ISIDORO da Chiari

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

ISIDORO da Chiari (Clario Isidoro, Chiari Isidoro)

Silvano Giordano

Taddeo Cucchi nacque a Chiari, presso Brescia, verso il 1495, probabilmente da una famiglia di modesta condizione. Il 24 giugno 1517 emise i voti religiosi a Parma, nel monastero benedettino di S. Giovanni Evangelista e assunse il nome di Isidoro. Il monastero apparteneva alla Congregazione di S. Giustina, denominata cassinese nel 1504, quando le si aggregò il monastero di Montecassino. I. ebbe come maestri Angelo Claretti e Luciano degli Ottoni e intrattenne rapporti di amicizia con Giambattista e Teofilo Folengo. Nel 1529 lasciò Parma e, con alcuni confratelli, raggiunse il monastero di Torchiara, dove soggiornò per breve tempo prima di fare ritorno al monastero di origine. Nel 1531-32 soggiornò nel monastero di S. Eufemia a Brescia, da dove corrispose con il sacerdote Ludovico Alessandrini da Chiari, professore di diritto canonico nello Studio di Padova e nella scuola del monastero di S. Giustina. Colto umanista, versato nelle lingue latina, greca ed ebraica, si dedicò allo studio della Bibbia.

Nel 1536-37 era a Roma, dove accompagnò l'abate Gregorio Cortese, nominato da Paolo III membro della commissione per la riforma della Curia romana che elaborò il Consilium de emendanda Ecclesia. Durante l'inverno compose una Adhortatio ad concordiam, con intenti non polemici, ma finalizzati alla riconciliazione e alla pace, indirizzata ai dissidenti in materia religiosa e dedicata a Gasparo Contarini, che aveva rivisto il testo.

In quest'opera I. distingue le differenze sostanziali, tra cui sottolinea la questione del libero arbitrio, che Lutero, nella polemica contro Erasmo, aveva definito summa causae, e i temi secondari, quali il Papato, il purgatorio e le indulgenze, da lui considerate nugae, circa le quali, con buona volontà da entrambe le parti, si sarebbe potuto arrivare a un sostanziale accordo. Il Papato, piuttosto che abolito, come sostenevano i luterani, avrebbe dovuto essere richiamato alla sua funzione originaria per evitare l'anarchia e la spoliazione dei beni della Chiesa da parte dei principi secolari. Quanto alle questioni secondarie, gli abusi denunciati dai protestanti non sempre erano tali o, comunque, non erano conseguenze necessarie delle posizioni cattoliche, per cui potevano essere corretti senza rinunciare alla prassi tradizionale in materia di confessione, messe private, vita monastica, celibato del clero. I. introduce un doppio livello di discussione: ai dotti è concesso di trattare con ampia libertà le questioni disputate, mentre al popolo semplice si deve semplicemente presentare la figura di Cristo così come appare nei Vangeli. I. rimprovera ai protestanti di avere volutamente portato la discussione fuori del suo ambito naturale e, senza nominarli, critica le posizioni di Lutero e approva gli sforzi conciliatori di Melantone.

Inizialmente l'opera doveva essere pubblicata in Germania. Nel 1538 il nunzio Giovanni Morone la consegnò a Bautzen al teologo controversista Johann Dobneck (Cochlaeus), il quale, dopo essersi consultato con lo stesso Morone e con Contarini, non ritenne opportuno darla alle stampe, sia perché introduceva una sorta di doppio livello di verità, sia perché, con l'acuirsi della polemica, gli scritti conciliatori sarebbero stati male intesi, come era avvenuto al Consilium de emendanda Ecclesia, considerato dai protestanti come un riconoscimento di responsabilità da parte della Chiesa di Roma. Con il titolo Ad eos, qui a communi Ecclesiae sententia discessere, l'opera fu pubblicata a Milano nel 1540 per i tipi di F. Minizio Calvo, e conobbe una seconda edizione a Parigi nel 1547.

Nel 1542 uscì a Venezia, presso P. Schoeffer, la Vulgata editio Veteris ac Novi Testamenti, che si proponeva di migliorare il testo della Vulgata confrontandolo con gli originali ebraici e greci. Nel prologo e nei Prolegomena I. espose idee concilianti nei confronti dei protestanti e per le annotazioni utilizzò liberamente autori protestanti, quali Sebastian Münster e Martin Butzer. Ancora nel 1542 diede alle stampe a Venezia, per gli eredi di A. Manuzio, i Commentari in Epistolas Pauli ad Romanos et ad Galatos. L'opera, anonima, fu dedicata a Paolo III; l'autore giustificava la sua scelta con la volontà di lasciare il lettore più libero di giudicare le opinioni esposte. In particolare, si criticava la dottrina della predestinazione, in quanto limitativa della libertà umana.

In vista dell'apertura del concilio di Trento, nel giugno del 1545 il capitolo generale della Congregazione cassinese, riunito nel monastero di San Benedetto Po, presso Mantova, elesse come suoi rappresentati all'assise Luciano degli Ottoni, abate di S. Maria in Pomposa presso Ferrara, I., abate di S. Maria presso Cesena, e Crisostomo Calvini, abate di S. Trinità presso Gaeta. I tre abati giunsero a Trento il 18 giugno 1545 e furono presenti alla messa in cattedrale il giorno dei Ss. Pietro e Paolo. Dato il protrarsi dell'apertura, sembra che alcuni giorni dopo avessero lasciato Trento, dove fecero ritorno a metà dicembre del 1545. Nel corso dei dibattiti preliminari sorse la discussione circa il diritto di voto degli abati e dei superiori generali degli ordini religiosi, protrattasi dal 29 dic. 1545 e terminata con la proposta del cardinale legato Giovanni Maria Ciocchi Del Monte, formulata il 4 genn. 1546 e accettata dalla maggioranza, secondo la quale i tre abati avrebbero rappresentato non i propri monasteri, ma l'intera Congregazione cassinese, con un solo voto.

Nel febbraio del 1546 ebbe inizio la discussione circa il canone della Bibbia e le fonti della rivelazione. I tre abati si opposero a considerare la tradizione alla pari della Scrittura, ma accettarono la formulazione finale. Approvarono l'edizione di un testo autentico della Bibbia per l'insegnamento e la predicazione, che doveva essere migliorato rispetto alla Vulgata, confrontandolo con i testi originali. Dietro sollecitazione di I. aderirono alla proposta formulata da Reginald Pole di preparare un testo autentico in ebraico e in greco. I. prese la parola nella congregazione generale del 20 maggio, quando l'assemblea discusse circa l'istituzione di prebende lettorali nelle cattedrali, allo scopo di stimolare lo studio della Bibbia, sostenendo che ciò doveva essere reso obbligatorio anche per i conventi di monaci, in quanto proprio della loro tradizione. Erano invece da respingere i metodi della scolastica ("reiectis cavillosis scholasticorum cavillationibus"), in quanto forieri di discordie. In difesa del metodo scolastico replicò Domingo de Soto, affermandone l'importanza e sostenendo la necessità di utilizzare la teologia controversistica nelle discussioni con i protestanti. La formulazione definitiva del decreto non impose obblighi ai monaci, ma si limitò a una raccomandazione.

I tre abati parteciparono attivamente al dibattito sulla giustificazione, cominciato all'inizio di luglio del 1546. Nella congregazione generale del 13 luglio I. affermò che i meriti di Cristo divengono effettivi mediante la giustificazione per mezzo della fede e per mezzo del battesimo; sostenne che la fede cristiana non può rinunciare alle opere, la capacità dell'uomo di respingere la grazia e la non opposizione tra le dottrine di Paolo e quelle di Giacomo. Il 22 luglio, quando si discuteva se e come il giustificato conservi la giustificazione e come la possa riottenere dopo il peccato, I. argomentò che il giustificato può e deve conservare la grazia ottenuta; ciò avviene in primo luogo per grazia di Dio, ma l'uomo si deve astenere dal peccato e compiere le buone opere. Se l'uomo perde la giustificazione, può ricorrere alla fede; non potendo più ricorrere al battesimo, che si conferisce una sola volta, gli resta la confessione, la quale, come una medicina, può essere utilizzata più volte. Frutto di tali discussioni furono probabilmente due testi, pubblicati da I. nel 1548, sulla doppia giustizia, da lui respinta, e la certezza dello stato di grazia.

Il 13 genn. 1547, nella sesta sessione del concilio, fu approvato il decreto sulla giustificazione. Fu l'ultima occasione solenne in cui I. presenziò ai lavori conciliari, perché il 24 genn. 1547, grazie all'appoggio dei cardinali R. Pole, G. Cortese e Iacopo Sadoleto, fu nominato da Paolo III vescovo di Foligno. Il 12 febbr. 1547 il nuovo vescovo annunciò ai cittadini di Foligno il suo prossimo arrivo. Una volta giunto in diocesi, nominò vicario generale Tommaso Orfini, canonico e priore della cattedrale, il quale, qualche anno più tardi, gli sarebbe succeduto alla cattedra episcopale (1568-75). Subito iniziò la visita pastorale, della quale non si conservano i protocolli. Il 14 nov. 1547 riunì il primo sinodo diocesano, che celebrò nuovamente il 22 ott. 1548, il 14 ott. 1549 e il 15 ott. 1550.

La sua azione pastorale si volse alla riforma del clero, dal quale esigette la predicazione, almeno nei giorni festivi, l'adempimento dei doveri del proprio stato e una condotta moralmente ineccepibile. Cercò di trasformare Foligno in una città anche esteriormente cristiana, ricorrendo, se necessario alla coercizione. Si sforzò di eliminare i giochi proibiti e la bestemmia e intervenne sull'eccessiva ricchezza delle doti, sul lusso delle vesti e contro le meretrici e le concubine. Grande importanza diede alla predicazione, testimoniata dalla pubblicazione di oltre duecento omelie tra quelle tenute nel corso del suo episcopato. Accanto ai sermoni pronunciati nelle principali festività, si distinguono due cicli di omelie: un commento al discorso della montagna e un altro al Vangelo di Luca, iniziato nel 1551 come lectio continua, perché il popolo potesse ascoltare tutto il Vangelo, e prolungato fino all'inizio del capitolo X, quando la morte lo colse. Alla fine del 1548 e nei primi mesi del 1549 chiamò nella sua diocesi il gesuita Silvestro Landini, e gli affidò il compito di predicare la dottrina cristiana nelle parrocchie.

Un secondo asse della sua azione pastorale fu l'opera caritativa, che organizzò in modo sistematico, coinvolgendo anche le autorità, i sestieri, le associazioni e i singoli cittadini. Verso il 1557 istituì la Compagnia di S. Martino, composta da dodici gentiluomini con a capo il vescovo, a imitazione del Collegio apostolico, cui affidò il compito di occuparsi "dei poveri vergognosi". Con il consenso di Paolo III ridusse le feste di precetto, affinché i poveri potessero lavorare per guadagnarsi il pane.

Pur non partecipando all'assise tridentina, seguì da lontano i lavori conciliari: durante il pontificato di Giulio III scrisse ai padri riuniti a Trento una lettera in cui sosteneva il dovere della residenza dei vescovi nelle loro diocesi per potersi dedicare attivamente al loro ufficio.

I. morì a Foligno il 18 marzo 1555 e fu sepolto nella cattedrale.

La sua edizione della Bibbia, ristampa a Venezia nel 1557, fu inclusa nell'Indice dei libri proibiti pubblicato da Paolo IV nel 1559. Ludovico Beccadelli, dal marzo del 1562 membro della commissione tridentina per la riforma dell'Indice, si adoperò per moderare i rigori di Paolo IV. Ciò permise una nuova edizione, nel 1564, cui furono tolti il Prologo e i Prolegomena e cambiato il frontespizio, in modo che non potesse essere confusa con la Vulgata. Ugualmente postume, a opera di Benedetto Guidi, furono stampate diverse raccolte dei suoi sermoni. Una scelta di Epistolae ad amicos risalenti agli anni 1527-28 fu pubblicata a Modena nel 1705.

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