Israele

Dizionario di Storia (2010)

Israele

Anna Foa

Stato del Vicino Oriente, confinante con Egitto, Giordania, Siria e Libano.

Origine e nascita dello Stato di Israele

Verso la fine dell’Ottocento, la diffusione del sionismo alimentò varie ondate migratorie ebraiche dall’Europa in Palestina (➔ ebrei). Dopo la fine del primo conflitto mondiale e lo smembramento dell’impero ottomano, quando la regione fu affidata in mandato alla Gran Bretagna, lo statuto del mandato recepì gli impegni da questa assunti con la dichiarazione Balfour (➔ Balfour, Arthur James) del 1917 in favore della creazione di un «focolare nazionale ebraico» in Palestina. La crescita della presenza ebraica, intensificatasi negli anni Trenta con gli arrivi provenienti soprattutto dall’Europa centrale e orientale, acuì l’opposizione araba Gli ebrei nella diaspora antibritannica e antiebraica, che sfociò nel 1936 in una rivolta, protrattasi fino al 1939. Con il Libro bianco del 1939 la Gran Bretagna formulò un progetto che prevedeva la nascita entro 10 anni di un unico Stato indipendente, che garantisse gli interessi essenziali di entrambe le comunità; limitava inoltre l’immigrazione e gli acquisti di terre da parte ebraica. Durante la Seconda guerra mondiale la situazione restò di fatto congelata. Dopo il 1945 la crisi riesplose con violenza, connessa anche all’immigrazione clandestina dei superstiti della Shoah e alle azioni dei movimenti paramilitari ebraici. La Gran Bretagna rimise la questione alle Nazioni unite: nel 1947 l’Assemblea generale approvò un piano di spartizione della Palestina fra uno Stato ebraico, uno arabo e una zona, comprendente Gerusalemme, da sottoporre ad amministrazione fiduciaria dell’ONU. Immediatamente respinta dagli arabi, la risoluzione 181 stabilì anche la cessazione del mandato britannico entro il 1° ag. 1948. Mentre già dal novembre precedente infuriavano i combattimenti tra le due comunità, il 15 maggio 1948 fu proclamato lo Stato d’I.: il giorno successivo gli eserciti di Egitto, Siria, Transgiordania, Iraq e Libano invasero il territorio del nuovo Stato, nella prima di una serie di guerre che coinvolsero I. e i Paesi arabi confinanti tra il 1948 e il 1973, (➔ arabo-israeliane, guerre). Il conflitto portò alla conquista da parte di Israele – cui era stato assegnato il 56% del territorio del mandato – di una grande fetta di quello spettante ai palestinesi (compreso il settore occidentale di Gerusalemme); la Striscia di Gaza fu occupata dall’Egitto, mentre la Cisgiordania (compreso il settore orientale di Gerusalemme) fu annessa dalla Giordania e il previsto Stato palestinese non vide la luce. Gli oltre 850.000 arabi già residenti nell’area acquisita da Israele furono nella grande maggioranza costretti alla fuga dalle operazioni belliche (circa 750.000 profughi affluirono in Cisgiordania, a Gaza e nei Paesi arabi vicini).

I laburisti al governo: 1948-77

Dopo la creazione (maggio 1948) di un governo provvisorio, presieduto dal leader laburista D. Ben Gurion, nel 1949 fu eletta la prima knesset («parlamento») e C. Weizmann divenne presidente della Repubblica. La supremazia laburista, confermata dalle prime elezioni parlamentari del 1949, si tradusse nella sua permanenza fino agli anni Settanta alla testa di tutte le coalizioni di governo. Nella carica di primo ministro si succedettero D. Ben Gurion (1948-53; 1955-63), M. Sharett (1953-55), L. Eshkol (1963-69), G. Meir (1969-74) e I. Rabin (1974-77). Nello schieramento di destra, dall’alleanza dell’Herut (Libertà), fondato da M. Begin nel 1948, con l’adesione dei liberali, nacque nel 1965 il Gahal (acronimo di Gush Herut-Libralim), che fondendosi con altri partiti nel 1973 avrebbe dato vita al Likud (Unione), con un allargamento dell’area d’influenza della destra nazionalista. Nessuno Stato arabo riconobbe I. e la conflittualità con i vicini indusse lo Stato a perseguire una permanente superiorità militare su di essi; lo sforzo necessario per assicurare tale obiettivo, accanto all’assorbimento degli immigrati e allo sviluppo del Paese, fu sostenuto grazie agli ingenti aiuti provenienti dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti, cui si aggiunsero, dal 1952, le riparazioni per i crimini nazisti pagate fino al 1966 dalla Repubblica federale di Germania. La Legge del ritorno, che conferiva la cittadinanza israeliana a tutti gli ebrei immigrati, e quella sulla proprietà degli assenti, che consentiva l’esproprio dei beni dei profughi palestinesi, gettarono le basi per l’edificazione di uno Stato a netta maggioranza ebraica. Il diritto dei profughi arabi al ritorno, riconosciuto dall’ONU (1948), restò quasi del tutto inapplicato. Fino ai primi anni Settanta il flusso migratorio dall’estero si mantenne consistente per il contributo rilevante dell’immigrazione ebraica dai Paesi arabi. L’apporto della componente sefardita modificò sensibilmente la composizione della popolazione ebraica israeliana, prevalentemente ashkenazita. Solo nei primi anni Novanta l’immigrazione dall’area ex sovietica (oltre mezzo milione di persone nel 1990-93) avrebbe accresciuto nuovamente l’incidenza degli ebrei ashkenaziti sul totale della popolazione israeliana. L’integrazione della minoranza palestinese, in rapida crescita in virtù dei suoi elevati tassi di natalità, fu difficile e le condizioni degli arabi israeliani restarono nettamente inferiori a quelle della maggioranza ebraica. La permanente tensione nei rapporti con i Paesi arabi confinanti (formalmente regolati dagli armistizi conclusi nel 1949) fu alimentata dallo sviluppo di una guerriglia palestinese i cui attacchi, a partire dalle zone di raccolta dei profughi, generarono a più riprese nuove esplosioni di conflitto armato. Nel 1956, I. si alleò con Gran Bretagna e Francia nell’attacco all’Egitto, che aveva nazionalizzato il Canale di Suez, con il conseguente divieto di transito ai mercantili israeliani e il blocco degli stretti di Tiran (accesso di I. al Mar Rosso). Il secondo conflitto arabo-israeliano si concluse con una schiacciante vittoria militare israeliana, ma sul piano politico I. ebbe la condanna dell’ONU e della comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti. Pertanto nel 1957 I. dovette restituire il Sinai all’Egitto, ottenendo in cambio l’apertura del Golfo di Aqaba. La guerra dei Sei giorni (giugno 1967) segnò una cesura nella storia del Paese. Il passaggio dell’intera Palestina sotto il controllo di I. inaugurò una fase caratterizzata da un’accresciuta centralità della questione palestinese, dall’estensione dell’amministrazione israeliana a un’ampia popolazione araba (quasi un milione di persone nel 1967) e dai riflessi di tale situazione all’interno dello Stato di Israele. La risoluzione 242 approvata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU (1967), che subordinava al conseguimento della pace la restituzione dei territori occupati e il reciproco riconoscimento della sovranità di tutti gli Stati della regione, cadde di fatto nel vuoto. I. procedette all’annessione del settore orientale di Gerusalemme (sancita nel 1980), mentre negli altri territori, sottoposti ad amministrazione militare, fu avviata un’intensa opera di colonizzazione. La situazione di stallo fra I. e i Paesi confinanti fu interrotta dall’attacco improvviso lanciato da Egitto e Siria il 6 ott. 1973 contro I. nel giorno della festività ebraica del Kippur. La guerra del Kippur, sebbene vinta, rappresentò un trauma per la società israeliana, infrangendo l’immagine di sicurezza acquisita nel 1967, e si riflesse nel quadro politico: i laburisti scesero per la prima volta sotto il 50% dei deputati nelle elezioni del 1973 a vantaggio della destra nazionalista; nel 1974 G. Meir si dimise. Su tali sviluppi influirono anche il peggioramento della situazione economica e la crescita della componente sefardita, meno legata di quella ashkenazita alla tradizione laburista.

Da Begin a Rabin: 1977-95

Nel 1977 la guida del governo passò al Likud guidato da M. Begin. Gli accordi di Camp David (1978) tra Begin e il presidente egiziano A. Sadat per avviare un piano di pace in cambio della restituzione del Sinai (completata nel 1982), dissociò l’Egitto dal fronte arabo antisraeliano. La pace separata con l’Egitto fu siglata a Washington l’anno successivo, ma l’annessione del Golan (1981), così come l’intransigenza di Tel Aviv verso la costituzione di uno Stato indipendente palestinese rivendicata dall’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina) confermarono la difficoltà di estendere il processo di pace agli altri interlocutori. Per eliminare le basi della guerriglia palestinese in Libano, nel 1982 le forze israeliane invasero il Paese, giungendo fino a Beirut. Seguì l’occupazione del Libano meridionale fino al 1985, quando le forze israeliane completarono il ritiro mantenendo solo il controllo di una «fascia di sicurezza» a ridosso del confine, ma l’intervento armato fallì nello scopo di annientare le organizzazioni palestinesi né riuscì il tentativo di insediare a Beirut un governo alleato. Una crescente incertezza politica portò, dopo le dimissioni di Begin (1983), alla formazione di governi di unità nazionale caratterizzati dall’alternanza tra S. Peres e Y. Shamir nella carica di primo ministro. Nel contempo, dalla fine del 1987 il Paese dovette affrontare uno stato di rivolta semipermanente nei territori palestinesi occupati (prima intifada), mentre i negoziati fra I., Libano, Siria, Giordania e palestinesi (non rappresentati ufficialmente dall’OLP per l’opposizione del governo di Shamir) alla Conferenza di Madrid (1991) si arenavano sulla questione di Gerusalemme e le divergenze circa il futuro della Cis;giordania e di Gaza. Nel 1992, dopo 15 anni, il ritorno dei laburisti alla guida del Paese con un governo guidato da I. Rabin favorì la ripresa del dialogo, con l’accantonamento però delle questioni di fondo (destino di Gerusalemme Est e dei profughi palestinesi, problema degli insediamenti israeliani, confini e sicurezza), rinviate alle trattative sullo status finale della Cisgiordania e di Gaza. Nel 1993, gli accordi di Oslo sancirono il riconoscimento reciproco tra I. e OLP e consentirono la firma di una dichiarazione congiunta per lo sviluppo del processo di pace tra i due popoli; nel 1994 fu sottoscritto al Cairo il primo accordo sull’avvio di un’autonomia palestinese nella Striscia di Gaza e a Gerico (costituzione dell’Autorità nazionale palestinese); nello stesso anno fu firmato il trattato di pace con la Giordania. Ma poi l’andamento insoddisfacente dei negoziati favorì la ripresa del malcontento nei territori occupati e la crescita di formazioni di ispirazione islamica, protagoniste di ripetute azioni terroristiche antisraeliane; al tempo stesso, il problema della sicurezza della popolazione palestinese fu messo in risalto dall’oltranzismo dei coloni israeliani. Il 1995 registrò comunque un progresso con il ritiro israeliano dalle principali città della Cisgiordania dopo la firma dell’accordo noto come Oslo II. L’intesa fu condannata dalla destra, che si mobilitò contro il governo Rabin in un clima di tensione generale culminato nell’assassinio del premier (4 nov.) per mano di un estremista ebreo israeliano.

Da Netanyahu a Barak: 1996-2001

Dopo un’ondata di attentati terroristici palestinesi (febbr.-marzo 1996), B. Netanyahu riportò il Likud al governo del Paese con un’instabile coalizione di estrema destra. Il mancato procedere degli accordi di pace e le pesanti misure di sicurezza, unitamente all’intensificarsi degli insediamenti israeliani, produssero, in un clima politico interno sempre più teso, un susseguirsi di crisi nelle relazioni israelo-palestinesi. Ciononostante, nell’ott. 1998 gli incontri di Wye Plantation (Maryland) tra B. Clinton, Y. ̔Arafat e Netanyahu, con il contributo di re Husain di Giordania, portarono alla firma di un’intesa che stabilì il ritiro di I. dal 13,1% del territorio della Cisgiordania. In un Paese profondamente diviso tra una parte favorevole alla creazione di uno Stato palestinese e l’altra incerta sulla restituzione dei territori occupati e condizionata dai settori religiosi, alle elezioni anticipate del 1999 lo Shas, formazione ultraortodossa di estrema destra, divenne il terzo partito in I., entrando in forze nel nuovo governo (1999) presieduto dal laburista E. Barak. Nel luglio 2000, al vertice di Camp David fortemente voluto da Barak e Clinton, il premier israeliano presentò ad ̔Arafat la più avanzata proposta mai offerta per porre termine al conflitto: per la prima volta fu messo in discussione il controllo di I. sulla totalità di Gerusalemme e Barak si mostrò disponibile ad ampliare la percentuale di territorio della Cisgiordania da cedere ai palestinesi, ma il leader palestinese rifiutò, rinchiudendosi sulle questioni di principio. In questo contesto, mentre languiva la campagna di laicizzazione lanciata dal governo, scoppiò (sett. 2000) la cosiddetta seconda intifada, che mise ancora più a repentaglio l’ormai precaria coalizione politica che sosteneva Barak in Parlamento.

La scelta unilaterale di Sharon

Le elezioni per il rinnovo del premier del 2001 registrarono la più bassa percentuale di votanti mai avuta in Israele. A. Sharon, leader del Likud dopo le dimissioni di Netanyahu nel 1999, formò un ampio governo di unità nazionale, cui aderirono anche i laburisti. Dopo gli attentati terroristici dell’11 sett. 2001 a New York e a Washington il governo impresse una dura linea politica e militare alla sua azione, rispondendo all’ondata di attacchi suicidi lanciata dai palestinesi contro le città e le colonie israeliane con un blocco alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, con offensive sulle città e i villaggi palestinesi, e intensificando le esecuzioni mirate contro i leader palestinesi. Nel 2002 iniziò la costruzione di una barriera difensiva di sicurezza lungo tutta la Cis;giordania, che avrebbe poi comportato la netta diminuzione del numero degli attentati suicidi in territorio israeliano. La fine del 2002 segnò un punto morto nel processo di pace. La società civile israeliana era costretta a fare quotidianamente i conti con la realtà del terrorismo, che assorbiva ogni istanza del dibattito politico interno. La vittoria schiacciante di Sharon alle elezioni del 2003 pose ai margini il Partito laburista, che non entrò nel nuovo governo di coalizione. Nell’apr. 2003 la road map, il piano concordato dall’amministrazione Bush con Russia, ONU e Unione Europea che prevedeva una serie di passi graduali di pacificazione fino alla nascita di uno Stato palestinese, fu approvata da entrambe le parti, ma le riserve espresse da I., non convinto dall’adesione palestinese, sembrarono archiviarla come inattuabile. Nel 2004, la decisione di Sharon di ritirare le truppe israeliane da Gaza e di smantellare gli insediamenti ebraici fu anche connessa con il dibattito sviluppatosi nel Paese sull’identità ebraica e democratica dello Stato, minacciata dalla pressione demografica araba, da cui la necessità di assicurare a I. una maggioranza ebraica. Nel 2005 l’attuazione del disimpegno da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia (e di 4 nel Nord della Cisgiordania) lacerò il Paese e fu boicottata dal suo stesso partito; non favorì, inoltre, la ripresa delle trattative con i palestinesi, che ravvisarono nell’iniziativa la volontà israeliana di agire unilateralmente. Dinanzi alla crescente opposizione nelle file del Likud, Sharon si dimise e rese nota la decisione di costruire una nuova forza politica con l’obiettivo di percorrere le tappe della road map anche senza la collaborazione palestinese.

Frammentazione del quadro politico

Le elezioni anticipate del 2006 furono vinte dal nuovo partito, Kadima («Avanti»), non più guidato dal suo fondatore Sharon, colpito da un ictus e costretto a uscire dalla vita politica, ma da E. Olmert. I propositi di dialogo con i palestinesi del governo di coalizione ricevettero un duro colpo dalla vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi. Nei mesi successivi, a causa della critica situazione di Gaza, si ebbe il ritorno dell’esercito israeliano nella Striscia, sottoposta anche a embargo. Nel luglio 2006, in risposta alla cattura di militari israeliani da parte di miliziani di Hizbullah, I. attaccò il Libano; per porre termine al conflitto l’ONU inviò nel S del Libano una forza di pace (ag. 2006). Olmert, indebolito dalle critiche mossegli per la conduzione della guerra in Libano – costata molto in termini di perdite umane – e coinvolto inoltre in uno scandalo finanziario, nel sett. 2008 perse la guida di Kadima, passata al ministro degli Esteri Tzipi Livni, e rassegnò le dimissioni. In uno scenario politico frammentato e inasprito, specchio delle divisioni nella società israeliana, la Livni non riuscì a formare un governo di coalizione, ed elezioni anticipate furono indette per febbr. 2009. Le elezioni ebbero esito incerto (28 seggi a Kadima, 27 al Likud) e solo dopo lunghe trattative si giunse a formare un nuovo esecutivo guidato da Netanyahu e nato da un accordo con i laburisti di Barak.

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