuali «manifesti segni» dell’intervento divino: estatica, radiosa come un serafino dopo aver preso la quotidiana comunione, con le «guance deseccate e la bocca ingenerita» durante le convulsioni, scossa «da amorosi sospiri e respiri» che le squassavano il cuore e da «scotimenti» che davano a intendere «avesse pigliato vigore, e avesse ricevuto in esso cosa superiore» – nei resoconti delle monache –, la benedettina fu esaminata da una commissione di gesuiti perché ne scrutassero «l’interiore» e si pronunciassero sui fenomeni di cui era protagonista (Turano, 1704, pp. 106-118). La richiesta fu avanzata dall’arcivescovo di Agrigento, sollecitato da Giulio Tomasi, e fu un necessario passaggio attraverso le maglie della discretio spirituum in una stagione di invasion mystique che proveniva dalla clausura postridentina, spesso abitata da mulierculae che rischiavano di essere accusate di ipocrisia e simulata santità (Modica, 2005, pp. 205-229). I padri conclusero che le manifestazioni di Isabella derivavano dalla grande familiarità che aveva con Dio e, lodando il suo ‘parlare posato’ e alcune sue pagine, affidarono al confessore/direttore spirituale – figura indispensabile di raccordo fra esperienza spirituale personale e istituzioni nella clausura postridentina – il compito di obbligare Isabella a scrivere della sua vita spirituale prima e dopo la monacazione.

Si forma così quel grande corpus di relazioni che contiene visioni, rivelazioni, profezie, combattimenti spirituali con il demonio, come nell’unico testo pubblicato quando Isabella era ancora in vita in cui il caso di un sacerdote che celebra la messa in peccato mortale le palesa tutta la «bruttezza» del nemico. Si tratta di lunghe pagine intessute inizialmente di dialettismi che si sarebbero diradati con il tempo, lette e spesso corrette dal confessore, rivedute e riscritte dalla benedettina che a volte se ne lamentava, copiate dalle monache e da esse inviate a Giuseppe Tomasi che le mandava in lettura ad altri eminenti religiosi perché esprimessero il loro parere. Questo corpus di scritture, in parte conservato presso il monastero di Palma, in parte sparso fra varie biblioteche, dà la misura dell’attenzione portata su di esse quando Isabella abitava il SS. Rosario: sorta di santa viva, all’interno, però, della clausura dalla quale si faceva corrispondente di religiosi e donne dell’aristocrazia romana e siciliana, divenendo al contempo oggetto di devozione popolare da parte di chi regalava frumento e vino al monastero. Allo stesso tempo queste carte restituiscono l’immagine di una divina madre capace di «leggere nelle anime» e di profetizzare il futuro, utilizzando la retorica della femminilità adottata da Teresa d’Avila per dichiarare di parlare ‘alla ventura’ e non con la sapienza della ormai santa spagnola.

Dalla fitta corripondenza intrattenuta con il fratello Giuseppe fino alla morte, conservata presso l’Archivio dei padri teatini di Roma, emerge il legame che univa, da un canto, la macilenta monaca, protagonista di ‘fenomeni eccezionali’ – come una croce apparsale nel petto dopo una visione – che lasciavano esausto il corpo già piagato dalle discipline, oggetto continuo dello sguardo delle consorelle e delle autorità ecclesiastiche e, dall’altro, l’austero teatino, teologo alle prese con gli antichi testi greci ed ebraici e con gli impegni curiali, sempre pronto a mettere la sorella in contatto con «persone di spirito»; un legame fatto di interesse per i reciproci ‘destini’, ma anche di profonda conoscenza dei reciproci aspetti caratteriali. Una «vinetta d’humor malinconico» scorreva nelle vene di Giuseppe rilevava Isabella, rintracciandola anche nel «padre terreno» e nel pronipote «Giuliuzzo», che «di quando in quando si butta in una gran malinconia che si fa come morto» ; una traccia di quella atra bile, stimolatrice di pigrizia, che consentiva alla benedettina, posta sul cammino delle virtù eroiche dei santi, di consigliare al fratello di «operare qualche esercitio gagliardo in favore della Chiesa» e di additargli la via dell’apostolato in terre lontane (Cabibbo - Modica, 1993).

Giuseppe seguì da presso la fase finale della vita di Isabella. Fu informato dalla sorella Serafica della morte edificante di suor Maria Crocifissa (avvenuta il 16 ottobre 1699) e delle pratiche di composizione del cadavere da cui le consorelle, alla presenza del vescovo agrigentino, estrassero il cervello riponendolo poi in un cassettino, predisponendo anche frammenti di oggetti che le erano appartenuti da distribuire ai fedeli. Altre copie di scritti si aggiunsero alle precedenti, si cominciarono a raccogliere i miracoli operanti mediante l’intercessione della santa monaca, mentre le consorelle e quanti l’avevano conosciuta si predisposero a rendere testimonanza al processo ordinario di Agrigento. L’invio della documentazione alla sacra congregazione dei Riti dette inizio alla fase romana dell’accertamento di santità protrattasi in anni in cui la morte del cardinale Giuseppe Tomasi nel 1713, la fine della Sicilia spagnola e il modificarsi della temperie religiosa e culturale resero in qualche modo ‘obsoleto’ il modello di santità vissuto da Isabella Tomasi. Solo nel 1787 sarebbe stata dichiarata venerabile da una Chiesa assediata dai Lumi e dalla rivoluzione.

Fonti e Bibl.: Agrigento, Archivio della Curia arcivescovile di Agrigento, Palma, anni 1658-59, p. 559, Breve apostolico pel quale si permette al duca e alla duchessa di Palma di fondare un monastero sotto il titolo di Maria Ss. del Rosario dell’ordine di S. Benedetto; Archivio di Stato di Agrigento, Fondo notarile, atti del notaio Baldassarre Pecorella di Licata, vol. 12040 (anni 1636-37), Actus solemnis beneditionis et fondationis primarii lapidis ecclesiae Intemeratae Virginis Deiparae Sacratissimi Rosarii novae terrae Palmae; Palma di Montechiaro, Archivio del Monastero SS. Rosario, Manoscritto ove si contengono le relazioni originali dei ratti pubblici della ven. serva di Dio Maria Crocifissa della Concezione del monastero di Palma, osservati e descritti dalle monache più anziane per ordine del rettore ordinario di quei tempi; Suor Maria Crocifissa della Concezione, Vita di don Fedinando (ms.); Palermo, Biblioteca centrale della Regione siciliana, sez. manoscritti, ms. V a.16, Memorie e scritti di suor Maria Crocifissa e di altre sorelle; Biblioteca comunale, ms. 2 Qq H 9-11, Relazioni che dà di se stessa suor Maria Crocifissa; Roma, Archivio generale dei padri teatini, S. Andrea della Valle, Fondo Carlo Tomasi, voll. 233-236; Carte riguardanti il card. Tomasi, scatola 2, f. I; Lettere del cardinale Giuseppe Tomasi; Città del Vaticano, Archivio segreto Vaticano, Sacra congregazione dei Riti, XVIII (processo ordinario di Agrigento); XXI (processo apostolico in genere di Licata), XVIII, XXIII (ff. 4788-5470), XXIV (ff. 2075-2408); Roma, Biblioteca Casanatense, mss. 4917-4920, 4941, Copie di scritti di suor Maria Crocifissa.

Suor Maria Crocifissa della Concezione, Dell’orribile bruttezza dell’anima d’un sacerdote che celebra il Divino sacrificio in peccato mortale, Palermo 1675; Biagio della Purificazione, Vita e virtù dell’insigne servo di Dio d. Giulio Tomasi e Caro, Roma 1685, passim; Costituzioni delle monache benedettine del monastero della beata Vergine Madre di Dio del Rosario di Palma nella diocesi di Girgenti, a cura di F.M. Maggio, Roma 1690, passim; G.B. Bagatta, Vita del ven. servo di Dio D. Carlo De’ Tomasi, Roma 1702, passim; G. Turano, Vita e virtù della venerabile serva di Dio suor M. Crocifissa della Concezione dell’ordine di S. Benedetto nel monastero di Palma, I, Venezia 1704; Suor Maria Crocifissa della Concezione, Scelta di lettere spirituali, Venezia 1711; B. Bernini, Vita del ven. cardinale d. Gius. Maria Tomasi dei chierici regolari, Roma 1722, passim; A. Talstosa, Ragionamento storico della vita, e virtù dell’ill. madre suor Maria Sepelita della Concezione, fondatrice del venerabile monistero delle monache mariane nella terra di Palma, nel secolo chiamata donna Rosalia Tomasi, Palermo 1722, passim; A. L’Orefice, Vita della madre suor Serafica della Concezione dell’ordine di San Benedetto nel monastero di Palma, Palermo 1763; F. San Martino De Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine ai nostri giorni, IV, Palermo 1926, quadro 498, pp. 271-275, V, 1927, quadro 677, pp. 357-360; M. Pavone, I Tomasi di Lampedusa nei secoli XVII e XVIII, Ragusa 1987, passim; S. Cabibbo - M. Modica, La santa dei Tomasi. Storia di suor Maria Crocifissa, Torino 1989; Eaed., Identità religiosa e identità di genere: scritture di famiglia nella Sicilia del Seicento, in Quaderni storici, XXVIII (1993), 83, 2, pp. 415-442; M. Modica, Misticismo e quietismo nel Seicento, in I monasteri femminili come centri di cultura fra rinascimento e barocco, a cura di G. Pomata - G. Zarri, Roma 2005, pp. 205-229.

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