Istruzione. Riforma universitaria

Libro dell'anno del Diritto 2012

Istruzione. Riforma universitaria

Aldo Sandulli
Monica Cocconi

Istruzione
Riforma universitaria

La l. 30.12.2010, n. 240, che ha profondamente riformato l’ordinamento universitario, mira ad elevare la concorrenza e il merito nelle università, riducendo l’autoreferenzialità delle componenti accademiche sia nelle scelte strategiche e di governo del sistema sia in ordine ai meccanismi di reclutamento dei professori. La riforma, al contempo, sembra aver compresso in modo significativo l’autonomia universitaria. È presto, tuttavia, per formulare un giudizio sulla l. n. 240/2010: per un bilancio degli effetti della stessa occorrerà attendere la conclusione del complesso processo di attuazione «a cascata». La legge, infatti, richiede, da un lato, che gli atenei adeguino i loro statuti e, dall’altro, che il governo adotti numerosi regolamenti e decreti di attuazione.

La ricognizione. La legge di riforma dell’Università

Con la l. 30.12.2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), cd. riforma Gelmini, sono state introdotte modifiche significative al sistema universitario italiano. La riforma è importante, perché incide su tutte le aree più significative dell’ordinamento universitario: la governance del sistema, l’organizzazione interna degli atenei, lo stato giuridico e il reclutamento dei docenti, le modalità di valutazione della didattica e della ricerca, i meccanismi di finanziamento.

1.1 L’intento della riforma

Ne scaturisce un disegno improntato, da un lato, al ritorno ad un forte controllo centrale e a una riduzione significativa dell’autonomia universitaria rispetto alla legislazione dell’ultimo ventennio (in presenza di un drastico e costante taglio dei finanziamenti pubblici nel corso dell’ultimo decennio) e, dall’altro, a una elevata complessità del quadro attuativo, in cui la legge si limita a porre principi e criteri direttivi, demandando al governo e alle singole università l’emanazione di svariate decine di provvedimenti attuativi. Il risultato è un vero e proprio patchwork normativo, in relazione al quale è possibile soltanto formulare un giudizio sulle linee principali della riforma, in attesa che si completi l’articolata fase di attuazione. Il tentativo compiuto dalla legge è quello di introdurre – sposando la logica tradizionale dell’uniforme organizzazione degli atenei, imposta dal centro e, quindi, dalla legge e dai provvedimenti del Ministero dell’università e della ricerca – meccanismi di incentivazione della qualità e dell’efficienza del sistema, di standard per il reclutamento e la valutazione, di obblighi di programmazione, rendiconto e trasparenza: lo scopo principale e dichiarato della legge è quello di favorire la concorrenza e il merito nel sistema universitario. La legge, peraltro, pur avendo l’ambizione della grande riforma del settore, si rivolge per lo più alle università statali «tradizionali», restando fuori o, quantomeno, sullo sfondo soggetti che sono ormai parte significativa del sistema universitario (e che attraggono parte del finanziamento pubblico, sottratto perciò agli atenei statali): le cd. università telematiche e le università non statali. Con la conseguenza che si tratta di comprendere quali parti della riforma e in che misura si applichino anche ad esse.

1.2. La parabola dell’autonomia e il governo del sistema universitario

L’art. 33 Cost. prevede, all’ultimo comma, che «Le istituzioni di alta cultura, università e accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato». Sino al 1989 questo articolo è rimasto lettera morta, nel senso che l’autonomia degli atenei è stata compressa da un sistema centralistico ancora strutturato secondo la logica delle età liberale e fascista. Con la l. 9.5.1989, n. 168, cd. legge Ruberti, e con i successivi interventi legislativi, si è finalmente introdotta una limitata autonomia normativa, organizzativa, didattica, finanziaria. Questa scarsa autonomia è stata comunque gestita in modo pessimo dagli atenei, attraverso l’apertura di sedi distaccate, la moltiplicazione dei corsi di laurea, gli investimenti immobiliari, l’incremento esponenziale delle assunzioni di personale docente e non docente. A seguito dei tagli di finanziamento pubblico intervenuti con la crisi economica dell’ultimo decennio (e con la irragionevole moltiplicazione degli atenei pubblici da parte del governo, tra cui quelli telematici), l’enorme crescita dei costi ha condotto a una inesorabile situazione di default di numerosi atenei, anche di grande tradizione. L’art. 1, co. 2, l. n. 240/2010 stabilisce che «ciascuna università opera ispirandosi a principi di autonomia e di responsabilità». Ma il prosieguo della medesima disposizione già opera in funzione di limitazione di tale dichiarata autonomia, stabilendo, da un lato, che soltanto le università che abbiano «conseguito la stabilità e la sostenibilità del bilancio, nonché risultati di elevato livello nel campo della didattica e della ricerca, possano sperimentare propri modelli funzionali e organizzativi» e, dall’altro, che i criteri per l’ammissione alla sperimentazione e le modalità di verifica periodica dei risultati conseguiti sono definiti con decreto ministeriale. I successivi ventotto articoli non fanno che confermare l’impressione destata da questa prima disposizione e, cioè, che la legge di riforma universitaria, pur sostenendo in più punti il formale rispetto dell’autonomia, abbia introdotto, sotto forma di principi e criteri direttivi, forti limitazioni degli atenei, sostanzialmente riducendo ai minimi l’autonomia statutaria, organizzativa e finanziaria. Da un’autonomia limitata, dunque, si è passati a un’autonomia apparente. L’uniformità del sistema, tra l’altro, non va nel senso di favorire lo scopo dichiarato dalla riforma ovvero la concorrenza e il merito tra gli atenei. Dal punto di vista del governo del sistema, la legge di riforma e gli altri interventi legislativi di settore intervenuti nel corso dell’ultimo triennio hanno rafforzato la posizione di centralità del Ministero dell’università e della ricerca (MIUR) e, per ciò che riguarda gli aspetti finanziari, del Ministero dell’economia e delle finanze. Ciò è avvenuto operando in più direzioni: ad esempio, il ruolo centrale del MIUR nella emanazione della disciplina di dettaglio, attuativa dei principi e dei criteri fissati dalla legge di riforma (che prevede che spetti al Ministero l’adozione di ben quarantacinque provvedimenti attuativi); la definizione di rigidi standard di qualità ed efficienza relativi alla didattica e alla ricerca; lo stretto controllo della leva finanziaria; l’affiancamento di organi collegiali di nomina ministeriale a organismi di rappresentanza dei saperi e delle discipline. Sotto quest’ultimo profilo, al Consiglio Universitario Nazionale (CUN), tradizionale organo di rappresentanza dei saperi e delle discipline scientifiche, sono stati affiancati, nel corso degli ultimi anni, il Comitato di esperti per la politica della ricerca (CEPR), l’Agenzia nazionale di valutazione universitaria della ricerca (ANVUR), il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca (CIVR), i cui componenti sono di nomina ministeriale; la Conferenza dei rettori delle università italiane (CRUI) e il Comitato nazionale degli studenti universitari (CNSU), che rappresentano singole componenti della vita universitaria.

La focalizzazione. Autonomia e riforma della governance istituzionale degli atenei

Il tema della governance istituzionale degli atenei non può essere affrontato come questione a sé stante, dal momento che la ricerca della forma di governo è in funzione del miglioramento della capacità delle istituzioni universitarie di perseguire la propria missione, nel rispetto dell’autonomia ad esse riconosciuta dalla Costituzione, all’art. 331. La scelta della soluzione organizzativa più adeguata per il funzionamento di ciascun ateneo dovrebbe assicurare infatti, da un lato, condizioni di libertà per lo svolgimento della ricerca, dall’altro delineare gli assetti relativi all’erogazione del servizio, sotto il profilo funzionale ed organizzativo, in condizioni di efficienza, di trasparenza e di efficacia. Il buon funzionamento delle soluzioni organizzative contemplate o consentite dal legislatore ha poi quale condizione irrinunciabile e prioritaria un’adeguata governance complessiva del sistema universitario nazionale2. Se anche fossero dotate di una forma di governo disegnata in modo ottimale, le istituzioni universitarie non potrebbero funzionare adeguatamente se il Ministero non assolvesse al proprio ruolo di indirizzo, di governo e di controllo rispetto agli atenei, se non fossero messe a loro disposizione risorse finanziarie adeguate al fabbisogno, attraverso una riforma dei criteri connessi alla loro definizione e distribuzione ed in assenza di un sistema indipendente in grado di valutare il conseguimento delle loro missioni. Nel contesto della riforma, pertanto, la questione della governance istituzionale doveva essere affrontata come tassello di una revisione più complessiva dell’assetto di governo nazionale del sistema universitario che viceversa, non è stata approntata in modo compiuto né soddisfacente. Appare innegabile, tuttavia, che la capacità delle istituzioni universitarie di perseguire le proprie missioni risulti condizionata, ancor più e prima che dalla loro forma di governo, da dinamiche e scelte di indirizzo politico di carattere sistemico. Pur con tutte le carenze emerse nel suo concreto funzionamento, non vi è dubbio che il riconoscimento di autonomia alle università, prevista dall’art. 33 Cost. e conferita dalla l. n. 168/1989, rappresenti un elemento fondante del sistema3; essa costituisce, infatti, una condizione imprescindibile di ciò che dovrebbe offrire, in modo specifico e peculiare, l’istituzione universitaria alla società ovvero l’elaborazione del sapere critico e la creazione di nuove conoscenze. Il suo esercizio responsabile dovrebbe esser il frutto, da parte degli atenei, della convinzione della rilevanza di queste finalità per lo sviluppo stesso della società e del Paese nel suo complesso. È altrettanto innegabile che, benché le missioni affidate all’Università non siano definite da queste ma dal potere pubblico, una qualità essenziale dell’autonomia universitaria così concepita e garantita dal dettato costituzionale sia il potere di delineare differenti soluzioni organizzative per il proprio funzionamento interno attraverso l’esercizio della potestà statutaria. Questa potestà, come evidenziato, risulta assai compressa all’interno della legge di riforma che, nell’intento di limitare l’autoreferenzialità degli atenei e accrescere la loro responsabilità verso l’esterno, delinea, quanto all’individuazione degli organi di governo, alle loro competenze e ai criteri relativi alla loro composizione, soluzioni organizzative molto più uniformi e coese delle discipline precedenti.

2.1 La forma di governo delle università

La legge di riforma, come si è accennato, disegna un modello uniforme per tutte le università pubbliche, fondato sulla riconferma dell’assetto tripolare precedente (rettore-consiglio di amministrazione- senato) rivisitato in profondità quanto ai ruoli e alle competenze affidate a ciascun organo. Si impone agli atenei, inoltre, la presenza di sei organi necessari (oltre agli organi di governo, i nuclei di valutazione, il direttore generale e il collegio dei revisori dei conti); di questi vengono identificate le attribuzioni, le procedure di formazione, la durata dei relativi mandati e la loro reiterabilità. La ridefinizione dell’assetto di governo delle università, in particolare, viene improntata ad una duplice direttrice: a) una più netta distinzione fra le competenze dei due organi collegiali, con un deciso riconoscimento del baricentro decisionale degli atenei in capo al consiglio di amministrazione; b) l’individuazione, nel rettore, dell’autentico fulcro del complessivo assetto di governo. Viene dunque rigettata la proposta, contenuta nel documento emanato dalla CRUI4, di un intervento legislativo di principi, che vincolasse gli statuti su alcune questioni chiave, ma lasciasse alle università la possibilità di introdurre soluzioni legislative differenziate e più semplificate in relazione alle loro diverse dimensioni o alla loro tipologia, ovvero all’essere generaliste o comprensive unicamente di poche facoltà. Il legislatore, infatti, si riappropria in modo significativo della materia relativa alla governance rispetto a quanto era avvenuto con la l. n. 168/1989 che con una norma transitoria, l’art. 14, co. 4, in attesa di una futura legge sull’autonomia universitaria, mai emanata, aveva individuato unicamente alcuni limiti esterni all’esercizio della potestà statutaria, da parte degli atenei. Tali limiti erano stati unicamente ravvisati, per il rettore, nel carattere elettivo della carica, per il Senato, nella composizione rappresentativa delle Facoltà e, per il Consiglio di amministrazione, nella rappresentatività delle diverse componenti contemplate dalla normativa allora vigente. Gli aspetti ulteriori erano affidati agli Statuti. Viene imposto agli atenei, inoltre, di riformare gli Statuti ricorrendo ad «un apposito organo istituito con decreto rettorale» ed è fissato un termine perentorio di sei mesi per provvedere all’approvazione della legge, trascorso inutilmente il quale si prevede un intervento sostitutivo del Ministero. Ne discende un arretramento significativo dell’ambito ricondotto all’autonomia universitaria dalla l. n. 168/1989, concepita quale autonomia normativa, di cui, sotto il profilo della legittimità costituzionale, si dovrebbe valutare la proporzionalità e la ragionevolezza; la compressione dei profili preservati all’autonomia, nella disciplina riservata dalla legge della forma di governo, peraltro, è tale da far dubitare anche circa il rispetto del nucleo indefettibile ad esso ricondotto ovvero quello dell’autogoverno degli atenei. Le attribuzioni affidate al consiglio di amministrazione dall’art. 2, lett h), di indirizzo strategico e di approvazione dei principali documenti finanziari e contabili (il bilancio di previsione annuale e triennale, il conto consuntivo e il documento di programmazione triennale) ne fanno senza dubbio, unitamente al Rettore, l’organo decisionale più rilevante. L’imposizione agli statuti, sempre all’art. 2, lett. i), dell’obbligo di prevedere un certo numero di consiglieri esterni (da due, nel caso di una composizione di undici, a tre, nel caso di tredici), prima affidata alla loro autonomia, costituisce un limite significativo all’autogoverno degli atenei; viene preservata agli statuti unicamente la facoltà di individuarne la provenienza e gli interessi che dovranno rappresentare. Tale limite è giustificato, nelle Linee guida del governo, dalla finalità di ridurne l’autoreferenzialità ed un utilizzo irresponsabile dell’autonomia loro riconosciuta. Al Rettore vengono riconfermate, all’art. 2, lett. c), le funzioni, già contemplate dagli statuti, di impulso e di proposta dei principali documenti finanziari e contabili affidati all’approvazione del Consiglio di amministrazione, nonché «la rappresentanza legale dell’università» e le «funzioni di indirizzo, di iniziativa e di coordinamento delle attività scientifiche e didattiche »; gli vengono conferite, inoltre, attribuzioni riconducibili, genericamente, alla responsabilità «del perseguimento delle finalità dell’università» in cui sono ricomprese, senza dubbio, competenze di carattere gestionale. Alla riconferma dei rilevanti poteri già riconosciuti dagli statuti al Rettore, sia sul piano delle scelte d’indirizzo sia delle attività di gestione, che lo caratterizzano quale autentico fulcro del potere decisionale, in seno agli atenei, si contrappone, come fattore di riequilibrio, la non reiterabilità del mandato che, tuttavia, viene prolungato a sei anni. Ne risulta depotenziato, in misura significativa, l’organo di rappresentanza della comunità scientifica (almeno due terzi dei componenti debbono essere docenti di ruolo dell’ateneo ed almeno un terzo direttori di dipartimento, eletti in modo da rappresentare le diverse aree scientifico-disciplinari), ovvero il Senato accademico; ad esso vengono riconosciute unicamente attribuzioni di natura consultiva in materia di didattica, di ricerca e di servizi agli studenti, nonché funzioni normative relative all’approvazione del regolamento di ateneo e di quelli di competenza dei dipartimenti e delle strutture di coordinamento di cui all’art. 2, lett. c), ovvero di raccordo fra questi, ad istituzione facoltativa. Spetta a questo, tuttavia, il potere di proporre al corpo elettorale, «con maggioranza di almeno due terzi dei suoi componenti, una mozione di sfiducia al rettore non prima che siano trascorsi due anni dall’inizio del suo mandato». La semplificazione, da tempo auspicata, dell’organizzazione interna degli atenei, incentrata sulla duplicità delle unità accademiche preposte alle funzioni essenziali dell’università, ovvero le facoltà ed i dipartimenti, viene operata, all’art. 2, co.2, lett. b) attraverso l’identificazione nel dipartimento dell’unica sede deputata allo svolgimento di entrambe le funzioni. La loro riorganizzazione viene affidata agli Statuti con il vincolo, oltre che dell’affidamento contestuale di funzioni didattiche e di ricerca, di un numero di componenti non inferiore a trentacinque, afferenti a settori scientifico-disciplinari omogenei. L’intento della riforma è quello di razionalizzare l’assetto della forma di governo degli atenei mettendoli in grado di operare meglio scelte strategiche in un contesto reso difficile dalla scarsità delle risorse finanziarie destinate all’istruzione superiore. In tale prospettiva l’assetto avrebbe potuto essere ulteriormente semplificato secondo un’articolazione effettivamente bipolare, prevedendo unicamente, a fianco del Rettore, una giunta di suoi collaboratori; inoltre non avrebbero dovuto essere sottratte all’organo di rappresentanza equilibrata degli interessi scientifici le scelte strategiche inerenti all’allocazione delle risorse, su cui al Senato accademico sono affidate attribuzioni unicamente consultive e non decisionali5.

2.2 Lo stato giuridico e il reclutamento dei docenti

Anche la disciplina dello stato giuridico del personale docente e le politiche di reclutamento risultano innovate, in misura significativa, dalla legge di riforma. L’indirizzo perseguito dal legislatore appare, sul primo versante, quello di favorire l’apertura dell’istituzione universitaria alla società e di aumentare la mobilità e la flessibilità nell’utilizzo delle competenze dei docenti fra atenei. Tali caratteristiche, tuttavia, dovrebbero svilupparsi preservando l’identità e la vocazione peculiare dell’università nel perseguire le sue missioni che necessitano di personale proprio ed, almeno in parte, a piena disposizione dell’istituzione6. Si tende a favorire, anzitutto, l’ingresso nell’istituzione universitaria delle conoscenze e delle competenze che maturano in altri settori della società, definendo, all’art. 23, condizioni e limiti per la stipulazione di contratti con soggetti esterni dotati di adeguati requisiti scientifici e professionali per attività di insegnamento. Si promuove, all’art. 7, il reciproco scambio delle risorse fra atenei, incentivando la mobilità di professori e ricercatori e lo svolgimento, da parte di questi, di attività didattiche e di ricerca presso altre università, sulla base di una convenzione fra atenei finalizzata al conseguimento di obiettivi di interesse comune. Una significativa novità della riforma è costituita, all’art. 24, dalla figura del ricercatore a tempo determinato sia quale soggetto che svolge, come in passato, ordinarie attività di ricerca, di didattica e di servizio agli studenti sia ai fini del reclutamento dei professori tramite chiamata fra coloro che, titolari di contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, conseguono l’abilitazione scientifica nazionale. Oltre alla generalizzazione della figura si assiste, rispetto al passato, ad una disciplina legislativa più analitica del rapporto, di natura privata. Questo può discendere, all’art. 24, co. 3, lett. a) sia da un contratto di durata triennale, rinnovabile per due anni, per una sola volta, previa valutazione positiva delle attività svolte sulla base di criteri e parametri definiti con decreto del Ministro sia, alla lett. b), da contratti non rinnovabili, riservati ai candidati che abbiano usufruito dei primi (ovvero di assegni di ricerca, di borse post-dottorato oppure di analoghi contratti, assegni o borse in atenei stranieri). Viene introdotto inoltre, nello stato giuridico del personale docente, all’art. 6, co. 14, il principio della progressione stipendiale non fondato unicamente sull’anzianità di servizio ma correlato, oltre che alla presentazione di una relazione triennale, all’esito di una valutazione, effettuata dalle singole università, del complessivo impegno didattico, di ricerca e gestionale affrontato dai professori e dai ricercatori. Il nuovo sistema di reclutamento cerca di individuare un equilibrio, al pari di quanto già tentato dalla l. n. 230/2005, fra l’autonomia degli atenei nel programmare e nel valutare le proprie esigenze di risorse di personale con il necessario ruolo della comunità scientifica nazionale nel giudicare i candidati alle procedure di valutazione comparativa; rispetto alla disciplina precedente, tuttavia, si introducono alcune significative differenze che rischiano di vanificare gli intenti perseguiti dal legislatore7. Il procedimento risulta articolato in due fasi: anzitutto il conseguimento, da parte dei candidati, ai sensi dell’art. 16, di un’«abilitazione scientifica nazionale» a seguito di un giudizio motivato, fondato su parametri differenti per i professori di prima e di seconda fascia, formulato da un’unica commissione nazionale di durata biennale; tale commissione risulta composta da quattro membri per ogni settore scientifico-disciplinare, sorteggiati da una lista di professori ordinari del settore di numero triplo, che si siano candidati, siano stati positivamente valutati e votati; il quinto commissario risulta sorteggiato all’interno di una lista, curata dall’ANVUR, di studiosi ed esperti di pari livello in servizio presso l’università di un Paese aderente all’OCSE. L’abilitazione costituisce, tuttavia, una condizione necessaria ma non sufficiente per la chiamata di professori presso le università che si sviluppa attraverso un procedimento ulteriore; questo risulta caratterizzato, ai sensi dell’art. 18, da un’adeguata pubblicità sul sito dell’ateneo, del Ministero e dell’Unione europea e da un’ulteriore valutazione delle pubblicazioni scientifiche, del curriculum e dell’attività didattica dei candidati. La proposta di chiamata dev’essere formulata dal dipartimento con voto favorevole della maggioranza assoluta dei professori di prima fascia per la chiamata di professori ordinari e di professori di seconda fascia per la chiamata di professori con la stessa qualifica ed approvata dal Consiglio di amministrazione. L’auspicato carattere nazionale del sistema di reclutamento, tuttavia, rischia di essere vanificato dalla natura «aperta» dell’abilitazione scientifica nazionale, svincolata dalle esigenze specifiche espresse dalle Università e, quindi, dai posti effettivamente disponibili; il carattere di mero pre-requisito dell’abilitazione scientifica, che non conferisce alcun diritto all’inquadramento in ruolo, inoltre, rischia di situare a livello locale l’effettiva selezione della composizione del corpo dei professori, con i connessi rischi di localismo e di scarsa valutazione meritocratica dei candidati alla chiamata.

I profili problematici

Sono molteplici i profili problematici che solleva la recente riforma dell’ordinamento universitario: si segnalano, in particolare, la questione della valutazione della ricerca e della didattica e la questione del finanziamento del sistema universitario.

3.1 La valutazione della ricerca e della didattica

Una parte significativa della riforma è dedicata alla edificazione di un nuovo sistema di valutazione della ricerca e della didattica. Vi è da augurarsi che i nuovi meccanismi di valutazione siano in grado, finalmente, di funzionare. Difatti, uno tra i più significativi profili problematici, nel recente passato, è consistito nel fatto che la disciplina normativa approntata dal legislatore è rimasta sulla carta. Sia le regole sul Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario (CNVSU), istituito nel 1999, sia quelle sull’Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario (ANVUR), istituita, in sua sostituzione, nel 2006, sono rimaste sostanzialmente prive di attuazione. Il nuovo sistema di valutazione ruota attorno a quattro soggetti. Il MIUR, che ha il compito di indicare obiettivi e indirizzi strategici. La Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT), che adotta il sistema di misurazione e valutazione delle performance (in particolare, del personale tecnico-amministrativo), del piano delle performance, del programma di trasparenza e integrità, nonché della definizione dello standard di qualità dei servizi. L’ANVUR, che assicura la qualità delle università e degli enti di ricerca; definisce i meccanismi di distribuzione della parte premiale del Fondo per il finanziamento ordinario (FFO); cura il sistema di accreditamento delle sedi e dei corsi universitari sulla base di specifici indicatori concernenti i requisiti didattici, strutturali, organizzativi, di qualificazione dei docenti e delle attività di ricerca, nonché di sostenibilità economico-finanziaria; contribuisce a definire i costi standard unitari di formazione per studente in corso e i criteri oggettivi per la verifica dell’attività di ricerca dei singoli docenti ai fini della loro inclusione nelle commissioni di abilitazione per la selezione e progressione di carriera del personale accademico, nonché negli organi di valutazione dei progetti di ricerca; definisce il sistema di indicatori utilizzati da ciascuna università per la valutazione dell’efficienza e dei risultati per la didattica e la ricerca. Il Comitato nazionale dei garanti per la ricerca (CNGR), composto di sette membri, con il compito di assicurare il buon funzionamento delle procedure di valutazione dei progetti di ricerca attraverso la peer review svolta da commissioni composte almeno per un terzo da studiosi operanti all’estero. All’interno dei singoli atenei operano invece i nuclei di valutazione, che adempiono ai compiti degli organismi indipendenti della valutazione (OIV), previsti dal d.lgs. n. 150/2009, e si raccordano con l’ANVUR a livello nazionale. Dal punto di vista funzionale, la riforma resta vaga in ordine al rapporto tra qualità della didattica e della ricerca: la soppressione delle facoltà e la sussunzione di entrambi i compiti nei dipartimenti, infatti, non consente di comprendere se gli indicatori saranno tenuti distinti e in che modo. Come è stato rilevato, «nel complesso il disegno organizzativo del sistema della valutazione sembra caratterizzato da un pronunciato centralismo afflitto da frammentazione e penuria di risorse»8.

3.2 Il finanziamento del sistema universitario

La riforma del sistema universitario è particolarmente carente sotto il profilo del finanziamento dell’università, il quale, invece, avrebbe dovuto essere il primo tassello sul quale costruire la riforma. Ciò anche tenendo conto dei continui tagli di finanziamenti statali intervenuti nel corso dell’ultimo decennio, che hanno profondamente intaccato l’autonomia finanziaria degli atenei: si sarebbe dovuto prevedere un diverso sistema di finanziamento anziché conservare quello incentrato sul fondo di finanziamento ordinario e sui trasferimento finanziari da parte dello Stato. L’attuale sistema di finanziamento, infatti, oltre alla criticità della diminuzione dei trasferimenti statali, presenta anche quella della carenza di autonomia nel determinare l’entità dei contributi da imporre agli studenti per la copertura del costo dei servizi offerti (si tratterebbe di entrate di natura commutativa), nonché quella della obbligatoria relazione tra finanziamenti statali e contributi studenteschi (questi ultimi, infatti, non possono superare il venti per cento dell’importo del finanziamento ordinario annuale dello Stato). Quest’ultimo limite, tra l’altro, finisce per tradire la natura commutativa di tali contribuzioni9. La legge di riforma, al contrario, contiene esclusivamente disposizioni disorganiche relative al collegamento di percentuali di finanziamento statale alla valorizzazione della qualità e del merito; alla previsione di un fondo per il merito per gli studenti capaci e meritevoli (di dubbia legittimità costituzionale, perché probabilmente invasiva degli spazi legislativi regionali); al conferimento di una delega legislativa per la riforma della contabilità degli atenei.

Note

* Il presente scritto è frutto di una riflessione comune. Aldo Sandulli ha scritto i paragrafi 1 e 3. Monica Cocconi ha scritto il paragrafo 2.

1 Sulla governance quale mero strumento delle missioni dell’Università si v. Dugato, Diversità degli atenei e modelli di governance, in Della Cananea-Franchini, Concorrenza e merito nelle università, Torino, 2011, 89.

2 Sul nesso fondamentale fra governance istituzionale e governo nazionale del sistema universitario si v. Police, Verso nuovi strumenti di governance nelle università?, in Della Cananea-Franchini, Concorrenza e merito, cit.

3 Sulla valenza fondante dell’autonomia universitaria si v. Poggi, Un sistema nel sistema:l’autonomia universitaria, in Capano-Tognon, La crisi del potere accademico in Italia, Bologna, 2008, 57.

4 Considerazioni e proposte per la revisione della governance delle Università, Roma, 19.2.2009.

5 Ravvisa tali limiti all’intento di razionalizzazione operato dal legislatore riguardo alla forma di governo degli atenei Merloni, La nuova governance, in Giorn. dir. amm., 2011, 4, 353 ss.

6 Sul rischio che l’apertura dell’istituzione universitaria alla società possa implicare un appannamento della sua identità si v. Marzuoli, Lo stato giuridico e il reclutamento:riforme necessarie ma sufficienti?, in Giorn. dir. amm., 2011, 4, 358 ss.

7 Sul rischio che il nuovo sistema di reclutamento dei professori riproponga di nuovo i rischi di localismo e di valutazioni svincolate dal merito si v. Franchini, Il nuovo sistema di reclutamento dei professori universitari e l’apologo di Schopenhauer, in Giorn. dir. amm., 2011, 7, 802 ss.

8 Natalini, La valutazione, in Giorn. dir. amm., 2011, 7, 380.

9 Brancasi, La finanza, in Giorn. dir. amm., 2011, 7, 372.

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