ATTI, Isotta degli

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 4 (1962)

ATTI, Isotta degli

Augusto Campana

La celebre amante, poi moglie, di Sigismondo Pandolfo Malatesti, signore di Rimini, fu figliuola di Francesco di Atto degli Atti, agiato mercante di lane e cambiatore, e più tardi anche funzionario malatestiano (depositarius di Sigismondo), appartenente a un ramo della nobile famiglia di Sassoferrato che si era fissato a Rimini al principio del sec. XIV, e della sua seconda moglie Isotta di ser Antonio da Meldola, ufficiale della custodia del Comune di Rimini. Alla bambina, nata al più presto negli ultimi mesi del 1432, più probabilmente nel 1433, fu imposto il nome della madre, morta nel darla alla luce (Liber Isottaeus, I, 6, 17-18). Tra i primi ricordi della sua fanciullezza viene menzionata la partenza di Sigismondo per la guerra che l'esercito di Niccolò Piccinino conduceva neld'estate del 1443 nella Marca contro Francesco Sforza (Liber Isottaeus, III, 1, 79-82, 87); la bambina ("parvula") che allora era appena conosciuta al giovane principe ("vix bene me noras") fu ben presto notata da lui che dimorava nella casa già Roelli, divenuta poi il. palazzo malatestiano detto del Cimiero, dirimpetto alla casa avita degli Atti in contrada S. Tomaso. Il giovane signore, nato nel 1417, era allora al suo secondo matrimonio di Stato: dopo Ginevra di Niccolò d'Este, sposata nel 1434, morta nel 1440, aveva sposato nel 1441 Polissena di Francesco Sforza. Matrimoni infelici l'uno e l'altro, che non gli impedirono altre relazioni, a cui risale la numerosa e mal nota serie della sua prole illegittima. Ma la nuova fiamma che lo travolse nel 1446 era destinata ad avere ben altra durata e importanza per tutto il. rimanente della sua vita, e rilevanti riflessi anche sulla vita pubblica, sull'arte e sulla cultura della sua piccola corte e della città che era il centro della sua signoria: non solo per la bellezza e la grazia, ma certo anche per le doti di cul tura e intelligenza, di abilità e di carattere con le quali Isotta riuscì ad avvincerlo negli anni della passione, poi a stornare altri matrimoni politici, a divenire con le nozze signora di Rimini e infine sua erede (sebbene poco fortunata) nella signoria.

È del 1445 la prima attestazione dell'amore di Sigismondo per la fanciulla, allora sui dodici o tredici anni, perché non vi sono ragioni di negar fede a un manoscritto che attribuisce a quell'anno una canzone d'amore per I., composta in persona di Sigismondo dal suo cancelliere Carlo Valturi. Ma l'insistenza con la quale la data 1446 ritorna nelle medaglie e nella tomba di I., cioè su monumenti sicuramente posteriori di qualche anno, e che fu scelta da Sigismondo persino per l'epigrafe celebrativa della ricostruzione del Castello, è stata giustamente interpretata come una velata allusione alla conquista amorosa. Ce ne dà la conferma più esplicita la nascita del primo figlio Giovanni (cfr. Liber Isottaeus, II, 5-6), che morì in fasce il 22 maggio 1447 e fu sepolto con pompa solenne nella chiesa di S. Francesco (che, divenuta fin dall'inizio del secolo XIV la sede delle tombe dei Malatesti, di lì a qualche anno diverrà il Tempio Malatestiano), e sepolto, si noti, nell'arca stessa del signore di Rimini Carlo Malatesti, zio di Sigismondo. Nello stesso anno I. fu autorizzata da una bolla di Niccolò V a ricostruire e dotare con beni immobili del valore di 500 fiorini la cappella degli Angeli, fondata nella stessa chiesa alla fine del secolo precedente dal riminese fra, Leontino, vescovo di Fano, e la pratica aveva effetto nel 1448. Non sì può escludere l'ipotesi che questo "atto pio", come è stato chiamato, avesse l'intendimento di coprire o attenuare lo scandalo della relazione ormai pubblica, e tanto meno quella che nell'animo di lei sinceri sentimenti di pietà e forse anche di turbamento, accentuati dalla morte del bimbo, coesistessero con la, relazione adulterina.

Si tratta della cappella che, finita di murare nella primavera del 1449, ospiterà subito dopo il sontuoso sepolcro di I., alto nella parete di sinistra, nel quale ella fu celebrata con l'iscrizione "Isote Ariminensi forma et virtute Italie decori. M. CCCC. XLVI.", la stessa magniloquente dedica che appare in alcune medaglie modellate da Matteo Pasti. Si può bene credere che le spese per la dotazione e la costruzione della cappella e del sepolcro fossero sostenute dal principe: il suo intervento è reso evidente dagli elefanti che reggono il sarcofago (opera questa di Agostìno di Duccio) e dalle teste di elefante che coronano il grandioso lambrecchino, e più esplicito ancora dagli stemmi malatestiani. È difficile stabilire per quali precise ragioni l'epigrafe dell'arca (scoperta nel 1912 da Corrado Ricci) venne sostituita e nascosta più tardi, certo qualche anno dopo il 1450, da una lastra di bronzo che reca un'epigrafe di testo e data diversi, ripetuta due volte anche sul sarcofago, "D(ivae) Isottae Ariminensi b(ene) m(erenti) sacrum. M. CCCCL." È l'iscrizione che fu accusata di paganesimo dal pontefice Pio II con le famose parole: "concubinae suae tumulum erexit et artificio et lapide pulcherrimum, adiecto titulo gentili more in hunc modum: Divae Isottae sacrum" (Commentarii, Francofurti 1614, pp. 51-52; cfr. Opera inedita, ediz. G. Cugnoni, in Mem. d. Acc. d. Lincei, s. 3, VIII [1883], p. 509). Il nobilissimo sepolcro fu subito descritto dai poeti cortigiani. Si legge nel Liber Isottaeus, I, 6, 52: "et struxit cineri vana sepulcra meo"; III, 6, 89-90: "sepulcra... pario quae marmore facta Celsa" ... ; 8, 75-80: "Illa quidem templo Geniorum (la cappella degli Angeli) excelsa quiescit Altaque iam niveis stat dea marmoribus, Quam gemini insignes elephanti ad sidera tollunt Aeternisque nitet marmor imaginibus. Aede sacra (S. Frandesco) requiescit, ubi sunt pignora cari Corporis" (il bambino morto); e in Porcelio, De amore Iovis in Isottam, 2, 59-60: "super gemino felix elephante sepulchrum Quod mihi constituit Iuppiter ille meus".

Frattanto I. era divenuta la favorita ufficiale del principe, e neppure la famiglia di lei, comunque fosse giudicata dalla società contemporanea, ne disdegnava i favori: il 12 febbr. 1448 Sigismondo creava cavaliere Antonio degli Atti, fratello di I., con molta solennità, nella corte di Castel Sismondo (la rocca di Rimini, ricostruita ed ampliata da Sigismondo), con la presenza di cospicui personaggi e splendidi donativi al nuovo miles. In un'elegia del Liber Isottaeus (II, 3) I., rivolta al padre, giustifica il proprio comportamento con la irrefrenabile potenza d'amore, e quegli risponde (nella elegia II, 4, intitolata appunto dissuasio amoris) cercando (troppo tardi) di riportarla sulla retta via. Sembra difficile che i due curiosi componimenti rispecchino una situazione reale (come accade invece più volte nel Liber Isottaeus); tuttavia l'invenzione letteraria testimonia delle riserve morali dell'ambiente, e forse fu inserita allo scopo di giustificare indirettamente, in qualche modo, l'atteggiamento della famiglia di Isotta.

Comunque sia di ciò, dopo la scomparsa a breve distanza di Francesco degli Atti (m. 1448) e di Polissena moglie di Sigismondo, morta di peste il 1° giugno 1449 (è appena il caso di ricordare l'accusa che circolò una diecina di anni più tardi, che Sigismondo l'avesse fatta strozzare), la pubblicità, anzi la pubblica esaltazione dell' ' amore del signore per I. non ebbero più freno. Si pongono in questo periodo le manifestazioni artistiche e letterarie alle quali è principalmente dovuta la fama di I. e che ancor oggi, insieme col Tempio Malatestiano, danno impulso ai moderni studi eruditi intorno alla civiltà artistica e alla cultura della corte malatestíana: la tomba, le medaglie, i ritratti, le poesie in volgare e in latino, perfino il "torrione Isotteo" che Sigismondo volle dedicato alla donna amata nella sua ricostruzione di Senigallia (1455) e nella cui fondazione furono gettate medaglie con la sua effigie.

Più volte è stato fatto il nome di I. nelle polemiche, discussioni e interpretazioni che nel corso dei secoli si sono avute intorno al significato del Tempio Malatestiano. Charles Yriarte è giunto a scrivere nel 1882: "L'encens de ses thuriféraires a troublé le cerveau du condottiere vainqueur; il sent qu'il devient un dieu... Ce n'est pas Dieu qu'on adore ici, cest Isotta; c'est pour elle que brûlent l'encens et la myrrhe" (p. 198). E purtroppo questa e altre pagine del suo libro hanno fatto scuola, determinando un andazzo e una infatuazione che hanno dato luogo a prodotti caratteristici di un esasperato lirismo e incredibìle retorica (due soli esempi: A. Beltramelli, Un Tempio d'amore, Palermo s. d. ma 1912; A. Pica, La Chiesa di S. Francesco in Rimini, in Italia Sacra, I [1930], pp. 621-806, del resto verbosa compilazione dall'opera del Ricci). Sono, come è facile definirli, prodotti dell'estetismo dell'età dannunziana; e per non pochi rispetti dipende dallo Yriarte il D'Annunzio stesso, di cui si possono ricordare accenti simili, seppure di ben altro livello formale, nel Commiato della Francesca da Rimini (1902), e dei quale è noto che avrebbe voluto concludere con un Sigismondo la trilogia malatestiana iniziata con la Francesca e la Parisina. Assai più equilibrato fu il Ricci nel suo volume sul Tempio Malatestiano (1924), che è il più meritorio, denso e accurato lavoro di ricerca sul celebre monumento, non privo tuttavia di residui interpretativi ereditati dalla cultura dell'età romantica. Più recentemente si è manifestata una tendenza, sostanzialmente più giusta, a rifiutare tali interpretazioni (D. Garattoni, Il Tempio Malatestiano. Leggenda e realtà, Bologna 1951). La posizione del Ricci è accolta ancora da C. Brandi, Il Tempio Malatestiano, Torino 1956.

In realtà, nessun testo contemporaneo, neppure quelli degli umanisti della corte malatestiana, il Valturio e i "poeti isottei", che pure parlano del Tempio più volte, accredita in nessun modo l'interpretazione "erotica", e neppure in senso stretto quella "eroica". Si può ben credere (e le conferme soccorrono numerose nel monumento stesso) a una prevalente intenzione celebrativa, di sé e della sua casa, da parte di Sigismondo: già un acuto scrittore locale della fine del Cinquecento, Malatesta Porta, vedeva quale movente della costruzione di Sigismondo "anzi ambitione di futura memoria che zelo di religione" (v. Ricci, p. 557 n. 15). Si può anche credere che il movente di celebrare, con sé, anche la donna amata, abbia potuto, più o meno consapevolmente, influire, dopo la costruzione delle cappelle di S. Sigismondo e degli Angeli, nate certo come cappelle sepolcrali o gentilizie, nella decisione di dare loro una più grandiosa cornice con la riforma interna ed esterna di tutta la chiesa (ed è questo, e non pìù, che dicono, all'incirca nello stesso tempo, due testimoni contemporanei: Giovanni di M. Pedrino depintore, Cronica del suo tempo, ed. G. Borghezio-M. Vattasso, II, Roma 1934, p. 280: "E tutto de questo tenplo overo oratorio el suo fine è che gle vene una spoltura de lue e de madonna sua dea madonna Ixotta"; e i versi del rimatore malatestiano Tracalo da Rimini: "Non basta i nostri e i peregrini sassi Agli archi, a le colonne, a l'alte mura, Che per sacrar tuo nome al mondo fassi", v. Massèra, I poeti isottei, 1911, p. 30). Ma da questo al parlare di "esaltazione di Isotta imposta al Tempio" da Sigismondo (Ricci, p. 556), e tanto più al parlare di "Tempio d'amore" ecc., corre una certa distanza.

Ma quell'interpretazione isottea o amorosa dell'intero Tempio Malatestiano si appoggia sopra ogni altra considerazione, alla notissima sigla SI con le due lettere intrecciate, che appare centinaia di volte in ogni parte del monumento nelle più svariate forme decorative. A questa sigla una interpretazione divulgatissima ha dato il valore delle lettere iniziali dei nomi Sigismondo e Isotta con le conseguenze e almanaccamenti che si possono dedurre dal sinuoso intreccio o abbracciamento delle due lettere. È stato tuttavia dimostrato (Soranzo, 1909), che essa rappresenta invece, secondo un uso frequente a quel tempo, le due prime lettere del nome SI(gismundus); che Sigismondo ne ha fatto larghissimo uso anche in monumenti e oggetti che con Isotta non potevano avere alcuna relazione; che anche altri (il cronista Broglio) ne ha fatto uso a significare SI(gismondo), o SI(smondo), che è la forma più frequente in volgare. Si aggiunga che il nome di Isotta era comunemente scritto allora con la iniziale Y, specialmente in volgare; che non si conoscono esempi di sigle doppie intrecciate nel Rinascimento, ed è pertanto arbitrario proiettare in quel tempo concezioni e consuetudinì tanto a noi familiari quanto estranee all'uso di allora; che è anche arbitrario pensare, come fa il Ricci, a una significazione doppia, intenzionalmente equivoca, l'una ufficiale e palese (per il solo nome di Sigismondo), l'altra privata o segreta o allusiva (per i due nomi Sigismondo-Isotta). Se si toglie la sigla, la presenza di I. nel Tempio si riduce alla sola tomba di lei. Né il suo nome e la sua effigie ripetuti due volte in una campana dell'anno 1460 (da gran tempo distrutta) possono avere alcuna importanza nel senso indicato: si trattava probabilmente di medaglie incluse nella fusione della campana, e in quell'anno I. era moglie legittima di Sigismondo e con lui signora della città.

Con un regolare documento notarile del 1453 Sigismondo conferì alla sua favorita una ricchissima donazione di vesti, gioielli ed ornamenti, già a lei donati o da donare, fino al valore di 5000 ducati d'oro. È ipotesi ovvia che da concessione di lui, investito da Niccolò V della signoria di Montemarciano in territorio di Senigallia (14 nov. 1453), provenisse anche la fattoria che risulta posseduta da I. appunto a Montemarciano, della quale rimangono due libri di entrate e spese del 1454-56, "importanti perché ci rivelano in parte il sistema di vivere di Donna Isotta" (Zonghi, p. 161). A quel tempo, e forse da molti anni, ella si era trasferita in una casa degli eredi di ser Pietro da Sassoferrato in contrada S. Colomba dunque vicino al castello che era residenza di Sigismondo, dove trascorreva un'agiata esistenza con i suoi bambini nati dal signore, che spesso e a volte lungamente era tenuto lontano da Rimini dall'andamento delle sue condotte militari, ma certamente in continuo contatto attraverso i corrieri che frequentissimamente lo collegavano alle città del suo stato per le molteplici esigenze della signoria. Risulta che almeno una volta durante la campagna di Lombardia (cioè tra la fine del 1448 e la metà del 1450) ella lo seguì al campo. Ma dovette trattarsi di una eccezione, e per il resto il motivo della lontananza e della separazione, che riempe dei suoi lamenti continui i testi fittizi del Liber Isottaeus, corrispondeva certamente a una condizione reale, e affiora anche nella sola lettera di I. a Sigismondo che sia giunta fino a noi, del 20 dic. 1454 (lettere di Sigismondo a I. non se ne conoscono).

Quella lettera, originale ma non autografa (è scritta di mano di una parente, Dorotea, moglie del conte Galeotto Malatesti di Ghiaggiolo, ed è curiosamente commentata da un'altra della stessa Dorotea del giorno seguente), èinteressante anche per una vivace manifestazione di gelosia nei confronti di una delle tante passioni occasionali di Sigismondo: "veni a savere de uno zerto tradimento, che me aveva fatto la V. S., zoè dela filiuola del s. e G(aliazio)"(Aritea di Galeazzo Malatesti di Pesaro, della quale ragazza Sigismondo era tutore per testamento di Galeazzo). Ed è interessante altresì per la menzione d'un figlioletto, Malatesta, e degli altri che abitavano con la madre: "El nostro Malatesta sta bene e à rezevuto de una bonitisima volia el chavallo. Tuti i altri nostri filiuolli e filiuole stano bene". A evidente che quel bambino, a cui il padre aveva mandato in dono un cavallo (e rimane anche la letterina di ringraziamento scritta a nome del piccolo), era il suo prediletto, ciò che è anche confermato dalle minute cure per lui da parte di Sigismondo di cui si ha notizia (v. Massèra, Il sequestro di un corriere diplomatico, pp. 137,145) e indirettamente dalla dedica allo stesso bambino del lungo poema in volgare De honore mulierum di un cortigiano dei Malatesti, il ricamatore Benedetto da Cesena, composto nello stesso anno 1454. Malatesta era nato forse nel 1449 ed era stato legittimato da Niccolò V il 31 ag. 1450. Morì nel marzo 1458 e pertanto non si può confondere con un omonimo (Sallustio, o Sallustio Malatesta, o anche semplicemente Malatesta), che non fu figlio di Isotta. Se gli altri furono, come sembra, parecchi, morirono probabilmente in tenera età. Si sa di uno morto appena nato il 15 ag. 1463, e di una femmina, Alessandra, in quell'anno forse grandicella. Dei figli di I. forse sopravvisse solo Antonia, fidanzata a Galeotto Manfredi nel 1480, ma sposata (1481) a Rodolfo di Lodovico Gonzaga e decapitata per adulterio nel dicembre 1483.

È stata argomento di discussione, ed è tuttora opinabile, la data del matrimonio di Isotta. Il matrimonio ebbe certo forma privata e probabilmente anche segreta, giacché sembra certo che una volta Sigismondo lo smentisse. L'indicazione del cognome maritale de Malatestis o de' Malatesti si trova già in scritture dei 1453 e del'1454, che non possono essere considerate probanti. Ancora alla fine di quell'anno I. firma"Yxotta Ariminese", con la stessa formula cioè delle iscrizioni della tomba, delle medaglie, dei carmi degli umanisti e delle poesie volgari che la riguardano: "appellativo famoso, ma di concubina, non di moglie"' come è stato detto giustamente (Massèra, Amori e gelosie, p. 64). Restano ancora valide le conclusioni del Soranzo che orientano verso il 1456 (23 maggio 1455: "Isotta... de Actis"; 16 maggio 1457: "Isotta de Malatestis"). È significativo che in quest'ultimo documento I. risulti residente nella casa dei Malatesti in contrada S. Andrea. Più tardi, verosimilmente dopo la morte del fratello Antonio (1458), di cui fu erede, ella passò ad abitare nella vecchia casa patema, che Antonio aveva ricostruito e ampliato (Clementini, II, p. 458).

Il biografo settecentesco del signore di Rimini, Francesco Gaetano Battaglini, sembra disapprovare il matrimonio con I., con queste curiose parole: "Questi lasciatosi abbagliare dalla apparente prosperità, e troppo in quella fidando, in luogo di procurarsi con altre condegne nozze qualche valida amistà' erasi indotto a sposare, così ingannato dalla violenza dell'amor suo e dagli applausi de' cortigiani, la Isotta degli Atti" (p. 406, all'a. 1456). È evidentemente un giudizio politico-diplomatico: sul piano umano sembra al contrario che si possa render merito all'uomo di pochi scrupoli che Sigismondo fu sempre di aver sacrifìcato, almeno in questa occasione, la ragione di stato e forse il privato interesse, proprio quando le sue fortune stavano per declinare, alla madre di parecchi, dei suoi figli e alla donna che aveva contribuito con il suo fascino all'effimero e mondano splendore della sua corte negli anni belli del decennio 1446-56; e a I., d'altra parte, della tenacia e dell'abilità con cui forse riusci in questo intento.

Poco sappiamo della vita di I. negli anni seguenti, che furono quelli del declino ormai inarrestabile delle fortune di Sigismondo, frutto di, tanti suoi precedenti errori e delle circostanze che infine fecero prevalere il cerchio strettogli attomo dai suoi nemici, primo fra tutti l'odiato conte di Urbino, Federico di Montefeltro, fino a che l'esito infelice della guerra scatenata contro di lui, anche con armi sleali, da Pio II, ridusse la sua signoria alla sola città di Rimini con poche miglia di territorio. Ma di lì a poco, nel corso dell'ultimo tentativo di qualche rilievo che Sigismondo fece per rialzare le sue fortune politiche ed economiche, che fu l'infelice impresa della guerra di Morea, per la quale fu condotto quale capitano generale della Repubblica veneta contro i Turchi (giugno 1464-marzo 1466), il nome di I. entra, forse per la,prima volta, nel quadro della politica italiana, in una situazione complicata e compromessa e certo superiore alle sue forze. In quella occasione la piccola signoria rimase affidata ad I. e a Sallustio. Degli altri figli adulti, Valerio, il Protonotario, aveva seguito il padre nella spedizione, e Roberto, ormai in urto con lui, si moveva nell'ambito ostile a Rimini dello zio Malatesta Novello signore di Cesena e, del duca di Milano Francesco Sforza. La situazione di Rimini, tenuta dalle piccole forze proprie e da un presidio veneto, dipendente quasi esclusivamente da Venezia anche per gli approvvigionamenti e le necessità finanziarie, era estremamente precaria, stretta tra l'interessata e pericolosa protezione di Venezia, il pericolo di colpi di mano di Roberto, la sorveglianza, quasi alle porte della città, delle forze ecclesiastiche, vigilanti a rivendicare il pieno possesso che secondo i patti della pace del 1463 sarebbe dovuto tornare alla Chiesa alla morte di Sigismondo, e non aliene ad affrettarlo approfittando di eventuali circostanze favorevoli; mentre all'interno non mancavano gli intrighi di corte dei partigiani più o meno nascosti di Roberto e delle potenze interessate. Sallustio e I. riuscirono a superare un momento particolarmente difficile nel gennaio-febbraio 1465 quando si diffuse la notizia che Sigismondo, ammalato in Morea, vi fosse morto, e alcune settimane trascorsero tra confertne e smentite più o meno interessate., In quell'occasione Roberto fece un tentativo per entrare in Rimini ma fu respinto da Isotta. Alla fine di febbraio un personaggio cospicuo della corte malatestiana, da trent'anni servitore e autorevole consigliere di Sigismondo, lacopo Anastagi da Borgo San Sepolcro, per ordine di I. veniva arrestato, processato e torturato quale fautore di Roberto e traditore: è difficile oggi rendersi conto della sostanza dell'oscuro processo, per il quale alla fine di marzo si aspettava la sentenza di Sigismondo. Sembra certo che il 4 luglio Iacopo morì impiccato. Secondo una più tarda testimonianza, di cui non è possibile misurare l'attendibilità, ragioni private non erano estranee al processo sotto gli aspetti o pretesti politici: Iacopo avrebbe scritto a Sigismondo a proposito di una certa tresca che era stata apposta ad I., e per questo essa "fecit eurn suspendi, prout dicebatur, licet fingeret alia de causa". Nel marzo 1466 Sigismondo rientrava a Venezia: da tempo aveva chiesto licenza, nell'impossibilità ormai di portare a risultati utili la campagna di Morea e sempre più preoccupato della sorte della sua città e dal timore (testimoniato dal fedele cronista Broglio) che I. finisse col cedere la signoria a Venezia.

Ritornato malconcio dalla guerra di Morea, Sigismondo trascorse gli ultimi suoi anni a Rimini tra i vani progetti e tentativi di migliorare la sua posizione e gli ultimi soprassalti della sua ambizione ferita. È del 23 aprile 1466 il suo testamento che istituisce eredi universalì Isotta e Sallustio (s'intende dei suoi beni privati, ché della signoria, o vicariato della Chiesa, non poteva disporre, sebbene sembri certo che anche questa era la sua intenzione). In un codicillo del 16 ag. 1468, rogato, come il testamento, in casa di I. in S. Tommaso, provvede a certi beni che aveva acquistato a Ragusa a favore degli altri due figli Lucrezia e Pandolfo, sostituendo loro, in caso che l'una o l'altro morissero senza eredi maschi, I. e Sallustio o l'uno di essi, e ad essi, in mancanza di eredi, la fabbrica della chiesa di S. Francesco: è l'ultimo pensiero di Sigismondo per il Tempio Malatestiano.

Sigismondo morì il 14 giugno 1468 e quattro giorni dopo I., secondo la norma imposta alle vedove dagli statuti cittadini, fece eseguire l'inventario dei beni mobili di lui che si trovavano in Castello. Lei stessa assunse il governo della città con Sallustio, ma consapevole delle difficoltà tentò un accordo con Roberto. Questi, che in quel momento reggeva Pontecorvo per il papa, accorse a Roma, mostrò a Paolo II la lettera di I., lo persuase a mandarlo a Rimini per recuperare la città alla Chiesa, fingendo di accettare per sé la proposta fattagli dal papa di un'altra signoria. In realtà ingannò I. e il papa, l'anno seguente sconfisse clamorosamente l'esercito della Chiesa presso Rimini (30 ag. 1469), poco dopo si liberò di Sallustio facendolo uccidere in una imboscata e a poco a poco esautorò completamente la matrigna. Del breve periodo di governo comune, va sotto il nome di I., Roberto e Malatesta (Sallustio), e gode di una certa fama per la sua importanza nella storia economica, un bando per la libertà del commercio di importazione in Rimini a tutti i mercanti cittadini e forestieri, forse del 1468.

I. visse gli ultimi anni, prima e dopo la morte di Sigismondo, occupandosi con accortezza di affari patrimoniali, curando nobilmente gli interessi dei nipoti Atti, tra la cura della casa e opere di pietà e di beneficenza. Che i suoi costumi fossero irreprensibili, in un ambiente famigliare corrottissimo, risulta dalle deposizioni di testimoni contemporanei raccolte in un processo del 1513.

Il Clementini racconta, probabilmente da fonte contemporanea, che Roberto facesse uccidere anche Valerio per sospetto che egli e I. avessero avuto mano in certo intrigo per ridare la città alla Chiesa, e che seguisse di lì a poco anche la morte di I. "di febre lenta, aiutata da veleno" (II, p. 511); dell'attendibilità della sua fonte non siamo in grado di giudicare. Da altra parte sappiamo che I. morì il 9 luglio 1474 e fu sepolta "summa pompa" nella sua tomba in S. Francesco: l'estremo effimero onore forse copriva una realtà delittuosa e ad ogni modo conclude il tramonto oscuro e doloroso della donna ancor giovane, che vent'anni prima aveva conosciuto lo splendore di una straordinaria avventura. I suoi resti furono veduti, ancora composti, il 16 ag. 1756, in occasione delle ricognizioni degli avelli del Tempio Malatestiano, promosse e descritte dagli eruditi riminesi di un tempo in cui cominciava a manifestarsi una nuova curiosità di ricerche per la storia malatestiana e per quanto riguarda l'insigne monumento, che più di ogni altra cosa ha procurato al nome di I. la sua fama leggendaria.

La letteratura isottea del tempo, così quella latina degli umanisti come quella dei riinatori in volgare, oltre che fonte di infonnazione per la vita di I., è elemento integrante della sua vicenda ed espressione varia e vivace della società e della cultura di cui Isotta e Sigismondo furono protagonisti e promotori.

Il prodotto più caratteristico di quella letteratura è il Liber Isottaeus, un "romanzo poetico" come lo si èchiamato, un canzoniere amoroso come si può meglio definirlo a riscontro delle forme in uso nella letteratura in volgare. P, costituito da 30 elegie divise in tre libri, dieci per ogni libro; 13 elegie sono in forma di epistole scambiate tra i due amanti secondo il modello delle epistulae heroides di Ovidio, 14 scambiate tra il poeta e gli amanti, due tra I. e il padre, una diretta da Sigismondo ad Amoretn. Si deve aggiungere che in III, 7, Isotta preannunzia la propria morte, e le quattro elegie che seguono (tra Sigismondo e il poeta) costituiscono una continuazione "in morte di madonna", che non si può spiegare se non come un'invenzione di curiosa osservanza alla tradizione petrarchesca, che certo intese anche fornire una sorta di parallelo letterario al sepolcro di lei che contemporaneamente sorgeva in S. Francesco. Il poeta non viene mai nommato, né certo doveva esserlo in opera che, commessa ed entro certi limiti suggerita e diretta dal principe stesso, era in parte scritta in persona di lui e dell'amata. Ma in uno dei manoscritti affiora il nome di "Tobias Poeta Veronensis" in I, 3, forse in un altro in I, 1, mentre in un terzo manoscritto, importante perché è testimone unico di una seconda redazione, compare il nome di Basinio Parmense in tutte le elegie che figurano scritte dal poeta o a lui dirette. Di più, in epitafi composti dall'umanista riminese Roberto Orsi per Tobia e per Basinio, l'uno e l'altro sono detti cantori degli amori del principe. Sembrerebbe dunque ragionevole soluzione della questione lungamente discussa (nonostante il parere contrario degli studiosi più recenti che vollero rivendicare tutta l'opera a Basinio) la attribuzione delle prime elegie al veronese Tobia dal Borgo, presente a Rimini come storiografo ufficiale di corte dal 1446 almeno e morto ivi nel 1449, e della continuazione e maggiore parte della composizione a Basinio, che venuto a Rimini forse alla fine del 1449 vi morì nel 1457, e fu con Roberto Valturio uno dei corifei dell'umanesiino riminese.

Il Liber Isottaeus, composto a quanto si può credere negli anni 1449-51, ha grande interesse, se non per i suoi valori formali, che non vanno molto al di là di una pedissequa imitazione di fonti classiche (Ovidio e Virgilio soprattutto), per le questioni letterarie che vi sono connesse, per la conoscenza degli autori classici e per ì numerosi riferimenti a eventi, persone e monumenti contemporanei, di cui si èfatto sopra solo qualche cenno. Qui è da ricordare, per quel che possa valere per la cultura di I., un passo (I, 5, 9-12) in cui il poeta attesta di avere dissertato con i due amanti di questioni filosofiche ("iussu... vestro aenigmata rerum" ... ), ciò che può render ragione del carattere dottrinale delle elegie II, 1-2, che trattano addirittura dell'immortalità dell'anima.

Nell'inventario già citato del 1468 risultano tra le cose di Sigismondo in Castello "tri vilumi cioè tri Isotei" (Battaglini, p. 678): potrebbe anche trattarsi del canzoniere volgare di Sigismondo (v. sotto), ma se si trattasse del Liber Isottaeus ne risulterebbe che Sigismondo stesso curò la diffusione dell'opera facendone eseguire esemplari in serie (pressapoco come accadde per la tradizione manoscritta di altri testi fondamentali dell'umanesimo riminese, il poema Hesperis di Basinio e il De re militari del Valturio). Anche le notissime medaglie di I. che recano nel rovescio un libro chiuso con la scritta "Elegiae" non si possono non considerare come allusive al Liber Isottaeus.

Nessuno di tali esemplari ufficiali sembra pervenuto fino a noi, ma esistono diversi mnn critti del sec. XV che contengono un corpo umapistico malatestiano formato, più o meno, dal De amore Iovis in Isottam di Porcelio seguito da tre suoi carmi alla musa, a Sigismondo, a Isotta; segue il Liber Isottaeus; infine componimenti vari di Basinio, Aurelio Trebanio, Taddeo servita bolognese, Roberto Orsi, Guarino: tutti testi malatestiani ma non isottei (salvo per un accenno a Isotta in quello di Trebanio); in sostanza, è il materiale che (attinto a un manoscritto dello stesso genere) fu pubblicato da Cristoforo Preudhomme a Parigi nel 1539 nel raro volumetto Trium poetarum elegantissimorum, Porcelii, Basinii, et Trebani opuscula, salvo che il Liber Isottaeus vi èattribuito a Porcelio e diviso in quattro libri, certo per arbitrio dell'editore. Il pezzo più vistoso, non certo il più pregevole, della raccolta, oltre il Liber Isottaeus, è il De amore Iovis in Isottam, una raccolta di dodici elegie in cui il facile e mediocre verseggiatore napoletano, giunto a Rimini qualche anno dopo a tentare la fortuna della corte nialatestiana, dove ebbe una famosa polemica con Basinio, svolse sulle orme del Liber Isottaeus quella sua trovata dell'innamoramento di Giove per Isotta e del vario atteggiamento dei due amanti e degli dei dell'Olimpo di fronte al capriccio del padre degli dei (dichiarazione d'amore di Giove, rifiuto di Isotta, insistenza di Giove, preghiera di Sigismondo e così via, continuando con epistole e persino discorsi dei celesti).

A questi testi più estesi si devono aggiungere, e spesso hanno importanza per la personalità degli autori e per i loro rapporti con Rinúni, componimenti di molti altri umanisti, come una elegia di Tito Vespasiano Strozzi a Isotta in persona di Sigismondo per la morte dei padre di lei (dunque un pezzo che è in rapporto strettissimo, per forma e materia col Liber Isottaeus), e altri componimenti, di Francesco Durante da Fano (allo Strozzi), di Tommaso Seneca, un altro girovago che fu anche a Rimini, di Roberto Orsi, Niccolò Perotti, Giovanni Antonio Campano e Mario Fileifo, solo in parte noti, i più poco noti o addirittura inediti. E non mancano altre manifestazioni di letteratura umanistica isottea neppure nella maggiore opera di Basinio, il poema Hesperis in 13 libri dedicati alle imprese di Sigismondo, dove Isotta appare due volte: nel trionfo fiorentino di Sigiíniondo, che vi è descritto (VI, 223-242) vestito di una clamide ricamata, d'oro con le rappresentazioni degli amori degli dei dalle mani stesse di I., quella stessa Isotta di cui si innamorò Giove (e qui una specie di riassunto del poema di Porcelio); poi nel grande episodio della discesa di Sigismondo ai Campi Elisi (libri VIII-IX), dove egli è guidato da Psycheia: infatti questa si identifica con Isotta, è colei che fu in terra chiamata Isotta (VIII, 34 "Isotheam superi dixerunt nomine Divam"). E si devono aggiungere anche testi in prosa, come l'orazione del noto umanista riminese Pietro Perleoni per le nozze di Antonio fratello di I. con Caterina di Montevecchio (ed. G. B. Mittarelli, Bibliotheca codicum manuscriptorum monasterii s. Michaelis Venetiarum, Venetiis 1779, coll. 849-851):l'orazione è rivolta a Sigismondo, del quale sono ricordati i favori conferiti ad Antonio e il mutuo amore con I., e non mancano le lodi del piccolo Malatesta.

Quanto alla poesia volgare, che aveva avuto alla corte di Rimini un rappresentante cospicuo nel rimatore Giusto de' Conti, consigliere di Sigismondo e molto onorato da lui, parecchi rimatori tributarono il loro omaggio alla "Diva" del luogo, anche se di qualità quasi sempre mediocre. Anzitutto, Sigismondo stesso: "uno canzonero de sonitti compose el Signore e aprovò el Signore a Madonna" è registrato nell'inventario del 1468 (Battaglini, p. 674), mentre un altro esemplare, cioè un libro "chiamato Isoteo, composto per il Signore Messer Sigismondo da Rimini in versi vulgari", ne esisteva nella biblioteca degli Estensi. Nessun manoscritto simile è giunto a noi, e delle rime che portano il suo nome in codici miscellanei, solo alcuni sonetti, non spregevoli, hanno resistito alla critica, e non senza dubbi residui: perché, se non si può mettere in dubbio che egli componesse rime volgari, in grazia soprattutto di una testimonianza ineccepibile del Valturio, è anche vero che, come abbiamo visto in latino, così più volte anche in volgare alcuni rimatori hanno poetato (per commissione o meno) in persona di lui. Oltre alle rime che è ancora possibile "accettare con ragionevole scetticismo" (Massèra, I poeti isottei, 1928, p. 15) come di Sigismondo, cioè quattordici sonetti del codice Riccardiano 1154 e altri due scambiati col rimatore urbinate Angelo Galli (tutti per Isotta, e anche qui alcuni dei sonetti sono "in morte" di Madonna), possediamo rime per Isotta dello stesso Galli, di Carlo Valturi (nipote di Roberto e cancelliere di Sigismondo), Iacopo Tracalo da Rimini (un lungo capitolo ternario, conservato completo in un solo manoscritto, Kremsmünster 90; che è, cosa rilevabile, uno dei codici del già ricordato corpo umanistico malatestiano); inoltre Francesco Palmari di Ancona (canzoniere inedito in un manoscritto di Oxford, Canon. Ital. 55), e una canzone e un sonetto di Galeazzo Marescotti, a cui si devono aggiungere miteressanti lettere in volgare della moglie Caterina Marescotti e del loro famigliare Bedoro dei Preti. Accenni a I. sono anche nel poema di Benedetto da Cesena dedicato al figlio Malatesta.

Iconografia. Il ritratto coevo più importante e l'unico (oltre le medaglie) assolutamente sicuro di I. (perché identificato dall'epigrafe "D. Isottae Ariminensi") è il rilievo a mezzo busto con leggera acconciatura sul capo e chiome scendenti a coprire le spalle e il petto, che si conservava a Venezia nel Museo di Bernardo Nani e diede occasione alla monografia del Mazzuchelli (1756). Purtroppo se ne è perduta notizia e lo conosciamo solo dall'incisione del Mazzucheffi, sufficiente tuttavia a riconoscervi lo stile di Agostino di Duccio. Altri busti che le sono stati attribuiti non danno nessun affidamento e si possono escludere dalla sua iconografia. Molto meno recisamente (a nostro avviso) si potrebbe escludere una tavoletta della National Gallery a Londra (n. 585) un tempo attribuita a Piero della Francesca. P, anche possibile che in uno dei medaglioni scalpellati dai pilastri della cappella di S. Sigismondo fosse rappresentata I., ma non si può in alcun modo dimostrare. Restano le medaglie (9 contando le varianti), tutte opera di Matteo Pasti, anche se in alcune varianti la sua firma non compare. Quasi tutte hanno la data MCCCCXLVI (due, curiosamente, 1447), alcune la scritta ben nota "Isote Ariminensi forma et virtute Italie decori", altre quella più semplice "D. Isottae Ariminensi". Sono interessanti per le diverse acconciature in cui vi appare il profilo di I. e per gli elementi araldici o allusivi che occupano i rovesci: l'elefante oppure la rosa malatestiana nelle grandi; un angelo che porta in volo una corona, un libro chiuso con la scritta "Elegiae" nelle piccole; un'altra delle grandi ha, dall'altra parte, il ritratto di Sigismondo. Che il libro faccia riferimento al Liber Isottaeus, non sembra che si possa dubitare. Dell'angelo con la corona non è stata data nessuna spiegazione.

Bibl.: Si citano in ordine cronologico gli scritti eruditi che trattano con una certa ampiezza di I. o, che forniscono apporti utili alla sua biografia o alla discussione di punti controversi. Si escludono i lavori di compilazione anche onestamente condotti ma privi di novità' e a maggior ragione l'abbondante fioritura a carattere dilettantesco o retorico (qualche esempio è stato dato più su per uno scopo particolare; altri in Ricci, cit. sotto, p. 557 n. 3;per qualche osservazione in proposito A. Campana, Isotta da Rimini, il Malatestiano e un libro recente, in La Romagna, XVI [1927],pp. 484-486; per questo e per altri aspetti, anche positivi, della storiografia malatestiana, Id., Vicende e problemi degli studi malatestiani, in Studi romagnoli, II [1951], pp. 4-14; sul libro dell'Yriane, anche Massèra, I poeti isottei, 1911,citato sotto, p. 5, e Ricci, passim). Anzitutto, alcuni materiali mss. conservati nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini: schede di G. Garampi, Malatesti, nn. 112-115; G. Urbani, Raccolta di scrittori e prelati riminesi, pp. 19-34, 654-657 (giudiziosa compilazione biografica dell'inizio del sec. XIX); D. Paulucci, memoria su I. "Recitata... la sera 24. Giugno 1827 nell'adunanza dell'Accademia Febea in Rimini"; A. F. Massèra, D. Isotta Ariminensis (in Carte Massèra): materiali per una biografia, disegnata in cinque capitoli (1920), costituiti da schede con alcune pagine iniziali della stesura, che saranno pubblicate, e da ricchi regesti documentari.

C. Clementini, Raccolto istorico della fondatione di Rimino e dell'origine e vite de' Malatesti, II, Rimino 1627, pp. 408-409, 469-471, 476-481, 508, 511; G. Mazzuchelli, Notizie intorno ad Isotta da Rimino, ed. seconda accresciuta dall'a., Brescia 1759 (la prima ed. in Raccolta Milanese dell'anno 1756, Milano 1756-57, fogli 39, 40, 41; si veda p. 5 n. 2 della sec. ed. per bibliografia precedente); F. G. B[attaglini], Memorie istoriche di Rimino e de' suoi signori, Bologna 1789, pp. 254-257, 259-261, 264, 269-273; Id., Della vita e de' fatti di Sigismondo Pandolfo Malatesta, in Basini Parmensis Poetae Opera praestantiora, Arimini 1794, II, 401-402, 429-430, 466, 540, 542, 565-569, 671-675 (anche per la famiglia); L. Passerini, in P. Litta, Famiglie celebri italiane; Malatesta di Rimini, Milano 1869, tavv. XIII e XIV; L. Tonini. Storia civile e sacra riminese, V ( = Rimini nella signoria de' Malatesti, II), Rimini 1882, pp. 186-186, 228, 252, 306, 309, 325-328, 341, 466, 470-473 e tav. I, App. p. 182, 249-252; Ch. Yriarte, Un condottiere au XVe siècle. Rimini. Etudes sur les lettres et les arts à la cour des Malatesta, Paris 1882, pp. 137-164, 198, 213-214, tav. a p. 368, 388-30, 445-446 (lettera del figlio Malatesta e altra che lo riguarda), 450-451 (uccisione di Sallustio); A. Zonghi, Repertorio dell'antico archivio comunale di Fano, Fano 1888, pp. 160-161 (registri di Montemarciano), 275; P. Villari, Rimini e i Malatesta, nei suoi Saggi storici e critici, Bologna 1890, pp. 276-293; M. Morici, Dei conti Atti signori di Sassoferrato, Castelplanio 1898 (scarsamente utile per il ramo riminese), pp. 5-7, 41, 84; C. Grigioni, Il grande amore di Sigismondo Malatesta, in Arte e storia, XXVII (1908), pp. 123-124; G. Soranzo, La sigla SI di Sigismondo Pandolfo Malatesta, in La Romagna, VI (1909), pp. 306-324; Id., Un'invettiva della curia romana contro Sigismondo Pandolfo Malatesta, in La Romagna, VIII (1911), pp. 158 n., 169-175 (pretesa uccisione di Polissena); Id., Pio II e la politica italiana nella lotta contro i Malatesti, Padova 1911, pp. 418, 435, 501, 502; Id., Due delitti attribuiti a Sigismondo Malatesta e una falsa cronichetta riminese, in Atti dell'Ist. Veneto, LXXIV, 2 (1914-15), pp. 1887-1888 (data del matrimonio); Cronaca di Anonimo Veronese 1446-1488, ed. G. Soranzo, Venezia 1915, pp. LXVI (beni di Montemarciano), 103, 229 n., 260; A. F. Massera, Amori e gelosie in una corte romagnola del Rinascimento (Per la biografia d'Isotta da Rimini), in La Romagna, XIII(1916), pp. 61-72 (per i figli d'I. pp. 67-68); G. Soranzo, Sigismondo Pandolfo Malatesta in Morea e le vicende del suo dominio, in Atti e mem. Dep. Romagna, IV s., VIII (1918), pp. 234-239, 242-250, 276-277 (e si vedano le importanti integrazioni di una recensione del Massèra, in Nuovo Archivio Veneto, n. s., XXXVII [1919], pp. 230-233); A. F. Massèra, Un romagnolo imitatore del poema dantesco nel Quattrocento (Benedetto da Cesena), in Documenti e studi Dep. Romagna, IV (1922) = Studi danteschi a cura della Dep. Romagna, Bologna 1921, pp. 165-176 (pp. 166-168 per la dedica al piccolo Malatesta e per i figli d'Isotta); Cronache malatestiane dei secoli XIV e XV, a cura di A. F. Massèra, in Rerum ital. script., 2 ed., XV, 2, p. 119 e n. 5; C. Ricci, Il Tempio Malatestiano, Milano-Roma s. d., ma 1924, pp- 12, 16, 23-31, 156 n. 39 (e v. fig. 199 per la cosiddetta Casa d'I., ora distrutta), 214 (cappella), 225 e 230 (campana), 315-319 (sigla), 433-438 e 442-449 (sepolcro), 428 e 452 n. 16 (data della morte), 553, 556, 585 doc. III, 593 doc. XXI e 616 (indice); G. Soranzo, Un atto pio della diva Isotta, in Atti e mem. Dep. Romagna,s. IV, XV (1925), pp. 277-291; L. Mancini, Sigismondo Malatesta e la ricostruzione di Sinigaglia (1450-1459), in Boll. Soc. Amici dell'arte e della cultura in Sinigaglia, II-IV(1924-26), p. 19 (torrione Isotteo o di S. Giovanni); A. F. Massèra, Il sequestro di un corriere diplomatico malatestiano nel 1454, in La Romagna, XVII (1928), pp. 137 e 145 (il figlio Malatesta), 144-145 (notizie di I.); A. Campana, Per la storia delle cappelle trecentesche d. chiesa malat. di S. Francesco,in Studi romagnoli, II (1951), pp. 26-28.

Per la cultura a Rimini nell'età di Sigismondo Pandolfo Malatesti sono fondamentali: Trium Poetarum elegantissimorum, Porcelij' Basinij ct Trebani opuscula, nunc primum diligentia...Christophori Preudhomme... aedita, Parisiis 1539, raccolta contenente anche testi di Taddeo da Bologna, Roberto Flaminio (Orsi) e Guarino Veronese; Basini Parmensis poetae Opera prestantiora, ed. [L. Drudil, Arimini 1794, I (i poemi maggiori di Basinio); e in II, 1, a pp. 1-42; I. Affò, Notizie intorno la vita e le opere di Basinio Basini (per il Liber Isottaeus, pp. 12-13, 26-30). a pp. 43-255; A. Battaglini, Della corte letter. di Sigismondo Pandolfò Malatesta (per i poeti isottei,, eccetto Basinio di cui aveva trattato l'Affò, i capp. XVIII-XX della prima parte, pp. 103-116 e note, pp. 153-159); A. F. Massèra, I poeti isottei, in Giorn. stor. d. lett. ital., LVII (1911), pp. 1-32 (questa prima parte comprende una premessa e I, "Le rime di Sigismondo Pandolfo"; II, "Carlo Valturi da Rimini"; III, "Tracalo da Rimini"), e XCII (1928), pp. 1-55 (comprende un'"appendice" a I-III; IV, "Tobia Borgo"; V, "Basinio Parmense"; questi due ultimi capitoli sono solo biografici e l'opera dei M. fu troncata dalla morte proprio sul punto in cui egli stava per affrontare la questione di maggiore rilievo e difficoltà delle sue ricerche, quella della paternità del L. Isottaeus; rimangono nelle Carte Massèra della Biblioteca Gambalunghiana, già ricordate, uno schema delle parti mancanti e molti materiali preziosi, di cui darò notizia altrove); A. Piromalli, La poesia isottea nel Quattrocento, in Letterature moderne, VI (1959), pp. 519-33. In particolare per Basinio e il L. Isottaeus, oltre le pubbl. già indicate: V. Lonati, Un romanzo poetico del Rinascimento, Brescia 1899; G. Albini, Il Liber Isottaeus e il suo autore, in Mem. dell'Acc. d. Scienze dell'Ist. di Bologna, CI. di sc. mor., s. I, 1 (1906-07), Sez. di sc. storico-filol., pp. 139-160; F. Ferri, L'autore del Liber Isottaeus, Rimini 1912; Id., La giovinezza di un poeta. Basinii Parmensis carmina, Rimini 1914 (per il L. Isottaeus, pp. XLV-XLVI, XLVIII-LD; Id., Il testo definitivo del  "iber Isottaeus", in Giorn. stor. d. lett. ital., LXX (1917), pp. 233-253; V. Zabughin, Vergilio nel Rinascimento italiano, I, Bologna 1921, pp. 287-293 e 312-325 (note) per la Hesperis, Isotta e Psycheia-Isotta nel poema; Basinii Parmensis poetae Liber Isottaeus, ed. F. Ferri, Città di Castello 1922: su questa edizione v. G. Albini, Il Liber Isottaeus in una recente edizione, in L'Archiginnasio, XVII (1922), pp. 172-192 e la risposta del Ferri, Un accademico delle scienze di Bologna e il Poeta Basinio Parmense, Città di Castello 1924; Le poesie liriche di Basinio (Isottaeus, Cyris, Carmina varia), ed. F. Ferri, Torino 1925 (vol. I dei Testi latini umanistici diretti da R. Sabbadini); ulteriore bibliografia in questa ultima edizione, pp. 140-142, e nell'opuscolo polemico del 1924. Per Porcelio a Rimini e il De amore Iovis in I.: U. Frittelli, Giannantonio de, Pandoni detto il "Porcellio", Firenze 1900, pp. 48-56, 101, 111-123 (di scarso valore). Per Benedetto da Cesena: A. F. Massèra, Un romagnolo imitatore del Poema dantesco, cit.

Per le arti a Rimini nello stesso periodo, è miniera inesauribile di informazione e Punto di partenza di qualsiasi indagine il Ricci, Il Tempio Malatestiano, cit. Per l'iconografia di I., Ricci, pp. 26-26, 38-39, 43-45 (figure), 55, 57 n. 11, 105, 369-371 e figg. (i medaglioni scalpellati), 423-427 (preteso riconoscimento di I. nella statua di S. Michele Arcangelo), 539, 549; in particolare per le medaglie: A. Calabi-G. Cornaggia, Matteo dei Pasti, Milano s. a. (si vedano, secondo la classificazione degli autori, testo e tavole dei nn. Pasti 6, 8, Anonimi 3, 10, 11, Medaglioni 2 [quelli del Tempio], Falsificazioni 4, 10-13); G. F. Hill, A corpus of italian medals of the Renaissance before Cellini, London 1930, Text, n. 33 nota, p. 13 b n. 13, pp. 37-38 (notizia sul Pasti con la bibl. precedente), nn. 167-171, 173, 187-189; Plates, pl. 32, 33, 35.

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