ISLAMISMO

Enciclopedia Italiana (1933)

ISLAMISMO.

Carlo Alfonso NALLINO
Bruno DUCATI
Ernst KUHNEL

Sommario. - 1. Generalità (p. 603); 2. Distribuzione geografica e statistica dei musulmani (p. 604). - Sistema religioso: 3. Considerazioni generali (pagina 605); 4. Assenza di chiesa gerarchica e di sacerdozio, i dottori della Legge (p. 605); 5. Formazione del sistema religioso; scuole teolgiche (p. 606); 6. Le fonti della dogmatica e del fiqh (rituale e diritto) (p. 606), 7. Teodicea;atomismo e negazione del principio di causalità nella teologia speculativa (p. 607); 8. Angeli, diavolo, ginn (p. 608); 9. I libri rivelati, i profeti, Gesù Cristo (p. 608); 10. Spirito ed anima (p. 609); 11. Escatologia (p. 609); 12. Predestinazione, predeterminismo, occasionalismo (pagina 610); 13. Teologia morale e ascetico-mistica; confraternite (p. 610); 14. Santi e sceriffi (p. 611); 15. Le sette politico-teologiche (sciiti, ibāḍiti); e teologiche; modernismo (p. 613). - Sistema politico: 18: La sovranità; condizione dei non musulmani; il wazīr; il sistema tributario; moderno costituzionalismo e nazionalismo (p. 613). - Diritto musulmano: 19. Generalità (p. 614); 20. Persone, famiglia, successioni (p. 614); 21. Diritti reali (p. 615); 22. Obbligazioni (p. 615); 23. Diritto penale (p. 615); 24. Diritto giudiziario (p. 615). - Arte: 25. Generalità (p. 616); 26. Architettura (p. 616); 27. Decorazione (p. 617); 28. Arredamento (p. 618); 29. Periodi stilistici (p. 620).

1. Generalità. - Islamismo è il nome della religione monoteistica fondata da Maometto (morto nel 632) e di tutto il sistema politico, sociale e culturale che si connette intimamente con essa.

Nelle lingue europee questo nome comincia ad apparire verso la metà del sec. XVIII; poi, dalla metà del XIX, tende sempre più a far scomparire l'altra denominazione, sino allora in voga, di maomettismo o maomettanismo, ch'era di pretto conio europeo, poiché la religione di Maometto non viene designata dal nome del suo fondatore presso coloro che la professano. Islamismo è la forma europeizzata dell'arabo islām, che nell'uso più antico del Corano indica la sottomissione incondizionata, cieca, alla volontà di Dio (non la rassegnazione fiduciosa, per la quale è usato un altro vocabolo), e più tardi, nel Corano medesimo e quindi nelle lingue di tutti i popoli musulmani, la religione predicata da Maometto, in contrapposizione a tutte le altre, anche a quelle che si riconoscono come fondate anticamente su libri sacri rivelati; per questa trasformazione del vocabolo v. maometto.

Chi professava l'islamismo si soleva chiamare in Europa maomettano (nel Medioevo per lo più saraceno, agareno, ismaelita), di rado musulmano, che fu denominazione portata all'Occidente nell'età moderna dai Bizantini, i quali, poco dopo la metà del sec. XIV, l'avevano presa dal turco müsülmān, riduzione a sua volta dell'aggettivo persiano muslimān derivato dal genuino termine arabo muslim. Con la seconda metà del sec. XIX il nome musulmano è divenuto prevalente nelle lingue europee.

Le vicende degli ultimi dieci anni di vita di Maometto - cioè da quando egli, emigrato dalla Mecca a Medina, alla primitiva funzione di "inviato di Dio" puramente religioso aggiunse la quafità di capo assoluto d'uno stato da lui fondato sul principio, allora inaudito in Arabia, della comunanza di fede religiosa, capo dai pieni poteri in tutti i campi della vita civile e militare e inoltre facente intervenire rivelazioni celesti a regolare anche casi della vita profana - tali vicende spiegano come l'islamismo, sotto Maometto stesso, sia divenuto un sistema che è al medesimo tempo religioso, politico, giuridico, militare, sociale, e abbraccia quindi ogni forma di attività del credente, le cui norme di condotta anche nelle cose ordinarie dell'esistenza si fanno scaturire, almeno idealmente, da una rivelazione divina, diretta o indiretta. Cosicché dogmatica, rituale, diritto di guerra contro gl'infedeli e relative norme per la ripartizione del bottino, sistema delle successioni, organismo finanziario dello stato, norme di galateo, ecc., vengono ricondotti a un unico tipo di base o fonte. Questo carattere, che ora si direbbe totalitario, distingue l'islamismo dalla massima parte delle altre grandi religioni: dal cristianesimo come dal paganesimo greco e latino, dal brahmanesimo come dal buddhismo, ecc.

Altro carattere dell'islamismo, che in ciò diverge dal giudaismo, è la pretesa all'universalità; carattere dapprima ad esso estraneo, ma sorto quasi automaticamente, sotto l'impulso degli eventi, nell'ultima fase della vita di Maometto e consacrato dalle età successive Ma in un sistema totalitario come l'islamico, che non distingue quasi spirituale da temporale, che fonde insieme vita politica e vita religiosa quali parti indissolubili di un unico tutto, il concetto di universalità implica anche la supremazia materiale su tutti i seguaci d'altre religioni, implica il dominio del mondo intero; cosicché il gihād (v.) o guerra santa è concepito come dovere permanente sino al giorno in cui tutta la terra, nel lontano avvenire in cui sorgerà il mahdī (v.) atteso, cadrà in potere dello stato musulmano. Non è necessaria la conversione degl'infedeli che professino religioni aventi libri rivelati (cristiani ed ebrei, poi, per interpretazione larga imposta dalle circostanze, anche zoroastriani e indù), ché anzi essi possono vivere entro lo stato musulmano in qualità di sudditi posti in condizione d'inferiorità (v. dhimmī); quel che occorre, appena se ne abbiano i mezzi materiali, è la sottomissione delle terre d'infedeli. Conseguenza necessaria e immediata di questi principî, non ancora nettamente formulati ma tuttavia in forma generica ben sentiti, fu quel violento moto di conquista che, a un anno di distanza dalla morte di Maometto, portò gli Arabi (fino allora solo popolo musulmano) ad assalire contemporaneamente le terre asiatiche dell'Impero Bizantino e il grande regno dei Sassanidi (abbracciante la Babilonide, grandissima parte della Mesopotamia e tutta la Persia), abbattendo quest'ultimo con rapidità fulminea e strappando al primo le provincie asiatiche (eccetto l'Asia Minore) e africane, per metter poi piede in Spagna nel 709 e di là spingersi in audace scorreria sin nel cuore della Francia. A causa dei medesimi principî, a causa dei fatti storici qui accennati e a causa, infine, dell'assoluta ripugnanza teorica e pratica dei musulmani a stabilirsi in terre d'infedeli, durante i primi quattro secoli dopo la morte di Maometto la propagazione dell'islamismo ebbe luogo veramente "mediante la spada", non nel senso che le popolazioni non pagane fossero costrette a convertirsi, ma che le conversioni non avvenivano se non nei territorî conquistati e quivi essenzialmente a causa delle condizioni d'inferiorità materiale, morale e giuridica fatta ai dhimmī o sudditi non musulmani. Il concetto di missioni religiose in paesi d'infedeli indipendenti è sempre rimasto estraneo all'islamismo; qualche timido tentativo, nel sec. XX, di preparare un corpo di missionarî non ha avuto alcun successo. L'islamizzamento progressivo, che ancor oggi si nota, di territorî d'Africa e d'Asia è frutto d'iniziative individuali e di particolari circostanze, che non è qui possibile esaminare.

La storia dell'islamismo, dunque, è storia d'una religione ed insieme di uno stato o gruppo di stati avente in quella il fondamento della sua esistenza; nei rapporti con l'Europa fino ad iniziato secolo XIX, essa, se si prescinde dal campo della cultura, è una serie interminabile di aggressioni musulmane, non provocate in alcun modo dall'Europa, la quale (se si eccettua il caso particolare delle crociate, 1097-1270, e delle spedizioni spagnole e portoghesi contro il Marocco, sec. XV-XVI) si limita alla difesa più o meno fortunata delle sue terre invase e alla riconquista dei territorî perduti. La situazione s'inverte a partire dal 1830, anno dell'occupazione francese d'Algeri provocata dalla tracotanza degli stati barbareschi verso gli stati europei; e da allora l'occupazione di vasti territorî musulmani in Asia ed Africa diventa una delle maggiori manifestazioni della tendenza coloniale ed imperialista europea ed assume le diverse forme dell'annessione territoriale pura e semplice (come è il caso del Turkestan russo), del possedimento coloniale, del protettorato e, dopo il 1919, anche del mandato a nome della Società delle Nazioni.

2. Distribuzione geografica e statistica. - La storia dell'espansione territoriale islamica nei primi secoli è tracciata alla voce arabi: Storia (particolarmente III, pp. 827-828 e 829-830); qui basti rilevare che nel 94 èg., 713 d. C., regnando il sesto califfo ommayyade al-Walīd I, l'impero arabo-musulmano andava dall'Indo, dalla Transoxiana (attuale Turkestan russo) e dal Caspio fino alle cateratte della Nubia e all'Atlantico, inchiudendo non solo l'Africa settentrionale, ma anche gran parte della Spagna. Più tardi la stessa Italia meridionale ebbe a subire non brevi dominazioni arabe in Sicilia (dall'827 fino al 1072, con prolungamenti in singole località fino al 1246), in Calabria (dall'839 sin verso il finire del secolo, e poi ancora a intervalli), nelle Puglie (con vero principato dall'842 all'871), alle foci del Garigliano (883-915, con grave minaccia per Roma stessa), nel Beneventano, ecc. Acqui e Asti in Piemonte, e alcune terre del vescovado di Coira in Svizzera, ebbero a subire incursioni dagli Arabi stabilmente insediati nel territorio di Frassineto a nord di Saint-Tropez in Provenza (da circa l'890 fino al 972).

Oggi l'Africa settentrionale a nord del 10° parallelo boreale si può considerare completamente musulmana, eccetto l'Abissinia (cristiana come parte della Colonia Eritrea), i Copti dell'Egitto (formanti il 6% della popolazione) e gli animisti dell'Alto Volta francese. I paesi a sud del 10° parallelo contengono pure, in tutti i territorî francesi e inglesi e nel Sudan meridionale anglo-egiziano, una forte minoranza musulmana che tende a guadagnar terreno. Islamizzata è la Somalia intera, al pari della maggioranza dei distretti costieri dell'antica Africa Orientale inglese e tedesca (ora territorî del Kenya e del Tanganica), arrivando sino a circa 10° di lat. meridionale. Musulmane per intero sono le isole Comore, mentre nel Madagascar la popolazione islamizzata si calcola al 18% del totale. Gruppi musulmani d'una qualche importanza si hanno anche nell'Unione Sudafricana (d'origine indiana e malese) e nel territorio del Nyassa.

La fascia musulmana compatta dell'Africa del nord si prolunga nell'Asia, abbracciandovi l'Asia Minore o Turchia asiatica, la Siria nel suo senso geografico (nel cui seno il Libano è in grande maggioranza cristiano), la Palestina (ove i musulmani, secondo il censimento del 1° novembre 1931, formano il 73,4 per cento della popolazione totale), la Transgiordania, l'Arabia, la Mesopotamia, la Persia, l'Afghānistān, il Turkestan russo (ineluso il territorio detto un tempo transcaspiano) e il cinese, il Belūcistān, le Indie neerlandesi. Fortissimi gruppi musulmani si trovano nella Ciscaucasia e Transcaucasia (dove alcune provincie sono interamente musulmane), nell'India britannica (soprattutto nel NO., nel medio bacino del Gange e nel Deccan), in alcune provincie cinesi (soprattutto Si-kang, Kan-su e Yün-nan) e nella Malesia britannica.

In Europa professano l'islamismo la grande maggioranza della popolazione della Turchia europea, forti gruppi della Rumelia (Bulgaria meridionale), della Dobrugia (Romania), della Bosnia (Iugoslavia), i Tartari della Crimea e del bacino medio e inferiore del Volga (con centro culturale a Kazan′), e infine piccole comunità in Polonia, Lituania e Finlandia. Gli 80.000 musulmani circa che vivono in Francia sono stranieri, in massima parte operai fatti venire dall'Algeria, dalla Tunisia e dal Marocco; lo stesso è a dirsi dei 5000 musulmani del Belgio. Emigranti temporanei sono pure quasi tutti i non numerosi musulmani sparsi in America e nell'Oceania.

Una statistica esatta di tutti i musulmani è ancor oggi impossibile, giacché vastissimi territorî da essi abitati non hanno mai avuto censimenti regolari e anzi per parte di essi, quasi del tutto inesplorati da Europei, è difficilissima anche una stima approssimativa: basti ricordare che alla Cina varî autori attribuiscono cifre di musulmani varianti da un minimo di 4 a un massimo di 25 milioni. Provvisoriamente si può accettare la cifra complessiva di 242 milioni per tutti i musulmani del globo, ricavata per il 1929 da L. Massignon nell'Annuaire du monde musulman, 3ª ed., Parigi 1930; modificare la cifra in base ai risultati dei censimenti dei due anni successivi in alcune regioni (Siria, Palestina, Egitto, 'Irāq, India, colonie italiane, ecc.) sarebbe un perfezionamento illusorio. Accettando la cifra suddetta e accogliendo per il 1930 l'ammontare di 1988 milioni come totale degli abitanti della terra (calcoli dell'Institut international de Statistique), risulta che i professanti l'islamismo ne sono poco più dell'ottava parte; contro ad essi, per limitarci alle religioni monoteistiche come l'islamismo, stanno circa 750 milioni di cristiani e 18 milioni di ebrei.

Dei musulmani il 74,5% dipende da stati cristiani (europei) per dominio diretto o protettorato o mandato; il 20,7% è indipendente; il 3,9 vive in particolari condizioni in Albania e nella Cina. La cosa merita rilievo, poiché, dal punto di vista del sistema politico-religioso dell'islamismo, rappresenta una condizione opposta al principio fondamentale del diritto pubblico e privato, che un infedele non può avere dominio né supremazia o autorità sopra un musulmano.

La Gran Bretagna ha il maggior numero di sudditi seguaci dell'islamismo: nel solo Impero Indiano (esclusi Ceylon e il Protettorato di ‛Aden) ne conta, secondo il censimento del 26 febbraio 1931, 77.744.000 sopra 351.451.000 ab., ossia il 22% del totale; aggiungendo i 17 milioni degli altri possedimenti asiatici e africani si arriva a 95 milioni. Segue l'Olanda, che nelle Indie Olandesi ha circa 55 milioni di sudditi musulmani (censimento del 1930), ossia l'enorme maggioranza della popolazione indigena. Viene poi la Francia, con i suoi 22 milioni in Africa e nei paesi sotto mandato (censimenti del 1931); quindi la Russia, dove i musulmani (non apparenti più nel censimento del 1931) si possono calcolare a 20 milioni. Secondo i risultati provvisorî dei censimenti fatti il 21 aprile 1931, l'Italia ha 8276 musulmani, su 117.257 ab. indigeni, nelle isole dell'Egeo (ossia il 6%); 500.356 su 522.914 in Tripolitania; circa 142.000 su 145.746 indigeni in Cirenaica; 309.829 su 591.971 (ossia il 52,3%) nell'Eritrea, ove, tuttavia, le cifre riguardanti la popolazione indigena sembrano fortemente esagerate. Per la Somalia italiana un computo ufficiale del 1930 dava 1.028.000 indigeni (tutti musulmani); ma questa cifra sembra doversi ridurre a quasi la metà.

Quando si considerino l'entità numerica di queste masse sottoposte a dominio diretto o indiretto europeo, il carattere specifico dell'islamismo di essere un corpo organico di dottrine e precetti che dovrebbe regolare secondo prescrizioni divine ogni lato della vita del credente, la solidarietà che per questo stesso fatto nasce fra musulmani assai più che, ad es., fra cristiani, la tradizione dei tempi gloriosi del califfato arabo e dell'Impero Ottomano, quando pareva che potesse sperarsi non troppo lontana la realtà dell'ideale d'una egemonia islamica sulla terra, infine l'inconciliabilità teorica fra la qualità di musulmano e l'accettazione d'una sovranità di infedeli fuori del caso di forza maggiore, si comprende agevolmente quanto più difficile sia il problema imperialista e coloniale europeo rispetto a popolazioni musulmane che non rispetto a popoli professanti altre religioni. Per quanto il sistema dottrinale musulmano si vada sgretolando in non poche sue parti sotto la pressione delle nuove esigenze culturali, economiche e politiche portate o imposte dall'Europa all'Oriente islamico sin dal principio del sec. XIX, pure esiste sempre un largo campo nel diritto pubblico e privato irriducibile al tipo europeo e di fronte al quale anche l'Europa dominatrice deve rinunziare a sue riforme; basti ricordare il diritto di famiglia (con la poligamia, il ripudio illimitato, ecc.), il diritto successorio, le fondazioni pie o waqf. Ed è fatto ben noto che, sino al termine della guerra mondiale (1918), in tutto l'Oriente il massimo spirito aggressivo contro l'Europa e le massime difficoltà amministrative di questa in quei paesi provenivano dai musulmani.

Sistema religioso.

3. Considerazioni generali. - La distribuzione della materia in sistema religioso, sistema politico e sistema giuridico viene fatta qui per adattarla ai criterî europei; ma dal punto di vista islamico la dogmatica, la morale, il rito, il diritto privato e molta parte del pubblico (il sistema fiscale, il diritto di guerra, il processuale, il penale) formano un unico tutto, che scaturisce dalle medesime fonti sacre e che porta il nome complessivo di shar‛ o sharīah (scerìa, in francese chériat, chéri, chrâa), che noi, in base all'uso del Vecchio Testamento potremmo rendere in modo approssimativo con la Legge (religiosa, d'origine divina). La Sharīah è divisa dai musulmani in due sezioni: l'una riguardante quello che la teologia cattolica chiamerebbe il foro interno del credente, ossia l'attività della mente e del cuore (dogmatica e morale individuale); l'altra avente per oggetto gli atti esterni verso Dio, verso noi stessi e verso gli altri, ossia le pratiche del culto, i rapporti giuridici con gli altri uomini e alcune norme di condotta che in parte sarebbero per noi di galateo o di buona società e in parte anche di decoro personale. La seconda sezione (atti esterni) è quella che si chiama fiqh, vocabolo, che, in mancanza di esatto equivalente nel mondo occidentale, si suol tradurre con "diritto musulmano"; essa si suddivide in ‛ibādāt, o pratiche del culto, e muāmalāt, o modo d'agire verso gli altri, ma senza che queste suddivisioni coincidano con quello che noi intenderemmo con esse secondo i criteri europei, poiché, ad es., nelle ‛ibādāt sono compresi precetti che a un occidentale parrebbero di diritto pubblico (qualche lato del sistema fiscale, il regime delle miniere), e viceversa nelle muāmalāt, che essenzialmente sarebbero i negozî giuridici, troviamo comprese materie che si direbbero piuttosto di rituale religioso (esecuzione di giuramenti e voti, macellazione ordinaria, sgozzamento delle vittime sacrificali, formalità di caccia e di pesca, cibi e bevande, abiti). Le ragioni, in parte storiche e in parte dottrinali, di siffatte apparenti anomalie sono troppo complesse per essere qui esposte.

4. Assenza di chiesa gerarchica e di sacerdozio; 1 dottori della legge. - Un fatto di capitale importanza è che l'islamismo, pur tendendo a dominare con precetti positivi minuziosissimi tutte le manifestazioni della vita dei credenti, anche nei lati che a noi parrebbero i più lontani dal campo della religione, ignora l'esistenza d'una chiesa gerarchicamente costituita da persone rivestite di carattere sacro e al cui vertice stia un capo supremo, moderatore sommo dell'organismo ecclesiastico e decidente in ultima istanza in materia di dogma e di rito. Maometto non istituì sacramenti, né sacerdoti o ministri del culto; alle pratiche cultuali ogni musulmano può attendere direttamente una volta che le abbia apprese, e anche alle cerimonie di culto che si tengono in comune (per es., la preghiera canonica pubblica del venerdì) può presiedere qualsiasi credente esperto del rito. La moschea stessa ha carattere rigorosamente sacro soltanto per rapporto agl'infedeli; per i musulmani essa serve anche a scopi profani, purché non siano indecorosi. Onde è che un clero nel senso europeo, distinto dal laicato come nelle due chiese cattolica e greco-ortodossa, non esiste nell'islamismo; quello che talvolta viene chiamato il clero musulmano nel linguaggio amministrativo d'alcune colonie europee è l'insieme delle persone incaricate in modo permanente di funzioni nelle moschee, alle quali potrebbe attendere qualsivoglia fedele idoneo: il sovraintendente amministrativo (shaikh) della moschea, l'imām ossia guida della preghiera canonica in comune, il khaṭīb ossia colui che tiene la khuṭbah o predica rituale del venerdì, il mu'adhdhin (muezzin) ossia colui che dall'alto del minareto annunzia ai fedeli il momento delle cinque preghiere canoniche quotidiane; tutti funzionarî non legati fra loro o ad altri da alcuna gerarchia, e nominati talvolta da autorità governative, talaltra dal sovraintendente della moschea, talaltra ancora da fondazioni pie alle quali appartengano le moschee oppure anche semplicemente dagli abitanti del quartiere o del villaggio.

Alla salvaguardia del dogma, del rito e del diritto canonico e alle decisioni intorno alla legittimità o illegittimità di determinate idee nuove o di atti senza chiari precedenti provvedono i dottori della Legge (‛ālim, al plur. ‛úlamā') singolarmente, non collegialmente (salvo casi eccezionali), e in quanto godano di tale autorità morale che il loro responso trovi riconoscimento nella maggior parte del pubblico. Nei conflitti d'opinione tra dottori non esiste autorità superiore che possa intervenire e decidere; la divergenza non potrà venir risolta se non con il decorrere del tempo, quando si sarà formata tra i dottori quella opinione di gran lunga prevalente che costituisce l'iāmǵ, di cui si dirà al n. 6. Senza dubbio questo stato di cose non è privo d'incertezze e d'inconvenienti, tuttavia assai minori nella realtà di quello che un europeo potrebbe aspettarsi; quindi negli stati accostantisi al tipo occidentale, come nell'lmpero Ottomano a partire dalla prima metà del secolo XVI e in Egitto dal sec. XIX, si è istituita la carica governativa di shaikh al-islām (capo dell'islamismo) o gran muftī per dare fetwà, cioè responsi ufficiali sulle materie sopra indicate sia al governo sia a tribunali sia a privati. Ma l'autorità di siffatti responsi è limitata al territorio di quello stato; essa non potrebbe vincolare in alcun modo gli altri musulmani.

I dottori della Legge o ‛úlamā', assommanti la duplice qualità di teologi e giuristi, sono tali non in virtù di diplomi scolastici o di nomina governativa, ma perché l'opinione pubblica, capitanata dagli ‛úlamā' più anziani, li ha riconosciuti come tali in base agli studî da loro notoriamente fatti, agl'insegnamenti da loro a titolo libero tenuti, agli scritti composti. La regolamentazione del titolo di ‛ālim (al plur. ‛ulamā'), come spettante soltanto a coloro che abbiano compiuto determinati ordini di studî e superato appositi esami, è cosa modernissima introdotta in Egitto nel 1896. Coloro fra essi che si occupano quasi esclusivamente del fiqh suaccennato (convenzionalmente diritto musulmano) si chiamano al sing. faqīh, al plurale fuqahā. Coloro che hanno autorità di dare fetwà o responsi in materia di teologia e fiqh si chiamano più specialmente muftī. Infine quelli che sono incaricati di applicare in giudizio le norme del fiqh prendono il nome di qāḍī (v. cadi).

5. Formazione del sistema religioso; scuole teologiche. - Le dottrine insegnate da Maometto in quel campo che è veramente religione secondo i concetti occidentali, ossia prescindendo da ciò che per noi sarebbe diritto, ci appaiono quale mescolanza di elementi del paganesimo arabo a mala pena islamizzati (il pellegrinaggio annuo alla Kabah, la credenza nei ginn, il modo di concepire la rivelazione celeste e qualche altro particolare), di elementi tratti dal cristianesimo e dal giudaismo nelle loro forme degenerate popolari (salvo forse i Salmi, nessuno dei libri biblici fu conosciuto direttamente da Maometto) ed infine di idee, interpretazioni e norme proprie di Maometto. Dal punto di vista islamico ciò è perfettamente naturale, poiché, secondo l'ultima fase del pensiero religioso di Maometto, la Legge divina, rivelata anche ai profeti delle età passate (quindi agli ebrei e ai cristiani), è essenzialmente una e culmina con la rivelazione coranica, che è la definitiva per tutta l'umanità: se nella parte narrativa su fatti del Vecchio e Nuovo Testamento o nella parte dottrinale esiste contraddizione fra il Corano e la Bibbia, la causa ne è la corruttela o la falsa interpretazione dei libri sacri ebraici e cristiani; se esiste manifesta discrepanza tra i precetti coranici pratici ed i biblici, ciò si deve all'insindacabile volere di Dio, come è il caso per i minuziosissimi divieti di cibi, che Dio aveva imposti agli ebrei quale punizione di loro colpe e che poi limitò di molto per i musulmani. Ad ogni modo la Legge islamica è venuta ad abrogare tutte le precedenti.

Gl'insegnamenti del Corano e quelli che Maometto aveva dato verbalmente (all'infuori della rivelazione coranica) o con l'esempio erano ben lungi dal costituire un corpo dottrinale organico, completo, esente da contraddizioni e incertezze. Alla costruzione del sistema dovettero quindi provvedere le successive generazioni, attraverso ricerche e dibattiti di scuole, talora vivacissimi, e non già mediante concilî di dottori, rimasti sempre ignoti all'islamismo per parecchie ragioni, fra le quali precipua l'assenza di gerarchia ecclesiastica. Il rituale si può considerare come completamente elaborato all'inizio del secondo secolo dell'ègira (VIII d. C.), sia in virtù di perfezionamento spontaneo interno, sia sotto l'influsso di elementi stranieri, soprattutto del rituale giudaico; le piccole discrepanze di scuola che ancor sopravvivevano furono considerate egualmente legittime e permesse da Dio quale atto di misericordia sua verso i credenti. La dogmatica positiva si può considerare definitivamente fissata al chiudersi di quel medesimo secolo, salvo, anche qui, alcune differenze considerate pure come legittime; cosicché, dopo d'allora, le divergenze dal sistema, all'infuori delle sue varianti lecite, sono giudicate eterodosse e, secondo i casi, qualificate di bid ah o novità (termine alquanto vago comprendente tanto la novità disapprovabile quanto l'eresia propriamente detta), oppure di kufr, cioè d'esser fuori dell'islamismo, d'essere miscredenza. Nei primi secoli si fece un grande abuso di queste accuse di kufr contro dottrine teologiche che parevano scostarsi da quelle della maggioranza; accuse di carattere gravissimo anche nella vita pratica, poiché il musulmano che risulti kāfir (ossia infedele) diventa una persona fuori legge, priva di qualsiasi tutela giuridica per la sua vita e per i suoi beni. Nel campo ortodosso, dopo il sec. II dell'ègira, sorse, e continua sino ai nostri giorni, il dibattito intorno al metodo da seguire nello studio della dogmatica: se si debba limitarsi alla teologia positiva, ossia alla raccolta e al coordinamento del materiale dogmatico contenuto in quelle che vedremo essere le tre "radici" della dogmatica, oppure se sia lecito o addirittura doveroso valersi del ragionamento filosofico per l'approfondimento e l'elaborazione dei dogmi; in altre parole il contrasto è fra la scuola dei tradizionalisti (ahl al-hadīth, salafiyyah) e quella dei mutakallim o seguaci della teologia speculativa (in arabo kalām, ossia trattazione ragionata) introdotta nel campo ortodosso soprattutto per opera di al-Ash‛arī, morto nel 324 èg., 936 d. C. Alla semplice teologia positiva si mantengono fedelì i seguaci della scuola teologico-giuridica ḥanbalita, i salafiyyah (non ḥanbaliti, che, nell'età moderna, vogliono attenersi ai puri dettami dei salaf cioè prime pie generazioni musulmane) e in generale anche i sūfī o mistici; invece la teologia dogmatica speculativa è dominante fra i seguaci delle scuole giuridiche ḥanafita, mālikita e shāf‛ita, eccettuati i salafiyyah predetti. Nella dogmatica speculativa si possono avere gradi diversi, secondo gli autori, di mescolanza dell'elemento filosofico col teologico propriimente detto, fenomeno esattamente parallelo a quello della scolastica medievale cristiana; inoltre in essa vanno distinte due scuole, che differiscono non per metodo, ma per il catechismo positivo che esse pongono a base dello sviluppo razionale: la scuola ash‛arita, il cui fondatore (lo shāfi‛ta al-Ash‛arī predetto) si fondava sul catechismo formulato da Aḥmad ibn Ḥanbal, morto nel 241 èg., 855 d. C., e la scuola māturīdita derivante dal ḥanafita al-Māturīdī, nato e vissuto nel Turkestan, morto nel 333 èg., 944-945 d. C., il quale presentava il suo credo fondamentale come riproducente l'insegnamento catechistico di Abū Ḥanīfah. Benché non esista alcun legame necessario tra la scuola di rituale e diritto che uno segue e il tipo di teologia professato, pure derivò dalla predetta circostanza che i mālikiti e gli shāfi‛iti si attennero e si attengono al sistema ash‛arita e i ḥanafiti al māturīdita. È notevole nell'ash‛arita l'insistenza con cui si afferma la necessità di una speculazione (naẓar), sia pure rudimentalissima, per ogni fedele dotato di raziocinio; senza tale speculazione non può esistere in lui vera fede. Solo ash‛ariti isolati, come il celebre al-Ghazzālī, che del resto attenuò il suo ash‛arismo per effetto della dottrina ascetico-mistica, si oppongono a questa esagerazione.

6. Le fonti della dogmatica e del fiqh (rituale e diritto). - Le "radici" (uṣūl) o fondamenti su cui riposa la dogmatica, in altre parole le fonti dalle quali essa deriva i suoi insegnamenti, sono tre, corrispondenti alle prime tre delle quattro che dànno origine alle norme del fiqh (rituale e diritto, nel senso spiegato nel n. 3); ossia:

a) il Corano (v.), che per i musulmani è la raccolta delle rivelazioni testuali trasmesse da Dio a Maometto mediante l'angelo Gabriele; quindi esatta parola di Dio e non semplice ispirazione divina elaborata da Maometto. Si ammette che Dio, nel suo sconfinato e insindacabile arbitrio, abbia abrogato qualche versetto con altri posteriori dello stesso Corano; ma questa dottrina dell'abrogante e dell'abrogato non ha riflessi sulla costruzione dogmatica, poiché le abrogazioni riguardano solo nomine del fiqh. Secondo la dottrina ortodossa il Corano, in quanto parola di Dio e quindi suo attributo, è esistente ab aeterno e non sorto nel tempo, o, come dice la formula musulmana, non creato. Il Corano, essendo la collezione di rivelazioni saltuarie e occasionali, è enormemente lontano da offrire un sistema compiuto di dogmi e di prescrizioni; la sua lettura non basterebbe a darci un'idea di parecchi punti fondamentali delle credenze, dei riti, delle norme morali e giuridiche. Tuttavia esso contiene molti spunti dogmatici, in quantità assai maggiore, ad es.. di quelli della Bibbia; la necessità di non abbandonare questi spunti, e al tempo stesso il modo con cui storicamente si presentarono alcuni problemi di fede poco dopo la morte di Maometto, vincolò la teologia islamica e la portò a porre questioni a primo aspetto inutili o a formularle in termini che possono sembrare strani o puerili a chi ignori il loro stretto legame con vocaboli e frasi del Corano e con le prime dispute sorte nell'islamismo

b) i ḥadīth, ossia le tradizioni, per così dire canoniche, garantite per i musulmani dalla loro trasmissione in forma invariata mediante una catena ininterrotta di narratori idonei e fededegni, intorno a cose dette o fatte da Maometto, il quale si suppone agente secondo ispirazione divina e quindi infallibile nelle sue parole e nei suoi atti, salvo i casi di esplicito pentimento o mutamento. Dai ḥadīth contenuti nelle famose raccolte del sec. III (IX d. C.) il fiqh ricava la sunnah o modo consuetudinario d'agire di Maometto, che deve servir di modello al credente, fatta eccezione per ciò che fu esplicita prerogativa di Maometto; la dogmatica ritrae molti elementi, che in parte vengono a essere delucidazioni al Corano; la morale desume moltissimi ammaestramenti. Ma la critica europea è molto scettica rispetto all'autenticità d'un gran numero di ḥadīth accolti nelle grandi collezioni canoniche.

c) l'imāǵal-ummah (l'opinione concorde della comunità musulmana) o anche semplicemente al-iāmǵ. Secondo un ḥadīth, Maometto avrebbe dichiarato: "la mia comunità non si troverà mai d'accordo in un errore" da ciò e da altri elementi secondarî fu derivato il prineipio veramente fondamentale dell'infallibilità dell'opinione generale, concorde, dei musulmani in materia religiosa (dogmatica, morale, rituale, diritto canonico); principio che nell'islamismo tenne e tiene funzioni analoghe a quelle della Chiesa nel cattolicesimo e nel cristianesimo greco-ortodosso. Una definizione precisa, valida per tutti i casi, è impossibile a darsi: certe volte s'intende essenzialmente l'accordo d'opinione delle tre prime generazioni di musulmani (e appunto questa interpretazione restrittiva prevale nella scuola ḥanbalita); altre volte si intende l'accordo dei dottori di una determinata età, accordo che risulta o da loro dichiarazioni o da loro atti o dal loro silenzio (che implica mancanza di opposizione alle opinioni altrui), cosicché alla discordia di un'epoca su una data questione può succedere l'accordo unanime di una posteriore su una fra le soluzioni ch'erano state dibattute (non già su un'opinione nuova). In altri casi, non esposti dai trattatisti ma risultanti evidenti dalla storia religiosa, abbiamo un vero iāmǵ d'origine popolare che finisce con l'imporsi ai dottori e a far ammettere o almeno tollerare credenze e usi contrarî allo spirito genuino dell'islamismo, come le confraternite religiose e la fede nei miracoli di santi viventi. L'importanza capitale del principio dell'iāmǵ risulta poi anche dall'osservazione già fatta da autori musulmani che appunto l'accordo unanime della comunità è quello che fornisce ai credenti la garanzia dell'autenticità dei testi coranici e dei ḥadīth posti come base di dottrine e di norme.

A queste tre "radici comuni" il fiqh ne aggiunge una superflua per la dogmatica: il qiyāso deduzione per analogia, ossia il dedurre la soluzione di casi nuovi di rituale e di diritto da una qualche analogia con casi già noti e risolti. Sembra strano, a primo aspetto, che accanto alle tre grandi "radici", comprendenti il materiale da elaborare per costruire il sistema religioso-giuridico, si ponga come quarta quello che invece è solo un metodo deduttivo, e per giunta di importanza secondaria; ma la ragione della stranezza sta nel fatto che alla legittimità del qiyās, per lungo tempo vivacemente controversa, si volle da ultimo dare particolare risalto e celebrarne l'importanza quasi a protesta contro le opposizioni.

7. Teodicea; atomismo e negazione del principio dl causalità nella teologia speculativa. - La professione di fede musulmana, quella che, pronunziata davanti a testimoni, basta a far dichiarare convertita all'islamismo una persona senza bisogno di un periodo qualsiasi di preparazione o catecumenato, è contenuta nella famosa formula infinite volte ripetuta su monete, su stendardi, su epigrafi sepolcrali, ecc.: lā ilāha illā Allāh, Muḥammad rasūl Allāh "non v'è (altro) dio che il Dio, Maometto è l'inviato del Dio". Il contenuto della fede islamica è racchiuso nella formula seguente posta in bocca a Maometto medesimo: "La fede sta in ciò che tu creda in Dio, nei suoi angeli, nei suoi libri (rivelati), nei suoi inviati, nella vita futura e nell'esistenza del bene e del male per decreto (proveniente) da lui".

Il concetto di Dio nel Corano e nella teologia posteriore è rigidamente monoteistico nel senso giudaico; non v'ha posto per la Trinità cristiana, che il Corano stesso qualifica politeismo, tanto più che sembra averla intesa come composta di Dio, Gesù e Maria. Onnipotenza, onniscienza, illimitata libertà di volere, l'essere unico creatore dal nulla, l'agire costantemente su tutte le cose grandi e piccole dell'universo, il non esservi nulla di simile a lui, sono gli elementi fondamentali della teodicea coranica e quindi musulmana. Egli è il giudice supremo, che retribuirà gli uomini col paradiso o con l'inferno nella vita futura; i suoi rapporti con le sue creature sono quelli d'un padrone verso i suoi schiavi, anche quando si parla di clemenza e di perdono. Invisibile agli uomini in questo mondo, egli sarà visibile ai beati nel paradiso, secondo la dottrina ortodossa, che si fonda sopra un fugacissimo passo coranico e che ad ogni modo non lo sviluppa sino a farne l'elemento precipuo della beatitudine celeste e quindi un parallelo alla visio beatifica del cattolicesimo. Il Corano qualifica Dio con grandissimo numero di epiteti, detti i nomi bellissimi di Dio e poi alquanto aumentati nel ḥadīth, sì da arrivare ai 99 che corrispondono ai grani del rosario musulmano introdottosi un paio di secoli dopo Maometto; da essi la teologia ortodossa ha estratto i tredici attributi (ṣifāt) di Oio: esistenza, eternità nel passato, eternità nel futuro, dissomiglianza da tutto ciò che è sorto nel tempo, indipendenza, unicità, vita, (onni) scienza, (onni) potenza, volontà (senza limiti), udito, vista, parola: ai quali la scuola māturīdita aggiunge un quattordicesimo, il takwīn, cioè il far esistere (per creazione dal nulla o anche da materia, ecc.), che presso le altre scuole è incluso nell'onnipotenza. Questi attributi, che occupano largo posto nelle trattazioni teologiche a causa delle vivacissime controversie alle quali diedero luogo, sono eterni, non potendosi ammettere variazione nel tempo in Dio che è eterno; essi sono considerati dalla teologia speculativa ortodossa come qualcosa di distinto dall'essenza divina, ma senza che tale distinzione implichi molteplicità; il credente deve affermarne l'esistenza, ma senza annettere ad essi idee analoghe a quelle che vengono suscitate dagli stessi vocaboli riferiti agli uomini; quindi, ad es., la parola di Dio non è del genere delle lettere e dei suoni, non è soggetta a silenzio e indebolimento. E poiché, come sopra fu detto, la rivelazione fu intesa da Maometto come testuale messaggio di Dio trasmessogli dall'angelo Gabriele, la teologia musulmana afferma che il Corano è la parola di Dio, increata, e ch'essa è scritta, ma tuttavia non residente nei nostri esemplari, ritenuta a memoria dalle nostre menti, recitata dalle nostre lingue, ascoltata dalle nostre orecchie.

Imbarazzo grave nacque alle prime generazioni dalle espressioni antropomorfiche del Corano, il quale parla di viso, di mani, di occhi di Dio, afferma che egli si adagiò sul trono, ecc. La soluzione definitiva fu che si debbano accettare come vere queste espressioni ma negando risolutamente qualsiasi loro rapporto con ciò ch'esse significherebbero se si trattasse di uomini; ogni assimilazione (tashbīh) di Dio alle creature è gravissima colpa. Alcuni teologi speculativi vogliono dare a quelle espressioni o parole un senso metaforico, per cui il volto sarebbe l'essenza divina, gli occhi sarebbero la vigilanza ininterrotta sull'universo, l'adagiarsi sul trono sarebbe il prenderne possesso e il regnare, ecc.; ma la maggioranza è contraria a siffatte pretese di interpretazione e preferisce l'atteggiamento agnostico. Altro imbarazzo deriva dai passi coranici che fanno menzione del trono di Dio, preesistente alla creazione dei cieli e della terra e concepito in modo evidentemente materiale, sì che per i suoi gradini ascendono e discendono gli angeli per eseguire i comandi di Dio e che, nel giorno della fine del mondo, verrà sorretto da otto angeli. Anche in questo caso la posizione preferita è l'astenersi da ogni interpretazione.

Volontà, onniscienza ed onnipotenza eterne significano che Dio ha conosciuto e voluto sin dall'eternità tutto ciò che è accaduto e accadrà nell'universo. Questa conoscenza, oltre che eterna, è anche attuale; Dio quindi conosce "i particolari" anche come e quando sono; perciò la provvidenza divina non abbandona mai il creato. Ma parecchi testi coranici implicano non soltanto un'assistenza generica, ma anche un continuo intervento diretto nel "creare le azioni umane". Perciò la teologia ortodossa è concorde nell'affermare la creazione degli atti dell'uomo, salvo a proporre soluzioni alquanto divergenti per i problemi che ne derivano: la libertà o la predeterminazione delle azioni umane, l'esistenza o non esistenza del principio di causalità nell'universo.

La teologia positiva della scuola ḥanbalita e salafiyyah, pur affermando il perenne intervento di Dio nelle cose del mondo, non nega la causalità reciproca dei fenomeni naturali, intesa nel senso di un legame che Dio medesimo ha voluto porre tra causa ed effetto, salvo ad annullarlo quando lo ritenga opportuno, come avvenne nel caso di certi miracoli narrati nel Corano a proposito di Abramo e di Mosè; quindi cause ed effetti esistono in obbedienza alla volontà e potenza di Dio e sottoposti alla sua sapienza. Ma la teologia speculativa (kalām), preoccupata delle conseguenze eterodosse che potevano derivare alla teodicea dalla causalità aristotelica, volle eliminare quelle che la teologia cristiana chiama cause seconde, distinte dalla causa prima (Dio); affermò che il rapporto di causa ed effetto non ha nulla di necessario, poiché non è se non una sequenza di fatti la cui correlazione è voluta abitualmente da Dio, il quale potrebbe tuttavia sopprimerla in qualsiasi momento; e a meglio rappresentare la reale indipendenza reciproca di ciò che chiamiamo effetto e causa, combinò la distinzione aristotelica di sostanza e accidente con una modificazione dell'atomistica greca prearistotelica, estendendo questa anche al tempo: la sostanza è l'atomo; gli atomi, associandosi o dissociandosi secondo il volere di Dio, formano o fanno cessare i corpi, e durano quanto Dio vuole, invece gli accidenti durano soltanto un atomo di tempo, dopo il quale, per esistere, devono essere creati di nuovo da Dio. Il fuoco brucia non per una virtù sua propria, ma perché Dio abitualmente crea l'accidente della bruciatura, in ogni atomo di tempo, in corrispondenza con la sostanza atomica del fuoco. Quelle che noi diremmo leggi fisiche sono null'altro che una consuetudine di Dio, al quale soltanto spetta il nome di agente, di esercitante influenza. V. anche al n. 12.

Dalle cose dette appare il motivo per cui la teologia musulmana tratta la teodicea in modo diverso da quello della teologia cristiana. Essa la divide in tre sezioni: 1. Essenza (dhāt) di Dio (prove della sua esistenza, non esser egli corpo, né sostanza, né accidente, non avere alcuna delle sei direzioni, non avere figura né limiti, non essere composto, ecc.); 2. Attributi (ṣifāt) di Dio, intesi nel modo che fu sopra esposto, e quindi includendo in questa parte la trattazione di quasi tutte quelle operazioni che la teologia cristiana chiama ad extra; 3. Azioni od operazioni (afāl) di Dio, la quale sezione riguarda la predetta creazione degli atti umani, il problema se questi, considerati in astratto, siano classificabili in buoni o cattivi in base al nostro raziocinio (tesi mu‛tazilita eterodossa) o soltanto perché così Dio ha voluto (tesi ortodossa), e questioni accessorie.

8. Angeli, diavolo, "ginn". - Il grado più elevato delle creature è quello tenuto dagli angeli, il cui concetto e il cui nome arabo vennero a Maometto dalle credenze popolari del cristianesimo orientale e del giudaismo. Una tradizione non contenuta nel Corano li dice creati dalla luce, composti d'una sostanza sottile e quindi invisibili all'uomo (eccettuati i profeti) nella loro forma originaria; sono senza distinzione di sesso, non mangiano né bevono, occupati a inneggiare a Dio nei cieli, a obbedirlo e ad eseguirne gli ordini. Alcuni hanno nomi e uffici speciali: Gabriele, già secondo il Corano nella sua parte tarda, è quello che trasmette le rivelazioni di Dio ai profeti, e quindi viene identificato con lo Spirito santo al quale tale ufficio risulta devoluto nelle parti più antiche del Corano; invece, in base a credenze post-coraniche, ‛Azrā'īl è l'angelo della morte che afferra le anime dei morenti nell'istante supremo, Isrāfīl è quello che suonerà la tromba annunziante il momento della risurrezione e del giudizio universale; Munkar e Nakīr sono i due angeli spaventosi incaricati di interrogare il morto nel sepolcro; Riḍwān è il custode del paradiso, Mālik quello dell'inferno. Il diavolo, ossia Iblīs (v.), o ash-Shaiṭān, istigatore degli uomini al male, è rappresentato già nel Corano come un angelo decaduto per aver rifiutato d'ottemperare all'ordine dato da Dio agli angeli di prostrarsi ad Adamo allorché questi fu creato dal fango, e come il seduttore di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre.

Di natura inferiore agli angeli ma superiore agli uomini sono i ginn, creati dal fuoco (al pari del diavolo) e costituenti una categoria di esseri desunta dal paganesimo arabo. Essi hanno gran posto nel Corano e nella novellistica popolare. Invisibili all'uomo, salvo quando vogliano essi medesimi manifestarsi a lui in una delle mille forme nelle quali possono trasformarsi, si distinguono in maschi e femmine, mangiano, bevono, possono procreare; alcuni sono buoni, sono musulmani e compiono le pratiche cultuali; altri sono malvagi e satelliti del diavolo. Possono compiere azioni portentose a favore di uomini che abbiano potere di comandare a loro, come era il caso, secondo il Corano, di Salomone. Le stelle cadenti sono fiamme ardenti che gli angeli lanciano contro i ginn cattivi, i quali tentano d'accostarsi al cielo per origliare e carpire i segreti della corte celeste e valersene per i loro scopi malvagi. Ai ginn cattivi è applicata anche la denominazione di demoni (shayītān, ‛afārīt)

9. I libri rivelati, 1 Profeti, Gesù Cristo. - Il terzo punto di fede, secondo la formula stereotipa sopra riferita, è la credenza nella realtà e verità dei libri rivelati (tecnicamente "fatti scendere") da Dio ai suoi profeti, per far conoscere ai singoli popoli i suoi precetti imperativi e proibitivi e la promessa o la minaccia rispettivamente del paradiso e dell'inferno. Il Corano vagamente accenna ai "fogli d'Abramo e di Mosè", contiene una citazione testuale dei Salmi di Davide (solo testo biblico conosciuto direttamente da Maometto) e invece nelle sue parti tarde rammenta spesso la Tawrāh di Mosè (ossia il Pentateuco o forse anche, come sogliono intendere i musulmani, l'intero Vecchio Testamento) e il Vangelo (al-Ingīl) di Gesù, fatto scendere a lui quando, bambino, fu costituito profeta. Tawrāh, Vangelo e Corano non sono per Maometto se non tre aspetti diversi dell'identica parola di Dio; il divario è di forma e di lingua, non di sostanza; il Corano corrobora i due primi, salvo che in quei precetti che a Dio è piaciuto abrogare con l'ultima e definitiva sua rivelazione, la coranica. Ma, come era inevitabile per evidentissime ragioni, i musulmani, ampliando spunti polemici già contenuti nel Corano, non ammettono l'autenticità dei libri biblici posseduti dagli ebrei e cristiani del tempo in cui l'islamismo nacque; li ritengono o apocrifi addirittura o gravemente alterati e quindi privi d'ogni autorità nel campo religioso. Del Corano fu già detto nel n. 6; qui è da rilevare che rivelazione e ispirazione furono concepite da Maometto sotto forma di adattamento del concetto ebraico e cristiano a quello arabo preislamico dell'ispirazione testuale, meccanica, parola per parola, che i ginn o shaiṭān facevano a indovini e a poeti; quindi il Corano è un preciso dettato del messaggio divino affidato all'angelo Gabriele e riproducente quel prototipo che fin dagl'inizî della creazione esiste come libro scritto in cielo, presso il trono di Dio.

Il quarto punto di fede secondo la formula ufficiale è la credenza nella missione divina dei profeti (in arabo nabī, al plurale nabiyyīn o anbiyā', vocabolo preso dall'ebraico). Maometto ha alterato il concetto biblico del profeta, intendendo con questo nome i personaggi che ebbero testi sacri rivelati testualmente da Dio; essi sono anche inviati o apostoli di Dio (rasūl Allūh), quando abbiano avuto la missione di comunicare al loro popolo il libro "fatto scendere" su di loro. Secondo il Corano, in mezzo a ognuno dei popoli passati Dio suscitò qualche profeta per insegnare nella loro lingua i testi sacri e i precetti religiosi; ne suscitò anche fra stirpi arabe poi estinte. La credenza musulmana è che innumerevoli siano stati i profeti; ma il Corano ne nomina venticinque, il primo dei quali è Adamo e l'ultimo (il definitivo) Maometto. Questi profeti coranici sono in maggioranza personaggi del Vecchio Testamento (Adamo, Idrīs ossia Enoch, Noè, Abramo, Lot, Ismaele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Giobbe, Mosè, Aronne, Dhū'l-Kifl ossia forse Ezechiele Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Giona); tre appartengono al Nuovo Testamento (Zaccaria, Giovanni e Gesù Cristo); tre (Shu‛aib, Hūd e Ṣāliḥ) appartengono a cicli leggendarî arabi di origine ignota, salvo Shu‛aib, che inviato al popolo di Madyan, corrisponde sostanzialmente al biblico Ietro midianita. Alcuni musulmani aggiungono altri tre personaggi menzionati nel Corano, cioè ‛Uzair (il biblico Esdra), Dhū'l-Qarnain (Alessandro Magno, v.) e Luqmān il saggio; ma si tratta d'opinione particolare. La dottrina svoltasi nell'islamismo posteriore a Maometto considera i profeti come impeccabili e infallibili (malgrado che ciò mal s'accordi con alcuni passi coranici), pur vivendo la vita ordinaria di tutti gli altri uomini; il segno caratteristico della loro missione divina è il compimento di miracoli (mugizah), che sono prerogativa esclusiva di loro e che hanno lo scopo di provare agl'increduli la verità del loro apostolato; miracoli, dunque, che si distinguono nettamente dall'altro genere ammesso dall'islamismo posteriore nei santi, ossia le karāmāt (grazie), apportatrici di vantaggi materiali a chi ne sia oggetto. Il Corano veramente nega che Maometto compia miracoli all'infuori di quello di ricevere i messaggi celesti (il Corano è la sua mugizah); ma l'islamismo più tardi non ha esitato ad attribuirgli miracoli d'ogni sorta, dei quali i due più famosi sono il mirāǵ o ascensione al cielo in vita (combinata con il portentoso viaggio notturno dalla Mecca a Gerusalemme) e il fendimento della luna in due. Ad ogni modo i catechismi insegnano che Maometto si distingue dagli altri profeti, perché è il più insigne (afḍal) di tutti, perché è stato mandato all'umanità intera e non ad un popolo solo, e perché egli è "il sigillo dei profeti" (espressione coranica), sì che nessun altro verrà dopo di lui; la serie delle rivelazioni si è chiusa per sempre con il profeta dell'islamismo.

Notevole è il posto particolare che Gesù (‛Isà) Cristo (al-Masāḥ, il Messia) occupa nel Corano e quindi nella dottrina musulmana. Gl'informatori ai quali Maometto attinse quelle sue notizie appartennero evidentemente a sette cristiane eretiche imbevute di docetismo. Gesù è "inviato e parola di Dio"; è nato, per virtù dello Spirito Santo (che tuttavia non ha nulla a che fare con la Trinità cristiana), da Maria Vergine sorella di Aronne e figlia di ‛Imrān (confusione, quindi, fra Maria madre di Gesù e Maria sorella di Mosè); durante l'infanzia operò varî miracoli (analoghi a quelli che s'incontrano nei Vangeli apocrifi); guarì il cieco e il lebbroso si scelse apostoli, e a loro richiesta fece scendere miracolosamente dal cielo una ricca mensa imbandita (curiosa deformazione del racconto evangelico dell'ultima cena). Ma il Corano insiste nel negare ch'egli sia il figlio di Dio; assevera che non fu crocifisso, ma che fu rapito al cielo mentre i suoi persecutori crocifiggevano uno di loro stessi a cui un miracolo divino diede improvvisamente le sembianze di Gesù (dottrina docetica); infine nel Corano non v'è traccia dei dogmi cristiani fondamentali dell'incarnazione e della redenzione del genere umano dal peccato originale d'Adamo, pur essendo questo noto a Maometto, come sopra si disse. Nell'islamismo posteriore la figura di Gesù continuò ad avere risalto e anzi ricevette nuovi ampliamenti: centinaia di detti sentenziosi e pii gli vennero attribuiti, e, come si dirà al n. 11, un posto speciale gli fu dato nelle credenze riguardanti l'appressarsi della fine del mvndo.

10. Spirito e anima. - La natura dell'anima (o più precisamente dello spirito rūḥ) e la sua immortalità sono questioni lasciate fuori dai catechismi e anche dalle parti veramente teologiche dei trattati sistematici di dogmatica speculativa, pur facendosene cenno indiretto nel discorrere di ciò che avviene all'uomo fra la morte e il giorno della risurrezione finale; i trattati sistematici tutt'al più se ne occupano in quella parte introduttiva che studia le varie categorie di esseri secondo il modello aristotelico, fra cui quella delle "sostanze separate" o astratte, alle quali appartiene l'anima razionale. Alcuni libri speciali sull'argomento sono poco conclusivi; d'altra parte i libri dei mistici, pieni di accenni allo spirito, non approfondiscono le questioni dottrinali. Le ragioni di siffatto atteggiamento dei teologi sono precipuamente queste: passi coranici sembrano indicare che le investigazioni sullo spirito sono riprovevoli, poiché si tratta di conoscenze che Dio ha voluto riservare a sé stesso; le incertezze e discrepanze gravi sulla materia che nacquero tra i fedeli delle prime generazioni consigliavano di attenersi a quella che pareva la raccomandazione suddetta del Corano; il fatto che, secondo le credenze islamiche, paradiso e inferno saranno aperti agli uomini soltanto con il giudizio universale (fatta eccezione per le anime dei profeti e dei caduti combattendo contro gl'infedeli) e che allora anima e corpo saranno ricongiunti e insieme godranno materialmente delle gioie o subiranno il tormento delle pene eterne, contribuiva a togliere importanza alle questioni concernenti l'anima. Il musulmano ad ogni modo è tenuto a credere all'esistenza di questa ed alla sua riunione al corpo nel di della risurrezione; manca invece un'opinione che si possa dire decisiva circa altre questioni: quale sia la vera natura dell'anima, se essa sopravviva alla morte del corpo (opinione prevalente) oppure se muoia con esso per poi risorgere insieme, se abbia origine con la nascita dell'uomo oppure se, conformemente alle idee neoplatoniche, abbia avuto un'esistenza preterrena avanti di scendere nel corpo. Quest'ultima è una dottrina quasi generale presso i mistici.

11. Escatologia. - Il quinto punto di fede secondo la formula ufficiale è la credenza nella vita futura, a proposito della quale Maometto fu ispirato soprattutto da idee popolari cristiane a tinta molto materialista; l'islamismo posteriore ha dato ancor più ampio sviluppo a questa materia, lasciando però incerti e all'arbitrio dei singoli credenti molti punti. Al momento della morte l'angelo ‛Azrā'īl separa l'anima dal corpo, in modo gentile per i buoni, violento per i malvagi, secondo che si credette di dedurre da un passo coranico. Nella tomba (ove i musulmani seppelliscono i morti senza bara e lasciando un ampio spazio tra il fondo e il coperchio del sepolcro), il corpo ripiglierà per poco la sua anima affine di rispondere, diritto sulle reni, all'interrogatorio dei due terribili angeli Munkar e Nakīr intorno alla sua fede ed alle opere da lui compiute; tutte cose di dogma, avendo qualche lieve appiglio nel Corano. Un paio di oscuri testi coranici, combinati con credenze popolari giudaiche, portarono ben presto ad affermare che dopo quell'interrogatorio i musulmani malvagi e gl'infedeli saranno assoggettati al "tormento della tomba" dolorosissimo, il quale cesserà con la risurrezione. Nell'intervallo che separerà quest'ultima dalla morte, le anime dei profeti saranno accolte in cielo; quelle dei martiri (ossia di coloro che morirono in guerra contro gl'infedeli) dimoreranno in cielo entro i ventricoli di enormi uccelli verdi, che si nutrono dei frutti e delle acque del paradiso (ampliamento di accenni coranici); le anime dei credenti buoni non avranno in questo tempo l'accesso al cielo, ma sulla loro vita e la loro dimora si hanno opinioni divergenti.

Il giorno della risurrezione finale dei corpi, tante volte e con vivacissimi colori descritto nel Corano, verrà preceduto da una quantità di segni precursori, dei quali scarsissime tracce soltanto si hanno nel Corano; in realtà essi sono riflesso d'idee apocalittiche cristiane e giudaiche, delle aspettazioni messianiche degli ebrei, della credenza cristiana nel ritorno di Cristo sulla terra a giudicare i vivi e i morti, e infine di avvenimenti politici del primo secolo e mezzo di vita dell'islamismo. Fra essi il decader della fede e il disordine morale del mondo, ribellioni, guerre con i Turchi (allusione storica ai Turchi barbari e non islamizzati dell'Asia centrale); il sorgere del sole a ovest; l'apparire della mostruosa ed enorme "bestia della terra" (reminiscenza della bestia dell'Apocalisse); la conquista musulmana di Costantinopoli in modo miracoloso; la venuta dell'Anticristo (al-masīh ad-daggiāl) che gli ebrei crederanno il Messia; il ritorno di Gesù sulla terra, il quale scenderà su un minareto della grande moschea di Damasco, ucciderà l'Anticristo, darà pace al mondo, lo convertirà tutto all'islamismo e infine morirà; l'irruzione dei popoli Gog e Magog (Yūǵi wa Māgiūǵ) dopo abbattuta la grande muraglia costruita, secondo il Corano, da Dhūl-Qarnain (Alessandro Magno) per trattenerli; la venuta del Mahdī, cioè il ben guidato (da Dio), personaggio derivato dalle credenze messianiche e ignoto affatto al Corano, il quale conquisterà tutta la terra all'islamismo, sterminerà tutti gl'infedeli che non abbiano voluto convertirsi e riempirà il mondo di pace e giustizia, ecc. La credenza nei "segni (precorritori) dell'ora" è di dogma soltanto in linea generale; i particolari innumerevoli appartengono alla letteratura semipopolare assai copiosa sull'argomento, ma hanno importanza considerevole per i molti avvenimenti storici a cui, per es., la credenza nel Mahdīha dato luogo in epoche e luoghi diversissimi, anche a danno delle potenze europee coloniali (v. mahdī).

La fine spaventosa del mondo è posta dal Corano stesso in relazione con il giorno della risurrezione dei corpi e del giudizio universale. Mentre la Chiesa cattolica, non vincolata per questa parte da testi biblici particolareggiati, limita la materia dogmatica alla credenza nella risurrezione, nel giudizio universale, nell'esistenza dei tre regni dell'oltretomba, lasciando liberi teologi e credenti riguardo ai particolari, la teologia musulmana si è trovata di fronte a testi coranici pieni di particolari escatologici precisi e al tempo stesso di carattere cosi materiale da destare imbarazzo in ambienti colti. Al terzo suono terribile della tromba dell'angelo Isrāfīl (nome estraneo al Corano) tutti gli uomini risorgeranno dai sepolcri nella loro forma primitiva e s'aduneranno nel campo del giudizio; verrà fatto allora (eccetto che per i profeti, per i martiri caduti nella guerra contro gl'infedeli e per i santi) il computo (hisāb) delle azioni buone e delle cattive da ognuno compiute, ed esse anzi saranno computate pesandole con la bilancia (mīzān) a due piatti; coloro le cui opere buone risulteranno preponderanti sulle cattive riceveranno nella mano destra il libro in cui tutte le opere loro saranno scritte, mentre gli altri lo riceveranno nella sinistra. Subito dopo avverrà il passaggio di tutti per il ponte sottile come lama di coltello, detto aṣ-ṣirāṭ (nome desunto arbitrariamente dal Corano) e teso al di sopra dell'inferno: gl'infedeli tutti e i cattivi musulmani morti senza pentimento non riusciranno a superarlo e cadranno negli abissi infernali, mentre i credenti buoni arriveranno per esso all'enorme "bacino del Profeta", le cui acque mirabili, provenienti dal fiume al-Kawthar del paradiso, gustate una volta tolgono la sete per sempre. Indi avrà luogo l'ingresso nel paradiso. La dottrina ortodossa ammette che nel giorno del giudizio profeti, santi e martiri possano intercedere presso Dio a favore di alcuni credenti peccatori.

Paradiso e inferno sono creati da Dio e dureranno in eterno; eterne saranno anche le gioie dei beati. Le pene infernali saranno eterne soltanto per gl'infedeli; secondo la dottrina ortodossa (non condivisa per es., dagl'Ibāḍiti, che qui seguono la scuola mu‛tazilita), i peccatori musulmani, invece, avranno un giorno perdonata da Dio la loro pena e saranno ammessi al paradiso. Questo e le sue gioie sono concepiti nel Corano in modo del tutto materiale: vero giardino incantato, con acque dolcissime correnti, con alberi fronzuti, con frutta deliziose a portata di mano, con coppieri che girano mescendo il vino, con vergini bellissime, dai grandi occhi neri (quindi dette in arabo al-ḥūr, e dagli europei Huri o Uri), poste a disposizione dei beati e sempre rinnovanti la loro verginità. Nessuna traccia nel Corano della trasformazione gloriosa del corpo e della visione beatifica della teologia cristiana; nessuna di godimenti puramente spirituali. Un solo versetto coranico accenna di sfuggita alla visione di Dio in cielo; visione affermata dagli ortodossi con insistenza contro la negazione degli eterodossi, ma senza annetterle alcun valore dal punto di vista delle gioie del paradiso. Il carattere eccessivamente materiale di queste ha portato alcuni a ritenerle immagini allegoriche usate per attirare il volgo; ma questa opinione è risolutamente scartata come eretica in sommo grado dagli ortodossi, i quali dichiarano doversi credere tutte queste cose perché menzionate nel libro di Dio, ma senza presumere di conoscere il come; parecchi ortodossi ad ogni modo intendono che non debbano mancare i godimenti spirituali accanto ai materiali. La forma del paradiso non è materia di dogma; lo si immagina spesso come un cono o una piramide ad otto gironi, corrispondenti ad otto gradi diversi di gloria e dedotti dalle otto diverse denominazioni ricorrenti nel Corano per il paradiso, delle quali una è al-firdaws, risalente per trafila aramaica al greco παράδεισς, ed un'altra giannat adn ossia il giardino di ‛adn, il biblico Eden.

Le pene infernali sono pure di carattere completamente materiale: fuoco ardente, ghiaccia estrema, cibi nauseanti, pece bollente e puzzolente, orribile albero zaqqūm, flagellazione con catene, ecc. Custode dell'inferno, come già si disse, è l'angelo Mālik, menzionaio incidentalmente nel Corano. Questo attribuisce all'inferno sette porte; da ciò e dalle sette denominazioni coraniche (una delle quali giahannam, ossia geenna) viene desunta la ripartizione dell'inferno in sette sezioni, immaginate anzi da taluno come i sette gironi d'un enorme imbuto. È da rilevare infine che un passo curioso del Corano accenna a un luogo chiamato al-arāf, inteso dai più come una specie di limbo, destinato ad accogliere, per un ignoto periodo di tempo, coloro le cui opere buone furono esattamente equivalenti alle cattive; ma la credenza nell'al-arāf non è dogma.

12. - Predestinazione, predeterminismo, occasionalismo. - Il sesto punto fondamentale della fede viene espresso con la seguente formula invariabile: la credenza in ciò, che il decreto e la decisione (al-qadā'wa al-qadar), in quello che hanno di bene e di male, provengono da Dio. Formula che usa due sinonimi all'unico scopo di contenere entrambi i vocaboli usati nel Corano (gli autori sono imbarazzati e si contraddicono quando tentano di stabilire qualche sfumatura tra i due) e che significa: Tutto quello che avviene nell'universo, compreso l'istante della morte e le azioni volontarie o involontarie, buone e cattive, degli uomini, accade per volere, determinazione sin dall'eternità e prescienza di Dio. È la dottrina della predeterminazione assoluta, della quale è immediata conseguenza la predestinazione nel senso teologico (ossia all'inferno o al paradiso). La dottrina fu molto dibattuta già nel primo secolo dopo la morte di Maometto, poiché il Corano, che non si occupa mai di questioni teologico-filosofiche astratte, forniva passi favorevoli all'idea della predeterminazione più ferrea ed altri presupponenti il libero arbitrio dell'uomo. Ad accogliere il predeterminismo l'ortodossia fu portata principalmente dalla sua cura costante di accentuare la sconfinata libertà di volere e di potere in Dio, padrone assoluto delle sue creature e non soggetto ad alcun obbligo verso di esse; ammettere azioni da lui indipendenti, da lui non volute, veniva considerato un'offesa alla sua onnipotenza e quindi una contraddizione al principio menzionato nel n. 7, che Dio crea le azioni tutte. Inoltre l'allusione coranica alla "tavola custodita" (dagli angeli in cielo) o al libro celeste ove, sin dall'inizio della creazione, sono scritti tutti gli avvenimenti che accadranno nel mondo, favoriva la concezione predeterministica. Fu così che la dottrina del libero arbitrio, propugnata da alcune scuole, venne dichiarata eretica; come d'altro canto venne riprovato quel predeterminismo così rigido, che faceva dell'uomo un essere coatto (maūbǵr) in ogni sua azione, pura macchina mossa dal volere di Dio. La teologia ortodossa ammette il concorso della volontà umana, ma quale concorso non efficiente; inoltre ha cura d'insistere sul fatto che la credenza nel predeterminismo non dispensa dall'operare con fermezza e coscienza, che il pretesto del qadar non può essere invocato, come spesso fa il volgo, per giustificare negligenze e colpe, e infine che l'uomo deve dichiararsi soddisfatto del decreto (divino), ma non di tutto ciò che ne è la conseguenza, sì da gioire, per es., di cose cattive che tornino a suo vantaggio. Così la predestinazione (del resto ignota ai singoli) non esime dall'obbligo di operare come se le azioni fossero la causa dell'ottenimento del paradiso o della dannazione all'inferno. Dottrine che dànno grande forza morale ai musulmani nelle avversità e nei pericoli; ma pericolose quando, come spesso accade in oriente, conducono praticamente all'inerzia e all'indifferenza con la scusa che quello era "scritto".

La preoccupazione che il predeterminismo faccia apparire Dio ingiusto e operante a danno delle sue creature non ha peso nella teologia ortodossa, la quale spinge all'estremo il suo concetto fondamentale dell'assoluta dissomiglianza di Dio dagli esseri creati. I suoi voleri sono imperscrutabili; giudicare della giustizia divina in base al concetto che gli uomini hanno di giustizia è un assurdo, supporre limiti morali all'azione di Dio, per es., l'obbligo di provvedere a ciò che è più vantaggioso alle sue creature nel senso che queste intendono, è contraddire alla sua sconfinata libertà di volere; ciò che noi chiamiamo bene o male morale è tale, non per qualche qualità intrinseca accessibile al nostro intelletto, ma perché così ha determinato Dio stesso, il quale avrebbe anche potuto dichiarare meritorio quello che invece, nelle sue rivelazioni ai profeti, ha definito riprovevole. La teologia positiva della scuola ḥanbalita e salafiyyah dichiara che tutte le nostre azioni sono create da Dio e accadono con il suo volere, ma senza costrizione dell'uomo; in noi è stata creata una potenza che ha efficacia sul produrre gli atti nostri, ma tale efficacia ha luogo soltanto in virtù del permesso e dell'aiuto di Dio. La teologia speculativa ha tentato una spiegazione del fatto di coscienza che attesta una certa libertà di volere nell'uomo ed è arrivata a due soluzioni, le quali vorrebbero conciliare la dottrina della creazione delle azioni con il senso intimo della liberta di scelta. La scuola māturūdita parte dall'esistenza d' una liberta parziale di scelta creata in noi da Dio: l'uomo può volgerla al bene o al male; ma questo fatto non decide dell'esistenza o non esistenza degli atti voluti, perché questi sono creati direttamente da Dio in corrispondenza (non necessaria, poiché la volontà divina non ha limiti) con la decisione. Quest'ultima soltanto è l'azione dell'uomo. Dottrina, dunque, di occasionalismo, il quale appare ancor più reciso nella soluzione che il problema ricevette da al-Ash‛arī e dalla sua scuola e che è famosa con il nome di kasb o iktisāb, erroneamente tradotto da tutti gli Europei con il suo significato ordinario di acquisizione, guadagno (ciò che ha portato a fraintendere la dottrina ash‛arita), non essendosi riconosciuta l'origine peculiarmente coranica del senso tecnico di questa parola. Si tratta d'una soluzione più verbale che sostanziale, basata sul fatto (già messo in rilievo prima di al-Ash‛arī) che nel Corano il verbo kásaba o iktasába (a differenza di altri verbi designanti l'azione divina) serve ad esprimere esclusivamente l'operare dell'uomo, non mai quello di Dio. Perciò la scuola ash‛arita afferma che Dio crea o fa, l'uomo agisce; questo agire (kasb, iktisāb) è definito "la connessione della potenza con la cosa potuta nel luogo di essa (potenza) e senza efficacia". Ossia non esiste causalità, ma solo concomitanza di causa ed effetto; Dio crea di volta in volta nell'uomo la potenza e la scelta e, per sua consuetudine volontaria, crea in conseguenza l'atto che ad esse corrisponde, ma che non è effetto di esse; perciò si dice che le azioni umane sono create da Dio, eseguite dall'uomo. Siamo in pieno occasionalismo, divulgato in questa forma in Europa dalle traduzioni medievali d'Averroè, il quale lo confuta.

13. - Teologia morale e ascetico-mistica, confraternite. - A differenza della dogmatica, la teologia morale ha avuto assai scarso sviluppo e non si è formata in disciplina autonoma. Distinzione non approfondita tra peccati gravi e peccati piccoli e alcuni aforismi generali (fra cui il principio di "comandare il bene e impedire il male", che ebbe grande importanza anche in avvenimenti politici dell'islamismo e diede luogo a speciali istituzioni di polizia) sembrano esaurire la materia nei trattati teologici. Egli è che il carattere prevalentemente formalista dell'islamismo primitivo e l'abisso da esso scavato fra Dio e l'uomo portavano a ritenere esaurita quasi del tutto la materia morale dai precetti positivi o negativi della Legge (pratiche minuziose del culto e norme del diritto). L'elemento etico nella religione fu introdotto su larga scala solo più tardi, per opera del ṣūfismo (v.) o ascetico-mistica, estraneo all'islamismo antico e allo spirito genuino del Corano. Di esso faremo ora parola.

La completa mescolanza del sacro e del profano, della vita religiosa e degl'interessi e passioni mondani in un unico sistema abbracciante tutti i lati della vita, quale si formò nell'ultima fase della vita di Maometto, tutt'altro che di rinunzia ai godimenti del mondo, non era fatta per dare origine e sviluppo a tendenze ascetiche; a queste anzi fu senza dubbio nettamente ostile la maggioranza musulmana nei primi due o tre secoli. Pur tuttavia, presso alcune persone pie e disgustate del lusso e della vita gaudente di molti, sorse il bisogno sentimentale d'una rinunzia a molti dei beni mondani; bisogno in parecchi congiunto con uno slancio d'amore verso la divinità, ben diverso dal formalismo del rituale e dall'intellettualismo della dogmatica ragionata. Così, per impulsi spontanei e sviluppi interni e poi anche per influssi esterni (soprattutto cristiani), sorse quello che si chiama taṣawwuf (ṣūfismo) o via ascetico-mistica, ove il lungo e difficile cammino di purgazione dell'anima dalle passioni e di perfezionamento morale rappresenta lo stadio preparatorio a ricevere da Dio gli stati mistici, concepiti quali grazie che Dio accorda a chi vuole per suo spontaneo favore. Il sommo di tali stati è l'unione mistica dell'anima con Dio in questa stessa vita; unione suprema che si può avere sotto forma di estasi momentanea o anche di unione permanente con la divinità. Queste novità di pratica e di dottrina non mancarono di destare scandalo presso la maggioranza dei teologi e dei faqīh al principio del sec. III èg. (IX d. C.), tanto più che talvolta i mistici, nella loro ebbrezza d'amore verso la divinità, si lasciavano andare a espressioni che apparivano empie. La mancanza di una chiesa gerarchica nell'islamismo rendeva gravissimo il dissenso e non forniva mezzi per comporlo in modo rapido e sicuro. Tuttavia si andarono facendo accomodamenti da entrambe le parti; talché sul finire del secolo VI èg. (XII d. C.) la forma moderata del ṣūfismo - quella che ammetteva come eccezionale e non appetibile dalla comune dei fedeli l'estasi mistica, e che a proposito di questa non si lasciava andare a dottrine di sapore panteistico - finì per essere ritenuta compatibile con l'ortodossia e atta ad infondere un sentimento vivificatore nelle pratiche aride del culto e a promuovere l'elevatezza morale. Soprattutto il famoso al-Ghazzālī (v.), morto nel 505 èg., 1111 d. C., contribuì a far accettare dalla maggioranza ortodossa il ṣūfismo pratico, lontano da eccessi dottrinali ed ascetici e di carattere precipuamente morale, come parte del complesso delle scienze e delle pratiche religiose; cosicché, a partire dal sec. X èg. (XVI d. C.), nella stessa Africa settentrionale (il Maghrib), fino allora imbevuta del più rigido e gretto formalismo, il ṣūfismo non solo fu accolto, ma anche esposto normalmente (cosa che non si fa altrove) in appendice ai manuali concernenti le credenze musulmane, quale supplemento all'assenza d'una vera teologia morale nell'islamismo. Ai nostri giorni l'ostilità al ṣūfismo nel campo degli ortodossi (sunniti) si mantiene ancora presso la maggioranza dei ḥanbaliti (v.), i quali rifiutano idee e pratiche non aventi un addentellato nel Corano, nella sunnah o consuetudine di Maometto e nella vita delle tre prime generazioni musulmane.

L'importanza del ṣūfismo si manifesta in altri campi oltre a quelli sin qui accennati. Anzitutto in esso, fra coloro che con saldo proposito vogliono dedicarsi al perfezionamento dell'anima, troviamo la figura del direttore di coscienze, al quale il camminante per la via ascetico-mistica tutto si affida, nulla celando anche dei suoi pensieri occulti; figura altrimenti ignota del tutto all'islamismo e invece analoga a quella del direttore di coscienze o spirituale cattolico. In secondo luogo la necessità di un lungo noviziato, sulla base dell'obbedienza assoluta, presso quel direttore o maestro (shaikh, murshid) portò anche all'esistenza di specie di conventi con celle per il ritiro spirituale degli aspiranti (murīd), i quali, del resto, non hanno vincoli di celibato, ripugnante all'islamismo come contrario al modello di vita fornito dall'esempio di Maometto. In terzo luogo il ṣūfismo, a partire dal sec. VI èg. (XII d. C.), diede origine a numerosissime confraternite religiose, sul cui ordinamento e sulla cui importanza passata e attuale v. XI, pp. 126-27.

14. Santi e sceriffi. - Da ultimo dobbiamo ricordare, quale effetto dell'ascetico-mistica, l'introduzione del culto dei santi. Che fin dai primi tempi dopo la morte di Maometto fossero venerate persone di pietà religiosa eccezionale, vive o defunte, è cosa naturale; ma si trattava d'un senso d'ammirazione pura e semplice. Il ṣūfismo andò assai più oltre, a causa del suo concetto dell'unione mistica concessa in questa vita ai ṣūfīsommi; unione apportatrice di cognizioni superiori a quelle che si possono raggiungere per via intellettuale; onde, fra l'altro, la possibilità di prevedere eventi futuri. Le dottrine del neoplatonismo greco, infiltratesi col sec. III ègira, IX d. C., nell'islamismo e accolte nella dottrina asceticomistica, aggiunsero a questa la credenza che l'anima, liberandosi mediante le pratiche di purificazione ascetica da molti dei legami che la inceppano a causa del corpo in cui vive, ricevesse (o, meglio, ritrovasse) facoltà e poteri spirituali d'eccezione, fra cui quello del taṣarruf ossia della capacità di agire sulle cose o su altri esseri mediante la concentrazione del pensiero e della volontà. Onde la possibilità delle karāmāt (grazie), cioè di atti miracolosi, concepiti come favori d'indole materiale, come vantaggi temporali apportati dal santo vivente ai suoi ammiratori, e quindi diversi da quei miracoli mugizah che fu detto sopra essere prerogativa dei profeti (n. 9). Malgrado le forti opposizioni teologiche, ancor oggi vivissime presso molti ḥanbaliti, il culto dei santi (walī, ecc., nella Africa settentrionale anche murābiṭ, onde il nostro marabutto) prese un enorrme sviluppo; cosicché nelle parti meno evolute del mondo musulmano i santi viventi esercitano ancor oggi funzioni religiose, politiche e sociali analoghe a quelle delle confraternite. Naturalmente, data l'assenza d'una chiesa che possa canonizzare, la questione della santità d'una persona è risolta dalla pubblica fama, spesso d'origine popolare con valore solo locale; rarissimi sono i santi venerati e noti in tutti i paesi musulmani, come ‛Abd al-Qādir al-Gīlānī (v.), morto a Baghdād nel 561 èg., 1166 d. C. Questa antropolatria popolare dà facilmente luogo ad abusi che i teologi riprovano. Nella dottrina del ṣūfismo si è formata inoltre la credenza in una gerarchia di santi mistici invisibili agli uomini e partecipanti alla conservazione dell'universo per incarico di Dio.

Merita anche ricordo la particolare considerazione in cui son tenuti gli sceriffi (v.) o discendenti di Maometto attraverso sua figlia Fāṭimah e il marito di questa ‛Alī (il quarto califfo); essi rappresentano l'unica aristocrazia ammessa dall'islamismo, ed appunto all'aureola che li circonda si deve il fatto della loro influenza politica in alcuni paesi (per es., nel Ḥaḍramawt) e del sorgere di parecchie dinastie sceriffiane in epoche e regioni diversissime. Non mancano tribù arabe, anche nella Tripolitania, che si ritengono sceriffe e che sdegnano di dare le loro ragazze in moglie a non sceriffi.

15. Le sette. - Una tradizione molto diffusa, per quanto apocrifa, pone in bocca a Maometto il detto: "La mia comunità si dividerà in 73 divisioni (firaq), di cui una sola sarà salva (cioè la ortodossa)". Il detto vorrebbe essere la profezia delle molte divisioni teologiche del sec. III èg. (IX d. C.) e delle vere sette, le quali tuttavia, in non pochi casi, furono in origine opinioni perfettamente legittime come le opposte, poiché anteriori alla formazione a loro riguardo, di quell'i sopra accennato (n. 6), dal quale doveva risultare l'ortodossia o l'eterodossia delle dottrine in contrasto. Inoltre le prime divisioni, quelle formatesi già nel primo secolo dopo Maometto e che sono rimaste fondamentali, ebbero la loro radice in considerazioni e fatti che dal punto di vista europeo sarebbero di ordine politico, riguardando il problema del modo di provvedere al califfato e d'intenderlo; solo più tardi al dissenso in questa materia si aggiunsero divergenze nel campo dogmatico, trasformando gli antichi partiti in sette religiose.

Le tre grandi divisioni moderne dell'islamismo, derivate dalle discordie politiche e guerre civili scoppiate sul finire del regno del terzo califfo ‛Othmān (morto nel 35 èg., 656 d. C.) sono quelle dei Sunniti (circa 221 milioni, ossia il 91 per cento), degli Sciiti (circa 21 milioni, quindi poco meno del 9%) e degli Ibāḍiti (poco più di mezzo milione) che sono la continuazione degli antichi Khārigiti. La loro caratteristica è di non essere semplicemente divisioni in materia teologica, ma di avere un contenuto politico fondamentale e proprî sistemi di fiqh, cioè di riti e di diritto canonico. I Sunniti, per la loro grandissima maggioranza rispetto agli altri, rappresentano l'ortodossia, prendono il loro nome (ahl as-sunnah, sunniyyun) dal fatto che si ritengono i veri seguaci della sunnah, ossia consuetudine di Maometto e della generazione dei suoi compagni. Dal punto di vista del fiqh i Sunniti si distinguono in Ḥanafiti, Ḥanbaliti, Mālikiti e Shāfi‛iti, per i quali si vedano le rispettive voci; si tratta di differenze di scuole o riti (madhhab, al plur. madhāhib) egualmente legittimi. Nel campo teologico ammettono come egualmente ortodosse le tre scuole (positiva ḥanbalita, speculativa ash‛arita e speculativa māturīdita), di cui sopra furono riassunte le dottrine. Il loro sistema politico sarà precisato più avanti, n. 18.

Gli Sciiti (ahl ash-shīah, ash-shīah) sono i seguaci del partito (shīah) di ‛Alī (il quarto califfo, morto nel 40 èg., 661 d. C.) e dei suoi discendenti diretti (ahl al-bait); essi ritengono che il vero successore di Maometto nel reggimento dello stato musulmano avrebbe dovuto essere ‛Alī (v.), e che quindi i primi tre califfi (Abū Bakr, ‛Omar e ‛Othmān) siano stati sovrani illegittimi; altrettanto, anzi ancor più illegittimi, considerano i califfi omayyadi e ‛abbāsidi, giacché ritengono che l'imāmato, ossia la qualità di sommo monarca dello stato islamico, spetti soltanto, per divino volere, ai discendenti di ‛Alī. La discrepanza intorno al numero e, a un certo punto, anche alla linea di questi discendenti portò già nella seconda metà del sec. II èg. (VIII d. C.), alla definitiva divisione degli Sciiti in tre sezioni tuttora esistenti:1. Sciiti moderati o Imāmiti (v.) duodecimani, che costituiscono la quasi totalità dei musulmani della Persia e un po' più della metà di quelli della Mesopotamia (al-‛Irāq), oltre che minoranze nell'India Britannica, nell'Afghānistān occidentale, nel Caucaso, nel Libano e nella Palestina settentrionale. 2. Sciiti estremi, che comprendono varie sette aventi come caratteristica una vera divinizzazione di ‛Alī e che talora è dubbio se si possano ancora considerare come musulmane; per esse v. ahl-i haqq; drusi; ismāīliti; nuṣairi. 3. Zaiditi, in numero di circa un milione, nel Yemen, di cui anno il dominio politico. Per gli Zaiditi, che sono la frazione sciita più vicina ai Sunniti, il capo legittimo dello stato deve essere scelto fra i discendenti in linea maschile da Zaid ibn ‛Alī (morto nel 122 èg., 740 d. C.), figlio di quel ‛Alī Zain al-‛Abidīn che per tutti gli Sciiti conta come quarto imām, essendo figlio del secondogenito (al-Ḥusain) di ‛Alī. In teologia gli Zaiditi hanno accolto quasi tutte le dottrine mutazilite, eretiche per i sunniti; in fiqh, ossia pratiche del culto e diritto canonico, si attengono al sistema (o scuola o rito) che si fa risalire a Zaid ibn ‛Alīpredetto. Gli Sciiti moderati o Imāmiti e anche gl'Ismā‛īliti ritengono che l'imām o capo dello stato sia tale per diritto divino, sia un discendente in linea retta da ‛Alī, abbia cognizioni di gran lunga superiori a quelle degli altri uomini, sia impeccabile, infallibile e solo interprete autorizzato della Legge o sharīah (v. n. 3); ma divergono fra loro nel considerare la serie degl'imām, poiché gl'Imāmiti ne contano dodici cominciando con ‛Alī, laddove gli Ismā‛īliti ne ammettono solo sette, l'ultimo dei quali, non riconosciuto dagl'Imamiti, è Ismā‛īl, figlio del sesto imām comune alle due sette, cioè del famoso Giaṣfar aṣ-Ṣādiq, morto nel 148 èg., 765 d. C. Imāmiti ed Ismā‛īliti sono d'accordo nel ritenere che il loro ultimo imām, rispettivamente il dodicesimo e il settimo, sia misteriosamente scomparso, continui ad esistere in cielo e debba ritornar sulla terra, in un avvenire lontano, in qualità di Mahdī, per togliere il mondo dal suo attuale stato anormale e riempirlo di giustizia e prosperità: miscela d'idee messianiche giudaiche, di concetti cristiani e di dottrine zoroastriane. In teologia gl'Imāmiti si attengono a quasi tutte le opinioni eretiche mu‛tazilite (Dio avente il suo potere e la sua volontà limitati dal dovere di giustizia e di fare il meglio per le sue creature, gli atti buoni riconoscibili dai cattivi per forza del raziocinio indipendentemente da rivelazione divina, negazione che gli attributi di Dio siano distinti dalla sua essenza, il Corano creato, invisibilità di Dio nella vita futura, completo libero arbitrio dell'uomo), solo respingendo quella che fa eterne le pene infernali per il peccatore musulmano che muoia senza essersi pentito; ritengono che Dio possa mutare le sue decisioni eterne o sospenderle, e ammettono su larga scala la taqiyyah o katmān, ossia la legittimità di occultare la propria fede per evitare pericoli o gravi danni. Invece la teologia. ismā‛īlita si è tutta impregnata delle idee dei Bāṭiniti (v.). Nel campo del fiqh sia gl'Imāmiti sia gli Ismā‛īliti e i Nusairi (almeno ai nostri giorni) seguono la scuola gia‛farī, ossia quella che si fa risalire al predetto Gia‛far aṣ-Ṣādiq; il punto più rilevante di dissenso dalle scuole sunnite è l'ammissione della mutah o matrimonio temporaneo, che si scioglie automaticamente allo scadere del tempo fissato dal contratto. Altra caratteristica degli Sciiti tutti è di respingere i ḥadīth narrati da persone che non appartengano alla famiglia e discendenza di ‛Alī; analogamente non riconoscono valore all'iǵmā‛ dei compagni di Maometto, come quelli che peccarono mortalmente nel disconoscere i diritti di ‛Alī all'imāmato o califfato. È da notare che gli Zaiditi e gl'Ismā‛īliti riuscirono a fondare veri e grandi stati, come quello del Yemen.

I Khārigiti, dai quali provengono gli Ibāḍiti, sono coloro che si staccarono dal califfo ‛Alī e lo dichiararono gravemente peccatore e da combattersi con le armi, allorché egli accettò di sottoporre a un arbitrato la legittimità della sua nomina a califfo. Per i particolari su loro e le loro dottrine v. ibāḍiti e khārigiti.

Delle sette puramente religiose, la più notevole per la storia del pensiero musulmano e per i materiali forniti a Sciiti e Ibāḍiti è quella dei Mu‛taziliti, la quale rampollò da questioni teoriche sorte nella seconda metà del primo secolo dell'ègira dai dissidî politici violenti, ma presto si mutò in scuola teologica che si può chiamare razionalista, qualora a questo vocabolo si dia il senso tradizionale di scuola che applica il ragionamento a costruire in sistema i dati dogmatici positivi, non già il senso di antidogmatismo e di opposizione ai testi rivelati. Appunto il metodo razionalista mu‛tazilita fu accolto da al-Ash‛arī per applicarlo, come fu detto, al catechismo di Aḥmad ibn Ḥanbal e iniziare la teologia dogmatica speculativa sunnita od ortodossa; e dal sistema mui‛tazilita al-Ash‛arī trasse anche la dottrina atomistica della sostanza e del tempo e la distinzione aristotelica fra sostanza e accidente. Il muitazilismo, dopo aver lasciato gran parte delle sue dottrine teologiche agli Sciiti iṃāmiti e zaiditi ed agl'Ibāḍiti, scomparve definitivamente, come scuola o setta a sé stante, nel sec. VII èg. (XIII d. C.).

Per altre sette religiose v. aḥmadiyyah, 3; bābī; bahā'ī; yazīdi; le ultime tre sono da considerare come ormai fuori dell'islamismo.

Esistono oggi anche gradazioni differenti di modernismo musulmano, che in India ha la sua forma più radicale e più antica, poiché risale a circa il 1860; v. aḥmad khān. Assai più temperato e meno fantastico nell'interpretare la storia e i testi è quello che si nota in Siria e in Egitto, come effetto degl'insegnamenti di Giamāl ad-Dīn al-Afghānī (v.), morto nel 1897, e del suo discepolo egiziano Muḥammad ‛Abduh, morto nel 1905. In questo secondo tipo di modernismo esistono molti punti di contatto con la scuola ḥanbalita, per es. nell'avversare la teologia dogmatica speculativa, nel restringere di molto il contenuto del ṣūfismo, nella riprovazione di molti abusi popolari, nel concetto dell'iǵtihād.

16. Pratiche del culto. - Poiché esse sono dominio del fiqh (n. 3), inscindibili dunque da ciò che noi chiamiamo diritto, e poiché esse comprendono anche norme che dal punto di vista europeo parrebbero piuttosto di diritto pubblico finanziario, sarebbe opportuno inserire qui notizie dei quattro madhhab (scuole o riti o sistemi) hanafita, hanbalita, mālikita e shāf‛ita di fiqh, che i Sunniti considerano perfettamente ortodossi malgrado le divergenze su punti speciali, come sopra fu detto. Ma per non interrompere l'esposizione delle no me del sistema religioso, ne rinviamo le notizie all'inizio del sommario del diritto, n. 19. Qui basti premettere la classificazione delle azioni umane, dal punto di vista della sharīah, in cinque categorie; classificazione fondamentale per tutti i rami del fiqh e soprittutto per le pratiche del culto: 1. d'obbligo (farḍ) o doveroso (wāgib), ossia ciò la cui omissione costituisce colpa e peccato punibile anche nella vita futura; 2. raccomandato (mandāb) o desiderabile o di sunnah, ossia ciò che è meritorio, che frutterà premio nella vita futura, senza che la sua omissione implichi colpa o demerito; 3. indifferente (mubūh) o lecito (giā'iz); 4. sconsigliabile o disapprovabile (makrūh), nel senso che sia bene astenersene, ma che il commetterlo non implichi punizione in questa o nell'altra vita; 5. vietato categoricamente o illecito (harām). Alcuni madhhab distinguono varie sfumature entro queste cinque categorie; ma esse non hanno importanza fuori di alcune delle pratiche del culto. Altra distinzione importantissima, invece, è tra il farḍalà al-‛ain, ossia doveroso individualmente, farḍalà al-kifāyan ossia doveroso in solido, per cui, quando venga compiuto in modo sl'fficiente da qualcuno (p. es. la guerra contro gl'infedeli), gli altri ne rimangono esonerati.

Dal punto di vista del rito, ossia delle pratiche che costituiscono un obbligo verso Dio, non verso gli altri uomini, i fondamenti (arkmn) dell'islamismo sono cinque: 1. la shahādah o formulazione aperta della professione di fede musulmana (non v'è altro dio che il Dio e Maometto è l'inviato del Dio); 2. la salāh o preghiera canonica o rituale; 3. il sawm o ṣiyām, ossia digiuno del mese di ramadān; 4. la zakāh o imposta (decima) canonica; 5. il ḥaǵǵ o pellegrinaggio alla Mecca. A tutti questi obblighi il musulmano adempie direttamente, poiché l'islamismo non conosce sacramenti né sacerdozio (v. n. 4). Tutte queste pratiche del culto sono formalistiche al massimo grado, talché lo spirito loro ben si può paragonare allo spirito talmudico, esse dànno luogo a una minuziosissima e stucchevole casistica nei trattati. D'altro canto l'inosservanza delle singole norme porta seco la nullità dell'atto intero e quindi, secondo i casi, ripetizione di questo oppure espiazione materiale consistente in elemosine o in sgozzamento d'animali, ecc.

La preghiera canonica o rituale è un puro atto d'obbedienza ai precetti che Dio ha impartito in questa materia; essa si compie con parole e movenze determinate nel modo più meticoloso, sotto pena di nullità, ed è valida soltanto in determinati periodi della giornata; essa presuppone che il credente, quando si accinge a compierla, abbia formulato dentro di sé l'intenzione di farla, ma non implica alcun particolare senso di devozione che sgorghi dal cuore. La preghiera libera, quella che scaturisce spontanea da un animo intimamente religioso, o che si rivolge a Dio per supplicarlo o chiedergli perdono, è cosa completamente diversa dalla preghiera rituale e quindi non le si applica il nome di ṣalāh; è un di più, che non sarebbe nemmeno lecito inframmezzare alla preghiera canonica. Prima condizione fondamentale per questa è di trovarsi in stato di purità legale, ossia fisica, ottenuta mediante abluzioni (mani, viso, avambraccia, piedi) o lavanda completa del corpo, secondo il grado d'impurità in cui il fedele si trova; altrettanto indispensabile è la purità del luogo su cui egli si colloca per pregare (quindi l'uso di stuoie e tappeti mai calpestati da suole sporche, ecc.). Altra condizione preliminare di validità è che l'orante abbia il viso rivolto alla qiblah, ossia in direzione del santuario della Ka‛bah che trovasi alla Mecca; è necessario inoltre che non siano anticipati né sorpassati i limiti di tempo entro i quali, nei diversi periodi della giornata, la preghiera canonica ha valore. La prima posizione dell'orante è l'eretta; seguono, accompagnati di volta in volta da formule e recitazioni di testi prescritte esattamente, inchini di mezzo il corpo, prosternazioni sino a toccar la terra con la fronte, sessione sulle gambe inginocchiate; questo insieme di atti si chiama rakah, e un numero minimo di rak‛ah, variabile secondo il momento della giornata, costituisce la ṣalāh. Questa preghiera canonica si dovrebbe fare cinque volte al giorno: subito dopo il mezzogiorno vero locale, a circa mezzo pomeriggio, al tramonto del sole, alla sera e al primo mattino; per ognuna di queste epoche sono lasciati ampî limiti di validità.

Particolarmente importante nella vita musulmana, e in certi momenti anche nella storia politica dell'islamismo, è la ṣalāh in comune del venerdì, nelle moschee a ciò autorizzate, poco dopo il mezzogiorno vero locale. Essa è preceduta dalla khuṭbah ossia predica rituale (da non confondersi con prediche a scopo educativo o istruttivo), alla cui fine è invalsa da molti secoli in molti paesi la consuetudine, biasimata come innovazione non bella dai teologi-giuristi (faqīh), di invocare il favore di Dio sul sovrano musulmano regnante, cosicché la menzione del nome nella khulbah del venerdì è divenuta colà uno dei simboli esteriori della sovranità. Alla preghiera canonica in comune del venerdì o d'altri giorni, e sia che si tenga in moschee o in abitazioni private o all'aperto, presiede necessariamente, per assicurare l'uniformità, un imām (v.) ossia un musulmano esperto del rito, che può anche esser scelto sul momento.

Il digiuno del mese di ramaḍān (il nono dell'anno musulmano, che è lunare) consiste nell'assoluta astensione da cibi, bevande, rapporti sessuali, e dal fumare, dall'alba al tramonto del sole. Questo digiuno si chiude alla fine del ramadān con feste ufficiali e popolari (v. bairām).

La zakāh (vocabolo che Maometto desunse dall'aramaico), che si può tradurre con elemosina legale o rituale oppure anche con decima religiosa (benché ciò implichi qualche inesattezza), è un'imposta speciale dei musulmani (non prelevabile da seguaci d'altre religioni), la quale è considerata come un dovere verso Dio e quindi posta fra le pratiche del culto, benché chi la riscuote sia la cassa dello stato. La zakāh e dovuta su alcuni elementi del patrimonio posseduto da un anno intero, e inoltre su alcuni redditi annui, minutamente specificati. Si paga annualmente, e lo stato non può erogarla se non a fini ben definiti dai faqīh e riguardanti particolari oggetti di beneficenza (a esclusivo vantaggio dei musulmani), gli esattori dell'imposta stessa e anche scopi di propaganda religiosa. I particolari di questa imposta, che in molti casi rappresenta il 10% dell'imponibile, mostrano un rudimentale carattere progressivo. La riscossione della zakāh è trascurata da molti govemi musulmani moderni, poiché incompatibile col principio, imposto dall'Europa, dell'eguaglianza di tutti i sudditi qualunque sia la loro confessione religiosa, e poiché il sistema classico delle finanze islamiche, imponente per determinati cespiti di entrate determinati oggetti di erogazione, è fonte di troppo gravi imbarazzi per un sistema tributario e finanziario moderno. Ma in questo caso i musulmani osservanti ritengono loro debito di coscienza pagare la zakāh ogni anno a scopi di beneficenza preveduti per essa dalla Legge religiosa, erogandola o direttamente o attraverso altre persone.

Il pellegrinaggio alla Mecca (v.), residuo del paganesimo arabo, è legato all'ultimo mese dell'anno musulmano (lunare) e comporta moltissime formalità. Esso è di grandissima importanza economica e politica, per cui tutte le potenze che hanno sudditi musulmani non mancano di vigilarlo e regolarlo. Esso è obbligatorio, teoricamente, almeno una volta nella vita del credente che abbia i mezzi e la libertà di farlo.

Gli obblighi rituali si applicano al mukallaf ossia musulmano pubere e sano di mente, che non sia impedito dal compierli a causa di malattie, difetti fisici, forza maggiore. Accanto ai riti esposti esistono molti altri, fra i quali la circoncisione (non menzionata dal Corano, ma, salvo casi particolari, ritenuta obbligatoria) e il banchetto nuziale. Le due sole feste canoniche dell'islamismo sono la "piccola festa", cadente il primo giorno successivo alla fine del digiuno del ramadān, e la "grande festa" o "festa delle vittime sacrificali" che comincia il 10 dell'ultimo mese dell'anno (dhū 'l-ḥiggiah) e dura tre giorni; per entrambe v. bairām. L'uso ha introdotto poi anche altre feste: il mawlid an-nabī o anniversario della nascita di Maometto (il 12 del mese rabī‛ al-awwal), festa sconosciuta all'islamismo antico; la "notte del mirāg???" ossia della miracolosa ascensione di Maometto vivo, sulla cavalcatura al-Burāq, dalla Mecca al tempio di Gerusalemme e poi in cielo, nella notte dal 26 al 27 ragiab; la lailat al-qadr, notte fra il 26 e il 27 ramaḍān, che si ritiene sia quella in cui ebbe luogo la prima rivelazione a Maometto; la notte di metà del mese di sha‛bān (fra il 14 e il 15), nella quale la credenza popolare ritiene che Dio fissi il destino degli uomini per tutto l'anno seguente; infine altre minori o puramente locali. La prima decade del muḥarram (primo mese dell'anno musulmano) è celebrata con cerimonie solenni dagli Sciiti in commemorazione della morte di al-Ḥusain (v.) figlio del califfo ‛Alī.

17. Prescrizioni varie. - Alcune disposizioni hanno carattere di leggi suntuarie volute da Maometto al di fuori del Corano: divieto per gli uomini (non per le donne) di portare gioielli e ornamenti d'oro e di indossare vesti di pura seta; proibizione di usare vasi d'oro e d'argento per mangiare e per le abluzioni. I rigoristi vietano anche la musica e quindi il commercio di strumenti musicali, mentre una parte dei ṣūfī ne ammette l'uso allo scopo pio di eccitare l'ebbrezza mistica nelle riunioni loro; a ogni modo la proibizione è fatta osservare ancor oggi in molte parti d'Arabia per opera dei Wahhābiti e degli Zaiditi, tanto che nell'estate del 1932 fu proibita l'introduzione dei grammofoni nel Yemen. Ciò non toglie che la musica abbia avuto grandissimo sviluppo anche in passato presso i musulmani (v. arabi: Musica). Un insieme di ragioni morali e suntuarie portarono, dopo molte oscitanze, al divieto coranico del vino, esteso poi dai teologi-giuristi a tutte le bevande inebrianti; l'infrazione del divieto porta seco una delle pene ḥadd, ossia determinate canonicamente, che consiste nella flagellazione e di cui si occupano i libri di fiqh trattando del diritto penale. Riguardo ai cibi, esiste l'assoluto divieto coranico di far uso del sangue nell'alimentazione, con la conseguenza che sono proibite le carni d'un animale trovato morto e quelle d'un animale (eccettuato il prodotto della caccia e della pesca) che non sia stato macellato nel modo rituale, ossia senza sgozzarlo in modo da farne uscire tutto il sangue. Vietata dal Corano è la carne di maiale; circa le carni di uccelli di rapina e di bestie feroci esiste discrepanza fra le varie scuole di fiqh. Il cane non da caccia è considerato un animale impuro.

Severamente proibiti sono i giuochi d'azzardo, per estensione d'una norma coranica riguardante un giuoco di quella categoria in uso presso gli Arabi preislamici e importante eccessive prodigalità; a questo motivo iniziale si aggiunge il principio fondamentale del diritto musulmano di ritenere illecita ogni forma di contratto aleatorio. La raffigurazione di esseri viventi fu considerata riprovevole dai rigoristi a partire dal sec. II ègira (VIII d. C.) e addirittura illecita nel caso di raffigurazioni plastiche che proiettino ombra; soltanto in paesi europeizzati (come l'Egitto a partire dall'ultimo trentennio del sec. XIX) l'avversione alle statue si può considerare vinta. Un'eccessiva interpretazione di parole e atti di Maometto, combinata probabilmente con usi orientali non arabi dell'età musulmana, portò alla credenza che alle donne di buona condizione sociale sia colpa mostrare il viso scoperto a uomini non schiavi i quali non siano parenti loro nel grado che costituisce impedimento matrimoniale; questa opinione si è attenuata dopo la guerra mondiale (1914-1918) in Egitto e nel Libano, ma permane vivissima negli altri paesi musulmani, eccetto la Turchia che, con disposizioni rientranti nella sua politica antireligiosa, proibì il velo femminile negli anni 1926-1927.

Il sistema politico.

18. La sovranità; condizione dei non musulmani; il wazī; sistema tributario; moderno costituzionalismo e nazionalismo. - La dottrina classica del diritto pubblico musulmano, fondandosi sulle cose operate da Maometto, sulle circostanze di fatto della storia dei primi secoli dell'immenso impero islamico, sul principio fondamentale coranico che i musulmani sono tutti fratelli anche nel campo politico, senza distinzione di razza e di lingua, e infine sull'altro principio dominante il diritto pubblico e il privato, che un infedele non può avere autorità e supremazia su un musulmano, non concepisce musulmani viventi in terre governate da infedeli e quindi raffigura il mondo intero diviso in due sezioni: paesi d'islām (v. dār al-islām), abbraccianti tutti i territorî abitati da musulmani e costituenti un'unica monarchia islamica, e paesi di guerra (v. dār al-ḥarb) ossia abitati e governati da infedeli. Dunque per l'islamismo v'è unità di fede, di legge, di governo, senza distinzione di nazionalità; e a capo di questa monarchia universale sta il califfo, che, se in materia di dogma e di rito è un credente come tutti gli altri e, dato il carattere rivelato della Legge islamica, è privo quasi completamente di facoltà legislativa, ha poteri sconfinati, è un padrone assoluto in tutto il rimanente degli affari dello stato. Secondo la dottrina sunnita od ortodossa non esiste per il califfo un diritto di successione al trono, come non esisteva diritto ereditario per i capi delle tribù arabe all'epoca di Maometto; unica condizione l'idoneità all'ufficio e la discendenza dalla tribù dei Coreisciti (Quraish). Per maggiori particolari intorno al califfo sunnita v. califfo; per il concetto sciita v. imām. Si ammette che il califfo possa affidare il governo di parti dell'impero a principi vassalli, i quali ripetono la loro legittimità dal diploma d'investitura ricevuto dal califfo e possono avere il titolo di emiri, re, sultani, ecc. Essi hanno gl'identici poteri del califfo sul solo territorio a loro assegnato. Quindi la fine del califfato nel 1258 trovò già pronta la successione parziale nella maggioranza dei paesi musulmani.

Nello stato islamico non sono tollerati in modo permanente infedeli che non siano seguaci d'una delle religioni che Maometto considerò rivelate da Dio (cristiani ed ebrei, poi, per estensione, anche zoroastriani, e, almeno in pratica, indù); essi sono sudditi dello stato islamico in condizione d'inferiorità morale e giuridica rispetto ai musulmani e si chiamano dhimmī (v.). Gli altri infedeli, quelli del "paese della guerra", possono penetrare nello stato islamico solo se muniti di salvacondotto (amān) e, qualora la permanenza loro si prolunghi oltre un anno, devono essere considerati come dhimmī. Questo misto di tolleranza e d'intolleranza non deriva da concetti teorici generali, ma dall'aver considerato come norme assolute disposizioni occasionali di Maometto. Per l'obbligo della guerra santa contro gl'infedeli del Dār al-harb v. n. 1 e gihād.

Sotto il califfato della dinastia ‛abbāside, iniziatasi nel 132 èg., 750 d. C., si ebbe l'istituzione della carica di wazīr (v. visir), che, dopo la caduta del califfato, passo anche ad alcuni degli stati minori; carica paragonabile a quella di gran cancelliere dell'impero.

Il sistema tributario musulmano ha la sua base nella Legge religiosa o sharīah, poiché è dedotto dall'esempio di Maometto e dei primi due califfi. Sua caratteristica è, da un lato, di determinare quali siano i cespiti dell'entrata (zakāh dei musulmani, gizyah degli dhimmī, bottino fatto nella guerra santa, beni e redditi presi in via pacifica agl'infedeli, dazî tenui sulle mercanzie dei musulmani dazî assai più gravi sulle mercanzie dei non musulmani, eredità vacanti e simili), e dall'altro in qual modo, e soltanto in quello, ogni categoria di entrata possa venire erogata. Sistema che presume un tipo di pubblica economia e circostanze di fatto che non si verificano più da qualche secolo nella maggioranza dei paesi musulmani.

Sotto la pressione europea, il concetto islamico dello stato ha ricevuto un colpo mortale nel sec. XIX in tutti i paesi del Mediterraneo, eccettuato il Marocco. Il firmano sultanico detto il khaṭṭ-i sharīf di Gālkhüneh del 3 novembre 1839, riconoscendo (salvo che per il servizio militare) piena eguaglianza giuridica e morale a tutti i sudditi dell'Impero Ottomano senza distinzione di confessione religiosa, abbatteva proprio uno dei cardini del sistema classico, e ne procurava a poco a poco l'abbattimento anche negli altri stati musulmani mediterranei. Le idee europee di libertà statutarie e di parlamentarismo continuarono l'opera disgregatrice in duplice direzione: introducendo poteri legislativi indipendenti dalla sharīah o Legge religiosa, ed ammettendo cristiani ed ebrei a questo lavoro legislativo. Infine le dottrine nazionali, ignote all'islamismo e ponenti lo stato su una base radicalmente diversa dalla classica, continuano (in Egitto dallo scorcio del sec. XIX) l'opera demolitrice delle dottrine islamiche di diritto pubblico, del quale si può dire che nei paesi europeizzati sopravviva solo il principio della personalità del diritto in base alla fede religiosa per tutto quello che concerne lo stato delle persone, la famiglia, le successioni e le fondazioni pie; materie per le quali ogni confessione religiosa conserva i propri tribunali e la propria legislazione. Soltanto la repubblica turca li ha soppressi con l'introduzione del codice civile svizzero fatta a partire dal 1° gennaio 1926.

Bibl.: M. M. Moreno, Brevi nozioni d'Islâm, Tripoli 1927; I. Goldziher, Vorlesungen über den Islam, Heidelberg 1910 (2ª ed., 1925; trad. franc., Le dogme et la loi de l'Islam, Parigi 1920); id., Muhammedanische Studien, Halle a. S. 1889-1890, voll. 2; H. Lammens, L'Islam, croyances et institutions, Beyrouth 1926 (assolutamente da sconsigliare la trad. ital., Bari 1929); C. Snouck Hurgronje, Verspreide Geschriften, Bonn-Leida 1923-27, voll. 6; L. Massignon, Annuaire du monde musulman, 3ª ed. (per il 1929), Parigi 1930; Th. P. Hughes, Dictionary of Islam, Londra 1885 (rist. anastatiche 1895, 1896); N. P. Aghnides, Mohammedan theories of finance, New York 1916; Encyclopédie de l'Islām, Leida 1908 segg., voll. 4 in corso di stampa (anche ed. tedesca e inglese); A. von Kremer, Culturgeschichte des Orients unter den Chalifen, Vienna 1875-1877, voll. 2; A. Mez, Die Renaissance des Islâms, Heidelberg 1923 (storia della cultura musulmana medievale); Revue du monde musulman, Parigi 1906-1926, voll. 66; Revue des études islamiques, Parigi 1927 segg. Oriente moderno, Roma 1921 segg. (mensile); Die Welt des Islams, Berlino 1913 segg.; J. Schacht, Der Islām mit Ausschluss des Qor'āns, Tubinga 1931 (trad. di brani arabi di materia religiosa). Per le pratiche del culto si vedano anche i tratti di diritto musulmano, particolarmente quello del Juynboll.

Diritto musulmano.

19. Generalità. - Con la parola diritto si traduce usualmente il termine arabo fiqh, che in realtà comprende le pratiche del culto, il diritto privato e molta parte del pubblico, come fu esposto nel n. 3. Qui si tratterà di ciò che è diritto nel senso europeo. Ad ogni modo si tratta di diritto che l'islamismo concepisce non quale opera di legislazione ma come espressione della volontà divina, nota agli uomini attraverso la rivelazione diretta (Corano) o indiretta a Maometto ed elaborata dai dottori della Legge.

Maometto fissò quelli che divennero i primi principî del diritto basandosi essenzialmente su quello consuetudinario del Ḥigiāz e completandolo con norme dettate dall'opportunità. Fra l'altro, egli diede un assetto più stabile alla famiglia e migliorò la condizione della donna, abolendo il matrimonio temporaneo (mutah) e riducendo quello ordinario a un vero contratto bilaterale; vietò l'usanza di seppellir vive, per timor di miseria, figlie neonate; stabilì dei doveri tra figli e genitori e fissò l'ordine e le quote delle successioni.

Chiusasi con Maometto la serie delle rivelazioni divine (n. 9), non rimase alle generazioni successive che sviluppare teoricamente il diritto sotto forma d'interpretazione dei testi sacri (Corano e ḥadīth) e di deduzione di norme da essi, anche se, in realtà, elementi desunti da diritti stranieri possano essere penetrati nel sistema musulmano sotto veste di ḥadīth, ecc. Per le quattro "radici" del fiqh (Corano, ḥadīth, iǵmā‛ e qiyās) si veda il n. 6; per la classificazione degli atti umani in cinque categorie legali v. n. 16.

Escluso nell'epoca classica l'intervento dello stato in materia di fiqh, l'elaborazione del diritto ebbe luogo nelle scuole con parecchie divergenze di metodo e di norme. Si ebbero così varî sistemi o riti o scuole (madhhab, al plur. madhāhib), dei quali quattro ebbero maggior fortuna nell'Islām ortodosso o sunnita, sì da continuare ad esistere ancora ai nostri giorni; sono quelli che ripetono l'origine e la denominazione rispettivamente dai quattro imām o capiscuola Abū Ḥanīfah (morto nel 150 èg., 767-768 d. C.), Mālik ibn Anas (morto nel 179 èg., 795 d. C.), ash-Shāf‛ī (morto nel 204 èg., 820) e Ahmad ibn Ḥanbal (morto nel 241 èg., 855), per i quali v. le rispettive voci. Questi quattro madhhab sono considerati egualmente legittimi e possono coesistere nella medesima città o regione; solo nel sec. XIX si è introdotto l'uso di considerare come ufficiale per i tribunali un dato madhhab, anche se la popolazione, nella sua grande maggioranza, sia di altro madhhab nelle pratiche del fiqh. Ad ogni modo l'appartenenza a uno di questi madhhab dipende di regola dalla nascita dell'individuo, può anche dipendere da emigrazione o matrimonio, non da conquista; così in Libia è rimasto l'originario rito mālikita nonostante il quadrisecolare dominio ottomano, che faceva amministrare la giustizia da magistrati di rito ḥanafita. È anche consentito per singoli casi preferire la decisione che consegue da un rito diverso dal proprio.

In Turchia col 1° gennaio 1926 il diritto musulmano fu abolito; per le pratiche del culto si segue il rito ḥanafita, ch'era quello ufficiale dell'Impero Ottomano e che continua ad essere ufficiale per l'‛Irāq (esclusa la popolazione sciita), la Siria, la Palestina, lo Egitto, l'India Britannica (esclusi gli Sciiti); è seguito per le pratiche del culto da tutti i musulmani sunniti dell'Asia centrale e dell'Afghānistān (qui è ufficiale); esiste in Tunisia ed Algeria parallelamente al mālikita.

Il rito mālikita è seguito in tutta l'Africa del nord (incluso il suo retroterra), nell'Alto Egitto (fuori dei tribunali), nel Sudan anglo-egiziano; sporadicamente anche altrove. Il rito shāfi‛ita ha valore anche ufficiale per tutte le Indie neerlandesi, nel Ḥaḍramawt e nella Somalia; lo professano in maggioranza gli abitanti del Ḥigiāz e i Sunniti del Yemen; ha pure seguaci nell'Eritrea. Il ḥanbalita è generale per il Neǵd e ha notevoli gruppi di seguaci nell'‛Irāq e nell'India Britannica.

La scienza del fiqh si divide in due discipline, di cui la prima è sorta sul finire del sec. II èg., o inizio del IX d. C.: uṣūl al-fiqh (radici o fondamenti) e furūal-fiqh (rami o derivazioni). La prima studia la natura delle quattro "radici" (v. n. 6), i loro rapporti reciproci, il metodo di deduzione delle norme da esse, la funzione del giureconsulto e del muftī (v.). L'altra è costituita dall'esposizione e dall'esame delle norme derivate dalle "radici"; di esse ci occuperemo ora, limitandoci a quelle di vero carattere giuridico e, per comodità, seguendo un criterio occidentale di partizione. Il diritto costituzionale e amministrativo fu già esposto nel n. 18.

20. Persone, famiglia, successione. - Stato e capacità delle persone. - Pienamente capace è il solo musulmano, ortodosso, maschio, pubere, libero, probo, sano di mente e di corpo. Il nascituro è capace di diritti. L'impubere capace di discernimento può compiere atti giuridici strettamente personali (come il legato), con intervento del padre o tutore. Il pazzo è equiparato all'impubere, restando validi gli atti compiuti durante i lucidi intervalli. L'insolvente (muflis) è sottoposto a un curatore fallimentare. Lo schiavo (che può essere anche schiavo pro parte) ha diritto a essere nutrito e non maltrattato e non può sposarsi che col consenso del padrone; civilmente è un bene venale; può essere abilitato al commercio o all'esercizio di un'arte; la schiava, concubina obbligata del padrone, se gli partorisce un figlio (e allora si chiama umm walad) non può più essere alienata e alla morte del padrone diventa libera, mentre il figlio ha gli stessi diritti che se fosse nato da matrimonio. La manumissione (‛itq) dello schiavo (‛abd) può anche essere stabilita per testamento e inoltre per contratto alla morte del padrone o con riscatto a pagamento rateale mediante i proventi dello schiavo stesso, che nei due ultimi casi si chiama rispettivamente mudabbar o mukātab; chi diventa schiavo di un proprio ascendente o discendente o fratello è senz'altro manumesso; il manumittente diventa patrono (mawlà) e il patronato comporta diritti di tutela e di successione e si tramanda agli eredi attivamente e passivamente. Vi è per l'assente una procedura con dichiarazione di morte al suo giungere a una certa età e con scioglimento del matrimonio con date cautele. L'apostata, inutilmente esortato a pentirsi, viene ucciso e considerato come civilmente morto al momento dell'abiura. Persone giuridiche sono: l'eredità giacente (tarikah), la fondazione pia (waqf) e l'erario pubblico (bait al-māl).

Diritto di famiglia. - Il musulmano può anche sposare una donna di una delle religioni con libri rivelati (ma non viceversa) e sino a quattro mogli insieme se libero, due se schiavo; lo schiavo può sposare la libera. L'impubere può essere fatto sposare (con certe restrizioni) da chi ha su lui la potestas. La donna è data in matrimonio (nikāḥ) dal suo tutore nuziale (walī, il padre o un agnato), in presenza di due testi idonei. Gl'impedimenti al matrimonio conseguono, entro certi gradi, da parentela di sangue o di latte o da affinità. Il matrimonio è annullabile se compiuto senza un conveniente dono nuziale (mahr) da parte del marito. Il divorzio (ṭalāq) spetta, anche senza motivo, al solo marito; alla moglie può esser concesso per motivi plausibili; può anche conseguire da "giuramento di astinenza" (īlā') del marito, o sua "assimilazione ingiuriosa" (ẓihār) della moglie al dorso della propria madre (quindi a cosa intangibile), qualora egli tempestivamente non receda; consegue pure dal solenne "giuramento imprecatorio" (liān) con cui il marito, mancando di prova, afferma l'adulterio della moglie e l'illegittimità della prole; la moglie allora, per evitare la pena di adulterio, deve essa pure giurare il li‛ān sulla menzogna del marito. La vedova o ripudiata prima di risposarsi deve attendere un periodo. (‛iddah) di 4 mesi e 10 giorni (metà la schiava). Il marito ripudiatore può senz'altro riprendersi la moglie prima che sia trascorsa la ‛iddah, altrimenti deve regolarmente risposarla. Dopo 3 ripudî (2 se si tratti di schiavo) o ripudio triplice della stessa donna, questa non può esser ripresa se essa non sia stata prima sposata e ripudiata (dopo effettiva consumazione) da un terzo. Anche la schiava, cambiando padrone, è sottoposta a un periodo di purità (istibrā') sempre allo scopo di accertare la libertà del ventre.

La moglie deve al marito la prestazione coniugale, ubbidienza e non può uscir di casa senza suo permesso: amministra da sé il suo patrimonio, ma non può da sola compiere atti di liberalità. Il marito deve ben trattarla e provvederle il necessario secondo la condizione della famiglia; deve trattare egualmente le varie mogli (che possono pretendere ciascuna un appartamento separato) e regolarmente dividere fra loro le sue notti. Il padre può fare il disconoscimento (nafy) della prole ed è ammessa la ricerca della paternità a mezzo di periti fisiognomisti. Tra ascendenti e discendenti corre l'obbligo degli alimenti, i quali comprendono anche il necessario per procurarsi una moglie o una schiava. Il figlio, quanto allo stato, segue la condizione della madre (tranne che per la umm valad). La custodia del bambino (ḥaḍānah) spetta in primo luogo alla madre, la tutela (wilāyah) all'avo o a un tutore testamentario o dativo, sempre controllato dal giudice. Raccogliere e allevare un trovatello (laqīṭ) è dovere collettivo.

Diritto ereditario. - Per due terzi del patrimonio la successione è necessariamente legittima; non mai si confondono i patrimonî del defunto e dell'erede. Prelevate le spese e i debiti, sono chiamati gli "eredi (wārith) di quota" designati dal Corano (coniuge, genitori, ascendenti paterni, discendenti, fratelli e sorelle) con date regole di precedenza ed esclusione (genitori, figli e coniuge non sono mai esclusi); le quote vanno proporzionalmente ridotte quando la loro somma superi l'asse. Il rimanente va agli "eredi generali" (parte dei precedenti più il patrono) in un certo ordine. La quota virile è sempre doppia della muliebre. Il testamento, o meglio legato (waṣiyyah), non è valido se fatto durante la malattia mortale; deve inoltre essere accettato. Incapaci a succedere sono: il miscredente, l'uccisore del de cuius e lo schiavo, ma con dati temperamenti.

21. Diritto Patrimoniale. - Diritti reali. - Tranne che per i Mālikiti, il possesso (yad) non fa correre prescrizione, né dà azione rivendicatoria. Il solo possessore in mala fede è responsabile per i casi fortuiti. La sola terra originariamente di conquista o capitolazione (ṣulḥ) è sottoposta alla tassa fondiaria (hharāǵ); per quella di originaria proprietà di musulmani e rimasta tale non si paga che l'imposta religiosa (zakāh; v. n. 16). La terra "morta" (mawāt), ossia incolta e abbandonata, diventa proprietà di chi la vivifichi dissodandola con date norme. La miniera a cielo scoperto è accessibile a tutti. Il tesoro, se riferibile a epoca preislamica del suolo, è considerato come bottino di guerra, altrimenti viene trattato come cosa smarrita; questa deve, al suo ritrovamento, essere denunciata, poi depositata o custodita con date cautele; infine dopo un anno l'inventore può appropriarsela, ma restando sempre responsabile se il proprietario venga a reclamarla. Sono in vigore l'enfiteusi, l'usufrutto, l'uso, l'abitazione e si osservano le servitù prediali e urbane sorte per legge o contratto o uso ininterrotto di 10 anni.

22. Obbligazioni. - Obbligazioni unilaterali sono la promessa pubblica di premio in una corsa di animali o nel tiro alle frecce, e quella fatta a chi riporti un oggetto smarrito o uno schiavo o animale fuggito. Le bilaterali hanno un campo più vasto che da noi, considerandosi ad es. come contratto la nomina di un pubblico funzionario. Vietate sono le obbligazioni implicanti interesse (ribā) o alea; non son richieste forme speciali tranne che per il matrimonio e la "vendita a termine" (salam), con la quale si vendono a scadenza i frutti agricoli ancora da realizzare contro il prezzo subito versato, per sopperire alle spese di coltivazione. La vendita, nella quale ha una speciale considerazione l'opzione (khiyār), si perfeziona con la trasmissione della cosa e la sua apprensione. Anche la donazione si perfeziona solo con l'apprensione. Sono in uso la transazione, la cessione di crediti e la locazione nelle sue varie forme, compreso il contratto di trasporto. Fra i contratti agricoli si hanno quelli di coltivazione di datteri e viti, percependo il lavoratore una quota determinata dei frutti e restando a suo carico le spese per la lavorazione delle piante, mentre sul proprietario gravano le spese per la sistemazione del suolo, per animali da lavoro e attrezzi. Si praticano il comodato e il mutuo, naturalmente senza compenso. La fondazione pia (waqf) è la costituzione, a scopo di beneficenza, d'un usufrutto, generalmente perpetuo, su cosa, generalmente un immobile, che allora diventa inalienabile; recentemente, specie in Egitto, è stata ammessa la sostituzione della cosa vincolata con altra equivalente; i waqf sono sempre sotto il controllo dell'autorità, siano essi pubblici, ossia da essa direttamente amministrati, o privati. Il pegno (rahn) si può costituire anche su immobili (manca l'ipoteca) e non ammette il patto commissorio; comprende anche le accessioni e, secondo i Ḥanafiti, anche i frutti della cosa pignorata; tranne che per i Ḥanafiti, il debitore ha diritto di servirsi della cosa, pur restando questa in mano al reditore. La fideiussione (ḍamān) può anche vertere sull'impegno di far comparire una data persona al giudizio, al matrimonio, ecc. Il mandato (wakālah) non è consentito per atti strettamente personali; il mandatario in giudizio non può fare ammissioni a danno del mandante. I soli Shāfi‛iti non ammettono nella società il conferimento del solo lavoro e, tranne che per i Ḥanafiti, i guadagni e le perdite devono essere in proporzione alle quote conferite; socio può essere anche un ebreo o cristiano; è praticata anche la società in accomandita (qirāḍ).

23. Dirito penale. - È in parte ancora un diritto privato, potendovisi rinunciare al taglione e anche applicarlo personalmente. Si hanno tre categorie di pene: 1. il taglione (qiṣāṣ) o la compensazione (diyah), obbligatoria questa se il reato non fu intenzionale, e in altri casi pene per l'omicidio e la lesione personale. La diyah può, a seconda dei casi, essere grave o leggiera (pagabile in 3 anni) ed è composta, per l'omicidio, di 100 cammelli, nei due casi di diverso valore (o dell'equivalente in denaro); contribuiscono a pagarla gli agnati del colpevole. Per il non musulmano o la donna o lo schiavo ucciso la diyah è ridotta a una frazione, e così per le ferite a seconda della gravità; 2. pene definite (ḥudūd, pl. di ḥadd) nei casi di: zinā' o rapporto carnale con altri che il coniuge o la propria schiava (varia da 100 colpi alla lapidazione); diffamazione (qadhf) di un musulmano giuridicamente capace: 80 colpi; bevuta di liquido inebbriante (shurb): 40 colpi; furto (sariqah): taglio della mano destra e ai recidivi successivamente piede e mano in senso alternato; i Ḥanafiti la terza volta applicano la prigione; apostasia (riddah): morte materiale e civile; 3. per tutti gli altri reati pena discrezionale (tazīr) ad arbitrio del giudice e minore della corrispondente pena definita. Per queste, come per le precedenti, lo schiavo e la donna ricevono metà dei colpi fissati per l'uomo libero.

24. Diritto giudiziario. - Il qāḍī (v. cadi) è giudice unico, civile e penale a un tempo e senza appello; deve possedere certi requisiti di cultura e moralità e osservare condotta esemplare e dignitosa; una sua sentenza errata o contraria allo iǵmā (v. n. 6) deve essere riformata da lui o dal suo successore; egli deve ricorrere ai lumi dei giuristi della sua circoscrizione. La procedura è semplicissima, lasciandosi gran discrezione al qāḍī, il quale può anche punire le azioni vessatorie e la mala fede; di regola la sentenza, civile o penale, dovrebbe uscire nella stessa udienza della chiamata. Quanto alle prove: la scrittura non ha valore eccetto presso i Mālikiti; la prova per eccellenza è la testimonianza con due testi maschi, musulmani, liberi e capaci (4 ne occorrono per provare la fornicazione); in certi casi uno dei due testi può essere sostituito da due donne o dal giuramento, il quale generalmente completa la prova. Si ha un giuramento speciale, in caso d'omicidio indiziario, ripetuto 50 volte con intervento degli agnati (la qasāmah). All'udienza la prova spetta prima all'attore o accusatore; se non può fornirla, viene deferito il giuramento al convenuto o accusato, il quale (eccetto che presso i Ḥanafiti) può riferirlo all'avversario. Il giudice può motivare la sentenza anche sulla sua conoscenza personale del fatto.

È da considerare che fra le norme di stretto significato giuridico sono più osservate quelle relative alla vita intima (famiglia e successione), le quali sono più strettamente connesse con la religione. Tutto il resto ha un'importanza pratica molto minore e facilmente si trasgrediscono i precetti di diritto pubblico e commerciale, pur in teoria affermando i principî relativi. In pratica, specie per il commercio, valgono principî diversi da quelli della sharī‛ah, imposti da necessità di condizioni sociali e di progresso civile. Quindi negli stati musulmani (a eccezione di quelli d'Arabia nei quali si applica strettamente e completamente la sharīah), si trova una doppia giurisdizione, religiosa e laica, con doppia serie corrispondente di tribunali; la prima provvede al diritto di famiglia, successioni, waqf, ecc., e in essa la sharī‛ah è molto osservata; la seconda ha competenza per tutti gli altri rapporti e molto si vale di criterî assunti dalle moderne legislazioni europee, anche in pieno contrasto col fiqh. Perciò questo, nel suo complesso, in molti paesi rimane più che altro un sistema ideale, riservato essenzialmente per lo studio e solo in alcune sue parti integralmente applicato. Quanto alle nuove necessità che nemmeno negli usi potevano trovar la base per il loro soddisfacimento, e che pure occorreva soddisfare (ad es. per le assicurazioni, il credito cambiario, ecc.) per il progresso della civiltà musulmana e la sua difesa di fronte all'Occidente si ricorre talora ad artifici, che sono vere violazioni del fiqh. Nel Medioevo uno di tali artifici, la mohatra (muḥāṭarah), che mascherava l'interesse inscenando per lo stesso oggetto, anche fittizio, una vendita a contanti con contemporanea vendita a termine a prezzo maggiore, penetrò anche nell'economia mercantile cristiana.

Bibl.: D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita, Roma 1926-1933, voll. 2 (eccellente); Ḫalīl ibn Isḥāq, Il Muḫtaṣar o sommario del diritto malechita, trad. e note d I. Guidi e D. Santillana, Roma 1919; L. W. C. Van den Berg, Principes de droit musulman selon les rites d'Aboû Ḥanîfah et de Châfiî, trad. franc., Algeri 1896; E. Sachau, Muhammedanisches Rescht nach Schafiitischer Lehre, Berlino 1897; Th. W. Juynboll, Manuale di diritto musulmano secondo la scuola sciafeita, trad. di G. Baviera, Milano 1916 (3ª ed. oland., 1925; assai sviluppata anche storicamente la parte che riguarda il culto e la famiglia); ‛Abdu 'r-Raḥīm, I principî della giurisprudenza musulmana, trad. di G. Cimino, Roma 1922 (considera le varie scuole e tratta anche degli uṣūl, testo inglese, 1911); N. de Tornauw, Le droit musulman, trad. Eschbach, Parigi 1860 (il testo tedesco, 1855; diritto ḥanafita e sciita); A. Querry, Droit musulman ...des musulmans schyites, Parigi 1871-1872, voll. 2; C. Snouch Hurgronje, Verspreide Geschriften, II, Bonn-Lipsia 1923 (vari scritti fondamentali). Ampia bibl. nel Juynboll citato.

Arte.

25. Generalità. - L'unità religiosa ha influito sulle forme ed espressioni culturali delle popolazioni islamiche assai più di quanto non sia accaduto nel mondo cristiano; sopprimendo le differenze di stirpe e annientando le tradizioni nazionali ha costretto gl'interessi spirituali, gli usi e i costumi a seguire un unico indirizzo. Questo carattere unitario dell'Islam appare particolarmente evidente nelle arti figurative, nell'ambito delle quali non possiamo notare nessuna conseguente evoluzione regionale; e riesce quasi impossibile distinguere nettamente uno stile arabo da uno persiano, o turco o indiano. Le relazioni commerciali tra i singoli stati musulmani furono sempre così strette da consentire un'immediata diffusione di ogni conquista tecnica, di ogni innovazione formale, permettendo a tutta la produzione di mantenersi sempre allo stesso livello e in stretto contatto. Sebbene speciali forme architettoniche religiose si andassero gradatamente costituendo, il contrasto tra arte religiosa e profana ebbe un valore assolutamente secondario, poiché i principî decorativi, essenziali a qualsiasi creazione stilistica islamica, erano informati allo stesso spirito. Si avverte solo una certa selezione dei motivi destinati ai luoghi di culto. Inoltre, non occorrendo suppellettile liturgica, i mobili delle moschee non differivano da quelli delle case. L'avversione a rappresentare figure intralciò lo sviluppo di tendenze naturalistiche, impedendo una autonoma evoluzione della pittura e della scultura, forse, più che per prescrizioni religiose osservate con maggiore o minor scrupolo, per subordinazione ai principî estetici musulmani, in contrasto con l'ideale di bellezza coltivato dall'antichità classica o dall'Oriente cristiano.

Compito essenziale dell'attività artistica nel mondo islamico fu la decorazione ornamentale di pareti e di utensili, e tanto forte e vivo fu in essa il senso dell'unità organica e tettonica da trattenere costantemente la decorazione entro giusti limiti, non consentendole un eccesso di sviluppo in contrasto con le proprie finalità. L'accuratissima educazione artigiana, mantenuta dalle corporazioni sottomesse a rigidi statuti censorî (ḥisbah), e la mancanza di qualunque distinzione tra arti maggiori e minori contribuirono a raggiungere quello scopo. Tutte le tecniche godettero i medesimi diritti e anche le personalità meglio dotate non poterono aspirare a varcare i limiti segnati dal loro mestiere. D'importanza decisiva in qualche periodo furono le numerose ordinazioni dei principi amanti dell'arte, il cui esempio fortemente influì sulle classi più abbienti, intensificando la richiesta degli oggetti d'arte. In molti palazzi reali vi erano botteghe e manifatture incaricate esclusivamente di soddisfare alle esigenze della corte; esse, meglio di qualsiasi industria privata, potevano ottenere la massima perfezione della produzione, procurandosi materiali preziosi da lontane regioni, e dedicandosi per anni, e magari per decennî, alla risoluzione di un unico compito. Per soddisfare il loro desiderio di lusso, i dominatori non temevano né grandi distanze, né difficoltà di transito, né spese elevate, e affrontavano ogni difficoltà pur di procurarsi architetti e artigiani celebri. Con il diminuire del loro interesse personale incominciò la produzione in serie destinata alla vendita nei bazar, causando la decadenza tecnica e formale. Raramente e con scarsa critica furono raccolte opere di epoche precedenti; l'interesse artistico si limitava a promuovere l'arte contemporanea. La personalità dell'artista non ha avuto lo stesso risalto che nell'Occidente o nell'Estremo Oriente; l'anonimia divenne regola; sono mancati assolutamente antichi storiografi per l'arte islamica, la cui evoluzione stilistica si può ora ricostruire soltanto sui monumenti.

Nella prima fase quell'arte dovette giovarsi di influenze esterne, ed elementi venuti dal di fuori ebbero, anche dopo, una parte essenziale nel suo sviluppo; ma nel nuovo indirizzo spirituale decisamente assunto sin dagl'inizî dall'Islam, contrastante con quanto l'aveva preceduto, ogni elemento derivato di fuori fu sottoposto a un profondo processo di trasformazione, e l'arte islamica ebbe presto una sua propria essenza. Il processo è particolarmente evidente nelle regioni iraniche, dove l'arte, pur ricollegandosi direttamente a tradizioni nazionali, non mancò di aderire alle tendenze islamiche. La rapida diffusione dell'eresia sciita (più tardi divenuta religione di stato) conferì alla Persia una posizione particolare, non disgiunta da una certa autonomia artistica, di fronte agli altri paesi che avevano accettato l'ortodossia sunnita; l'atteggiamento tollerante da essa assunto di fronte al divieto di rappresentare l'immagine umana, impedì la completa scomparsa di motivi figurati dal patrimonio formale islamico. Più tardi la coscienza del proprio passato storico diede ai Persiani la forza necessaria per resistere al pericolo di un livellamento comune, minacciato dalle invasioni selgiuchide e mongola. La scissione politica iniziatasi circa la metà del sec. VIII e divenuta poi definitiva, fu l'origine della posizione particolare assunta dalla Spagna e dall'Africa settentrionale di fronte all'Oriente islamico, e facilmente riconoscibile in tutte le loro manifestazioni artistiche.

26. Architettura. Nessun'opera monumentale fu eseguita sotto il profeta e i primi califfi, preoccupati di evitare qualsiasi forma di lusso; solo quando vennero, nei paesi conquistati, in più intimo contatto con le antiche civiltà, i musulmani sentirono la necessità di elevare accanto alle chiese e ai templi degl'infedeli o in loro luogo, moschee imponenti, e di imitare il lusso delle corti dei monarchi stranieri. In principio si ricorse, per accelerare il lavoro, all'uso di materiale proveniente da edifici antichi e al lavoro costrittivo di operai portati da tutte le parti dell'impero. Ma anche più tardi fu abituale la fretta nella costruzione di moschee e di palazzi, sicché spesso intere maestranze straniere vennero chiamate a collaborarvi. Quasi dappertutto si usò il laterizio, ma nelle regioni più ricche di pietra anche i conci, almeno per qualche tempo. Sin dal sec. IX venne adoperato nell'Oriente islamico l'arco a sesto acuto (in Persia profilato a carena), nell'Africa settentrionale e in Spagna quello a ferro di cavallo, oppure archi acuti dentati e archi a sesto ribassato. Si costituirono gradatamente nuove forme regionali di capitelli, sviluppi di prototipi della tarda antichità o dell'arte sassanide. Le cupole si elevarono di consueto su peducci e nicchie angolari, in territorio turco e in epoca più tarda anche su pennacchi. Intorno al 1100 la sovrapposizione di piccoli peducci generò la decorazione a stalattiti (muqammas), così caratteristica per l'architettura islamica di tutti i paesi, subito introdotta a decorare plasticamente nicchie di portali, pennacchi di cupole, sporgenze di tetti, talvolta anche archi, fregi e capitelli.

La moschea (masgid, giāmi‛) era, nel senso più lato, un luogo di riunione per i fedeli; dedicata in primo luogo alla preghiera comune - le più grandi anche alla predica del venerdì - ma adibita anche a scuola, a ricovero e ad asilo; in numerose regioni serviva pure da municipio. Fu un ampliamento della muṣallà, atrio aperto destinato alla preghiera, già noto in Arabia nell'età preislamica; e per prescrizione il suo orientamento (qiblah) era sempre verso la Mecca. Le prime moschee, molto ampie e molto modeste, in argilla e tronchi di palme, ebbero l'aspetto di accampamenti con mura esterne fortificate; loro scopo precipuo era offrire ad un esercito di sostenitori della fede un riparo contro i raggi solari e magari anche contro gli attacchi nemici. In pianta avevano già gli elementi essenziali delle moschee con cortile, poi dappertutto costruite in accurata muratura, nei primi secoli della diffusione dell'islamismo: una sala destinata alle preghiere, a soffitto (ḥaram), era divisa da colonne in navate parallele alla qiblah; ne accentuava poi l'orientazione verso la Mecca una nicchia, non visibile all'esterno (miḥrāb), generalmente decorata, e con tutta probabilità ispirata all'abside cristiana; a lato del miḥrāb stava la cattedra del predicatore (minbar), a cui spesso faceva riscontro sul lato opposto la tribuna (saddah) del lettore, accanto alla quale s'innalzava talvolta una loggia per i principi (maqṣūrah). L'ampio cortile, circondato da un portico ad arcate, si stendeva dinnanzi al ḥaram per tutta la sua lunghezza, e aveva nel mezzo la fonte lustrale, mentre la torre quadrata (minārah, minareto), dalla quale il muezzin chiama i fedeli alla preghiera, sorge di solito sulle mura esterne, in asse con la qiblah. Con l'introduzione dei mattoni, le colonne vennero sostituite da pilastri e le forme dell'arco arricchite. Nel sec. XI andò diffondendosi in Persia un nuovo tipo di moschea, con quattro grandi portali a vòlta (īwān, līwān) che dal cortile conducevano nell'interno. Il portale o līwān principale, trasformato in facciata, fu decorato da coppie di minareti, che da allora furono di forma cilindrica e ne accentuarono l'importanza; l'ambiente destinato alla preghiera venne ricoperto da una cupola. Nel sec. XIV, accanto a questo tipo, si affermò la moschea a cupola e a pianta centrale, prima in piccole costruzioni, poi fino a svilupparsi, dopo la conquista di Costantinopoli, e a imitazione di S. Sofia, nelle più grandiose creazioni. Sottili, eleganti minareti vi contrastano con le grevi, voluminose cupole. Ma l'Occidente islamico si mantenne alla moschea con cortile, che neppure l'introduzione della mèdresa (edificio per insegnamento superiore religioso), sempre di forme assai semplici, riuscì a modificare. In Oriente moschea e mèdresa furono spesso fuse in un unico edificio, comprendente quindi, oltre all'oratorio, aule scolastiche e celle di abitazione destinate agli studenti. Furono talvolta introdotti nella pianta della moschea anche mausolei (qubbah, türbeh), i quali assunsero durante l'epoca selgiuchide i più svariati aspetti e offrirono occasione a risolvere in molteplici modi i varî problemi inerenti alla costruzione della cupola (numerose le moschee sepolcrali in Egitto). Tra le costruzioni profane, sono naturalmente notevoli i palazzi. Furono molto sviluppati nel senso della larghezza, poco in altezza. Nelle città le regge formarono un rione separato, con cinta propria; gli edifici erano generalmente divisi in tre gruppi, ognuno con un proprio cortile interno. Alla parte destinata al pubblico, ove il sultano rendeva giustizia o riceveva l'omaggio delle popolazioni, seguiva la serie degli ambienti ufficiali (dīwān) con una grande sala d'udienza per i grandi ricevimenti, e finalmente una parte chiusa agli estranei (ḥarīm) ove erano sistemati gli appartamenti privati del sultano e della sua famiglia, con bagni, giardini, ecc. Nei particolari la costruzione si conformava alle abitazioni locali, le cui varietà, più che dallo stile vigente e imperante, erano prodotte dalle condizioni climatiche e da tradizioni regionali. Dappertutto si ebbe cura d'isolare dalla strada gli edifici adibiti ad abitazione oppure di chiudere le finestre e le logge con cancelli, sì da impedire che le donne fossero scorte dai vicini o dai passanti. Per il resto la disposizione era delle più varie; le sale di ricevimento erano indifferentemente poste nella parte anteriore o posteriore della casa, gli ambienti più intimi nella parte inferiore o superiore. Si ricavavano nel muro nicchie aperte o a chiusura, non essendo in uso i mobili ingombranti (tavole, sedie, armadî). Tra le costruzioni d'utilità pubblica offrono talvolta interesse artistico i bagni e i ponti. Architettonicamente interessanti i ricoveri delle città e delle campagne (khān, funduq, karwānsarāy), spesso di grandi dimensioni e a varî piani. In tutti i paesi pubbliche fontane (sebīl), di forme svariate e graziose, venivano erette da pii committenti. Le fortezze furono costruite secondo il sistema bizantino, perfezionato da miglioramenti introdotti sull'esempio dell'Occidente; e furono particolarmente curate le porte monumentali e le imponenti cittadelle.

26. Decorazione. - La magnifica fioritura dell'architettura islamica non è dovuta a sviluppi razionali di piante e a risoluzioni di problemi puramente costruttivi, bensì, anche prescindendo da considerazioni d'ordine pratico, essenzialmente a intenti di decorazione. Questi non mirarono ad accentuare con mezzi decorativi la funzione dei varî elementi architettonici, bensì a conseguire determinati effetti grandiosi o graziosi. Si considerino ad esempio le molteplici forme di minareti nell'Oriente islamico; esse risolvono brillantemente i più varî problemi decorativi, senza invece mai presentare una grandiosa o nuova soluzione architettonica. Tipicamente islamica è la tendenza a creare un'architettura illusionistica, tanto più pregevole in quanto ottenuta semplicemente con un'abile decorazione, senza l'aiuto di mezzi plastici e pittorici. In Egitto, in Siria e in India effetti coloristici furono ottenuti alternando varie qualità di marmi o usando la tarsia in pietra, in altre regioni con mosaici in ceramica, che sostituirono il mosaico in vetro, diffuso per influsso bizantino nella prima età islamica; essi diedero risultati tecnicamente e coloristicamente perfetti in Persia. Dal sec. XV in poi i ceramisti persiani, turchi e spagnoli, per semplificare e accelerare il proprio lavoro, ricoprirono le superficie da decorare con piastrelle in ceramica colorata. Già prima, in Persia, le nicchie per preghiera erano state talvolta sostituite da riquadri di formelle a rilievo con riflessi metallici, e anche stanze di private abitazioni erano state adorne di scintillanti piastrelle di ceramica a forma di croce e di stella. Dappertutto l'architettura si valse, oltre che della ceramica, della decorazione a stucco. Questo, quando fu introdotta la costruzione in laterizio, sostituì la pietra lavorata, e divenne uno dei principali elementi decorativi dell'architettura. Di facile lavorazione, lo stucco consentiva libero sfogo alla fantasia degli artisti. Da principio gli ornati venivano incisi profondamente con un coltello nel gesso ancora fresco, poi, per affrettare il lavoro, furono impressi a stampo: e si distinsero in questa tecnica prima gli artefici della Mesopotamia e dell'Egitto, poi quelli della Persia e in particolar modo quelli della Spagna e dell'Africa settentrionale. L'intaglio in legno fu usato nella decorazione di soffitti, porte e pulpiti, e in alcune regioni anche di pareti; erano frequentissimi gli scomparti a cassettoni, poi imitati anche nei portali in bronzo. Fu adoperata nel legno anche la policromia, ma ben pochi esemplari notevoli ne sono conservati. In alcune regioni si ottennero begli effetti di luce inserendo pezzi di vetro colorato nei cancelli di stucco delle finestre; ancor più ricchi i motivi dei cancelli in legno, bronzo e ferro destinati a chiudere logge, finestre e fontane (mashrabiyyah).

La scrittura occupò il primo posto tra i motivi decorativi. Prima cura nel progettare la decorazione di un edificio era di affidarne l'ornamentazione grafica ad un calligrafo di vaglia; il testo era fornito da citazioni tratte dal Corano, da motti pii, da lodi del sovrano, da benedizioni invocate sul fondatore; negli edifici profani si utilizzarono anche versi arabi o persiani. L'arte islamica deve la sua unità e la sua autonomia, in prima linea, alla scrittura araba, imposta a tutte le lingue parlate nel mondo islamico, e all'importanza assunta dall'epigrafia come elemento decorativo. Molte furono le calligrafie formatesi e diffuse nel corso dei secoli; in un primo tempo si usò solo l'angolosa e rigida scrittura cufica, poi illeggiadrita (cufico fiorito) sino a giungere, dopo il sec. XIII, a un'esuberanza decorativa ricca e varia. Si sviluppò nel sec. XII, accanto alla scrittura cufica, il rotondo naskhī, di aspetto a volte solenne a volte minuto; si diffuse ultimo in Persia, nell'India e nella Turchia il corsivo talīq, pure d'importanza epigrafica. Vicino all'ornamentazione calligrafica ebbe importanza speciale la decorazione geometrica, dal semplice disegno di mattoni alternati ai più complicati motivi a nastro e ad intreccio. Una ricchezza di forme, ignorata altrove, fu raggiunta dalla decorazione floreale, usata talvolta a formare il fondo su cui si svolgono i fregi calligrafici, talaltra come elemento stilistico indipendente. Fiori e foglie stilizzate, sapientemente disposte, ed eleganti viticci riempiono gli spazî; palmette e rosette si moltiplicano in numerose variazioni. L'arabesco, derivato dal viticcio, ossessiona l'artista, che si sforza di adoperare esclusivamente lo stesso motivo variandolo di continuo, ma in modo da non generare mai noia o stanchezza. Un ugual posto occupò nella decorazione persiana, indiana e turca, dal sec. XIII, il motivo tshi (nuvole a nastri) originario, come altri, dall'Estremo Oriente. Nessun significato simbolico fu mai conferito a queste rappresentazioni, e neppure ne ebbero i motivi animali, immaginarî o realistici, assai più scarsi e, in certe regioni e durante alcuni periodi, del tutto evitati. Gli animali furono prevalentemente rappresentati in lotta, o inseguentisi o araldicamente affrontati, spesso acutamente colti nelle loro mosse dalla natura, ma sempre stilizzati in senso decorativo. Allo stesso modo fu trattata la figura umana quando ne fu tollerata la raffigurazione in opere d'arte profane. Oltre alla personificazione dei pianeti, trattata piuttosto schematicamente, troviamo piccole scene di genere, che senza ricerca di fedeltà storica riproducono la vita aulica (principi in trono, cacce, lotte e gioco del polo, beoni, musicanti ed acrobati); nelle regioni iraniche si aggiunsero a questo repertorio episodî eroici tratti dall'epica nazionale persiana. Le composizioni, sempre molto sommarie, si svolgono generalmente entro uno sfondo animato da ornamenti e sono, per mezzo di medaglioni, cartocci, ecc., accuratamente inserite nella decorazione generale, sicché, nel maggior numero dei casi, non vi hanno neppure una parte predominante. Le relazioni tra l'islamismo e l'arte si rivelano bene in tali soggetti: ogni cosa terrena e di natura è effimera, e così salda è la convinzione dell'assoluto arbitrio divino improntante la creazione, che l'artista non pensa di poter fare opera in sé armonica e conchiusa; egli invece si abbandona alle immaginazioni della sua fantasia, cercando di svolgerle ritmicamente. Esse sono tanto più conformi al loro scopo estetico quanto più lontane dalla natura; e ne consegue la tendenza all'astrazione, a stilizzare araldicamente, a ripetere all'infinito motivi di decorazione. Escludendo ogni elemento realistico dalla rappresentazione della figura, l'artista poté anche eludere il divieto di rappresentare immagini, perché era evitato il pericolo dell'idolatria e la tentazione di venire in gara col Creatore. Nei luoghi ove il divieto della rappresentazione di immagini fu strettamente applicato, la fantasia dell'artista fu continuamente spronata a creare nuovi motivi calligrafici, geometrici e vegetali, per sfuggire all'inaridimento che minacciava il patrimonio formale.

28. Arredamento. - I principî stilistici che valgono per la decorazione degli edifici si ritrovano in quella delle suppellettili private e religiose. Per i recipienti di ceramica, di metallo o di vetro, si predilesse una decorazione a zone orizzontali a motivi ripetuti, senza predominio dell'uno o dell'altro. Negli oggetti con rappresentazioni plastiche (acquamanili, bruciaprofumi, ecc., in forma di animali) si aveva cura di accentuare il carattere utilitario, perché non si scambiassero per figure. Le esigenze inerenti al materiale usato furono sempre tenute in gran conto, tanto nel trattare il disegno quanto nel calcolare i contrasti coloristici degli ornati, sicché uno stesso motivo trovò nello stesso periodo una diversa applicazione, secondo che fosse usato in una miniatura, in un tappeto o in una stoffa di seta, in una maiolica o in un intarsio. A capo delle varie industrie troviamo quella libraria, che nel secolo IX, con l'introduzione della carta, prese uno sviluppo gigantesco. Compito più ambito dell'arte libraria fu curare le trascrizioni del Corano, che doveva essere diffuso in tutti i paesi musulmani nella lingua originale; seguivano poi altri testi arabi e finalmente le opere dei poeti persiani, ricercate da tutte le biblioteche d'Oriente. L'esecuzione calligrafica rappresentava un argomento decisivo nell'apprezzamento della bellezza d' un manoscritto e quale valore assumesse questo genere d'arte nell'Islam viene attestato dal fatto che conosciamo, senza alcuna lacuna, la serie dei nomi dei maestri che si distinsero nell'uno o nell'altro tipo di scrittura, sicché almeno in questo campo possiamo ricollegare l'evoluzione storica a personalità determinate. Il miniatore decorava con oro e arabeschi colorati l'intestazione, le testate e i margini. Nel sec. XII la miniatura, che fiorì soprattutto in Mesopotamia e in Persia, attese anche a decorare manoscritti di contenuto profano; e arricchitasi, dopo l'invasione mongola, di copiosi influssi provenienti dalla Cina, occupò nei secoli XV-XVII un posto predominante nell'arte islamica della Persia e dell'India. Si predilessero composizioni di vario genere e paesaggi, senza che perciò venissero meno l'accordo tra immagine e calligrafia e il carattere dell'illustrazione svolta in superficie. Con il sec. XV si raccolsero nelle biblioteche d'Oriente, oltre a preziosi manoscritti, anche saggi di celebri calligrafi e fogli sciolti di noti pittori riuniti in albi. I legatori di libri curarono le più varie tecniche di lavorazione del cuoio: impressione, doratura, filigrana. All'artigianato librario furono inoltre richiesti progetti destinati non solo alla decorazione architettonica, ma anche all'industria dei tappeti, dopo che questa arte popolare, praticata da nomadi di stirpe turca, divenne un mestiere esercitato da corporazioni. Nell'epoca della sua fioritura, cioè tra i secoli XV e XVII, l'arte del tappeto produsse innumerevoli motivi divenuti classici, miranti a una chiara disposizione del disegno, a un'accurata gradazione delle tinte e specialmente a un felice accordo tra il centro e la riquadratura. La Persia, il Caucaso e l'Anatolia furono a capo della produzione che in queste regioni e nel Turkestan si mantiene ancor oggi notevole come industria popolare, sebbene artisticamente decaduta; invece, nell'Egitto, nella Spagna e nell'India la fabbricazione del tappeto ebbe solo un'importanza transitoria. Mentre il tappeto richiedeva dei motivi limitati dalle sue stesse dimensioni in un insieme conchiuso, motivi destinati alle stoffe dovevano potersi ripetere all'infinito. Il tessuto di seta islamico seppe rispondere in modo esemplare a questa condizione, sicché l'Occidente europeo non ne imitò solo la tecnica dei damaschi dei broccati e dei velluti, ma anche il repertorio ornamentale. L'uso introdottosi sin dal sec. VIII di farsi conferire dal principe una veste onorifica (khilah) favorì l'industria degli abiti di lusso e quindi dell'arte tessile. Durante il Medioevo manifatture statali e auliche (ṭirāz) esercitarono un'influenza decisiva in quel campo e anche in epoche più vicine i principi provvedevano alla propria corte coi prodotti preziosi delle loro manifatture. Sino al 1200, oltre a tessuti di seta, si ebbero tessuti operati in seta su trama di lino. Anche il ricamo non fu semplice industria casalinga, ma, curato da un proprio artigianato, raggiunse vero valore d'arte.

Tra le più fiorenti industrie artistiche islamiche fu la ceramica, di cui rimane un ragguardevole numero di esemplari. Per perfezione di forme e splendore d'invetriatura, essa può sostenere il confronto con la più bella ceramica dell'Estremo Oriente. I vasai islamici si distinsero particolarmente nella maiolica, rivelandosi esperti in ogni sua tecnica: rilievo, graffito, policromia e invetriatura; furono gl'inventori della pittura a riflessi, che consentiva una decorazione di luminosità aurea, creando un vasellame di lusso che poteva in un certo grado sostituire il vasellame d'oro, d'uso proibito. Sono particolarmente interessanti, e talvolta anche abbastanza riusciti, alcuni tentativi di sostituire con una mezza maiolica d'impasto duro e semitrasparente la porcellana cinese. Anche la ceramica senza vetrina diede prodotti di alto valore artistico. I lavori in metallo imitarono da principio tipi precedenti, particolarmente sassanidi; ben presto però fusione, rilievi e incisione in metallo ebbero uno sviluppo del tutto indipendente, raggiungendo la perfezione nella tecnica dell'incrostazione di sottili lamine di argento e oro in oggetti di bronzo, tecnica di origine persiana, culminante nel sec. XIII con la scuola di Mossul donde si diffuse per ogni dove sino a Venezia (secoli XV-XVI). Soltanto un po' più tardi la tarsia fu applicata alle armi, affermandosi in quel ramo accanto ad altri procedimenti decorativi. Non sono ancora abbastanza conosciuti i numerosi motivi che l'Islām ideò ed applicò nella fabbricazione di spade, pugnali, elmi, scudi e altri pezzi d'armatura. Celebri furono le lame damascate arabe finemente lavorate, tanto ambite nei paesi occidentali, ottenute con la fusione di diversi tipi d'acciaio. L'industria vetraria derivò dall'antichità i procedimenti per l'intaglio, la molatura, l'impressione del vetro, ma vi portò un indirizzo proprio, mentre fu particolare all'arte islamica la smaltatura e doratura di lampade da moscheai di coppe, di bottiglie. Essa fiorì in Siria, tra il sec. XII e il XIV; i suoi prodotti, apprezzatissimi, ebbero un posto tanto nei tesori delle chiese d'Occidente quanto nelle collezioni dell'Estremo Oriente. Ristretta al solo Egitto e ai secoli X-XII fu la lavorazione del cristallo di rocca, di cui si fecero brocche, pezzi da scacchiera, e specialmente piccoli recipienti, anche destinati a reliquarî occidentali. L'avorio fu lavorato a formare cofanetti e pissidi nella Spagna, decorandoli con motivi figurati; poi, nei secoli XI e XII, fu usato per trarne corni da caccia o olifanti, in Italia da artisti saraceni che ebbero qualche influenza sulla scultura romanica. In Sicilia si usò anche dipingere lastre d'avorio di svariate forme, per cofanetti.

29. Periodi stilistici. - Gli studî più recenti sull'arte islamica consentono di classificare cronologicamente i monumenti e di fissare i caratteri delle singole tendenze stilistiche. Queste si formarono più sotto la pressione di avvenimenti politici e di correnti culturali che per l'azione di unità nazionali e linguistiche: esse diedero luogo a diversi stili, varî di durata e d'estensione, nel cui svolgimento si possono vedere fasi distinte.

Stile degli Omayadi (666-750, e in Spagna fino al 1050). - Iniziato con il trasferimento del califfato a Damasco e continuato sotto gli Omayyadi di Corglova, segna l'apparizione delle prime grandi moschee ottenute trasformando chiese cristiane (Damasco, Gerusalemme) o innalzando nuovi edifici con materiale antico (al-Fusṭāt, al-Qairawān, Cordova). Nella Transgiordania, a Mshattà, a Quṣair ‛Amrah, vengono innalzati palazzi e ville per i califfi. La decorazione floreale in pietra, liberatasi dalla tradizione ellenistica, assume nuove forme, che, ottenute con profondi incavi, coprono le superficie. Mosaici vitrei sono adoperati in Damasco, Gerusalemme e Cordova. L'intaglio in avorio e l'industria della seta fioriscono in Spagna.

Stile degli Abbāsidi (750-1000). - Esteso a tutta l'Asia Anteriore e all'Egitto, s'iniziò con il trasferimento a Baghdād del califfato e con la conseguente affermazione degli elementi persiani. L'uso del laterizio con decorazione in stucco a motivi continui diventa d'uso generale (edifici di Samarra, moschee in Persia, moschea di Ibn Ṭūlūn nel Cairo). L'epigrafia cufica è in pieno sviluppo. La Persia si dedica alla lavorazione dei metalli, all'industria della seta e alla ceramica, riattaccandosi a esempî sassanidi, mentre in Egitto s'istituiscono manifatture per la tessitura di stoffe di lino misto a seta.

Stile selgiuchide (circa 1050-1250). - Esteso a tutta l'Asia islamica ebbe le sue otigini sotto il regno di Maḥmūd di Ghaznah (circa 1000-1050) che abbracciava l'Afghānistān e gran parte dell'India; allora, accanto alla tradizione iranica, per la prima volta viene in evidenza l'elemento turco. Con il predominio turco ha principio la trasformazione delle tombe in edifici monumentali (torri sepolcrali in mattoni nel Khorāsān e nella Persia occidentale), l'introduzione della mèdresa istituita per la diffusione dell'ortodossia nella Persia sciita; e il prevalere nelle moschee del tipo līwān (moschea del venerdì in Iṣfahān). Nelle sedi dei principi selgiuchidi e dei loro Atābeg (Nīsābūr, Rayy, Mossul, Aleppo, Conia) una fervida attività artistica conferisce caratteristiche regionali al nuovo stile; motivi figurati vengono prediletti nella decorazione profana, nella epigrafia compare la scrittura naskhī. Varie tecniche artistiche giunsero in questo periodo a notevole fioritura: la tessitura della seta nel Khorāsān, l'incrostazione del bronzo a Herāt e a Mossul, la calligrafia, la miniatura, la tessitura del broccato in Baghdād, la ceramica invetriata e d'altri tipi ad ar-Rayy, il mosaico in ceramica e la scultura in legno a Conia, la smaltatura e la doratura del vetro ad Aleppo.

Stile fatimita (970-1170). - Fiorì in Egitto e in parte della Siria (v. fatimiti: Arte). Si può considerare una sua diramazione l'attività artistica svolta dagli arabi in Sicilia (costruzione della Zisa e della Cuba, pitture del soffitto della cappella Palatina, scrigni in avorio dipinto, tessuti in seta, manto imperiale a Vienna).

Stile ayyībida (1170-1250). - Limitato all'Egitto e alla Siria, ebbe breve durata; è importante più che altro per la reazione sunnita allo spirito sciita dominante nell'arte fatimita. Esso segna l'introduzione in Egitto e in Siria della mèdresa e di varie innovazioni nella struttura delle moschee. Abolito ogni motivo figurato, sviluppò la decorazione floreale, e particolarmente quella ad arabeschi. La minaccia delle crociate porta ad un conseguente perfezionamento dell'architettura militare. Si riattivano anche varî rami dell'arte applicata.

Stile mamelucco (1250-1520). - Succedette al precedente nelle stesse regioni, e ne maturò numerosi elementi. La preponderanza dell'elemento turco appare evidente nei molti mausolei e moschee sepolcrali e nella riforma introdotta nella struttura delle case d'abitazione. Cupole, svelti e pittoreschi minareti, facciate di case con logge in aggetto, dànno una nuova fisionomia al Cairo; l'arredamento degli edifici sacri è arricchito dalle donazioni degli emiri; la tecnica libraria raggiunge la piena maturità in lussuose edizioni del Corano; la richiesta sempre crescente di custodie per corani, di sgabelli (kursī) e di lampade dà maggior incremento alla lavorazione ad incrostazione del metallo; lampade di vetro splendidamente smaltato vengono commesse agli stabilimenti siriaci. Le fabbriche di broccati e di damaschi eseguiscono superbi tessuti, nei quali si riflettono influssi cinesi; la ceramica è rinnovata da un nuovo procedimento d'invetriatura; l'Egitto si afferma nell'arte dei tappeti; splendide armi stanno a ricordare le vittoriose lotte sostenute dai Mamelucchi contro cristiani e Mongoli.

Stile moresco (circa 1130-1500 in Spagna, più oltre nell'Africa settentrionale). - Fuse elementi arabi e berberi, affermandosi dopo la fine del califfato di Cordova. Se ne distinguono due periodi: la prima fase (stile almohadico, 1130-1250) è caratterizzata dalla freddezza della decorazione e dall'introduzione del mattone come materiale da costruzione (costruzioni di Mārrākesh, Giralda di Siviglia, Sinagoga Vecchia di Toledo); la seconda (stile dell'Alhambra, 1250-1500) segna la maturità artistica, di cui la reggia di Granata è la più magnifica manifestazione. L'architettura è completamente dominata dalla finissima e ricca decorazione a stucco, la quale con gli zoccoli in maiolica e le vòlte a stalattiti è soprattutto adoperata negl'interni. Il movimento, iniziato a Granata, andò diffondendosi nell'Africa settentrionale (Fez, Tlemcen, Tunisi) e, mescolata ad elementi d'origine occidentale, nella sua sottospecie di arte Mudejar fu entusiasticamente accolta anche dagli stati cristiani della Spagna (Alcazar in Siviglia, edifici di Toledo). Bandite severamente le rappresentazioni figurate, regna sovrano l'arabesco. Le maioliche invetriate di Malaga e di Valenza, le lame di Toledo e i broccati di Almeria, godettero allora di fama mondiale; fiorirono pure la calligrafia e la miniatura; dalla calligrafia propria all'Occidente islamico, si sviluppò lo stile maghrebino.

Stile persiano-mongolico (1250-1500). - Subentrò al selgiuchide, dopo la grande invasione mongola, portando nell'Asia islamica un completo rivolgimento formale. Dall'Estremo Oriente allora una ondata di motivi d'origine estremo-orientale, animali favolosi, emblemi e intrecci vegetali, penetrò dappertutto imponendo un nuovo indirizzo alla produzione artistica. Si possono distinguere due fasi anche in questo stile: la fase īlkhānica (1250-1370), con centro a Baghdād e a Tābrīz, e la Tīmurīda (1370-1500), che s'impose in Samarcanda e nel Khorāsān orientale. La cupola acquistò importanza decisiva nella costruzione di mausolei (Gūr-i Amīr, a Samarcanda) e di moschee (Tabrīz); le facciate, le cupole, i minareti e i līwān furono comunemente decorati con mosaici in ceramica, di straordinaria leggerezza e sicurezza di linee. In lussuosi esemplari del Corano calligrafi e miniatori crearono opere splendide; la miniatura iniziò uno dei suoi più fiorenti periodi illustrando le epopee persiane. Broccati d'oro, ispirati a esemplari cinesi, tappeti adorni di motivi tratti dall'Estremo Oriente, ceramiche dalle variopinte invetriature e dalle decorazioni mongole, nuove fogge di armi di difesa e di parata segnarono la piena floridezza delle corporazioni d'arte, generalmente rispettate e protette dai nuovi conquistatori.

Stile safawida (1500-1720). - S'iniziò per reazione al precedente, riportando al primo posto di fronte agli elementi esotici la tradizione iranica. A capo di quel movimento fu Tābrīz e poi Ispahān, ove Scià ‛Abbās I fissò definitivamente nel suo grande programma edilizio il nuovo stile architettonico persiano. Particolare importanza acquistò tra gli edifici sacri il santuario nazionale in Ardabīl. Il mosaico in ceramica fu a poco a poco sostituito da mattonelle dipinte, mentre nelle case private si usarono anche nell'arredamento degli ambienti pitture a lacca su legno. Nella pittura, sempre più ricercata, si affermarono personalità artistiche, iniziando nuove scuole (Behzād, Sultān Mohammed, Riẓā-i ‛Abbāsī), la cui attività non si limitò più all'illustrazione di manoscritti, ma si propose anzi di eseguire miniature sciolte. È l'epoca classica per l'industria dei tappeti, i cui varî motivi, progettati da provetti disegnatori delle manifatture auliche, vennero eseguiti ammirevolmente in lana e seta, a cui talvolta si aggiunsero fili d'oro o d'argento. L'arte tessile segnò l'apogeo della sua produzione con velluti e broccati a motivi ornamentali e figurati, nel cui disegno si rivela chiaramente lo stile pittorico dell'epoca, mentre nella ceramica penetra il gusto cinese della porcellana.

Stile moghul (1520-1800). - Si affermò nell'India in un'architettura originale, seppure in un primo tempo ispirata a tipi persiani; e Delhi, Agra e Lahore sono celebri per le moschee, i sepolcri e i palazzi caratterizzati da grande chiarezza nella disposizione della pianta e nella struttura. I portali d'accesso ebbero sviluppo monumentale; l'uso della pietra fu decisivo tanto nella struttura quanto nella decorazione. Tra le industrie d'arte, notevole quella dei tappeti con composizioni figurate e floreali. La miniatura con tendenze realistiche seguì piuttosto lo spirito europeo che l'islamico. Schiere di pittori nella corte imperiale furono incessantemente occupate ad eseguire ritratti, composizioni storiche, animali, paesaggi, scene di genere e motivi romantici.

Stile osmanlio (dal 1300 in poi). - Diffuso nell'impero turco, nella sua prima fase (fino circa il 1450) ebbe centro principale in Brussa, ove la struttura della moschea a varie cupole trovò soluzioni originali. Dopo la conquista di Costantinopoli, la chiesa di S. Sofia esercitò grande influenza sugli architetti turchi. Il geniale architetto Sinān, nel sec. XVI, seppe ideare con tanta grandiosità un nuovo tipo di moschea, da sostenere qualsiasi confronto con il grande prototipo (moschee di Shāhzādeh e Sulaimāniyyeh in Costantinopoli, Selīmiyyeh in Adrianopoli). Lo stile degli Osmanli dalla capitale s'irradiò dovunque si stendeva il dominio turco; lo si ritrova in Algeri, al Cairo, alla Mecca e a Sarajevo. Nella decorazione predominano le ceramiche, provenienti in copia dai grandi centri di produzione ceramica dell'Anatolia, ad Isnik e a Kutahiyvah, usate sia negli edifici sacri sia nei profani. La decorazione floreale fu arricchita dall'introduzione di numerosi motivi realistici (garofani, tulipani, giacinti, rose, viticci, ecc.) riprodotti nelle più svariate tecniche, sì che dànno un aspetto particolare a questo stile. Accanto all'industria delle piastrelle fiorì quella dei vasi di ceramica, dei broccati, dei velluti. L'inesauribile fantasia degli artigiani di Brussa e di Scutari arricchì d'innumerevoli motivi anche l'arte tessile europea. Tappeti annodati, prodotti in quantità gigantesca nei più diversi luoghi dell'Anatolia, vennero esportati in tutto il mondo. L'esercito turco fu dotato di nuove armi, imitate poi da quelle occidentali. La calligrafia, sviluppatasi da prototipi persiani, trovò vasto campo d'attività nella scrittura di decreti (firmani), emanati dalla cancelleria imperiale oltre che nella copia di manoscritti e nei modelli di epigrafi; godette di uguale considerazione l'arte dell'ornare e del rilegare i libri; la stessa miniatura, nonostante gli scrupoli religiosi, ebbe ulteriore sviluppo.

All'inizio del sec. XVIII la penetrazione di forme europee, sebbene adattata all'architettura e all'arte industriale locale, conferì un nuovo indirizzo allo stile degli Osmanli (rococò turco). E l'europeizzazione andò sempre crescendo dal secolo scorso fino a noi.

V. tave. CVII-CXIV.

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