ITALIA (A. T., 22-23, 24-25-26, 24-25-26 bis, 27-28-29, 29 bis).
Il nome. - Secondo Antioco di Siracusa (Dion. Halic., I, 35), il nome d' Italia derivava da quello di un potente principe di stirpe enotrica, Italo, il quale avrebbe cominciato col ridurre sotto di sé il territorio estremo della penisola italiana, compreso tra lo stretto di Messina e i golfi di Squillace e di Sant'Eufemia, e, chiamata questa regione da sé stesso Italia, avrebbe poi conquistato molte altre città. È questa una delle solite leggende a schema eponimico, ma se ne è voluto dedurre che l'estensione originaria del nome d' Italia non valicasse i confini dell'estrema punta della penisola, del che si è cercata una conferma in Ecateo, del quale abbiamo frammenti, che assegnano all'Italia Medma, Locri, Caulonia; ma non si può escludere che egli attribuisse del pari all'Italia altre località, e nell'estensione assegnata da Antioco al nome originario d'Italia non è lec. to vedere più che una semplice congettura dell'autore. Quello che è certo è che, al tempo in cui egli visse, il nome d'Italia designava la regione compresa tra lo stretto di Messina, il fiume Lao e il confine orientale del territorio di Metaponto, come risulta da Strabone (VI, 24), e anzi Erodoto colloca Taranto in Italia (I, 93; III, 136, cfr. Dion. Halic., I, 73), ma poiché pure per Tucidide (VII, 33, 4) l'Italia comincia a Metaponto, è meglio attenersi per allora a questo confine.
Anche Aristotele (Polit., VIII, 1329 b), seguendo Antioco, faceva derivare il nome d'Italia dal re Italo. Ellanico, invece (Dion. Hal., I, 35), raccontava che, mentre Eracle traversava l'Italia per condurre in Grecia il gregge rapito a Gerione, gli fuggì un capo di bestiame, e, ricercandolo egli affannosamente, e avendo saputo che, secondo l'idioma indigeno, la bestia aveva nome vitulus, chiamò Ούιταλίαν tutta la regione. L'essenziale di questo racconto è la riconnessione del nome d'Italia con la voce vitulus, la quale era affermata anche da Timeo e da Varrone, quando costoro quel nome giustificavano così: quoniam boves Graeca vetere lingua ἰταλοι vocitati sunt, quorum in Italia magna copia fuerit (Gell, N. A., XI,1), perché è evidente che ἰταλός nel senso di vitulus sarebbe in ogni caso una voce derivata dal Latino nel Greco dell'Italia meridionale. Un'espressione figurata della stessa riconnessione si ha nelle monete osche battute durante la guerra sociale con la figura del toro e nell'epigrafe Viteliu, sia che questa parola alluda alla capitale degl'Italici, Corfinio, che vediamo dagli scrittori chiamata Italica, sia che debba intendersi qual nome della dea Italia (v. Corp. Inscr. Lat., IX, al. n. 6088).
Se in conformità di queste opinioni degli antichi noi ammettiamo questa riconnessione, la potremo spiegare semplicemente con la ricchezza in bestiame bovino della regione, specialmente in quella parte da cui il nome prese origine, o anche si potrà pensare che il vitello fosse il totem della stirpe degl'Itali, ricordando come anche i nomi di altre popolazioni italiche derivano da animali. E, del resto, è più probabile che la regione abbia preso nome dal popolo che non viceversa.
Comunque, l'etimologia d'Italia da vitulus (umbro vitlu) lusinga: la caduta del v iniziale si può agevolmente spiegare con l'essere stata la parola trasmessa ai Romani per mezzo dei Greci dell'Italia meridionale, e con la stessa ragione o con le esigenze metriche si può dar ragione della lunghezza della i iniziale di Italia di fronte alla i breve della prima sillaba di vitulus. Ma se questa derivazione è accettata dai più, non mancano storici, quali il Niese, e glottologi, quali il Walde, che la ritengono incerta, e vi ha chi la nega addirittura, come M. Orlando.
Nel corso del sec. IV a. C. il nome d' Italia si estese, dall'una parte, sino a Posidonia e, dall'altra, comprese Taranto (Dionys., I, 74, 4 e Strab., V, 209); intorno al 300 a. C. si allargò alla Campania (Theophr. presso Athen., II, 43 b). Quando poi nei primi decennî del sec. III a. C. tutta la penisola, dall'Arno e dall'Aesis allo stretto di Messina, fu amministrativamente e militarmente unificata sotto la dominazione romana, e le diverse stirpi che l'abitavano, Latini, Sabelli, Etruschi, Apuli e Greci furono costretti a combattere sotto le insegne di Roma con la comune designazione di togati, cioè uomini della toga, il nome d'Italia abbracciò tutta la penisola nei limiti indicati.
La conquista infine del territorio padano e la consapevolezza dell'unità geografica della penisola fecero sì che nel corso del sec. II il nome Italia, pur conservando in senso stretto il significato politico sino al limite Arno-Aesis, si allargasse di fatto a tutto il territorio tra le Alpi e i due mari italiani. Le prime testimonianze su questo uso più largo del nome sono in Polibio e in Catone. E l'estensione anche ufficiale del nome a tutta intera la penisola fu compiuta allorché Ottaviano nel 42 abolì la provincia Cisalpina creata da Silla e comprese anche l'Italia settentrionale nella sua divisione in regioni (v. oltre).
L'unione amministrativa della Sicilia, Sardegna e Corsica, che avevano formato fino allora provincia a sé, all'Italia si ebbe solo con Diocleziano, che comprese le tre isole nella diocesi italiciana. È peraltro curioso notare come la suddivisione della diocesi italiciana dioclezianea in annonaria e urbicaria (la prima corrispondente a un dipresso all'Italia settentrionale con la Rezia, la seconda all'Italia centrale e meridionale con le isole, e rette rispettivamente dal vicarius Italiae residente a Milano, e dal vicarius Urbis residente in Roma) fece sì che nello stesso momento in cui la designazione Italia in senso lato abbracciava anche le isole, d'altra parte, in senso più ristretto veniva a escludere non solo le isole stesse, ma anche tutta o quasi l'Italia peninsulare.
Per comprendere le vicende del nome d'Italia nel Medioevo, e soprattuito per spiegaie le numerose contraddizioni e oscurità che si trovano nelle fonti, va premessa una necessaria distinzione, tra un significato della parola largo, unitario, affermatosi con l'impero e tradizionale fin dal tempo di Diocleziano (vicariatus Italiae, dioecesis Italiciana), e un significato più limitato, di denominazione riferentesi a un organismo politico-amministrativo autonomo. Se la coscienza dell'unità ideale dell'Italia non si spegne mai del tutto, e ne sono prova numerosi passi di scrittori medievali, diversa è invece la sorte della seconda accezione, che subisce vicende varie secondo il succedersi degli eventi politici, portando al fiazionamento e spesso alla scomparsa del nome nelle varie regioni, così che si può anche, benché con poca proprietà, parlare di diverse Italie medievali.
Particolarmente tormentate sono le vicende del nome nei secoli VI-XII. Non era riuscito ai Goti di sostituire al sacro nome Italia quello di Gothia, ma sotto la dominazione longobarda, dopo un certo periodo, in cui i due nomi d'Italia e Longobardia vennero usati indifferentemente (ancora nell'806 un documento ufficiale carolingio dice "Italiam... quae et Langobardia dicitur") il termine Langobardia finì col prevalere, ma sempre riferito alla regione sottoposta ai nuovi dominatori.
Coll'epoca post-carolingica l'antica denominazione di regnum Italiae già affermatasi con Odoacre e identificantesi presso a poco con la dioecesis italiciana, risorge per circoscrivere generalmente i limiti dell'Italia longobarda dalla valle padana al Friuli e all'Istria non costiera fino al Patrimonio di S. Pietro. Anche a lungo si mantenne il nome d'Italia nel mezzogiorno della penisola, sottoposto ai Bizantini, per quanto per le successive diminuzioni del loro dominio, finisse più che altro con designare i territorî loro rimasti "in Italia", e nel tempo stesso si venissero affermando gli altri nomi regionali (sul finire del sec. X troviamo un catapano "d'Italia" detto qualche volta anche "d'Italia e Calabria").
Analogamente in altre regioni si trova l'espressione "d'Italia" con significato di "in Italia": tipico il caso della marca d'Italia o in Italia per cui si intitolano "marchesi d'Italia" un Bonifacio marchese aleramico (Monferrato) e un Bonifacio di Toscana, e Ottone I crea per Alberto Azzo d'Este la "marca d'Italia" (uno dei discendenti s'intitola "dux Italiae") e nel 1093 Umberto II di Savoia è conte di Moriana e "marchio Italiae". Interessante la vicenda dei titoli di Ruggiero II di Sicilia. Come Roberto il Guiscardo nel 1082 s'era intitolato "invittissimo duca d'Italia, di Calabria e di Sicilia", e Ruggiero stesso "conte di Calabria e Sicilia e di tutta la regione italica", poi, divenuto re nel 1130, si chiamò "re d'Italia". Il titolo si riferiva senza duhbio ai territorî bizantini dell'Italia meridionale. Col sec. XI la denominazione viene assumendo limiti più precisi, per quanto sempre circoscritti. In un diploma di Enrico lI, a favore del monastero di S. Sofia di Benevento, si accenna ai possessi "tam infra Italicum regnum quam eciam in Apuliae partibus" (1022): la penisola veniva dunque considerata divisa in due parti: il regno Italico e l'Apulia, termine generico per l'Italia meridionale, all'incirca a sud della linea Garigliano-Pescara. Nel 1208 il patriarca d'Aquileia viene nominato da Ottone IV legato "tocius Italiae" e cioè "tam in Lombardia quam per universam Tusciam necnon in ducatu Spoleti et Marchia Anconitana et Romandiola".
Nel corso del secolo XIII la suddivisione geografica d'Italia si va facendo sempre più precisa e insieme il concetto dell'unità geografica d'Italia si viene diffondendo, finché si giunge all'affermazione solenne di Dante, che, oltre a delimitare i confini della nazione con assoluta precisione geografica, riconosce l'unità linguistica, storica e culturale dei suoi abitanti, cioè l'unità nazionale dell'Italia. Da allora il concetto d'Italia rimane immutato.
Con il Settecento acquista più forte rilievo di fronte al significato tradizionale, culturale, quello che già sopra fu detto politico-amministrativo. Più vivo si fa negl'Italiani il senso di particolari necessità e problemi italiani, più netto il distacco, la differenziazione da necessità e problemi di men vivo interesse nazionale. La coscienza letteraria s'avvia a diventare coscienza più determinatamente politica. Con l'avvento della Rivoluzione scrittori e giornali invocano "la repubblica italiana una e indivisibile" (1796) o la riunione in "una nazione dei diversi popoli d'Italia" (1797). Col 1802, infatti, la Repubblica Cisalpina assume l'augurale nome di italiana, e d'Italia o italiano o italico sarà tre anni dopo il nuovo regno, esteso a così gran parte della penisola. Pur nell'incertezza provocata dalle delusioni recenti e dalla diversità delle aspirazioni e dei programmi, il senso politico del nome d'Italia più non si perde. Federalisti e unitarî pensano ormai a una "Italia" concreta e ben differenziata dalle terre straniere. E il nome di "Ausonia" che i carbonari mettono innanzi nel loro progetto di una repubblica, non è che un'effimera, letteraria invenzione; ché subito il nome ritorna ad essere quello d'Italia, che nel'32 lo statuto della Giovane Italia porrà alla cerchia delle Alpi e ai tre mari. E il regno d'Italia, imposto dalla realtà nuova maturata in un secolo e mezzo di tentativi e di lotte e vivo già nelle coscienze degli Italiani, nasce ufficialmente il 17 marzo 1861, quando ancora Roma e Venezia e altre regioni sono sotto diversa signoria.
Sommario. - Geografia: Italia fisica (p. 694); Regioni e provincie (p. 737); Popolazione (p. 740); Condizioni economiche (p. 747); Comunicazioni (p. 765). - Ordinamento: Ordinamento politico (p. 774); Forze armate (p. 777); Finanze (p. 782); Educazione (p. 785); Dominî Coloniali (p. 790). - Preistoria e storia (p. 791). - Culti (p. 917). - Lingua e letteratura (p. 922). - Etnografia e folklore (p. 960). - Arte: Arti figurative (p. 971); Tecnica costruttiva (p. 1000); Musica (p. 1005). - Diritto (p. 1017). - Gl'italiani all'estero (p. 1029).
GEOGRAFIA.
Sommario. - Italia fisica: Storia della conoscenza (p. 694); Confini e area (p. 696); Situazione (p. 698); Tettonica e genesi (p. 699); Descrizione geopaleontologica (p. 702); Le forme del terreno e i tipi del paesaggio (p. 708), Terremoti (p. 718); Clima e regioni climatiche (p. 723); Acque interne (p. 725); Flora e vegetazione (p. 729); Fauna (p. 736). - Regioni e provincie (p. 737). - Popolazione: Antropologia (p. 740); Censimenti (p. 742); Distribuzione e densità della popolazione (p. 743); Insediamento rurale (p. 744); Migrazioni interne ed emigrazione esterna (p. 746). - Condizioni economiche: Prodotti del suolo (p. 747); Allevamento e pesca (p. 753); Prodotti minerarî (p. 755); Industrie (p. 756); Commercio (p. 763). - Comunicazioni: Ferrovie (p. 765); Strade (p. 766); Navigazione e porti (p. 768); Marina mercantile (p. 769); Aviazione civile (p. 770); Turismo (p. 771); Poste, telegrafi, telefoni (p. 771). - Bibliografia (p. 772).
Italia fisica.
Storia della conoscenza. - Una descrizione completa, sistematica, dell'Italia, nel senso inteso dalla moderna geografia, si cercherebbe invano presso gli scrittori dell'evo antico, ma ciò dipende anche dal concetto che allora si aveva della scienza geografica. Tuttavia i lineamenti generali della configurazione dell'Italia, che ne fanno un individuo geografico a sé, sono già chiaramente indicati da Polibio (II, 14-17) e una descrizione assai ampia si ha nel libro V della Geografia di Strabone. A essa poco aggiungono, nel campo della geografia vera e propria, i libri di Plinio e di Mela e altre meno autorevoli opere posteriori. Ma nessuna di queste opere ci espone organicamente tutto il complesso delle conoscenze degli antichi, le quali, per taluni elementi, come il rilievo, erano certamente ben più progredite di quanto non si ricavi dalle notizie rimasteci. Quanto alle rappresentazioni cartografiche, le due sole pervenuteci, quella della Tabula Peutingeriana, e quella della Geografia di Tolomeo, rispondono entrambe a fini speciali; della carta di Tolomeo non si ha poi, probabilmente, neppure una derivazione diretta, ma solo una ricostruzione fatta sulla scorta del testo, che dà gli elementi astronomici di circa 565 punti dell'Italia (comprese le isole).
Anche nel Medioevo le conoscenze erano certamente molto più sviluppate di quanto non appaia dagli scritti pervenutici, i quali, in genere, o sono condotti su fonti classiche di mediocre valore, o consistono in descrizioni frammentarie e condotte con intenti particolari. Buone descrizioni e anche rappresentazioni cartografiche dell'Italia si hanno in geografi arabi, soprattutto in Edrisi. Alla cartografia nautica si deve la prima figurazione esatta dei contorni della penisola e delle isole, figurazione la quale viene tuttavia assai presto (già nel sec. XIV) riempita anche per le parti interne con una ricchezza di elementi (orografia, idrografia, situazione dei centri) che sta a dimostrare appunto una conoscenza più avanzata di quanto non risulti dalla letteratura.
Con l'Umanesimo appaiono le prime descrizioni generali d'Italia, tra le quali primeggiano l'Italia illustrata di Flavio Biondo (1453) e la Descrittione di tutta l'Italia di Leandro Alberti (1550); ma entrambe sono soprattutto opere d'erudizione classica; l'elemento attuale, derivato dall'osservazione diretta, per quanto non manchi del tutto, resta molto in seconda linea. Il primo impulso a studî e ricerche sul terreno viene da cultori della geografia e topografia storica, volti a investigare in situ le reliquie della civiltà latina; perciò opere come l'Italia Antiqua e la Sicilia Antiqua di Filippo Clüver, che negli anni 1617-18 percorse a piedi, in compagnia di Luca Holstenio, tutta la Penisola e la Sicilia seguendo il tracciato delle vie romane (v. clüver; holste), hanno importanza rilevante anche per la storia della conoscenza geografiea del nostro paese. Ma le sintesi più notevoli si hanno pur sempre nel campo cartografico: la grande carta d'Italia di Giacomo Gastaldi (1561) corregge sagacemente molti degli errori di situazione e configurazione risalenti ancora a Tolomeo; l'"Italia Nuova", di G. A. Magini (1608) e il suo Atlante d'Italia pubblicato postumo dal figlio Fabio (1620) segnano un progresso enorme, soprattutto perché utilizzano già lavori topografici ufficiali eseguiti a cura dei governi dei singoli stati italiani. Il commentario che accompagna il suddetto atlante - sintesi di una descrizione geografica dell'Italia molto più vasta che non fu compiuta - ha invece modesto valore. Nel sec. XVII e nella prima metà del XVIII, la figurazione dell'Italia si perfeziona, soprattutto per il progresso nella rettificazione degli elementi astronomici di posizione (carta del Delisle 1701, carta di G.B. D'Anville e Analyse géographique de l'Italie dello stesso, 1744); mentre le descrizioni geografiche generali dell'Italia, hanno, ancor per tutto il secolo XVIII, scarso valore, soprattutto per quanto riguarda il quadro fisico: basta, per persuadersene, richiamarsi all'art. Italia nel grande Dizionario geografico e critico del Bruzen de la Martinière (1768) o ai volumi dedicati all'Italia nell'edizione italiana della grande Geografia Universale del Büsching (Venezia, 1780).
Per uno studio scientifico del rilievo mancava del resto la base essenziale, la conoscenza dell'altimetria, che ancor nel sec. XVIII è, si può dire, all'infanzia. Ma nella seconda metà di quel secolo cominciano, anche in Italia, operazioni geodetiche di precisione e compaiono alcune buone carte topografiche su base geodetica, le quali contengono anche dati altimetrici, sempre più copiosi ed esatti (qualche dato risultante dall'applicazione del barometro alla misura delle altezze, si ha già nel sec. XVII); tra la fine del sec. XVIII e il principio del XIX si hanno di tali carte topografiche per quasi tutti i maggiori stati italiani (Piemonte, LombardoVeneto, Toscana, Stato della Chiesa, Regno di Napoli, ecc.).
Ma lo studio scientifico della geografia dell'Italia s'inizia dopo il 1870. Prima di quest'epoca compaiono buone opere regionali, anche se in esse non di rado s'avverte l'influsso prevalente d'una concezione statistica della geografia (Notizie topografiche e statistiche sugli stati sardi del De Bartolomeis, 1860-67; Notizie naturali e civili sulla Lombardia di C. Cattaneo, 1844 Grande illustrazione del Lombardo-Veneto di Cesare Cantù, 1858-62; Saggio statistico-storico dello Stato Pontificio di G. Calindri, 1829; Description statistique physique... de la Sardaigne di A. De la Marmora, ecc.), e ottimi dizionarî pure regionali (di G. Casalis per gli Stati Sardi, 1833-36; di E. Repetti per la Toscana, 1833-46; di L. Giustiniani per il reame di Napoli, 1793-1805, ecc.); ma non mancano altresì opere generali sull'intera Italia: tra esse meritano speciale menzione l'ottimo Prodromo della Storia Naturale d'Italia di F.C. Marmocchi (1844); la Corografia d'Italia di C. Rampoldi (1833-34); l'opera di egual titolo del Fabi (1854) e la monumentale Corografia storica e statistica dell'Italia e delle sue isole di A. Zuccagni-Orlandini (1840-45) in 12 volumi, con un atlante di ben 690 carte (5 volumi).
Dopo l'unificazione politica dell'Italia la conoscenza geografica del paese si avvantaggiò soprattutto per l'opera di uffici pubblici ed enti governativi. In prima linea l'Istituto geografico militare (v. firenze, XV, p. 460) al quale si deve la Carta topografica del Regno d'Italia alla scala 1: 100.000 (con i rilievi originali al 50.000 e al 25.000), terminata nel 1902 ed estesa ai territorî annessi dopo la guerra mondiale (323 fogli); poi l'Istituto idrografico della R. Marina, cui si devono il rilievo delle coste e lo studio batimetrico dei mari; il R. Ufficio geologico, che provvede alla carta geologica d'Italia al 100.000, non ancora terminata, il R. Ufficio centrale di meteorologia e geofisica che raccoglie e coordina tutti i dati fondamentali per lo studio del clima; i varî uffici dipendenti dal Ministero dei lavori pubblici, organizzati in un unico grande servizio idrografico, per le ricerche sulle acque continentali (fiumi e laghi); il R. Comitato talassografico, di più recente istituzione; infine il R. Istituto centrale di statistica, cui si debbono innanzi tutto l'esecuzione dei censimenti generali della popolazione (ogni decennio dal 1861, con la sola eccezione del 1891; ogni quinquennio a partire dal 1931) poi numerose rilevazioni statistiche su quasi ogni ramo dell'attività economica dello stato e la pubblicazione dell'Annuario statistico italiano, di un Bollettino mensile, del Catasto agrario, ecc. Contribuirono specie al progresso della conoscenza geografica dell'Italia anche la Reale società geografica italiana fondata nel 1867, il Club Alpino Italiano (1878) e il Touring Club Italiano (1894)
L'opera dei singoli studiosi non può naturalmente essere esaminata qui. Ancora per tutto il sec. XIX, più che a geografi specializzati, gli studî dei cui risultati si avvantaggia la conoscenza del nostro paese, si debbono a geologi, a vulcanologi (la vulcanologia si può anzi dire sorta in Italia nel secolo scorso), a idraulici, a studiosi di statistica. Ma le nuove correnti della geografia penetrano in Italia e trovano sempre più largo seguito sul finire del secolo XIX, soprattutto per opera di Giuseppe Dalla Vedova e di Giovanni e Olinto Marinelli: s'iniziano o si rinnovano le ricerche di morfologia (sulle Alpi e poi anche sull'Appennino); quelle sui fenomeni carsici; sui ghiacciai, oggi coordinate da un apposito ente, il Comitato glaciologico italiano; sui laghi; sul clima; più tardi e con minore organicità d'indirizzo, quelle sui fiumi e sui mari d'Italia. Si sviluppano anche le ricerche antropogeografiche, inspirate dapprima ai concetti di F. Ratzel e degli antropogeografi francesi, ma poi volte a indirizzi originali, soprattutto per opera di O. Marinelli. Anche i lavori corografici si moltiplicano e mostrano sempre più l'applicazione di criterî e metodi rigorosamente geografici. Più sparsa e poco coordinata appare tuttora la produzione nel campo della geografia economica. Concorre in misura notevole al progresso della conoscenza anche l'opera di geografi stranieri.
Nel complesso ai nostri giorni si sono talmente moltiplicati, sia i materiali offerti nei varî eampi dagli enti pubblici su ricordati, sia gli studî e e ricerche particolari, che appare estremamente ardua la composizione di opere sintetiche sulla geografia d'Italia. All'alba del sec. XX apparvero due di tali opere particolarmente degne di menzione, e cioè il volume (quarto) dedicato all'Italia nel grande trattato geografico La Terra diretto da G. Marinelli; e la Penisola Italiana di T. Fischer, al cui rifacimento italiano (1902) collaborarono validamente studiosi nostri. Analoghi tentativi di sintesi non furono in seguito più ripetuti, ma sono comparse talune opere generali che costituiscono una preziosa base preparatoria: tra esse l'Atlante dei Tipi geografici dell'Italia di O. Marinelli (1922) e la Guida d'Italia del Touring Club Italiano. Una copiosa bibliografia sistematica di tutti gli scritti geografici concernenti l'Italia viene pubblicata annualmente a cura della R. Società geografica italiana; di grande aiuto riescono anche la più antica bibliografia inclusa nella Bibliographie géographique annuelle (Parigi) e le rassegne periodiche del Geographisches Jahrbuch di Gotha. Un valido impulso al progresso degli studî geografici sull'Italia apportano i congressi geografici nazionali, che si raccolgono ogni tre anni (dal 1892) e dei quali si pubblicano regolarmente gli atti.
Confini e area. - Partendo dal principio che il concetto geografico di confine, anche nel caso di un territorio politico, debba corrispondere a quello di un ostacolo naturale, idoneo a formare una zona d'isolamento e perciò di protezione tutt'intorno al territorio considerato, si può dire che tale concetto si traduce in una realtà concreta per l'Italia, forse meglio che per qualunque altra regione europea. Come è noto, infatti, la regione italiana è cinta da tre lati dal mare - onde il suo spiccatissimo carattere peninsulare -, e nel lato lungo il quale si salda al resto del continente europeo è circondata dalle catene alpine, che, contenendo nella loro parte mediana, per quasi lungo l'intero arco, aree molto elevate, coperte di nevi perenni o comunque disabitate e impervie, costituiscono nel loro insieme una eccellente zona d'isolamento e di protezione. Pertanto l'individualità dell'Italia, nettamente delimitata fra i tre mari e l'arco delle Alpi, è concetto antichissimo, che si trova già chiaramente espresso da scrittori latini e che si perpetua poi con costante ininterrotta tradizione fino ai nostri giorni, non soltanto presso i geografi, ma presso scrittori e pensatori di ogni categoria e che ha avuto, da parte di autori celebri, magnifiche definizioni in prosa e in verso. Anzi l'individualità dell'Italia entro la cerchia delle Alpi e dei suoi mari, non è affatto un concetto puramente geografico, ma una verità universalmente avvertita e quasi connaturata nell'espressione stessa Italia, secondo l'uso più comune e concreto di essa. Ed è anche antichissimo il concetto che, volendo determinare entro quella zona d'isolamento che è costituita dalle aree più elevate delle Alpi, una linea di confine, questa sia da far coincidere con lo spartiacque principale. Tale concetto, che si legge già chiaramente formulato presso scrittori latini, alludenti ai divortia aquarum come ai limiti alpini dell'Italia, trova poi a partire dal sec. XVI la sua concreta espressione nelle carte geografiche, non solo italiane (v. la carta del Magini a p. 698), ma anche straniere. E anche presso gli scrittori (non solo geografi, ma anche politici) questa tradizione perdura ininterrotta dal sec. XVI in poi.
Il percorso di questo che si suole chiamare il confine naturale alpino dell'Italia, è quasi dappertutto molto evidente, salvo all'estremo orientale, dove, non soltanto le catene alpine si abbassano, e per conseguenza, non più continue ma saltuarie s'incontrano le aree molto elevate, inaccessibili e disabitate rispondenti al più preciso concetto di confine, ma, per il carattere del territorio, a tipo carsico, con idrografia prevalentemente sotterranea, non si può neppure riconoscere sempre uno spartiacque superficiale.
Tuttavia nel complesso la linea del confine naturale può essere assai chiaramente indicata, per concorde designazione dei geografi: a) a O. da una diramazione delle Alpi Marittime, che, dipartendosi dal M. Pelat, limita a O. il bacino del Varo, poi dalla linea che correndo sulla cresta delle Alpi Occidentali, divide le acque che vanno al Po da quelle che vanno al Rodano, dal M. Pelat al M. Bianco; b) a N. dalla stessa linea spartiacque corrente sulla cresta principale delle Alpi Pennine e Lepontine fino al S. Gottardo, poi dallo spartiacque tra il Po e il Reno corrente sulle elevate creste delle Lepontine fino allo Spluga, e da quello fra il Po e il Danubio dallo Spluga al Passo di Resia, e fra l'Adige e il Danubio da Resia alla Vetta d'Italia e alla Sella di Dobbiaco; c) a NE. e a E. ancora dalla linea dello spartiacque fra il Danubio e i fiumi veneti, segnata dalla dorsale principale delle Alpi Carniche, poi dalle Alpi Giulie fino al valico detto di Nauporto. A SE. di questo si entra nella regione carsica cui sopra si accennava, nella quale il confine si può tuttavia seguire sulla dorsale che limita a E. il bacino del lago di Circonio e contiene i monti Cervaro, Nevoso, Jelenck e Rišnjak, indi scende col M. Tuhovič sul Canale del Maltempo a E. del vallone di Buccari.
Quanto al confine marittimo, va rilevato anzitutto che l'appartenenza all'Italia delle tre maggiori isole è pure un principio generalmente ammesso sino dall'antichità. Pertanto a O. il confine è evidentemente segnato dalla ripida scarpata con la quale la breve piattaforma continentale fiancheggiante la Riviera di Ponente scende verso le massime profondità del Mar Ligure e dalla scarpata pure assai ripida con la quale la più ampia piattaforma, su cui posano Corsica e Sardegna, scende verso le aree profonde del Mare Esperico; quivi a 80 km. dalla costa sarda si raggiungono già profondità superiori ai 3000 m. A S. Pantelleria e il gruppo di Malta appartengono indubbiamente alla regione italiana, perché giacciono al margine della piattaforma continentale costituente l'imbasamento della Sicilia, e anche Linosa, di origine vulcanica, rientra, per questo carattere, tra le formazioni insulari vulcaniche che fanno corona all'Italia; invece Lampedusa sarebbe piuttosto da ascriversi all'Africa, perché giace, di là del Canale di Tunisi, sulla piattaforma continentale africana e ha anche una struttura tabulare che la ravvicina all'Africa settentrionale. Nello Ionio e nell'Adriatico meridionale, privi d'isole, il confine marittimo è ben chiaro; assai meno nell'Adriatico settentrionale; quivi tuttavia sono indubbiamente da ascriversi alla regione italiana le Tremiti e Pelagosa e nel Quarnaro Cherso, Lussin e Veglia che sono, sotto l'aspetto della struttura, una continuazione dell'Istria (v. alle singole voci).
Entro i confini naturali ora accennati l'Italia ha un'area di circa 321.700 kmq.
I punti estremi sono rappresentati a N. dalla Vetta d'Italia (47° 5′ 30″ lat. N.), a S. dallo scoglio di Filfola presso Malta (35° 47′ lat. N.; la Cala Malùk sulla costa S. di Lampedusa è a 35° 29′ 24″ N.); a O. dalla Rocca Chardonnet nelle Alpi Cozie (6° 32′ 59″ long. E.), a E. dal Faro di Capo d'Otranto (18° 31′ 18″ long. E.).
Come è noto, l'attuale confine politico terrestre del regno d'Italia non coincide dappertutto con i sopra indicati confini naturali alpini. A ovest, dal Mar Ligure (circa a mezza strada fra Mentone e il Capo Mortola) fino alle sorgenti della Stura di Cuneo, esso segue una linea molto irregolare, che esclude dall'Italia una sezione della valle della Roia (coi paesi di Breglio e Saorgio), mentre include una piccola porzione dell'alto bacino del Varo. Dalle sorgenti della Stura di Cuneo corre sulla cresta spartiacque fino al M. Dolent (punto di convergenza del confine italo-franco-svizzero) poi fino al Sempione (confine con la Svizzera); indi, lasciando alla Svizzera la Val di Vedro, scende a sud-est lungo le Alpi Ticinesi, taglia la parte nord-est del Lago Maggiore e il Lago di Lugano raggiungendo di nuovo lo spartiacque allo Spluga; resta perciò inclusa nella Confederazione Elvetica tutta l'alta valle del Ticino (Canton Ticino) e resta isolato sul Lago di Lugano, in mezzo a territorio pure svizzero, il comune italiano di Campione.
Tra lo Spluga e il Piz Lat (a ovest del Passo di Resia, punto di convergenza del confine italo-svizzero-austriaco) il confine segue in genere lo spartiacque, ma lascia alla Svizzera la Valle di Poschiavo (Adda) e la Val Monastero (Adige), mentre include nel regno la valletta del Lei (Reno) e la Val di Livigno, solcata dallo Spöl (affluente dell'Inn.)
Il nuovo confine con l'Austria, oggi interamente segnato mediante cippi dal Piz Lat al M. Forno (altra vetta triconfinale: Italia-Austria-Iugoslavia), segue pure nella massima parte del suo percorso la dorsale principale, assicurando tuttavia all'Italia il possesso completo dei valichi di Resia, del Brennero e di Dobbiaco, includendo, anzi, in territorio italiano la testata della valle della Drava con l'adiacente Val di Sesto, e, più a est, una parte notevole della valle della Slizza (Gail, Drava) con le conche di Tarvisio e di Fusine. Interamente determinato è oggi anche il confine con la Iugoslavia dal Piz Lat al Quarnaro, oggetto di laboriose trattative. Esso corre sulla dorsale principale delle Alpi Giulie fino al valico di Nauporto, più a sud segue un percorso molto irregolare, lasciando alla Iugoslavia l'intera conca di Circonio con i suoi tributarî, all'Italia il gruppo del Monte Nevoso.
Resta poi in territorio iugoslavo anche quasi tutto il bacino del fiume Eneo, il cui alveo solo nell'estremo tronco inferiore segna il confine del territorio di Fiume incorporato nell'Italia in virtù dell'accordo di Roma tra l'Italia e la Iugoslavia (27 gennaio 1924) insieme con una sottilissima striscia litoranea che lo unisce al resto dell'Istria. È rimasta alla Iugoslavia l'isola di Veglia, mentre l'Italia ha annesso Zara con un limitato territorio circostante e l'isola dalmatina di Lagosta con alcune minori adiacenti.
L'area del regno d'Italia risulta pertanto di 310.319 kmq., così suddivisi: parte continentale (comprese le isole minori a essa ascritte) 260.381 kmq.; Sicilia e isole circostanti 25.738 kmq.; Sardegna e isole circostanti 24.090 kmq.; Zara e Lagosta 110 kmq. Lo sviluppo del confine terrestre del regno è stato calcolato a circa 1878 km., (con la Francia km. 487, con la Svizzera 725, con l'Austria 421, con la Iugoslavia 245) di contro a circa 8.000 km. di confine marittimo (coste della Penisola 3980 km.; della Sicilia 1115, della Sardegna 1336, de" e altre isole 1565).
Situazione. - Elemento fondamentale, che contraddistingue l'Italia come individuo geografico, è la situazione centrale nel bacino mediterraneo, nel quale essa, per il suo netto carattere peninsulare, si slancia come un gigantesco molo proteso da NO. a SE. Come paese mediterraneo l'Italia ha, soprattutto dal punto di vista climatico, caratteri comuni con le altre due penisole sudeuropee, ma si avvantaggia più di esse dei benefici influssi del mare, per la sua situazione centrale e per la sua forma svelta, onde nessun punto, neppure nella parte settentrionale più massiccia, dista dal mare più di 250 km. (nella Penisola Iberica vi sono punti distanti 350, nella Penisola Balcanica si arriva a 390). Circondata e compenetrata dal mare, l'Italia è un paese d'intensa vita marittima; il Tirreno è un nare prettamente italiano, ma anche l'Adriatico è dominato dall'influsso dell'Italia. La penisola, con la Sicilia, divide il Mediterraneo in due bacini; la distanza fra la Sicilia e l'Africa è inferiore a 150 km. (C. Boeo-C. Bon); quella fra la Sardegna e l'Africa inferiore a 200 (Cagliari-Biserta). La costa NO. della Sardegna dista dalla costa spagnola (Barcellona) presso a poco quanto da Napoli; Messina è posta all'incirca alla stessa distanza da Gibilterra, da Suez e da Odessa. Il C. Passero, estremità sudorientale della Sicilia, dista circa 460 km. da Tripoli, 600 dalla costa della Cirenaica e 780 da Creta. Per questa sua posizione l'Italia ha sempre servito da intermediaria tra l'Europa meridionale e l'Africa, con la quale i rapporti furono sempre molto stretti, a partire dalle guerre puniche. Più stretti ancora i rapporti con la Penisola Balcanica, da cui dista appena 73 km. nel Canale d'Otranto, e in genere con tutti i paesi del Mediterraneo orientale verso i quali si protende l'estremità sudorientale della Penisola. Ma anche i rapporti con la Penisola Iberica risalgono a tempo remoto, almeno alle guerre puniche. Nonostante la presenza della chiostra alpina, per la frequenza in essa delle valli trasversali e dei valichi, anche le comunicazioni con l'Europa Centrale sono relativamente facili.
Tettonica e genesi. - L'Italia è terra giovane; all'opposto dell'Iberia, generatasi da un nucleo primordiale che si andò ingrandendo attraverso le età geologiche da addizioni successive, è sorta principalmente per opera del più recente dei grandi corrugamenti orogenetici, l'alpino; gli avanzi delle strutture più antiche sono, per ciò che riguarda l'estensione, subordinati e per posizione periferici.
Le orogenesi del Paleozoico (vedi europa: Geologia) avevano sollevato a occidente dell'attuale penisola una terra, in seguito scomparsa quasi del tutto, della quale sono nel Mediterraneo relitti la Sardegna, la Corsica, e il gruppo dei Maures con le isole Hyères in Provenza. Più a N., dove sorsero poi le Alpi, altre terre collegavano le ora nominate con le Ercinidi della Mesoeuropa.
A questo antico paese ercinico appartiene il substrato generale paleozoico della Sardegna, dove dapprima s'inarcarono i sedimenti del Cambrico medio, ricoperti poi dalla trasgressione ordoviciana e sconvolto il tutto subito dopo dall'orogenesi caledonica, che produsse pieghe fortemente costipate e forse anche carreggiamenti (Iglesiente e Nurra). Intorno alla terra così sorta si depose il resto del Paleozoico, finché intervenne il ripiegamento ercinico nel Carbonico superiore, seguito da intrusioni di granito e da effusioni di porfido, largamente sviluppate nella Sardegna orientale e nella Corsica di ponente. I graniti della Sardegna sono accompagnati da gneiss, micascisti e filladi che già il Lamarmora giudicò Paleozoico antico metamorfico.
Masse poderose di terreni antichi per lo più sotto forma di scisti cristallini si trovano nelle Alpi e nell'Appennino meridionale, le quali, con minor sicurezza che non la Sardegna e la Corsica, sono considerati come resti di Ercinidi rinserrati fra le pieghe alpine. Le meno controverse, nei limiti della regione italiana, sono l'Argentera, il Monte Bianco, il Gottardo e il Massiccio Calabro-Peloritano, ritenuti autoctoni. Però di nessuno di questi si ha la prova che alla fine del Paleozoico fossero in tutto o in parte emersi. Così rimane ignota l'estensione vera della terra formatasi in quel tempo e durata con limiti non troppo variabili tutto il Mesozoico. Da un lato di essa esisteva un mare continentale a sedimenti con facies germanica; dall'altro la Tetide con depositi a facies alpina.
Nel Mesozoico, era di calma relativa, l'epeirogenesi prevalse. Ne troviamo le prove in Sardegna, dove lembi di Autuniano (Permico), di Mesozoico a facies germanica, dal Trias fino al Cretacico, e di Eocene riposano ancora con penetta orizzontalità sulla platea ercinica allo stesso modo come in Calabria e nei Peloritani il Mesozoico. Non ebbe sosta l'attività eruttiva. Lo provano le eruzioni di "Pietra Verde" del Trias nelle Alpi Orientali, e svariate eruzioni di Predazzo nel Trentino, le estesissime prasiniti, eufotidi e serpentine dei calcescisti dell'alto Adige, dei Grigioni e delle Alpi Occidentali, i basalti dal Giurese in poi della Sicilia; le ofioliti appenniniche.
Le irresistibili spinte del diastrofismo alpino sollevano alla fine dell'Eocene in pieghe grandiose i sedimenti della Tetide e li rovesciano contro i massicci ercinici per modo che estese falde di carreggiamento li scavalcano.
La Sardegna soltanto rimane immune, ma sotto l'enorme pressione si spezza da N. a S. dando luogo a una fossa mediana (Campidano, Logudoro) che sarà più tardi colmata da sedimenti e da eruzioni, le quali, incominciate col prodursi della fossa, persisteranno fino al Pliocene. Contro i graniti della Corsica dalla banda di oriente sono sollevati in pieghe di carattere nettamente alpino gli scisti lucenti con ofioliti di Capo Còrso e quelli che stanno a levante della linea S. Fiorenzo-Corte-Ghisoni.
L'opera maggiore del sollevamento fu il Sistema Alpino col caratteristico decorso delle linee tettoniche che dirette quasi E.-O. nel settore orientale, s'incurvano nell'occidentale in un vasto semicircolo che sembra raccordarsi con l'Appennino per cingere il golfo padano. Curvatura attribuita alla presenza dei tre massicci ercinici presunti autoctoni del Monte Bianco, di Belledonne-Pelvoux, dell'Argentera, contro i quali le pieghe si sarebbero adattate inflettendosi. Si ammette che il sistema sia costituito da due grandi unità: le Alpidi propriamente dette a N., con tettonica tormentatissima di falde sovrapposte e intenso metamorfismo, contro le quali si serrano da S. le Dinaridi composte in prevalenza di strati secondarî e del terziario antico, a facies normale, con struttura più semplice di pieghe ordinarie e dislocazioni per frattura. La linea di separazione fra Alpidi e Dinaridi, non fatta evidente da alcuna accidentalita morfologica, partirebbe da Ivrea, passerebbe a N. dell'Adamello e proseguirebbe verso E. (linea alpino-dinarica o linea del Tonale o insubrica; v. alpi: Geologia).
Nel Miocene l'Appennino si delinea già dalla Liguria alla Sicilia dapprima non ancora continuo, ma interrotto da bracci di mare, dei quali il più importante lo attraversava da NNE. a SSO. fra Umbria ed Abruzzo. A settentrione di questo canale corre, dalla Liguria e dal Piemonte fino all'Umbria, il largo fascio assiale di terreni in prevalenza terziarî (scisti argillosi e arenarie), con andamento strutturale da maestro a scirocco (Liguridi), fiancheggiato dal lato di ponente dalla Spezia in giù, dal Preappennino toscano (Apuane e Catena Metallifera) ancora arcipelago, con terreni paleozoici e mesozoici preponderanti e direttrici tettoniche a N. da NO. a SE. ma che verso mezzogiorno diventano N.-S. nel Grossetano (Toscanidi). Dal lato adriatico, infine, a cominciare dall'Urbinate una zona orientale si addossa al fascio assiale, composta di terreni secondarî dal Trias al Cretacico, che termina, assumendo andamento trasversale, nei monti della Sabina; fascio tettonico di pieghe e tipici carreggiamenti (Spoleto) le cui direttrici, volgendo dapprima in senso meridiano fino al Monte Vettore, tendono dopo, man mano che procedono verso S., a diventare NNE.-SSO., interrompendo così il prolungarsi verso scirocco delle linee tettoniche del fascio assiale. Le pieghe di questa zona orientale deviano verso SO. per stringersi contro una linea Tivoli-Antrodoco-Monte Vettore, messa in evidenza da un contatto anormale fra i terreni secondarî e i miocenici, dislocazione trasversale, frattura o superficie di carreggiamento, di primaria importanza, che segna non solo un limite tettonico ma corrisponde a un cambiamento di facies del Sopracretacico appenninico che da scistoso-calcare (scaglia, calcare rosato, scisti a fucoidi), facies abissale, a NO., diventa a SE. di essa calcare ippuritico compatto, facies di scogliera, caratteristico di tutto l'Appennino meridionale.
Oltre tale linea, a cominciare dall'Abruzzo, l'allineamento tettonico dell'Appennino riprende la direzione da maestro a scirocco che aveva a N., sebbene con una ben diversa struttura, complicata di pieghe e dislocazioni longitudinali con predominio del Secondario quasi del tutto calcare o verso il Tirreno, del Terziario argilloso arenaceo verso levante.
Al Vallo del Crati incomincia il blocco di scisti cristallini Calabria-Peloro, di struttura ercinica, rimasto del tutto sommerso durante l'era mesozoica come attestano i lembi sovrapposti di calcare secondario di Monte Paleparto, di M. Coccuzzo (Cosenza), del M. di Tiriolo e altri minori, avanzi di un mantello mesozoico. Le linee tettoniche vanno da NO. a SE. nella Sila e diventano quasi E.-O. nelle Serre e l'Aspromonte. Lungo l'orlo ionico del blocco si adatta il sollevamento appenninico descrivendo un arco dal Golfo di Taranto al Mar di Sicilia e passando dalla direzione tettonica maestro-scirocco della penisola a quella E.-O. delle Caronie e Madonie.
La spinta orogenica continuò gagliarda oltre il Miocene più antico in modo che vediamo ora terreni miocenici recenti innalzati nell'Appennino centrale fino ai 2000 metri; più a S. nei Lepini e Ausoni e nei Monti dell'Irpinia i calcari ippuritici sovrastare orizzontali per carreggiamento rispettivamente sul Miocene inferiore e sulle argille scagliose. L'Appennino si è così saldato in una lunga catena con numerosi solchi vallivi longitudinali che si vennero colmando. Calabria e Sicilia rimangono ancora un complesso di isole staccate.
A levante della catena principale, come ondulazione lontana, si eleva il Monte Conero di costituzione analoga all'Appennino marChigiano. Più a S. il Gargano è un semplice inarcamento degli strati cretacei del tipo meridionale con lembi eocenici. Più a S. ancora la vasta piattaforma calcare della Puglia si allunga con strati orizzontali in senso parallelo all'Appennino, emergendo più lentamente di questo, come dimostra la sua parziale copertura di sedimenti miocenici e pliocenici.
Il Miocene si chiude con un movimento generale di emersione che dà luogo a depositi litoranei e lagunari (zona gessoso-solfifera) dovuti in parte a una fase caspica transitoria in quel Mediterraneo che si era andato formando durante il diastrofismo alpino in luogo della Tetide. Il Pliocene segna invece una trasgressione o periodo talassocratico nel quale sono invase dal mare tutte le insenature, canali e stretti rimasti fra le terre di recente sollevamento. La sola Sardegna fa eccezione, perché in essa, emersa dopo il Miocene medio, non v'ha traccia della trasgressione pliocenica.
Il Quaternario segna un nuovo sollevamento generale dove più, dove meno intenso, ma sempre forte, che innalza tutti i depositi pliocenici litoranei e compone cosi nell'attuale unità tutte le parti fino ad allora disgiunte. Si riuniscono in un tutto le varie isole plioceniche calabresi; si saldano all'Appennino la Puglia, il Gargano e il Conero; viene ridotto e successivamente colmato dalle correnti alpine il Golfo Padano. Il movimento è così intenso, che il Pliocene viene in qualche caso portato fin oltre ai 1000 m. sul mare (Monte dell'Ascensione, 1103 m. presso Ascoli); in Calabria il graduale innalzarsi quaternario è segnato sul versante tirrenico da una quadruplice linea di terrazzi; il più alto dei quali ha la quota di 1200 metri.
Il diastrofismo alpino è accompagnato fino dal suo inizio da manifestazioni eruttive. Fra le più antiche sono da annoverarsi nelle Alpi gli Euganei che datano dal Cretacico, i basalti del Monte Baldo, del Veronese e del Vicentino eocenici, e i Berici. Miocenici sono i graniti e porfidi dell'Elba e della Catena metallifera, le sieniti di Biella e le dioriti di Traversella, i graniti di S. Fedelino. In Sardegna trachiti e basalti si sono succeduti dal principio del Miocene fino all'aprirsi del Quaternario. In Sicilia i basalti della Val di Noto continuano fino al Miocene superiore un'attività iniziatasi nel Mesozoico nel centro dell'Isola. Nel Quaternario avviene una ripresa grandiosa del vulcanismo. Nel lato interno dell'Appennino Capraia, Monte Amiata, i Vulcani laziali, campani, pontici, eolici e Ustica. Sul lato esterno il Vulture e l'Etna, oltre i centri più lontani di Pantelleria e Linosa e quello sottomarino di Ferdinandea.
Descrizione geopaleontologica. - L'Italia esaminata dal punto di vista geologico presenta una tale quantità di terreni, sia cronologicamente e sia litologicamente considerati, una tale varietà e spesso complicazione di fenomeni tettonici, quale non si riscontra altrove sulla Terra in un'area relativamente così ristretta. Non affiorano però, per la relativa recente formazione dell'Italia, le rocce arcaiche. Infatti i terreni più intensamente cristallini, come gli gneiss, i micascisti, i graniti e rocce simili, che compaiono ampiamente nelle Alpi Occidentali e nella regione calabrosicula e che per lungo tempo furoeio attribuiti all'era arcaica o archeozoica, ora invece si tende a ritenerli prevalentemente quali rappresentanti metamorfici di terreni paleozoici.
Tuttavia non sembra improbabile che la parte più profonda di tali formazioni gneissiche possa ancora riferirsi all'Arcaico superiore o Proterozoico.
L'era paleozoica o primaria è rappresentata, invece, in Italia in quasi tutti i suoi periodi, ma con facies assai diverse. Anzitutto è da notare che una buona parte delle formazioni gneissiche, micascistose, granitiche e simili, eminentemente cristalline, che si sviluppano abbastanza estesamente nelle Alpi, specialmente Occidentali e nel cuore di quelle Centrali, nonché nella regione calabro-sicula, e nella Sardegna centro-settentrionale, sono riferibili al Paleozoico, senza però poterne generalmente precisare l'età per la mancanza di fossili, in causa essenzialmente dell'intenso metamorfismo; la loro parte superiore è attribuibile al Permo-carbonico per tracce carboniose, ma nella loro parte inferiore non si ha finora possibilità di determinare sicure suddivisioni.
All'infuori di queste formazioni metamorfiche del Paleozoico si trovano in Italia rappresentati i seguenti periodi:
Cambrico. - Compare essenzialmente nella Sardegna meridionale (Iglesiente) per circa un migliaio di kmq., con uno spessore di varie centinaia di metri.
La serie è rappresentata, dal basso in alto, da scisti filladici, calcescisti e calcari (il cosiddetto calcare metallifero, includendo esso parte dei noti giacimenti minerarî della Sardegna); arenaria e scisti arenacei, qua e là ancora con calcari. Tale serie è spesso ricca di varî fossili, specialmente Trilobiti (Paradoxides, Conocoryphe, ecc.), Lingule, Archeociati, Bilobiti, ecc.
Silurico. - Appare tipico specialmente nelle Alpi Orientali e in Sardegna.
Nelle Alpi Orientali la serie è complessivamente formata, dal basso in alto, da: scisti e calcescisti brunastri o varicolori con molti Brachiopodi (Orthis, Strophonema, ecc.), Cistoidei, ecc.; talora scisti brunastri ricchissimi in svariate forme di Graptoliti; calcari brunastri, della potenza anche di 300-400 metri, con frequenti e svariati Orthoceras, Cyrtoceras, Cardiola, Rhynchonella, qualche Trilobite, diversi Corallarî, ecc. Alla base della serie costituente le Alpi Apuane v'è qualche affioramento di calcari e micascisti con Orthoceras, che paiono attribuibili al Silurico; dubbi sono i riferimenti analoghi di certi scisti dell'isola d'Elba. Invece in Sardegna la serie silurica è assai bene costituita, dal basso in alto: da brecce o conglomerati; da una potente formazione di scisti argillosi o arenacei, brunastri, con parecchie Trilobiti (Asaphus, Trinucleus, Dalmanites), Fillocaridi, svariati Brachiopodi (Lingula, Orthis, Strophonema, Leptaena, ecc.), Crinoidei, Cistoidei, ecc.; da svariati argilloscisti grigiobruni con diverse forme di Graptoliti; da calcari con numerosi Orthoceras e Cyrtoceras, parecchi Molluschi (Cardiola, Pleurotomaria, ecc.), Ostracodi, ecc.
Devonico. - Fu ben riconosciuto nelle Alpi Orientali, dove vi appartengono potenti masse di calcari grigiastri (dello spessore anche di un migliaio di metri), per lo più a tipo di scogliera, con centinaia di specie fossili, con predominanza ora dei Corallarî, ora dei Brachiopodi, ora dei Cefalopodi; frequenti sono i generi: Pleurotomaria, Euomphalus, Murchisonia, Loxonema, Clymenia, Posidonomya, Stringocephalus, Productella, Rhynchonella, Spirifer, Atrypa, Stromatopora, Pentamerus, Syringopora, Cyathophyllum, Alveolites. In Sardegna appartengono al Devonico superiore speciali calcari a Clymenia.
Carbonico. - Per quanto non includano generalmente il vero carbon fossile industriale, assai sviluppati sono in Italia i terreni di questo periodo. Oltre alla facies metamorfica (scisti cristallini diversi, qua e là grafitosi o anche antracitiferi) che si sviluppa in particolar modo nelle Alpi Occidentali e in qualche punto della penisola, il Carbonico è rappresentato da scisti bruni di vario genere, talora riccamente fillitiferi a Sphenopteris, Pecopteris, Cordaites, Calamites, Sigillaria, Lepidodendron, Asterophyllites, Annularia, Lepidophyllum, e nelle Alpi Orientali da scisti, da arenarie e da calcari bruni talora arenacei a Fusuline, Coralli, Fenestelle, Crinoidi, Briozoi, Brachiopodi (Spirifer, Productus, Chonetes), Molluschi (Conocardium, Bellerophon, Euomphalus).
È anche riferibile al Carbonico una parte delle svariate rocce eruttive (porfidi, porfiriti, diabasi) e fors'anche alcune plutoniche (granitoidi e simili), che talora si trovano associate alle masse scistose di tale periodo o di terreni più antichi.
I terreni carbonici, spesso assai potenti e sovente con passaggio alla facies metamorfica, si sviluppano nelle Alpi, essi riappaiono inoltre in parecchi punti della Toscana, dell'isola d' Elba e della Sardegna, dove sono talora antracitiferi.
Permico. - I terreni appartenenti a questo periodo sono in Italia, come spesso altrove, talmente connessi con quelli del Carbonico e ad essi analoghi per caratteri litologici, che ne sarebbe logica la riunione in un solo tutto Permo-carbonico (o Antracolitico).
Nelle Alpi Occidentali e Centrali, nonché in Toscana, il Permico appare in parte con facies metamorfica (pseudogneiss, micascisti, talcoscisti, besimauditi), passante a scisti varicolori, arenarie, quarziti, conglomerati (anageniti, verrucano), nonché a scisti bruni qua e là con resti di Walchia, Sphenopteris, Neuropteris, Callipteris, ecc.; mentre nelle Alpi Orientali, oltre alle forme arenacee e conglomeratiche, vi appaiono pure, specialmente alla base, calcari a Schwagerina, Fusulina, Brachiopodi (Spirifer, Rhynchonella, Productus, ecc.), calcari bituminosi e dolomie con Voltzia, Bajera, Avicula, Pecten, Bellerophon, Athyris, Spirifer.
In Sicilia furono scoperti nella valle del Sosio a nord di Palermo piccoli ma interessantissimi affioramenti di Permico calcareo marino riccamente fossilifero (Schwagerina, Spugne, Brachiopodi, Bivalvi, Gasteropodi, Nautiloidei, Ammoniti, Phillipsia, ecc.).
In Sardegna debbono essere riferite a questo periodo varie formazioni arenacee, conglomemtiche e anche scistose a Walchia, Callipteris, ecc.
Al periodo permico vanno pure attribuite importanti formazioni eruttive (porfidi varî, spesso quarziferi, porfiriti, spiliti, tufi, ecc.) che si estendono anche per centinaia di kmq. in varie parti delle Alpi.
I terreni dell'Era secondaria o mesozoica, mentre in complesso fasciano o ammantano irregolarmente la regione alpina costituiscono l'ossatura dell'Appennino, comparendo anche qua e là in Sicilia e in Sardegna; essi sono essenzialmente calcarei, di deposito marino (talora di facies atollica) e spesso assai fossiliferi, con potenza complessiva anche di oltre 1000 metri.
Triassico. - S'inizia generalmente nell'Italia settentrionale (Alpi in modo speciale) con formazioni detritiche, litoranee, quasi come ultima fase della serie permica, come arenarie micacee, quarziti, conglomerati (anageniti, servino, ecc.), il cosiddetto Werfeniano, talora con resti di Equiseti, Voltzie. Talora compaiono assai presto calcari con Pseudomonotis, Turbonilla, Naticella, ecc.
Seguono in alto potenti serie calcaree, più o meno dolomitiche, talvolta un po' arenacee, non di rado passanti a marne più o meno scistose, con resti di Equisetum e di Voltzia, spesso con innumerevoli resti di Alghe sifonee (Gyroporella o Diplopora), e con una ricchissima quanto svariata fauna (donde il nome di Muschelkalk) a Rhizocorallium, Dadocrinus, Encrinus liliiformis, Terebratula vulgaris, Rhynchonella, Spirigera trigonella, Daonella, Halobia, grandi Omphaloptycha, Ceratites trinodosus e binodosus, Trachiceras, talora anche con resti di pesci e di rettili. Famosa e ricca è la fauna dei calcari a scogliera di Esino.
Chiudono infine la serie triassica altre considerevoli formazioni calcaree e dolomitiche (la cosiddetta Dolomia principale), con giganteschi Megalodon Gumbeli e Dicerocardium, Pleutomaria solitaria, Gervillia exilis, marne (con la nota fauna di S. Cassiano) e scisti a Carnites, Myophoria, Myoconcha, Pesci, ecc. (il cosiddetto Raibliano), zone gessose, terminando in alto con calcari ad Avicula contorta, calcari dolomitici a Terebratula gregaria, Plicatule, Cardite, Cardii, Mitili, talora a grandi stampi di Megalodonti (Conchodon), Lumachelle, ecc., costituenti il cosiddetto Retico o Infralias (il Dachstein dei Tedeschi) di passaggio fra il Triassico ed il Liassico.
Nell'Appennino meridionale invece la serie triassica incomincia con scisti silicei varicolori a Fucoidi o Condriti e Radiolarî, nonché Halobie, Posidonomie, ecc., e si continua in alto coi calcari marnosi fossiliferi (Cassianella, Myophoria, Cardita, ecc.) e con potenti dolomie compatte o stratificate a Megalodontidi e Giroporelle, con Wortenia, Neritopsis, Gervillia exilis, Avicula, Mytilus. Pecten, Myophoria, Myoconcha, Cardita, ecc., nonché con la ittiofauna di Giffoni. Le formazioni endogene, quasi solo marine, sono generalmente poco importanti nel Triassico, salvo che in alcune regioni, per esempio nel Trentino, come porfidi, porfiriti, melafiri, diabasi, oltre a varî tufi, nonché rocce sienitiche, granitiche e simili assai varie, ma di età non sempre sicura. Dal punto di vista economico è da ricordarsi che la dolomia è talora metallifera (galena, blenda, calcopirite, calamina) e che al Triassico appartengono i famosi marmi bianchi e grigi delle Alpi Apuane.
Giurassico. - Formazione molto complessa e varia. La sua parte inferiore, o Liassico, è rappresentata per lo più da calcari brunastri o grigi, talora però anche rossigni, con moltissime Ammoniti (Arietites, Arieticeras, Amaltheus, Lytoceras, Hildoceras), Belemniti, Aegoceras, Harpoceras, Phylloceras, Rhacophillites, Pettini, Mitili, Lime, Avicule, molti Brachiopodi (Terebratula, Pygope aspasia, Rhynchonella, Spiriferina, Waldheimia, Spirifer). Nell'Appennino meridionale prevalgono i calcari a Terebratule, Rinconelle, Lime, Pettini, Megalodi, ecc.
Seguono a costituire il vero Giurassico svariatissimi calcari grigi o varicolori, ma prevalentemente di color rossigno (donde è poi venuto anche il nome di Rosso ammonitico), fra cui sono predominanti Hildoceras, Harpoceras, Phylloceras, Coeloceras, Lioceras, Aspidoceras, Peltoceras, Posidonomya alpina, Pholadomya, Pecten, frequenti Brachiopodi (Rinconelle, Terebratule, ecc.), talora anche calcari a Nerinee e Coralli o calcari marnosi o arenacei o silicei, o a noduli selciosi, oppure infine speciali scisti ad Aptici.
Infine la serie giurassica si chiude generalmente con i calcari grigi del cosiddetto Titonico, oppure biancastri (la maiolica dei Lombardi, il biancone dei Veneti, il calcare rupestre dell'Appennino), passanti al Cretacico inferiore, con molti Corallarî, Brachiopodi (fra i quali ricorderemo Pygope diphya, Pygopejanitor, e altri), Belemniti, Diceratidi, molte Ammoniti.
Vi sono poi tipi di regimi intermedî, i quali divengono quasi la regola, quando si ha a che fare con bacini fluviali di grande estensione. Ciò ha valore soprattutto per il Po, le cui portate medie mensili mostrano oscillazioni assai meno marcate di quelle degli affluenti alpini e appenninici; giacché i regimi diversi dei due versanti si compensano in qualche modo fra loro, dando luogo a un andamento molto più regolare (v. Po).
L'intensità delle piene, carattere comune alla maggior parte dei fiumi appenninici e insulari, è accompagnata da un'intensa azione erosiva, favorita anche dalla grande diffusione delle rocce argillose, sabbiose, ecc. poco resistenti.
Nell'Italia meridionale e in Sicilia, dove nel periodo estivo alla siccità prolungata si associa l'intensa evaporazione, molti torrenti minori sono asciutti per un periodo assai lungo; le cosiddette fiumare, numerosissime nella Calabria e nella Sicilia, restano a secco per molti mesi, anzi molte portano acqua superficiale solamente durante i periodi delle piene, allorché strappano ai terreni attraversati, che sono quasi sempre erodibilissimi, enormi quantità di materiali; questi nel tronco inferiore, nel quale per la minor pendenza l'energia di trasporto naturalmente si attenua, restano a ingombrare il fondo, che risulta pertanto larghissimo in proporzione allo sviluppo del corso d'acqua.
La diffusione, già accennata, delle rocce calcaree, tanto nelle Alpi e Prealpi orientali, quanto nell'Appennino centrale, fa sì che in parecchie regioni d'Italia assuma notevole sviluppo l'idrografia carsica. Vaste aree prive interamente di circolazione superficiale (cioè con idrografia esclusivamente sotterranea) si hanno per vero solo nel Carso e nella Penisola Salentina; ma zone più ristrette si riscontrano sia nelle Prealpi orientali (Altipiano dei Sette comuni, Cansiglio), sia nei massicci abruzzesi (Velino, Duchessa, Maiella, Matese) e in quelli del Subappennino Romano (bacini dell'Aniene, del Salto e del Turano) e anche qua e là altrove (Lepini, massicci irpini, Madonie). Di solito l'acqua che circola in seno a questi massicci calcarei, affiora poi alla base di essi in sorgenti localizzate, spesso molto copiose; il loro comportamento ha grande influenza sul regime dei corsi d'acqua che esse alimentano, la loro distribuzione è di primaria importanza come fattore determinante della distribuzione dei centri abitati, che spesso si affollano intorno alle sorgenti, delle coltivazioni, ecc.
Bacini lacustri. - Tra le penisole dell'Europa meridionale l'Italia è la più ricca di bacini lacustri, pur essendo ben lontana dall'uguagliare la Finlandia, la Scandinavia, e anche la Svizzera. Questa ricchezza di laghi era ancor maggiore in epoche geologiche recenti. p. es. nel Pliocene; un gran numero di conche lacustri, anche di dimensioni considerevoli, allora esistenti nella penisola si sono prosciugate; in certi casi ne sono rimasti residui fino in età storica (Vallo di Diano) e le tracce permangono tuttora.
Oggi i laghi di maggiore estensione appaiono essenzialmente raggruppati in due zone, una subalpina, l'altra corrispondente all'Antiappennino tosco-romano. Per l'origine, assai complessa, dei grandi laghi subalpini, v. alpi. La maggior parte dei laghi dell'Antiappennino sono laghi vulcanici; essi occupano, cioè, il fondo di crateri di apparati vulcanici spenti, ovvero cavità più ampie risultanti in sostanza dalla fusione di più crateri contigui (laghi di Bolsena, di Bracciano, di Vico, di Albano, di Nemi, ecc.; v. alle rispettive voci); altri minori laghetti della stessa origine sono ora prosciugati. Non è tuttavia un lago vulcanico il più ampio bacino dell'Italia peninsulare, il Trasimeno, che occupa un'area depressa, interposta fra i rilievi dell'Antiappennino e del Subappennino, chiusa e trasformata in conca (di piccolissima profondità) da materiali alluvionali deposti da corsi d'acqua vicini (v. trasimeno). Laghi di analoga origine si hanno anche altrove (laghi di Bientina e Fucecchio; laghi reatini).
Numerosissimi sono poi in Italia i laghetti di piccole dimensioni, che non appaiono nelle carte ordinarie. Nelle Alpi vi sono parecchie centinaia di laghetti di circo, e taluni di essi s'incontrano anche nell'Appennino (considerato, questo, in tutta la sua estensione, dai gruppi montuosi del Piacentino e del Parmense al M. Pollino) e nelle Alpi Corse. Piccoli laghi intermorenici si trovano in seno ai maggiori anfiteatri ai piedi delle Alpi e taluni fra essi hanno una discreta estensione (laghi di Candia, di Viverone, ecc., nell'anfiteatro morenico della Dora Baltea; laghi briantei; laghi dell'anfiteatro morenico benacense, lago di Cavazzo nel Friuli, ecc.). Frequenti sono i laghi carsici, sia nel Carso istriano (Lago d'Arsa ora prosciugato, lago di Circonio) sia qua e là nell'Appennino e nel Subappennino (Lago del Matese, Lago di Canterno); alcuni di essi, di più ampie dimensioni, furono prosciugati. Non mancano laghi di sbarramento, a prescindere dai morenici (sbarramento per frana o altro; lago di Alleghe; lago di Scanno); parecchi di essi hanno peraltro esistenza precaria.
Numerosi sono poi, sia nella Penisola, sia in Sardegna e in Corsica, i laghi costieri, sebbene parecchi, specie sul litorale tirreno della Penisola, siano stati colmati o prosciugati anche artificialmente. I maggiori, nella Puglia settentrionale (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi), nel Lazio meridionale (laghi di Fogliano, di Paola, di Fondi, ecc.), in Sardegna (laghi di Sassu, di Cabras, di S. Giusta), sulla costa orientale della Corsica (laghi di Urbino, di Diana, di Biguglia), sono quasi sempre antiche insenature separate da cordoni litoranei, sia continui, sia interrotti in uno o più punti. Per altri laghi e lagune costiere, come quelle dell'Estuario veneto, l'origine è più complessa (v. laguna: Laguna veneta).
La seguente tabella dà i nomi e gli elementi dei principali laghi italiani (con area superiore a 10 kmq.).
Flora e vegetazione. - La prima fu oggetto da 4 secoli in qua di molte ricerche consacrate in opere estese a tutta l'Italia (v. flora) e a singole provincie e distretti, e che hanno fatto conoscere, quanto alle piante vascolari, quasi tutte le specie e le varietà che vi crescono. Meno studiato e approfondito fu il lato ecologico e quello fitogeografico, che solo da alcuni decennî si affrontano con criterio moderno, sicché restano molte lacune da colmare e di un cospicuo numero di specie, se è abbastanza nota l'area, poco note sono le condizioni in cui vegetano. Una prima sintesi geobotanica, rimasta incompleta, fu abbozzata da Filippo Parlatore (1878): è un Prodromo quello di A. Fiori premesso al vol. I della Flora analitica d'Italia (1908): ci manca, invece, un'opera d'insieme, condotta con metodo rigoroso e perfettamente aggiornata.
Complessivamente il numero delle vascolari italiane varia da 4 a 5000 e sarebbero precisamente 3877 (comprese le più largamente coltivate e naturalizzate) secondo la Nuova Flora Analitica d'Italia del Fiori (1923-29), che ne è l'ultimo accurato censimento: le oscillazioni dipendono dal diverso criterio che gli autori si son fatti delle specie; molto comprensivo è stato quello adottato dal Fiori. Sarebbe, invece, prematuro fissare il numero delle piante cellulari, certamente assai ragguardevole, come si ricava da quanto fu sin qui edito dalla Flora Italica cryptogama, ma molte ne restano a scoprire; meno nota è la loro distribuzione; perciò di esse daremo solo qualche cenno occasionale. Il numero delle prime è indice di un'indubbia ricchezza della flora nostrana non in proporzione con la superficie come emerge dal confronto, ad esempio, con la Francia e con la Penisola Iberica. Ma quest'ultima e la Balcanica la superano per una più potente individualità e originalità, testimoniate dal più elevato numero delle specie endemiche dovuto a una minore decimazione operata dal Glaciale, come sarà detto a suo luogo.
Tre climi fondamentali (nel senso con cui la parola climate è intesa dai fitogeografi americani e inglesi) si contendono il dominio della penisola e delle isole: quello mediterraneo di tipo marittimo, semi-arido e temperato, al quale corrispondono consorzî in prevalenza di sempreverdi: quello montano, carico di umidità e a tinta oceanica, di cui la faggeta è la più tipica espressione: finalmente l'alpino, del resto poco noto, ed è il clima che si caratterizza al disopra della cintura arborea e molto simile deve essere quello che regna nelle zone più elevate dell'Appennino e delle isole, che l'Emberger ha di recente chiamato clima mediterraneo di alta montagna, comprendendovi anche i boschi di aghifoglie. Essi del resto offrono una quantità di forme per così dire locali dovute alla latitudine, alla vicinanza della costa, all'esposizione dei versanti, alla direzione delle valli e sono questi climi locali che, assieme ai fattori edafici, hanno determinato un grande numero di associazioni, le più estese delle quali sono designate col nome di formazioni; qui si passeranno in rassegna le principali di esse in base alle zone di vegetazione.
La prima zona (prescindendo per ora da quelle coperte dalle acque) è la mediterranea, detta anche dei sempreverdi per il largo sviluppo di frutici, arbusti e alberi a foglie persistenti: sommano complessivamente a un centinaio di specie rappresentanti circa l'11% della sua flora, di fronte a 386 (41,2%) di sole piante annue; e la sproporzione aumenterebbe se nel compto si comprendessero le bienni e le erbacee perenni. Dunque, non è il numero che decide, ma la loro grande diffusione e la fisionomia che imprimono al paesaggio litoraneo o prossimo alla costa, in confronto con quello delle zone retrostanti.
Una delle formazioni più estese e caratteristiche è la "macchia mediterranea" costituita dalla consociazione di arbusti e suffrutici per lo più sempreverdi: quali i cisti (Cistus), le eriche (Erica), le filliree (Phyllyrea), l'oleastro (Olea europaea oleaster), il mirto (Myrtus communis), il lentisco (Pistacia lentiscus, cui spesso si associa la caducifoglia P. terebinthus), il corbezzolo (Arbutus unedo), tre ginepri, un'euforbia dal portamento arborescente ma priva di foglie nella stagione siccitosa (Euph. dendroides), una palma abbondante specialmente in Sardegna e Sicilia, l'unica indigena da noi (Chamaerops humilis), parecchie labiate ricche di olî essenziali quali il rosmarino, la stecade (Lavandula stoechas), due timi (Thymus vulgaris e Th. capitatus), qualche leguminosa spinescente (Calycotome, Genista sp.), alcune liane come gli Asparagus e la Smilax. ecc. Il nome di cisteto, ericeto, palmeto e simili stanno a indicare il predominio che alcune specie assumono; la macchia è bassa, con la prevalenza del corbezzolo, del ginepro fenicio, di alcune filliree, col mescolarsi dell'alloro e dell'oleastro come in alcuni settori della Sardegna e, dove predomina il leccio, trapassa a macchia alta, detta anche macchia-foresta: una variante della prima è la gariga (dal provenzale garigue) propria dei suoli calcarei. Con gli arbusti si mescolano e ne riempiono le radure numerose piante erbacee (specialmente Graminacee, Cariofillacee, Leguminose, Labiate, Composte) spesso annuali e, nei suoli sterili, ridotte alle più piccole dimensioni e a fioritura accelerata (la cosiddetta microflora mediterranea precoce), molte bulbose e tuberose (complessivamente 180 specie) quali gli Asphodelus e i Narcissus che si diffondono anche nelle intercluse o finitime formazioni pratensi, la Scilla maritima, la graminacea dalle ampie pannocchie Ampelodesmos tenax, gigantesche Ombrellifere (Ferula, Thapsia), Carduacee spinose dalle vistose infiorescenze (Onopordon, Cynara, Scolymus), mentre negli arenili un po' umidi vivono numerose microfite dei generi Juncus, Sagina, Montia, Tillaea, insieme alle Isoëtes dalle foglie graminiformi.
Ma nella fascia litoranea vi sono anche estese formazioni boschive sempreverdi, dove la macchia entra come sottobosco, con predominio ora di Quercus ilex (lecceti), ora di Q. suber (sugherete), con vario mescolamento, soprattutto là dove il suolo è profondo e fresco; e nel versante di terra, di caducifoglie quali la rovere, il cerro, l'ornello, il carpino, la carpinella, il nocciolo, il castagno e, come sottobosco, qua e là la stessa Calluna vulgaris che diventa più abbondante nella zona seguente. Ampie superficie sono pure occupate da boschi di aghifoglie formate dal pino marittimo (P. pinaster) ancora abbondante sulle pendici litoranee della Liguria e Toscana, dal pino d'Aleppo (P. halepensis) più comune a sud e più legato alla vicinanza del mare e frequente anche nel versante adriatico sino al Gargano, dal pino da pinoli (P. pinea), che spontaneo incornicia le basse pendici dei Peloritani attorno a Messina, mentre le estese pinete della Toscana e del Lazio, che del resto risultano di essenze diverse, e quelle classiche del litorale ravennate sembrano dovute ad antica introduzione dell'uomo. Ripete questa origine quel piccolo nucleo che forma il bosco Nordio presso Cavanella d'Adige che ospita le ultime stazioni del leccio, della fillirea, della Lonicera etrusca le quali, assieme ad altri tipi termofili, ricompaiono entroterra sulle pendici soleggiate dei Colli Euganei e lungo il mare nell'estesa pineda del Friuli alla destra e più ancora alla sinistra del Tagliamento formata però dal pino nero (Pinus nigra var. austriaca) elemento illirico-balcanico che spinge le sue propaggini anche sulle Alpi Carniche e Trevigiane.
Formazioni tipicamente litoranee sono quelle delle arene e delle dune e quelle dei terreni salati e umidi e che acquistano la più larga estensione nei territorî lagunari. Caratteristica delle dune mobili è l'Ammophila arenaria, graminacea con possente apparato radicale atto a fissarle, associata all'Agropyrum iunceum che spesso, però, la precede: i terreni salmastri e spesso paludosi o inondabili ad alta marea, come nelle lagune, alimentano parecchie Salsolacee alofilo-igrofile (Salicornia, Salsola, Suaeda, Arthrocnemum), alcune Statice, l'Aster tripolium, l'Inula crithmoides che si diffondono anche sulle rupi litoranee spruzzate dal pulviscolo marino. Pioniere di questa vegetazione nel litorale veneto-istriano è la graminaeea Spartina stricta, tipo atlantico euro-americano.
La zona mediterranea, così largamente rappresentata in Italia, è un settore della regione mediterranea, la cui posizione quasi centrale, la remota definitiva epoca di emersione di qualche suo lembo, i pregressi rapporti di continuità con i settori finitimi, hanno contribuito a popolare degli elementi floristici più disparati ed esso stesso ha fornito e favorito la diffusione di quelli sorti nel suo seno, di guisa che è ben difficile caratterizzarlo. Così l'attuale distribuzione della Chamaerops humilis, che è soprattutto iberica e africano-atlantica, e da noi esclusivamente tirrenica e sardo-sicula, svela i rapporti con l'antica flora occidentale-atlantica, di cui si trovano esponenti, ad es., nel settore ligure di ponente: Carex Mairii, Aphyllanthes monspeliensis, Leucojum hiemale, Genista hispanica, che sono tipi provenzali o iberici. Viceversa le colonie di Apocynum venetum disseminate nelle sabbie marine dell'Estuario veneto-padano da Trieste a Ravenna sono gli estremi avamposti di una specie che Béguinot ha potuto seguire dalla regione del loess nella Cina, attraverso la zona stepposa dell'Asia, dove ha i suoi eongeneri, per poi diffondersi lungo i litorali (eventualmente aiutata nella sua espansione dalle correnti litoranee) mentre altri tipi steppici, attraverso la valle del Danubio e affluenti, si spinsero sin nel cuore dell'Europa e penetrarono nello stesso dominio delle Alpi. La presenza in Puglia di due rare querce balcaniche, la Quercus aegilops e la Q. troiana (= Q. macedonica) e quella di numerose piante erbacee e fruticose circoscritte nel versante adriatico, dal Gargano in giù, fa pensare a un' irradiazione dall'opposta sponda, favorita forse da un'intercapedine nell'Adriatico meridionale (la cosiddetta Adria). È più abbondante la magnifica Quercus farnetto Ten. che si trova anche nel versante tirreno sino al Lazio meridionale ed e quasi tutt'uno con la Q. conferta che forma estesi boschi nella Balcania. Sno elementi tropicali la Woodwardia radicans, le Pteris longifolia e cretica, tre felci che si trovano sporadiche qua e là e in alcuni valloni della costiera amalfitana distinta per l'alta piovosità, il Cyperus polystachyus delle fumarole d'Ischia, i muschi Calymperes Sommieri di Pantelleria e Barbella strongyloides dello Stromboli; di origine capense è, tra gli altri, il genere Romulea che, con qualche sua specie nell'alta zona del Chilimangiaro e del Camerun, si è diffuso verso i paesi circummediterranei dove ha formato parecchie specie endemiche anche da noi, prova del remoto avvento di questo ceppo paleoafricano. Tanti altri fatti interessanti e tanti lati oscuri ci svelano, illuminandoli, appunto gli endemismi; questi, secondo il Buscalioni, sarebbero 52 su 2418 specie esodemiche e su un totale di 202 riscontrati in tutta l'Italia, ma il numero appare ben al disotto del reale, come emerge chiaro da una recente memoria di Béguinot e Landi quantunque limitata solo alle entità endemiche delle minori isole e a quelle che queste hanno in comune con le maggiori e la Penisola. Per importanza il primo posto è occupato dai paleoendemismi che si riconoscono per l'area molto isolata e circoscritta, ovvero disgiunta, per le affinità oscure o remote, per il frequente monotipismo. Ricordiamo l'Helicodiceros muscivorus Engl., monotipo che la Sardegna e la Corsica hanno in comune con le Baleari, il Pancratium illyricum L., unico rappresentante europeo della sez. Halmyra che cresce nelle isole nominate e a Capraia, l'Helxine Soleirolii Req. monotipo corso-sardo, Kochia saxicola Guss. di Ischia, Capri e Strombolicchio (Eolie) affine a K. pubescens Moq. del C. di B. Speranza; Morisia monantha Asch., strana Crucifera geocarpa e monotipa confinata nella Sardegna e Corsica ma anche nella zona montana; Bupleurum dianthifolium Guss. e Scabiosa limonifolia Vahl delle Egadi con affinità ibero-balcaniche; Mentha Requienii Benth. di Sardegna e Corsica, di Caprera e Montecristo affine, secondo il Briquet, a M. Cunninghami della Nuova Zelanda; Nananthea perpusilla DC. monotipo esclusivo di alcune isolette circostanti alla Corsica e Sardegna; Melitella pusilla Somm. che si trova a Malta e Gozo, la quale per l'abito ricorda l'abissino Dianthoseris, mentre remote affinità la collegano con il mediterraneo Zacyntha, Centaurea horrida Bad. esclusiva delle piccole isole sarde di Asinara e di Tavolara e quivi solo nel versante nord-est dove affiora il granito, affine a C. spinosa L. della Grecia e dell'Arcipelago Egeo, ecc. Ma non meno interessanti sono parecchi microendemismi discendenti da un capostipite a larga area distributiva nei territorî circummediterranei che si è frammentato in razze locali, alcune forse di origine mutativa, e che l'isolamento ha mantenuto, quali le Brassica che fanno capo a Br. oleracea: le centauree appartenenti al ciclo di C. cineraria L. e specie affini e cito tra queste ultime: la C. Friderici Vis. limitata alla Pelagosa Piccola e che ha i suoi prossimi parenti in endemismi dello scoglio Pomo presso Lissa, la C. aeolica Guss. ex DC. che le Eolie hanno in comune con l'isola di Ventotene (Ponziane) e Ischia, la C. gymnocarpa Mor. et Dntrs. di Capraia, la C. Veneris (Somm.) Bég. della piccola Palmaria, ecc. Questi fatti mostrano interferenza dei ceppi più diversi, affinità multiple e spesso remote che fanno del Mediterraneo una concentrazione di fossili viventi delle più disparate prosapie ma, come si vedrà, non mancano accessioni anche relativamente recenti.
Il passaggio dalla zona mediterranea alla submontana è segnato dal prevalere delle caducifoglie rappresentate dai querceti del tipo farnia e più ancora di varietà e razze che fanno capo a Q. lanuginosa, e a Q. cerris, dai castagneti nei suoli silicei, mentre in esposizioni propizie e dove la piovosità si accentua si trova lo stesso faggio che un tempo si abbassava ancora di più e anche a quote minori si trova l'emblema della brughiera, la Calluna che, per citare un solo esempio, entra a costituire il sottobosco del versante di terra del promontorio di Portofino coperto di caducifoglie, mentre le pendici sul mare hanno il pino marittimo, l'Erica arborea, i cisti, il leccio e tanti altri tipi della macchia e del bosco sempervirenti: ché anzi è una caratteristica della zona di ospitare elementi dei due consorzî, ora in continuità con le formazioni litoranee, ora a isole là dove le condizioni sono parzialmente propizie: i lecceti vi raggiungono i 1000-1200 m. intersecando con il faggio o con questo spingendosi sino alla sommità del versante a bacio: nell'Appennino meridionale la Q. farnetto acquista importanza su questa zona: in Sicilia, la Q. cerris vi forma una fascia compresa fra i 700 e i 1000 m., più di rado a 1500 m., e che si sovrappone ai sughereti, ma vi è una zona d'intersezione dove crescono magnifici esemplari di Q. pseudo-suber concepita come un prodotto di incrocio fra le due essenze: sono due elementi ad affinità orientale l'ontano di Napoli (Alnus cordata Ten.) diffuso nell'Appennino meridionale che ha il suo omologo nell'A. subcordata Mey. del Caucaso e una forma locale del Platanus orientalis in alcune vallate della Basilicata e Calabria e, più abbondante ancora, nella Sicilia orientale. Zona, dunque, di tensione e di contrasto la cui vegetazione riflette forse meglio di altre quelle oscillazioni climatiche che caratterizzarono il Quaternario e l'immediato postglaciale e l'opera modificatrice dell'uomo, come sarà meglio detto avanti. A essa si può assimilare, a parte l'altitudine, la zona padana con gli annessi distretti collinari e gli apparati morenici: i querceti misti, le brughiere degli altipiani diluviali dove domina la Calluna, i castagneti, le isole di macchia mediterranea negli Euganei, le colonie microtermiche dove affiorano torbiere, le propaggini di steppa nei substrati più clastici del morenico recente, mentre l'antico ha la mediterranea Erica arborea, sono altrettanti elementi di contrasto che è, come si disse, quasi un appannaggio di questa zona. Di essa è facile riconoscere i segni e gli esponenti nella più o meno ampia fascia pedemontana delle Alpi e attorno alle conche lacustri con i castagneti del settore insubrico, le macchie di cisto salviefolio e dell'erica arborea nei solatii del lago di Como, i laureti della sponda bresciana del Garda e un po' dovunque il bosco misto di Quercus lanuginosa e di Q. ilex che riveste anche le pendici della bassa valle del Sarca sino alla conca di Toblino e sino a circa 1000 m. dove il leccio raggiunge, con l'olivo che si arresta un po' più in basso, una delle latitudini più elevate e un'altra sua colonia c'è nel bacino di Gorizia, ben noto per il suo clima invernale temperato: molto estesa e del tutto isolata è la colonia di Erica arborea nella media valle del Chiese tra Caffaro e Brione dove, con Calluna e Sarothamnus, costituisce il sottobosco di estesi castagneti. Questi fatti portano alla conclusione che la regione mediterranea con le sue espansioni giunge sino ai limiti estremi della zona submontana e sono queste irradiazioni una delle cause di quel mosaico di consorzî che la caratterizzano.
La zona montana è propriamente il clima del faggio e delle conifere di alta montagna. Le Alpi hanno in comune il primo con tutto l'Appennino, Sicilia e Corsica (v. alpi; appennino): faggete ora pure, ma più spesso consociate con l'abete bianco (Abies alba) che ha esigenze ecologiche simili al faggio nelle Alpi, con l'abete rosso (Picea excelsa) atto a resistere a un clima più rigido e continentale e che finisce perciò per sovrapporglisi, in Calabria e sull'Etna col Pinus laricio mentre si giustappone a questo nelle alte montagne della Corsica preferendo il pino i versanti più soleggiati. Altri consorzî sono il Pinus silvestris, che preferisce i terreni sciolti e asciutti dove forma pinete anche pure e che serve di collegamento con la zona precedente ritrovandosi, a quanto pare, anche nell'Appennino settentrionale e in Corsica, e lo stesso larice (Larix europaea), la sola decidua fra le conifere nostrane, che del resto forma lariceti puri e compatti ai quali sovrastano individui isolati a rami contratti quasi colonnari che si avanzano nella zona subalpina, come fa il congenere L. sibirica che si spinge oltre il limite della foresta siberiana, nel terreno gelato della tundra. Eliofilo e, quindi, preferibilmente nelle esposizioni solatie, è sostituito in quelle a bacio dal cembro (P. cembra) che tende pure a occupare le posizioni più elevate raggiungendo i 2500 m. e con individui isolati anche più: cembro, larice e picea sono elementi siberiani mancanti nell'Appennino e nelle isole. Tutte le conifere nominate tendono a prendere il predominio e finiscono per sostituire il faggio, essenza fondamentalmente oceanica, a mano a mano che dalle Prealpi e dalle vallate più periferiche si penetra nel cuore della catena o ci si inoltra in vallate a scarsa piovosità come, ad es., la parte media e superiore della Val Venosta, dove il settore sottostante alle abetaie del versante a solatio e lembi più o meno estesi di quello a bacio sono coperti da una formazione a fisionomia e a struttura di steppa nella quale il Pinus silvestris è ridotto a piccoli nuclei e la stessa Quercus lanuginosa si trova a disagio e finisce quasi del tutto per scomparire da Castelbello in su. Vi si sostituisce una rada boscaglia di juniperus communis, Berberis vulgaris, Hippophaë rhamnoides con interposte cenosi a base di Andropogon ischaemum, di Stipa capillata (più rara e a piccole colonie la St. pennata), di Lasiagrostis calamagrostis nelle frane e nei dirupati, ecc.: molto abbondanti e ovunque diffusi alcuni Astragalus e Oxytropis di tipo steppico (A. excapus, onobrychis, leucanthus; Oxytr. velutina, pilosa, ecc.), il Telephium Imperati che si riscontra pure nelle colonie xerotermiche della Val di Susa e Val d'Aosta, ecc. Nel versante opposto i boschi di conifere sono orlati da una cintura più o meno spessa di Betula alba (verrucosa) e in generale si nota in quei distretti dove questa pianta e l'ontano verde (Alnus viridis) diventano abbondanti, il faggio è scarso o manca del tutto. Bisogna tenere presente che la betulla ha una sua razza endemica nell'alta zona boscosa dell'Etna e l'ontano trova un suo omologo nell'A. suaveolens Req. che ricinge le elevazioni maggiori della Sardegna e della Corsica tra 1600 e 1900 m. e se ne deve di necessità concludere che tali collegamenti tra catene così distanti dipendono da qualche fattore distributivo generale cui si accennerà in seguito. Le formazioni forestali della zona montana delle Alpi hanno un carattere fondamentalmente centro-europeo e tale si mantiene nell'Appennino settentrionale, mentre nel centrale la presenza di P. nigra, in quello meridionale questo stesso e P. brutia e P. leucodermis che sono tutti elementi balcanici e quella di P. laricio che la Calabria ha in comune con la Sicilia e Corsica e che si spinge sino alla Spagna dànno a questi consorzî impronta meridionale a colore specialmente orientale; e ciò dimostra che le affinità transadriatiche non sono limitate alla zona litoranea, né del resto riguardano solo le essenze legnose. Un lavoro di A. Trotter sugli elementi balcanici in Italia in rapporto all'intercapedine che si chiamò Adria svela quanto cospicuo sia il contributo di piante erbacee di origine illirica nell'Appennino centrale e meridionale.
Altre formazioni della zona sono i pascoli e le rupi aride e stillicidiose, e detriti di falda, ecc., ma troppo lunga riuscirebbe l'esemplificazione delle loro specie più caratteristiche e delle endemiche.
Al disopra della vasta e cupa cintura arborea, interrotta da prati e da scoscendimenti rupestri, è molto sviluppato nelle Alpi un consorzio di arbusti gregarî, molti dei quali trasmigrati dalle sottostanti foreste e che caratterizzano meglio di altri la zona subalpina che qualche vecchio botanico designava col nome di zona dei mughi dall'abbondanza del Pinus mugo (= P. montana) che riveste specialmente i dirupati dolomitici, cui si associa una forma nana e prostrata del comune ginepro (Jun. montana), parecchie Ericacee, alcuni salici a fusti aderenti al suolo e a piccole foglie che salgono anche alla zona successiva (Salix herbacea, reticulata, retusa), l'Empetrum nigrum, ecc. Se ne trovano tracce nell'Appennino settentrionale: il ginepro nano e un suo congenere, il J. hemisphaerica, la Daphne glandulosa, una razza di mugo (P. pumilio) sono a ricordarla nel centrale assieme al faggio che diventa cespuglioso e a fusti contorti. Il consorzio è molto sviluppato nell'Etna col ginepro emisferico, il Berberis aetnensis, l'endemico Astragalus siculus Biv. di un ceppo orientale, la giunchiforme Genista aetnensis DC. che l'Etna ha in comune con la Sardegna. Qui e in Corsica un'altra Berberis (B. Boissieri Schn.) che sembra però identica all'aetnensis e il già ricordato Alnus suaveolens stanno a designare questa zona che presenta molti dei suoi componenti xerofili alcuni dei quali sono sempreverdi.
Lo stesso carattere impronta molte delle specie della zona propriamente alpina nella quale penetra qualche suffrutice e vegetano alcune poche annuali, mentre il percento assai più elevato è dato dalle piante erbacee perenni atte a compiere il ciclo vitale nel breve periodo di 3-4 mesi: ma naturalmente, date le molto disparate condizioni ecologiche, non mancano specie con adattamenti igrofitici e consorzî igrofili. Rimandando alla voce alpi (II, p. 609 segg.) per quanto concerne le condizioni e i limiti altimetrici, diremo che, secondo i calcoli del Fiori, la nostra flora alpina presa nel suo complesso (da 1600-2100 m. in su) conta di proprio 371 specie, cui vanno aggiunte 521 in comune con la montana e 153 con questa e la mediterranea. La catena delle Alpi anche nel suo versante sud, che è quello che ci riguarda, offre una delle più tipiche concentrazioni d'ipsofite e certo la meglio studiata. Esse derivano da capostipiti già presenti nel piò recente Terziario con affinità ora molto strette e ora solo di genere con le ipsofite evolutesi in altre catene montuose elevate dell'Eurasia e dell'America alle quali vennero aggiungendosi specie di origine mediterranea e subtropica mancanti alle catene oloartiche (Phyteuma, Achillea, Anthyllis, Sempervivum, Globularia, Erinus, Berardia, ecc.), specie di origine circumpolare ovvero steppica che raggiunsero la catena nel Quaternario grazie a quelle alterne condizioni di clima ora continentale e ora oceanico di cui si dirà avanti, ma alcune sono così strettamente imparentate con capostipiti esistenti nelle zone più basse o nelle pianure e valli intergiacenti o finitime da doversi considerare come derivazioni in posto per adattamenti all'altitudine non ereditarî eventualmente replicatisi in luoghi e tempi diversi (variazioni parallele politopiche). L'influenza del Glaciale si fece risentire su tutta la catena determinanoo l'abbassamento del livello delle nevi perpetue e obbligando le ipsofite ad abbassare i loro limiti, a scendere a valle o a emigrare in massicci periferici. Ma che nel versante sud e specialmente nelle zone estreme delle Alpi Marittime e Orientali le crisi glaciali siano state meno potenti si deduce da una trentina di endemismi, tra arcaici e neogenici, salvatisi in corrispondenza di questo versante nei cosiddetti massicci di rifugio: sta di fatto che nel versante opposto, se si prescinde da forme di origine apogama o dovute a mutazione, mancano endemismi propriamente specifici. Nel ripopolamento avvenuto dopo l'ultima crisi glaciale molta importanza hanno avuto le immigrazioni dall'Oriente e specialmente dalla Balcania il cui percorso, come ha dimostrato da noi R. Pampanini, è stato guidato dalla natura fisico-chimica del terreno e ha trovato i suoi arresti in corrispondenza delle principali vallate e dei laghi. Queste barriere sarebbero state il massiccio tra l'Adige e il Brenta, corrispondente al limite occidentale delle Alpi dolomitiche, l'Adige, il lago d'Iseo con la Val Camonica, il braccio specialmente orientale del lago di Como e il lago Maggiore: arresti che, almeno in parte, coincidono con i limiti delle regioni naturali delle Alpi quali furono stabiliti dal Haug su dati geologici e geofisici. È l'estrema propaggine di un oriente anche più remoto la Wulfenia carinthiaca Jacq. che sfiora appena il suolo italiano presso Pontebba e che si trova in Carinzia, Carniola e Montenegro, ma della quale sono specie affini la W. Baldacci Deg. dell'Albania, la W. orientalis Boiss. della Siria e la W. Amherstiana Benth. dell'Asia centrale.
Importante, anche per la sua originalità, è la zona alpina dell'Appennino e particolarmente del centrale con un numero ragguardevole di specie in comune con le Alpi, poche le alpine-circumpolari e in generale le eurasie-americane, parecchie e altamente indiziarie quelle in comune con la Balcania (Saxifraga glabella Bert., S. porophylla Bert., Scabiosa silenifolia W. et K., Hypochaeris cretensis Chamb. et Bory), una trentina almeno di endemismi alcuni dei quali rappresentati da razze geografiche di cui la vicaria è presente nelle Alpi (Saxifraga tridens Jan. del ciclo di S. androsacea L.; Astrantia pauciflora Bert. del ceppo di A. minor L.; Gentiana Columnae Ten. di G. campestris L.; Pedicularis elegans Ten. di P. gyroflexa; Androsace Mathildae Lev. di A. alpina L., ecc.), e altri che con le Alpi non hanno nulla da vedere e rappresentano ceppi mediterranei o balcanico-orientali (Malcolmia Orsiniana Parl., Adonis distortus Ten., Hedraeanthus graminifolius DC. f., ecc.). Degno di nota il rinvenirsi di alcune specie o forme affini in Sicilia, ovvero Sardegna e Corsica (Colchicum parvulum Ten., Arenaria Bertoloni Fi., Bunium alpinum W. et K., Hipochaeris cretensis Ch. et Bor., Robertia taraxacoides DC. ecc.) in quanto lascia intravedere certi collegamenti anche con sistemi montuosi piuttosto distanti, prova di antichi scambî e interferenze.
Poche le specie di carattere ipsofilo che si spingono nell'Appennino meridionale che ha di proprio, ma limitata nella zona montana, la bella Cryptotaenia Thomasii DC. di cui un'altra specie vive nel Camerun e una terza nell'America Settentrionale. È pure solo montano ornamento del siculo Valdemone così povero di endemismi, la singolare Petagnia saniculaefolia Guss. che costituisce un genere monotipico fra i più aberranti tra le Ombrellifere. Fatte poche eccezioni di cui si è accennato, i parecchi endemismi dell'alta regione dell'Etna, compreso il senecio aetnensis, si rivelano forme di adattamento di specie planiziarie o di bassa montagna.
Ragguardevole è il complesso d'ipsofite che popolano la zona alpina della Sardegna e della Corsica al disopra della cintura di Alnus suaveolens. L'analisi fatta per quest'ultima isola dal Briquet svela i varî componenti, tra i quali non manca il boreale-alpino e l'alpino, ma è degna di nota la mancanza di generi più ricchi in specie nelle Alpi (Campanula, Gentiana, Pedicularis, Primula, Androsace, ecc.). Una trentina almeno gli endemismi alcuni dei quali certo paleogenici e valga per tutti il raro Delichrysum frigidum W. della sez. Virginea DC. che comprende il nominato, l'H. virgineum Boiss. della zona alpina del M. Athos, l'H. Amorginum Boiss. et Orph. dell'isola di Amorgo (Cicladi) e l'H. Billardieri Boiss. et Bal. del Libano. Ma anche più cospicuo è nelle due isole il contingente di forme endemiche della zona montana alcune delle quali salgono su dal litorale e, tenendo conto di quanto già si disse della ricchezza di endemisari mediterranei, è lecito concludere che l'arcipelago corso-sardo rappresenta da noi la massima concentrazione di specie proprie, molte delle quali di tipo arcaico.
Alle notizie sulle varie zone terrestri giova aggiungere quelle relative alle zone coperte dalle acque marine o dolci e che interessano piante immerse nelle acque ma aderenti alle sponde, piante sospese nelle acque, il cosiddetto fitoplancton, e piante del fondo costituenti il fitobentos. Nelle acque del mare a una profondità non superiore ai 30 m. vivono pochissime fanerogame delle quali le piti comuni sono: Posidonia oceanica, Cymodocea nodosa, Zostera marina e nana che formano vaste praterie sottomarine e, a eccezione della prima, anche in fondi lagunari con l'aggiunta di Ruppia maritima e a volte di Zannichellia palustris. Numerosissime sono, invece, le alghe. Per quelle aderenti alla costa è stata distinta una zona litorale o intercotidale alternativamente scoperta o coperta dalla marea; una zona tra questa e la profondità di 5 m.; una sino alla profondità di 35 m.; e finalmente un'ultima fra la quota 35 e il limite inferiore che in generale non oltrepassa i 150 m. Nelle prime due zone prevalgono le Cloroficee, nelle ultime due le Rodoficee; le Feoficee sono soprattutto nei livelli intermedî, ma in generale quasi tutte le cenosi contengono un vario miscuglio dei tre tipi e tutto si riduce alle proporzioni diverse degli stessi. Anche per le alghe, che pur si prestano a un facile trasporto, si notano singolari localizzazioni e, quindi, forme endemiche. Una di queste è il Fucus virsoides (Don.) Ag. così frequente ed esclusivo della zona intercotidale dell'alto e medio Adriatico, ma che d'altra parte è affine a specie del nord-atlantico. Così nel golfo di Fiume l'afflusso di acque sotterranee fredde determina le condizioni opportune per l'esistenza della Diatomea Thalassiothrix Nitzschioides e di parecchie naviculoidi dei mari del nord non certo importate dalle correnti attuali, perché queste correnti non arrivano nell'Adriatico, ma vi è pure qualche rappresentanza di tipi orientali trasportati da correnti litoranee e questo ricorda il caso già ricordato dell'Apocynum venetum.
Ma molte alghe (soprattutto Cloroficee, Diatomee, ecc.) sono abitatrici delle acque dolci e, quindi, dei laghi, stagni, paludi, corsi d'acqua, ecc. che offrono svariate condizioni ecologiche anche alle altre cellulari (licheni, muschi, ecc.) e alle stesse piante superiori che si sogliono distinguere in igrofile e idrofile. Interessante è quanto si constata nei laghi nei quali i limnologi hanno riconosciuto: la riva o spiaggia insommergibile o solo temporaneamente sommersa; il litorale da questa sino alla profondità di 15-30 m.; una zona bentonica da quest'ultima quota al fondo; una zona limnetica comprendente la massa d'acqua occupata dagli organismi planctonici. Varia è la successione delle cinture di vegetazione, ma una delle più frequenti è, per le igrofile, la serie cariceto-fragmiteto-scirpeto (con predominio, rispettivamente, di specie del genere Carex, della cannuccia di palude o Phragmites communis e dello Scirpus lacustris) e per le idrofite la serie nimfeeto o nenufareto-potamogetoneto o potameto-caraceto comprendente piante radicanti al fondo o sospese con foglie appoggiate alla superficie delle acque, come appunto la Nymphaea alba e il Nuphar luteum (lamineto), o con il corpo totalmente sommerso come è la Vallisneria spiralis e come sono poi le Chara, le Nitella, ecc., costituenti il caraceto con cui terminano alla profondità di 20-30 m. i macrofiti. Molte conche lacustri sono circondate da torbiere o ne sono indipendenti: risultano di muschi con prevalenza di Polytrichum (politricheti) e di Sphagnum (sfagneti) che mantengono un substrato perennemente umido sul quale s'insediano specie igrofite montane e alpine tra cui Drosera e Pinguicola, note piante insettivore (v. carnivore, piante), mentre Aldrovanda e Utricularia sono carnivore sommerse. Le torbiere di pianura come nella Padania, in Toscana, Lazio alle Paludi Pontine, ospitano un certo numero di orofite il cui abbassamento si ritiene avvenuto nelle crisi glaciali e che si sono potute mantenere grazie al substrato perennemente inzuppato. Sono le colonie microterme e tra le specie più caratteristiche ricordiamo: Deschampsia caespitosa, Carex Davalliane, Eriophorum latifolium, Gymnadenia conopsea, Caltha palustris, Drosera rotundifolia, Gentiana pneumonanthe, Pedicularis palustris, Cirsium palustre, ecc. Anche i corsi d'acqua hanno consorzî idrofili sul tipo dei lacustri con svariati adattamenti delle specie al movimento e alla profondità delle acque, e ricca è la flora spondicola e alluvionale a base di salici, pioppi, ontani cui si mescolano, in molti dei solchi vallivi del settore alpino e dell'Appennino settentrionale e centrale, l'Hippophaë rhamnoides e Myricaria germanica che sono elementi steppici penetrati da distretti litoranei; e difatti il primo si riscontra qua e là nell'Estuario veneto-padano: ma i corsi d'acqua rapinando frutti, semi o anche intere piante di zone elevate e deponendoli nel basso corso, concorrono ad abbassare i limiti e a creare stazioni eterotopiche più o meno stabili.
Un substrato speciale indipendente dalla terra e dalle acque è quello che le parassite trovano sugli organismi viventi, come sono un grande numero di funghi e di batterî: tra le fanerogame ricordiamo il Cytinus hypocistis, unica Citinacea europea che parassita alcune specie di Cistus della macchia mediterranea; lo strano Cynomorium coccineum, unica Balanoforacea europea parassita di varie alofilo-igrofile a Malta, Sicilia, Sardegna e qualche altra isolata stazione; il vischio e il loranto su svariate piante arboree; le numerose Orobancacee tutte parassite e le parecchie Cuscute indigene ed esotiche, alcune assai dannose alle piante pratensi. Le epifite sono da noi limitate alle briofite e ai licheni e, quanto alle piante superiori, sono frequenti quelle epifite occasionali che A. Béguinot e G. B. Traverso designarono col nome di arboricole che formano piccoli giardini pensili specialmente sui salci e gelsi a capitozza caratteristici del paesaggio padano.
È necessario dare anche un rapido sguardo al passato della nostra flora e alle vicende che la condussero, in seguito a variazioni di clima e di terre, all'assetto e alla struttura attuale.
Per quel che concerne la regione mediterranea la fitopaleontologia ha dimostrato che nei territorî mediterranei e finitimi, naturalmente con una configurazione molto diversa dalla presente, esistevano nel Terziario e specialmente dal Neogene in qua (gli esempî più numerosi e istruttivi promanano dai ricchi depositi fillitiferi della Francia meridionale) parecchie specie identiche o strettamente affini a quelle che compongono i boschi e le macchie sempervirenti, quali le querce del gruppo del leccio, della sughera, della coccifera, l'oleandro, il mirto, due pistacie affini a P. lentiscus e a P. terebinthus, la fillirea, il siliquastro, la palma nana, un gruppo di generi che oggidì forma le foreste delle Laurinee nelle isole Canarie, quali Laurus, Persea, Ilex, Notelaea, Oreodaphne, Celastrus di cui sono avanzi il comune alloro (L. nobilis) affine al vivente L. canariensis che resse da noi sino al tardo Quaternario, e con tutta probabilità l'Arbutus unedo affine ad A. canariensis e l'Erica arborea che pur vegetano in quei boschi, ma non furono sin qui trovati allo stato fossile. Sorprende pure la mancanza di specie del genere Cistus oggi così diffuse, la scarsità delle filliti riferibili all'olivo, alla palma nana e in generale alle sclerofille ora dominanti: ma ciò si deve probabilmente al fatto che le zone inferiori, quindi più vicine ai luoghi di fossilizzazione, erano popolate da una vegetazione affatto diversa e poi in grande parte scomparsa composta di rappresentanti di famiglie proprie delle parti più calde del globo (Mimosacee, Sapotacee, Malpighiacee, Combretacee, Sterculiacee, molte Palme, ecc.), mentre le attuali sclerofille dovevano starsene confinate in zone asciutte e soleggiate di media montagna. Comunque la presenza nel Terziario di molti costituenti della flora mediterranea è accertata dai numerosi paleoendemismi parecchi dei quali monotipici, dalle specie ad area disgiunta e frazionata comprendendovi nel novero quelli e quelle vegetanti in zone elevate e le stesse ipsofite che hanno origine mediterranea. Forse in nessun settore l'impronta arcaica è così manifesta come in Sardegna e in Corsica e ciò si deve all'antica definitiva emersione di quelle isole che sono da noi gli avanzi più cospicui di una configurazione di terre e di mari diversa dall'attuale, ma non meno allo stato di relativo isolamento in epoca geologicamente recente quando le masse continentali e le stesse penisole subirono quei profondi mutamenti floristici che caratterizzarono il Quaternario. Il primo motivo, che si collega con la nota ipotesi della Tyrrhenis o Tirrenide, ci dice come si siano potute arricchire, il secondo come abbiano potuto conservare tanti superstiti di paleoflora, ma ciò non esclude che anch'esse abbiano ricevuto alcune recenti per quanto limitate infiltrazioni.
Le crisi termiche e in generale i profondi cambiamenti climatici che caratterizzarono il Glaciale e l'immediato Postglaciale hanno interessato il versante sud delle Alpi, e, per quanto in maniera più attenuata, l'intera penisola non esclusi i distretti litoranei o prossimi alla costa. Una prova decisiva sta nei risultati dello studio dei vertebrati di numerose caverne, quando sono accuratamente esplorate, che mostrano la sostituzione della fauna quaternaria calda a base d'ippopotamo, di rinoceronte di Merck e di elefante antico con una fauna in cui si trova una varia mescolanza di tipi artici, di elementi di steppa e di foresta che lascia supporre nelle varie regioni della penisola compresi i distretti meridionali (esempio tipico la Grotta Romanelli nel Leccese) una vegetazione nella quale erano rispettivamente possibili e probabilmente in tempi diversi diversamente estese le condizioni rispettivamente della tundra, della steppa e di formazioni boschive oggidì proprie della zona montana, testimoni le prime due di un clima continentale e le seconde di un'accentuata piovosità e, quindi, di un clima oceanico. Le acme glaciali determinarono la scomparsa di quasi tutti i tipi tropicali del Terziario anche più recente, la discesa verso il litorale della macchia sempreverde e il suo accantonamento in distretti privilegiati, l'emigrazione sin nelle alte montagne della Sicilia d'ipsofite alpine e alpino-boreali (si ricorda la Betula aetnensis semplice razza della betulla bianca), la discesa in pianura di specie microterme sin nel Lazio meridionale nelle Paludi Pontine (Deschampsia caespitosa, Rhynchospora alba, Eriophorum latifolium, Caltha palustris). Sembra logico ammettere che proprio sotto l'impero di queste condizioni sia avvenuto lo scambio, forse favorito dalla cosiddetta Adria, tra la flora orofila della Balcania e quella dell'Appennino centrale e meridionale, in seguito a che vennero rendendosi più intime e strette quelle affinità che preesistevano al Quaternario e ciò senza bisogno di ammettere che il collegamento sia stato fatto da terre molto elevate, e perciò stesso troppo ipotetiche. La presenza nella zona subalpina della Sardegna e della Corsica dell'Alnus suaveolens così affine all'ontano verde delle Alpi, e quella di parecchie nemorali di media montagna (Anemone hepatica, Saxifraga rotundifolia, Sanicula europaea, Adoxa moschatellina, Asperula odorata, ecc.) fanno pensare a rapporti di continuità o almeno di maggiore vicinanza di quelle isole con la terraferma con l'intermezzo delle isole toscane in coincidenza di una fase pluviale: ma deve essere stata una ben debole e fugace interferenza ove si tenga presente quanti pochi elementi della fauna quaternaria calda e fredda riuscirono a penetrare nella Corsardegna. Clima oceanico a medie termiche corrispondenti, ad es., a quelle del Portogallo e a piovosità uniformemente distribuita postula la presenza di Rhododendrum ponticum nella breccia di Hottinga, di una forma locale di questo assieme ad Acer laetum Aesculus hippocastanum e ad altri elementi della cosiddetta flora pontica in depositi fillitiferi insubrici che si sogliono riferire all'interglaciale riss-wurmiano, mentre sembrano più recenti e, quindi, postglaciali quello di Re in Val Vigezzo (Valle d'Ossola) dove si rinvenne pure il rododendro, quello di Calprino, ecc. Anche la penetrazione del componente atlantico che il Negri ha rintracciato nella flora piemontese e toscana e che ha i suoi più tipici esponenti nei suoli argillosi e freschi e in settori piovosi deve essere avvenuta in ondate successive coincidenti con fasi oceaniche che spinsero, inoltre, il faggio a vegetare a una quota più bassa dell'attuale o in distretti isolati come sono gli Euganei, il Gargano, ecc. Erano, invece, probabili superstiti di flora terziaria il Laurus canariensis, la Persea amplifolia e indica, l'Ilex canariensis, la Zelkova crenata e acuminata (tipi canariensi i primi tre, asiatici gli ultimi due) riconosciuti da Béguinot in filliti dei dintorni di Palermo riferibili a un Quaternario recente e forse all'interglaciale riss-wurmiano. La loro scomparsa deve ascriversi, più che a nuovo rincrudimento del clima, al crescente suo inaridimento e questo fattore deve aver fatto risentire la sua influenza, ad es., nel gruppo delle isole Maltesi, avanzo di un'intercapedine afro-sicula già ricca di vegetazione come dimostra la fauna di vertebrati e la stessa presenza del papiro, pianta di resorgive, scomparsa solo nella prima metà del secolo scorso, e la povertà di paleoendemismi nonostante una relativamente antica emersione di questa terra.
Molto studiate fuori d'Italia sono le oscillazioni climatiche verificatesi dopo l'ultima acme glaciale - la wurmiana - e che furono documentate, fra l'altro, con l'analisi del polline fossile trovato nelle torbiere e nei ganghi palustri. I pochi dati raccolti sin qui da noi non permettono generalizzazioni: diremo solo che alle oscillazioni di Achen si tende a riferire quel periodo aquilonare (Kerner) o xerotermico (Briquet), durante il quale specie mediterranee e alcuni degli stessi componenti della macchia e del bosco sempreverde hanno potuto irradiare ed espandersi formando, nella zona pedemontana delle Alpi e specialmente nei versanti più propizî delle conche lacustri e qualche volta penetrando nelle stesse valli, quelle colonie termofile che abbiamo a suo luogo ricordate. Interessante per la sua completezza e per l'attuale suo isolamento nel bassopiano padano è quella insediata nei versanti sud ed est dei Colli Euganei con Quercus ilex, Cistus salvifolius con il suo parassita Cytinus, C. laurifolius (scomparso sui primi dello scorso secolo), Erica arborea, Arbutus unedo, Spartium junceum, Ruscus aculeatus, Asparagus acutifolius, con attorno alle sorgenti termo-minerali ai piedi del versante orientale Polypogon monspeliensis, Lepturus incurvatus, juncus acutus e maritimus, Spergularia Dillenii, Aster tripolium, Sonchus maritimus, e altre alofite oggidì scomparse testimonianti un'antica linea di spiaggia e in complesso una termofilia più accentuata che in corrispondenza dell'attuale litorale. Degna di nota la presenza d' isolate colonie di Ruta patavina, le cui più vicine stazioni sono a Parenzo e a Postumia e che è un elemento orientale irradiato dall'Asia Minore in Grecia e quindi, attraverso l'Illiria, sino in Istria e poi nel Padovano, ed è d'irradiazione transadriatica la macchia mediterranea che riveste alcune isole del Quarnaro, l'Istria meridionale e qualche punto del golfo di Trieste. Viceversa il Cistus laurifolius (già esistito negli Euganei), il C. albidus fra Torri del Benaco e Albisano (Garda), l'Aphyllanthes monspeliensis al Dragoncello presso Brescia hanno evidentemente irradiato da territorî occidentali. Carattere saliente di queste colonie è il loro isolamento e questo lascia supporre che l'immigrazione sia stata favorita da un clima più caldo e più secco dell'attuale, quale è il supposto xerotermico, ma negli Euganei qualche tipo può essere prequaternario. Hanno un'origine e una costituzione diversa le colonie steppiche, ad es., della Val Venosta, di cui si fece cenno, ma non è ancora chiaro a quale fase climatica si debbano sincronizzare.
Si deve infine osservare che il fattore antropico esercitô un'azione in Italia, culla di antiche civiltà e teatro delle più diverse immigrazioni, particolarmente profonda e che tuttora continua e anzi s' intensifica. È ad esso che si deve la distruzione di tanta parte delle primeve foreste, il prosciugamento di vaste zone paludose, la protezione di alcune essenze a scapito di altre per cui si vennero a turbare i naturali rapporti ecologici, l'insediamento di formazioni pratensi dove c'era bosco, o di prati artificiali, la creazione di qualche nuova condizione quali i ruderati e le concimaie che richiamarono associazioni di piante nitrofile (urtiche, parietarie, chenopodi, ecc.), ma più che tutto l'introduzione di tante piante esotiche o un razionale sfruttamento delle indigene in quel paesaggio colturale che maschera in alcuni settori quello stesso naturale. Azione, dunque, molto complessa che si è esercitata specialmente nella zona submontana; e basta pensare agli ampî squarci del suo ammanto forestale, all'introduzione del castagno o al suo sfruttamento dove preesisteva, all'ampio sviluppo della viticultura e dell'olivicultura che del resto ha in comune con i distretti litoranei. Ma sulle principali coltivazioni si è detto abbastanza alle voci alpi e appennino. Con le sementi delle piante coltivate l'uomo ha inconsapevolmente introdotto numerose specie alcune delle quali restarono confinate alle colture e altre passarono a inquinare formazioni naturali. Il rilascio della zavorra delle navi, l'introduzione delle lane, la risicoltura nella Padania, i prati artificiali, furono altrettanti punti d'insediamento di specie esotiche dai quali alcune irradiarono e si estesero. Ma un altro punto di partenza fu la stessa coltura intenzionale di specie straniere che hanno trovato nel nostro suolo condizioni eccezionalmente propizie per propagarvisi, quali la Robinia pseudoacacia lungo gli argini ferroviarî e nei terreni franosi, l'Agave americana e alcune Opuntia (fico d'India) piantate al sud e nelle isole ai margini dei campi e lungo le vie, diventate parte integrale del paesaggio botanico e qui si ricordano le Tulipa, i Narcissus, l'Anemone coronaria coltivati e perfezionati con la selezione e l'ibridazione negli antichi orti di alcune città (Firenze, Bologna, Lucca) e poi sfuggiti alla coltura e naturalizzati a tale punto da mentire l'aspetto di piante insorte nello stato di natura. Complessivamente Béguinot e Mazza hanno enumerato 538 specie esotiche trovate allo stato avventizio, delle quali 216 riconosciute naturalizzate e alcune diventate affatto infestanti quali la Oxalis cernua nei campi e negli agrumeti dell'Italia meridionale e insulare, la Galinsoga parviflora e l'Acalypha virginica nelle ortaglie del nord e del centro, l'Azolla caroliniana e filiculoides e l'Helodea canadensis nelle acque tranquille, alcune Cuscuta parassite nei prati artificiali, la Oenothera biennis nelle arene marine e nelle sabbie alluvionali, ecc.
Fauna. - La fauna italiana si presenta ricca e varia, per quanto le vicissitudini climatiche, il diboscamento di grandi estensioni, l'estendersi delle colture e la caccia abbiano fatto scomparire o abbiano ridotto l'area di distribuzione di parecchie specie. L'uomo quaternario conobbe il mammut, l'uro, l'alce, il bisonte, l'ippopotamo, l'orso delle caverne, la iena delle caverne, il gulo. Le pianure erano battute da elefanti, da buoi e da cavalli selvatici. La Sardegna ebbe anche due specie di scimmie e potamocheri; e un rosicante, il Prolagus corsicanus, pare vivesse nell'isola di Tavolara fino a due secoli or sono.
Attualmente i grossi Mammiferi non sono numerosi e si presentano piuttosto strettamente localizzati. Lo stambecco (Capra ibex), nei tempi preistorici sparso su tutte le Alpi ed esteso fino alle catene nevose dell'Europa centrale, sarebbe scomparso, se a cominciare dal 1816, non fossero state emanate delle leggi per salvaguardare gl'individui che sopravvivevano nei massicci montuosi del Gran Paradiso e della Grivola. Oggi il Parco Nazionale del Gran Paradiso alberga circa 3000 stambecchi.
Altra bella specie alpina è il camoscio (Rupicapra rupicapra): se ne rinviene ancora in discreto numero su tutta la catena delle Alpi; ma solo nel Parco Nazionale del Gran Paradiso, severamente protetto dalla caccia, prospera indisturbato. Il camoscio si estendeva ancora sull'Appennino, ma ormai nella penisola è ridotto all'Abruzzo e precisamente al gruppo montuoso che si estende fra Opi, Civitella-Alfedena (Sulmona) e Settefrati (Caserta). Assai più diffuso è il capriolo (Capreolus capreolus), il quale, oltre a trovarsi piuttosto abbondante in Valtellina e nelle Alpi Venete, abita, benché scarso, tutto il versante tirrenico dalla Toscana alla Sila, nonché il Gargano. In quanto al cervo (Cervus elaphus) esso è raro sulle Alpi orientali; indigeno si mantiene, grazie alla protezione, nel bosco della Mesola presso le foci del Po. I cervi sardi (Cervus corsicanus) sono relativamente abbondanti nell'isola. Esclusivi della Sardegna sono il daino (Dama dama), ormai scomparso dal continente, e il caratteristico muflone (ovis musimon).
Il più abbondante dei grossi Mammiferi che vivono allo stato selvaggio è il cinghiale (Sus scrofa): eccezionale verso i confini occidentali del Piemonte e della Liguria, lo si trova, spesso numeroso, lungo tutto il versante tirrenico dall'Arno alla Calabria e non manca al Gargano e in Puglia; frequente è in Sardegna, ove ha una particolare fisionomia.
L'orso si conserva nelle boscaglie attorno al Gruppo di Brenta, in Val di Tovel e in Val di Genova (Orso delle Alpi) e nell'alta valle del Sangro. La lince (Lynx lynx), ridotta a qualche località del Piemonte, è divenuta rarissima. I lupi, altre volte assai diffusi, permangono nell'Appennino centrale e meridionale e in Sicilia; le volpi si trovano dappertutto e sulle Alpi raggiungono i 2500 m. Sparso su tutta la penisola, ma poco abbondante soprattutto nelle provincie meridionali, è il tasso, amante delle località montuose. In quanto ai gatti selvatici (Felis silvestris), che bisogna ben distinguere da quelli rinselvatichiti, sono rari dappertutto salvo che nella Maremma, nel Gargano e in Calabria; anche la Sardegna ne possiede, ma diversi da quelli del continente (Felis ocreata). Schiettamente alpino è l'ermellino (Putorius ermineus); la donnola (Putorius nivalis) si trova anche nelle isole, ove è rappresentata da particolari forme; diffusa nel continente è la puzzola (P. putorius); la martora (Mustela martes) vive anche nelle isole, ove manca invece la faina (M. foina). La lontra (Lutra lutra), assente dalle isole, è rara in tutto il continente.
Comune anche nelle isole è il riccio (Erinaceus europaeus); le talpe mancano tanto in Sicilia quanto in Sardegna. Piccoli Insettivori sono i toporagni e le crocidure, abbastanza diffusi e abbondanti; il piccolissimo mustiolo toscano (Pachyura etrusca) vive dalla Toscana alle provincie meridionali, nonché in Sardegna.
Fra i Rosicanti si hanno specie prettamente alpine: tali la lepre bianca (Lepus variabilis), la marmotta (Marmota marmota) e il piccolo campagnolo delle nevi (Arvicola nivalis), che si spingono nelle zone fra 3000-4000 m. di altitudine. L'istrice (Hystrix cristata), al contrario, è specie meridionale non infrequente in Sicilia, piuttosto rara sul continente, ove si spinge fino in Toscana. La lepre comune (Lepus timidus) si trova in tutta Italia e in Sicilia; la Sardegna possiede il L. mediterraneus, più piccolo; il coniglio selvatico (Oryctolagus cuniculus) abita soprattutto la Val d'Aosta, l'arcipelago toscano, la Sicilia e la Sardegna. Lo scoiattolo (Sciurus vulgaris) e il ghiro (Myoxus glis) costituiscono una popolazione arboricola comune ai nostri boschi: il secondo si trova anche nelle due isole maggiori. Pure assai diffusi sono il topo quercino (Eliomys quercinus) e il moscardino (Muscardinus avellanarius). Varie specie di topi e di arvicole apportano danni considerevoli negli abitati e soprattutto nelle campagne.
Numerose specie rappresentano il gruppo dei Pipistrelli fra cui il Vesperugo maurus è tipicamente alpino.
Una specie di foca (Pelagius monachus) frequenta le nostre spiagge solitarie e rocciose.
Ricca, varia e multiforme è l'avifauna: se si prescinde da quelli che vi capitano eccezionalmente, l'Italia possiede circa 400 diverse specie di Uccelli, ma solo poco più di un terzo vi sono stazionarie. Come esclusivo dell'Italia possiamo considerare il passerotto comune (Passer Italiae) proprio del continente.
Una delle regioni meglio caratterizzate è certamente quella alpina. Quivi, nel folto dei boschi elevati vivono quei magnifici gallinacei che sono i tetraonidi: il gallo cedrone (Tetrao urogallus), ormai raro e localizzato nel Cadore, nel Trentino, nel Friuli e in qualche altro sito delle Alpi lombarde e venete, il francolino di monte (Tetrastes bonasia), il fagiano di monte (Lyrurus tetrix), la mutevole pernice di monte (Lagopus mutus). Esclusivi delle Alpi sono il picchio cenerino (Gecinus canus), specie settentrionale stazionaria nel Trentino, il magnifico picchio nero (Dryocopus martius) e, benché talora se ne allontani, la nocciolaia (Nucifraga caryocatactes); mentre, diffusi in tal zona più che altrove, notiamo anche i gracchi (Pyrrhocorax alpinus, Fregilus graculus), il sordone (Accentor alpinus), il fringuello delle nevi (Montifringilla nivalis), il picchio muraiolo (Tichodroma muraria), il rampichino alpestre (Certia familiaris) e altri uccelli, che possono anche rinvenirsi nella penisola e nelle isole.
La regione subalpina e la pianura padana non presentano spiccate peculiarità: vi notiamo peraltro il precoce arrivo delle specie migranti che giungono dal settentrione, e il ritardo di quelle che vengono dal mezzogiorno. Durante l'inverno v'è gran copia di varie specie di tordi. Nella pianura padana fa non rare e spesso abbondanti comparse l'oca lombardella (Anser albifrons), mentre le lagune e le paludi, soprattutto nell'estuario veneto, richiamano gran copia di trampolieri e palmipedi, fra i quali sono notevoli la moretta grigia (Fuligula albifrons), la moretta pezzata (Harelda glacialis), l'orco e l'orchetto marino (Oedemia) e le strolaghe (Colymbus).
Altri Uccelli nordici capitano invece in Liguria: tali le caratteristiche alche (Alca) e il curioso pulcinella di mare (Fratercula arctica). La Liguria è peraltro la regione più ricca d'Italia in fatto di uccelli, specialmente per il gran numero di specie di passo e di stazione estiva o autunnale che si susseguono durante l'anno.
Anche in Toscana l'avifauna è ricca; nella Maremma comincia a incontrarsi con una certa abbondanza la calandra (Melanocorypha calandra), che si fa sempre più numerosa nelle provincie meridionali e nelle isole; vi abbondano il pagliarolo (Calamodus aquaticus), il forapaglie castagnolo (Lusciniola melanopogon), la salciaiola (Lusciniopsis luscinioides), ecc.
Sulle vette appenniniche si rinviene ancora qualche elemento alpino; nelle regioni meridionali scompare il gracchio (Pyrrhocorax pyrrhocorax), ma il gracchio corallino (P. graculus) continua a esser comune in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Nelle pianure dell'Italia meridionale, oltre a buona parte delle specie comuni alla centrale, si vedono frequentemente la volpoca (Tadorna tadorna) e altri palmipedi; in alcune località vive la bella gallina prataiola (Otis tetrax).
Uno dei fatti più singolari delle grandi isole è la mancanza del comune passerotto, sostituito dal Passer hispaniolensis. Caratteristiche della Sicilia sono la rara quaglia tridattila (Turnix sylvatica) e il bellissimo e ormai estinto francolino (Francolinus francolinus). Il pollo sultano (Porphirio caeruleus), abbondante in quest'isola, si trova anche nella Puglia e in Sardegna. Il fenicottero (Phoenicopterus roseus), raro in Sicilia, è invece comunissimo negli stagni di Cagliari e di Oristano: questo uccello, a differenza di tutte le specie migranti che vengono dal sud, arriva da noi in autunno e ne riparte in primavera. Gli stagni della Sardegna offrono acconcia dimora a gran numero di trampolieri e di palmipedi, come volpoche (Tadorna tadorna), fistioni turchi (Fuligula rufina), gobbi rugginosi (Erismatura leucocephala), ecc., mentre le scogliere litoranee sono frequentate dal marangone col ciuffo (Phalacrocorax Desmaresti). Le colline albergano la gallina prataiola e la caratteristica pernice sarda (Perdix petrosa). Ma ciò che maggiormente colpisce nell'avifauna sarda è l'abbondanza e la varietà dei grossi rapaci, così scarsi nel continente: comunissimi gli avvoltoi (Aegypius monachus), i grifoni (Gyps fulvus), gli avvoltoi degli agnelli (Gypaëtus barbatus); comune l'aquila del Bonelli (Nisaëtus fasciatus); non rare l'aquila di mare (Haliaëtus albicilla) e l'aquila reale (Aquila chrysaëtus), a cui si aggiungono il falco pescatore (Pandion haliaëtus), il nibbio reale (Milvus milvus), l'astore (Astur palumbarius), ecc.
Passando ai Rettili, la testuggine palustre (Emys orbicularis) è diffusa in tutto il continente e nelle isole; mentre la terrestre (Testudo graeca) è specie meridionale e insulare, benché la si trovi indigena anche in Liguria e nell'Istria. Comunissima dappertutto la lucertola muraiola (Lacerta muralis); il ramarro (L. viridis) manca in Sardegna. L'orbettino (Anguis fragilis) è proprio del continente. Le tarantole (Tarantola mauritanica, Hemidactylus turcicus) appartengono alla fauna peninsulare e insulare. Assai diffusa è la vipera comune (Vipera aspis) che manca solo in Sardegna; un'altra vipera, il marasso palustre (V. berus) è propria dell'Italia settentrionale; più localizzate la Vipera Ursinii e la vipera cornuta (V. ammodytes). La biscia acquaiola (Tropidonotus natrix) vive dappertutto. La Sardegna è peraltro poverissima di serpenti e manca di colubri (Coluber) e di coronelle (Coronella).
Mancano in Sardegna anche la salamandra, il rospo comune e le rane; mentre queste popolano il continente e la Sicilia con varie specie, di cui la rana comune (Rana esculenta) è la più diffusa. Schiettamente insulare è il discoglosso (Discoglossus pictus). I tritoni (Molge) vivono, se si eccettua una specie sarda, solo sul continente. Interessante è il proteo (Proteus anguinus), che abita le acque sotterranee dall'Istria al nord dell'Erzegovina.
Le acque dolci nutrono gran copia di Pesci. Gli storioni (Acipenser sturio, ecc.) s'inoltrano solo nei grandi fiumi e soprattutto risalgono il Po. Le anguille sono abbondantissime dappertutto e popolano anche le acque salmastre e i bacini non comunicanti con i corsi d'acqua. Diffusissime sono anche le tinche (Tinca vulgaris) e i salmoni (Salmo fario), il luccio (Esox lucius) e il pesce persico (Perca fluviatilis) mancano nelle provincie meridionali e nelle isole.
Numerosissimi sono gl'Insetti, i Molluschi e gli altri invertebrati. L'Italia non è immune dalle orde devastatrici delle cavallette: gli Acridium e gli Stauronotus compiono le loro devastazioni soprattutto nelle isole, il Caloptenus italicus nelle regioni centrali e settentrionali, il Pachytylus migratorius dappertutto.
Temuti sono anche parecchi Coleotteri e principalmente il maggiolino (Melolontha vulgaris). La fillossera (Phylloxera vastatrix), originaria dell'America, si è estesa compromettendo, spesso gravemente, le nostre viti. Non vi sono in Italia Artropodi il cui veleno sia veramente pericoloso per l'uomo: se abbastanza temibili sono le scolopendre (Scolopendra), poco lo sono i piccoli scorpioni (Euscorpius) viventi in Italia, e tanto meno la tarantola (Lycosa tarentula) e la malmignatta o ragno volterrano (Latrodectes tredecimguttatus).
Regioni e provincie.
Regioni augustee. - Augusto, non sappiamo in qual momento precisamente, divise l'Italia (per i confini dell'Italia in epoca augustea, vedi appresso p. 799) in undici regioni, e tale divisione Plinio mise a fondamento della sua corografia dell'Italia (Nat. Hist., III, 5, 46 segg.). Par certo che in questa divisione ogni regione fosse contrassegnata da un numero d'ordine progressivo e non da una speciale denominazione, mentre le località venivano registrate in serie alfabetica, facendosi speciale segnalazione delle colonie.
Le prime otto regioni di Augusto comprendono l'Italia peninsulare fino alla Magra e al Rubicone, che sono i confini antecedenti all'annessione della Gallia Cisalpina, i confini, cioè, dell'Italia preaugustea, e le ultime tre comprendono l'Italia settentrionale con quello che invece fu il confine augusteo. In considerazione di ciò il Mommsen congetturò, forse a ragione, che Augusto non avesse creato di sana pianta la sua divisione, ma avesse preso le mosse da una precedente divisione dell'Italia peninsulare in otto regioni e a queste avesse aggiunto la Gallia Cisalpina, dividendola in tre ulteriori distretti. Le undici regioni sono le seguenti: 1. Campania e Lazio, 2. Apulia e Calabria, 3. Bruzzio e Lucania, 4. Sannio, 5. Piceno, 6. Umbria, 7. Etruria, 8. Emilia, 9. Liguria, 10. Venezia e Istria, 11. Gallia Transpadana.
Popolazione.
Antropologia. - Il primo saggio scientifico sull'antropologia dell'Italia nel suo insieme è dovuto a G. Nicolucci. Nel lavoro di questo autore però, se è bene sviluppata la parte che si riferisce alle tradizioni e ai dati storici relativi ai movimenti delle popolazioni che abitarono la penisola, è poco sviluppata la parte veramente antropologica, relativa ai caratteri fisici descrittivi e metrici degl'Italiani.
Il lavoro fondamentale per l'antropologia dell'Italia e quello che, ancora oggi, rimane quasi unico per il numero delle osservazioni individuali, su cui è fondato, per l'elaborazione statistica di esse, per la cautela delle deduzioni, è quello di R. Livi. Questo lavoro può dirsi non solo il massimo sull'antropologia italiana, ma quello che ancora oggi è il migliore esempio di una ricerca simile estesa a una nazione civile, in guisa che esso può dirsi veramente un vanto della scienza antropologica italiana. Il Livi si valse dei risultati metrici e descrittivi, raccolti dal corpo medico-militare sui militari delle classi '59-'63. I rilievi furono eseguiti in base a uno schema, detto foglio sanitario, immaginato e proposto dal colonnello medico Salvatore Guida. Il numero delle osservazioni individuali fu di circa 300.000.
L'inchiesta che si ebbe in mira aveva anche scopi medici, ma a noi interessano solo i risultati antropologici. Tre caratteri furono considerati in modo particolare: l'indice cefalico, il colorito, la statura; ma furono osservati anche altri caratteri. La scelta di questi ultimi però non può dirsi esente da riserve, che debbono anche estendersi al modo del loro rilievo.
Indice cefalico. - Tanto nella carta per circondarî, quanto in quella per mandamenti (amministrativi) la distribuzione dei valori medî dell'indice cefalico appare assai più regolare di quella degli altri due caratteri. La media generale è di 82,73. Siccome l'indice cefalico nel vivente si calcola abbia un valore superiore a quello del cranio di due unità e siccome lo strumento di misura che fu usato, il cosiddetto quadro a massima, alza alquanto il valore dell'indice, dobbiamo ritenere che la media suddetta corrisponda praticamente, se pure non a un valore più basso, almeno al valore di 80 sul cranio, che è anche la divisione che si suole fare tra forme dolicoidi e brachioidi del cranio, allorquando si fa uso di una divisione binaria.
L'indice cefalico in Italia va, parlando all'ingrosso, decrescendo dal nord al sud: i valori medî andando da 88,7 a 74,2. La sede prevalente della brachicefalia, sita a nord dell'Appennino settentrionale, s' inoltra attenuata, ma continua, nell'Italia centrale con uno sperone la cui punta, situata nell'asse della penisola, arriva presso a poco a Rieti. Ma poco oltre, al sud, essa ricomincia, con l'attuale provincia di Frosinone e con la provincia di Chieti a nord-est. Con gradi iniziali essa occupa tutta la parte meridionale occidentale della Campania e la Lucania centro-orientale. È assai interessante un'area di forme presso a poco al confine fra brachioidi e dolicoidi, ma tutto sommato, più dolicoidi, e che è circoscritta da un semicerchio di forme brachioidi, dato appunto dalle zone sopra riferite: provincia di Chieti, provincia attuale di Frosinone, Campania meridionale-occidentale, Lucania centro-orientale. Questa zona di relativa dolicocefalia corrisponde all'ingrosso a una zona di colorito chiaro che vedremo. Quest'ultima però è più larga, comprendendo la provincia di Chieti. La Sicilia è tutta compresa nella dolicocefalia, ma la sua intensità è molto variabile. La Sardegna invece presenta i gradi più intensi di quella. A questo quadro generale occorre però aggiungere alcuni fatti sempre assai importanti: nella valle del Po è constatabile che la zona debolmente dolicocefalica della Liguria si continua nella parte meridionale e orientale del Piemonte e quindi, dirigendosi verso nord-est, arriva alla provincia di Brescia, con una breve interruzione in corrispondenza del circondario di Lodi. La Liguria presenta una lieve dolicocefalia, ma essa è assai intensificata all'estremo bordo della Toscana, a quella adiacente, cioè nei circondarî di Lucca e Castelnuovo di Garfagnana, come nella parte meridionale di quello di Massa. Questa zona, diciamolo subito, è caratterizzata anche da statura alta e da colorito piuttosto scuro. Un fatto interessante è che la Romagna presenta brachicefalia più sensibile di quella che si riscontra nelle regioni circostanti e soprattutto nella valle del Po e nel Veneto. Riguardo al rapporto fra altimetria e indice cefalico, il Livi credette di poter asserire una differenza fra nord e sud, nel senso che nel nord la zona altimetrica sita sopra i 400 metri sul livello del mare avrebbe maggior frequenza di brachicefali, nel sud invece di dolicocefali. Questa differenza sarebbe, secondo il Livi, determinata semplicemente dal fatto che la montagna, luogo di scarso movimento etnico, conserverebbe meglio la forma caratteristica della regione. Sennonché il Sera obietta che l'esame particolare delle regioni, nel grafico relativo del Livi (p. 84) non permette di trarre con sieurezza la conclusione di fatto assunta dal Livi e, più ancora, fa rimanere dubitosi sulla legittimità della causa da quello supposta. La prevalenza della brachicefalia nella montagna, per il Veneto, brachicefalico, è assai esigua; l'Emilia, brachicefalica, ha la montagna più dolicocefalica della pianura e lo stesso vale per le Marche; per l'Umbria, brachicefalica, la differenza è minima, ma caso mai, contraria alla regola del Livi; il Lazio, dolicocefalico, è più brachicefalico nella montagna e in misura sensibile; la Puglia, dolicocefalica, ha indice più elevato nella montagna. La Sardegna, infine, che ha l'indice più basso, dovrebbe offrire maggiori evidenze, e invece ha una piccola differenza fra montagna e pianura, e ancora in senso contrario. La spiegazione delle differenze fra montagna e pianura per l'indice cefalico è data dal Sera in maniera diversa, come si vedrà.
Colorito. - Per ciò che riguarda il colorito, il suo rilievo fu fatto in base agli occhi e ai capelli e non alla pelle, e i risultati di esso furono tradotti cartograficamente in quattro maniere e cioè per frequenza di tipi puri e di tipi misti. Sono tipi puri il tipo a capelli e occhi scuri o neri (tipo bruno) e quello a capelli biondi e occhi azzurri o grigi (tipo biondo). S'intendono per tipi misti le percentuali che si hanno sommando tutti gli occhi scuri o neri e tutti i capelli neri, ovvero tutti i capelli biondi e gli occhi azzurri o grigi, anche quando non si trovano sullo stesso individuo e riferendo tali somme al numero totale delle osservazioni. Da tutte e quattro le carte del Livi per circondarî, come dalla grande carta per mandamenti del tipo bruno misto, risulta press'a poco la stessa distribuzione geografica del colorito e cioè: le popolazioni più bionde sono tutte aggruppate verso il confine settentrionale d'Italia, formando un tratto di unione con le popolazioni della Savoia, della Svizzera, dell'Austria, notoriamente più bionde assai degl'Italiani. È singolare osservare che tutta la valle del Po è più bruna decisamente di alcune regioni dell'Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche. Nella Valle Padana è decisamente più bruna tutta la parte al sud del Po e una fascia preappenninica. L'Appennino settentrionale è invece piuttosto chiaro. Un'altra zona chiara è data dalle provincie di Chieti, Campobasso, Benevento, Avellino. La Calabria è più bruna della Sicilia, ma la Sardegna supera tutte le altre regioni per brunezza.
È singolare a questo proposito il fatto, rivelato bene dalla carta per mandamenti, che mentre Puglia, Calabria e Sicilia manifestano differenze spesso sensibili per il colorito fra mandamenti prossimi gli uni agli altri, la Sardegna, sita presso a poco alla stessa latitudine dell'Italia meridionale continentale, dimostra assai piccole differenze. Chiaramente tale fatto esclude un fattore climatico e invece indica la presenza d'un fattore etnico nell'Italia continentale e in Sicilia, fattore rimasto in gran parte assente in Sardegna. Riguardo al rapporto fra colorito e abitato montagnoso, il Livi stabilì che nelle montagne (luoghi al disopra di 400 metri) la proporzione dei capelli biondi è sempre maggiore e quella degli occhi bruni è minore. Solo una regione forma eccezione, l'Abruzzo, ma questa è una regione montuosa e la proporzione dei pianigiani in essa è insignificante. Nelle montagne, secondo il Livi, si avrebbe maggiore proporzione di tinte chiare, perché in esse vi è maggior numero d'individui sottoposti a influenze generali o locali che ritardano lo sviluppo corporeo e la normale evoluzione del colore, che, come è noto, si scurisce dalla nascita in poi.
Sembra tuttavia che la spiegazione sia assai più complicata e, pur non escludendo il fattore del Livi, si dovrebbe far ricorso, almeno per l'Italia centrale e la parte più settentrionale della meridionale, a un fattore raziale, come si vedrà poi. A questo proposito è degno di ricordo che ben piccola differenza fra pianura e montagna si verificherebbe per la Lombardia, ove un fattore etnico è appunto più evidente.
Statura. - La statura media generale risulta essere di m. 1,645. Questa statura corrisponde anche alla media generale dell'umanità. Dobbiamo però osservare che questa cifra, come le altre che esporremo, si riferisce a giovani "idonei", cioè a un gruppo selezionato. Il Livi stesso esaminando la statura dei giovani di cinque classi, precedenti a quelle qua considerate, ma per tutti gli "iscritti", trovò una statura di 21 mm. inferiore. D'altra parte occorre anche considerare che i giovani a 20 anni non hanno raggiunto la loro statura definitiva. Siccome però le grandi statistiche della statura si riferiscono per lo più, nelle nazioni civili, ai giovani sui 20 anni, è possibile un giudizio relativo dell'altezza. Dai dati del Livi risultano comporre la popolazione italiana: 18,2% di statura sotto m. 1,60; 35% di stature fra m. 1,60 e m. 1,65, 29,2% di stature fra m. 1,65 e m. 1,70; 17,6% di statura sopra m. 1,70. Dalle carte si distribuzione del Livi, risultano esistere in Italia tre principali centri di alte stature. Uno, il più vasto, comprende la massima parte del Veneto; uno, tosco-emiliano, che occupa la parte settentrionale della Toscana (con una piccola invasione in Liguria) e la porzione orientale dell'Emilia, tramezzato da una chiazza di basse stature, corrispondente ai due circondarî montuosi di Pavullo e di Vergato; e un terzo, lombardo, nella parte orientale e settentrionale della Lombardia. Le popolazioni di più bassa statura formano invece una larga striscia, che, cominciando dalla metà meridionale delle Marche, ristretta dapprima fra Adriatico e Appennino, si estende verso il sud, passando per il Sannio e va a raggiungere la Lucania e la Calabria. Un centro di basse stature è anche ben delineato sulla costa meridionale della Sicilia. Un altro centro di popolazioni bassissime è costituito dall'intera Sardegna, fatta eccezione di una zona a nord-est. Il Livi crede che la spiegazione delle differenze di statura sia da cercare nell'azione combinata della razza e dell'ambiente. L'intervento del primo fattore è, per il Livi, indubitabile e risulta bene nel confronto di certe zone che presentano press' a poco le stesse condizioni economiche e sociali e pur tuttavia statura diversa. Tali, ad es., Veneto e Piemonte, Toscana occidentale e orientale, Abruzzo centrale e orientale. Fra le variazioni determinate dall'ambiente è da considerare in primo luogo quella della montagna, giacché buona parte del suolo italiano, soprattutto nel mezzogiorno, è montagnosa. Il Livi ha asserito l'esistenza di un'influenza deprimente della statura da parte della montagna, nel senso almeno che questa influenza è sensibile fino ai 900 metri. Tale influenza però non sarebbe di natura fisica, ma solo economico-sociale. Ciò risulterebbe, per il Livi, dall'esame della statura media dei tre gruppi sociali da lui stabiliti nei giovani soldati: 1. Studenti, professionisti, impiegati, ecc.; 2. Contadini; 3. Altre attività. Anche nei capoluoghi di provincia siti a maggiore altezza (Cuneo, Perugia, Aquila, Campobasso, Potenza, Caltanissetta) il primo gruppo presenta statura assai più elevata. Tra i fatti generali di distribuzione più cospicui è la presenza di una fascia, abbastanza larga, di stature relativamente basse, in corrispondenza dell'Appennino settentrionale e che dal Piemonte arriva alle Marche, per riattaccarsi alla zona di stature basse che abbiamo già detta. La carta di distribuzione della statura per l'Italia conferma quanto per questo carattere è noto in generale, cioè il suo scarso valore raziale e la sua influenzabilità da fattori peristatici (ambientali), onde, anche per l'Italia, non possiamo dare alla statura in generale un grande valore per stabilire gli elementi raziali che sono intervenuti nella sua composizione etnica.
Altezza del cranio. - Più che dalla variazione dell'indice cefalico orizzontale, ci si potrebbe attendere schiarimenti dalla variazione dell'altezza del cranio (v. cefalici, indici) e meglio ancora dall'esame dei caratteri descrittivi della faccia (v. fisionomia: Fisionomia facciale etnica). Per ciò che riguarda il primo oggetto, valevoli contributi sono stati portati dal Pelizzola, il quale si valse nelle sue estese misurazioni dell'altezza sopra-auricolare, come più squisito mezzo di analisi, in confronto della comune basilo-bregmatica. Le sue conclusioni perciò hanno una grande sicurezza, sotto il riguardo della distribuzione dei tipi di altezza. Ma anche il materiale di dati raccolti da parecchi studiosi su serie craniensi storiche e preistoriche (dati in cui però l'altezza del cranio è misurata con la basilobregmatica) permette utili deduzioni. Le ricerche del Pelizzola si sono limitate purtroppo, finora almeno, all'Italia settentrionale e parte della centrale. Da esse risultano tuttavia alcuni fatti di grande interesse: 1. La brachicefalia dell'Italia settentrionale è da scindere in due unità morfologiche, una brachicefalia di tipo platicefalico, propria della montagna elevata, che possiamo perciò dire propriamente alpina, e una brachicefalia che abbraccia la zona prealpina e la pianura e che è di tipo ortocefalico. La zona romagnola sarebbe persino caratterizzata da una certa frequenza di forme ipsicefaliche che si spingono anche nelle Marche. 2. In alcuni luoghi dell'Appennino settentrionale sono presenti forme platicefaliche, ma a differenza delle alpine, piuttosto lunghe (Liguria, S. Maria del Taro, Ospitale presso il Cimone).
Le ricerche più speciali del Pelizzola sul Tirolo meritano di essere qua ricordate per la loro importanza etnologica, culturale e, sotto certi aspetti, politica. Il Pelizzola infatti poté dimostrare, come l'annessa cartina indica, che nella valle dell'Adige sul versante italiano, l'elemento dolico-basso, identificabile in questa zona con l'elemento etnico germanico, non è affatto prevalente, essendo invece prevalente, nelle più alte valli secondarie, l'elemento platibrachi e nella valle bassa il brachiortocefalo. L'elemento dolico-platicefalo, di provenienza germanica, si trova invece in stato di concentrazione soltanto sul versante opposto, nella valle dell'Inn. Per ritornare però al soggetto principale, dobbiamo dire, riguardo alla seconda delle due conclusioni del Pelizzola, da noi ricordate come più importanti, che dalla rieerca del Pelizzola non risulta se l'elemento basso appartenga al tipo xantocroico ovvero al tipo facciale stesso dei brachioidi.
Indichiamo col nome di xantocroico, come per primo fece Th. H. Huxley, il tipo chiaro a capelli biondi e occhi azzurri, che molti chiamano nordico e anche germanico. Quest'ultima denominazione è affatto da rigettare, non essendo affatto questo tipo prevalente in Germania. Ma anche la denominazione di nordico non è propria, non essendo affatto dimostrato, anzi essendo improbabile, che questo tipo tragga la sua origine dal nord dell'Europa.
Inoltre il Pelizzola riterrebbe che i dolico-ortocefali presentino concentrazioni sull'Appennino, mentre i brachioidi ortocefali sarebbero il risultato di una violenta invasione da regioni finitime all'Italia della Penisola Balcanica, in guisa che essi da un lato avrebbero respinto i brachiplati sulle Alpi e dall'altra i dolicocefali sull'Appennino. Questa conclusione pare al Sera inaccettabile ed è dovuta al fatto che il Pelizzola, come il Livi, non osservarono che i dolicocefali dell'Appennino settentrionale e centrale sono, con ogni probabilità, almeno in parte, del tipo xantocroico e quindi arrivati in Italia in tempi relativamente recenti, al più presto nel Neolitico, con probabilità maggiore nell'età del bronzo e più probabilmente nell'età del ferro, ma soprattutto che essi, contrariamente a quanto ritiene il Pelizzola, hanno ricacciato verso l'occidente dell'Appennino un tipo precedente proprio a questo, come si dirà poi. Allo scopo di avere su questo e altri punti la maggiore chiarezza possibile, il Sera ha studiato il comportamento dell'altezza del cranio, quale risulta dai dati relativi a più serie esistenti nella letteratura e ha potuto fare parecchie constatazioni importanti delle quali faremo qui un breve cenno: 1. La regione veneta (dati del Tedeschi) presenta una piccola altezza del cranio. Questo carattere distacca la detta regione da quella padana e romagnola, con le quali la brachicefalia pareva ravvicinarla e nello stesso tempo è piuttosto sfavorevole all'ipotesi della provenienza balcanica dei brachioidi padani. 2. Nella regione emiliana (dati del Giuffrida-Ruggeri) la massa della popolazione è brachiortocefala. Esistono solo scarsissimi dolico-platicefali. 3. Nelle Marche, mandamento di Camerino (dati di Legge), abbiamo una popolazione assai mescolata per l'altezza, come per l'indice cefalico orizzontale; esiste con frequenza notevole un elemento piuttosto basso e lungo, le cui affinità si tratta di stabilire in base ai caratteri facciali. Questo elemento piuttosto basso sembrerebbe più frequente nei cranî antichi di Camerino, certamente appartenenti agli Umbri (dati di Frassetto). 4. Nell'Umbria, una serie di Todi (dati di Zanolli) dimostra una brachiortocefalia assolutamente predominante, ma anche rivela la presenza indubbia di un tipo platicefalico ma corto, cui perciò il Sera tende a precludere affinità xantocroiche. Un altro gruppo più piccolo e più evidente nella serie femminile, potrebbe essere ad affinità xantocroiche. 5. La serie dei cranî di Pompei antica (illustrata dal Nicolucci) stabilisce nettissimamente la presenza di due componenti, l'una piuttosto lunga (indice 75-80) e platicefalica, l'altra più corta (indice 79-84) e ortocefalica. Lo studio dei caratteri facciali di 20 pezzi di questa serie che si conservano nell'Istituto di Antropologia di Napoli, ha dimostrato al Sera assenza assoluta di un tipo xantocroico. I cranî appartengono tutti al tipo etiopico-caucasiano (v. fisionomia: Fisionomia facciale etnica). Pur non volendo escludere che un numero maggiore di casi possa fare risultare la presenza del tipo xantocroico, il Sera ritiene che questo possa essere stato in ogni caso raro, ciò che del resto le pitture murali di Pompei confermano, sia per i colori degli occhi, della pelle, dei capelli dei soggetti ivi raffigurati, sia per i caratteri facciali. La serie dei cranî pompeiani antichi è molto importante, perché dimostra la presenza di un elemento platicefalico in latitudini assai basse in Italia, dovendosi escludere per la sua frequenza (oltre la metà dei casi) un accesso dal nord, supposizione che si presenterebbe a tutta prima, dato che Pompei era in una zona di notevole attrazione etnica. 6. Una serie di Messina (dati di Mondio) ha in complesso una forma ortocefalica lunga. Pochi sono i brachioidi. Esiste invece un piccolo gruppo platicefalico e assai lungo, che è difficile attribuire a un tipo determinato. Un'altra serie siciliana, ma proveniente da luoghi diversi (dati di Moschen), conferma i dati della serie di Messina. 7. Le serie dei cranî sardi illustrate da Duckworth presentano forme ortocefaliche e lunghe, quasi allo stato di purezza assoluta.
Questi dati sull'altezza del cranio, pur essendo ancora piuttosto scarsi, ci permettono d'interpretare meglio i fatti che pongono in luce le tre grandi carte del Livi, facendoci vedere dei legami ove parrebbe fossero solo differenze e differenze dove sembrerebbe esistessero identità, se ci si limitasse al solo indice cefalico. Purtroppo invece manchiamo ancora di una ricerca diagnostica sistematica sui caratteri descrittivi della faccia, ricerca che sarebbe d'importanza di gran lunga maggiore, per la chiarificazione dei rapporti etnici italiani. Tuttavia il Sera ritiene che il tipo facciale di gran lunga predominante in Italia sia l'etiopico-caucasiano, che è forse nella sua maggiore purezza in Calabria. Per la Sardegna non saprebbe escludere la confluenza con altri tipi facciali, pur essendo comuni con questi indice cefalico orizzontale, altezza del cranio, colorito, ecc. L'unicità di tipo della Sardegna potrebbe esser solo apparente e provenire dalla scelta dei caratteri usati per le misure, caratteri che sarebbero assai meno validi di quelli descritti della faccia, a darci le distinzioni fondamentali raziali. Secondo il Sera, l'unità dei cosiddetti Mediterranei, pur volendosi limitatamente considerare come tali solo i dolicocefali, è affatto illusoria ed è proprio il carattere, secondario e subordinato nel suo valore, della forma lunga del cranio cerebrale, che crea questa unità illusoria. Ma, oltre a ciò, non vi è nessuna ragione positiva per escludere dai Mediterranei i brachioidi, che certamente non hanno niente a che fare con l'Asia, secondo quanto vorrebbe il Sergi.
Il Sera ritiene che, per l'Italia, il colorito si manifesta un carattere discriminativo migliore persino dell'indice cefalico. Ciò per la ragione che esso ci aiuta a distinguere due tipi che l'indice cefalico confonde, e cioè il tipo dolicocefalico bruno, cosiddetto mediterraneo, e il dolicocefalico chiaro, cosiddetto nordico ovvero xantocroico. Si è visto che un colorito assai chiaro è su tutta la cintura alpina, ma qua non si ha più a che fare col tipo xantocroico, bensì col tipo di alta montagna, brachiplaticefalico, il vero tipo alpino, il quale è differente dal tipo brachioide che troviamo diffuso nella valle padana, tipo il quale ha un colorito più scuro. A questo tipo alpino, o meglio a una sua varietà a statura alta, forse, ma non con certezza, si deve ancora attribuire in prevalenza il colorito chiaro del Veneto. In guisa che risulta il fatto apparentemente singolare che in alta Italia il tipo xantocroico sarebbe presente con una certa frequenza solo nella parte settentrionale e occidentale della Lombardia. Qua però si presenterebbe con le tre caratteristiche classiche: dolicocefalia, colorito chiaro, alta statura. La carta di distribuzione per mandamenti dell'indice cefalico è piuttosto favorevole all'ipotesi che la brachicefalia della valle padana sia l'evoluzione della dolicocefalia ligure. In seno a una stratificazione di dolico-ortocefali bruni, su tutta la valle padana, si sarebbero prodotti tre centri brachicefalici, uno per il Piemonte, l'altro per la bassa Lombardia e l'Emilia occidentale, il terzo per la Romagna. Ma il fatto più singolare che le due grandi carte del Livi pongono in luce, secondo il Sera, è la presenza di una forte componente xantocroica in tutta l'Italia centrale e soprattutto orientale: Umbria, Toscana, Abruzzo e parte settentrionale e orientale dell'Italia meridionale; Molise, Beneventano, Puglia settentrionale, parte settentrionale e orientale della Lucania. Da questa zona s'irradierebbero le propaggini disperse del tipo che si riscontrano nelle altre parti della penisola e nella Sicilia. Il tipo xantocroico sarebbe praticamente assente nella Sardegna.
La localizzazione della maggiore massa di questo tipo fa pensare a una provenienza dal nord e dall'oriente, cioè che esso sia disceso in Italia, seguendo la costa adriatica, senza penetrare addentro nella pianura padana, ma, deduzione assai più importante, sembra che a mano a mano che si discende verso il sud, esso abbia sede sui monti. Si può pensare qua a una preferenza originalmente data a questo ambiente, per una minore resistenza del tipo stesso al clima caldo del mezzogiorno italiano o anche perché il tipo, un tempo esteso alla costa, sia ivi scomparso per fatti di selezione eliminativa. A ogni modo, dalla distribuzione dell'indice cefalico che abbiamo visto nella parte settentrionale dell'Italia meridionale, è chiaro che il detto tipo dovette respingere perifericamente una popolazione bruna e brachioide, che si ha ragione di credere fosse autoctona nella regione. La popolazione di Pompei antica dimostra appunto i caratteri di questa gente respinta dall'Appennino, prima che essa subisse larghe contaminazioni. Sul tratto di Appennino in parola, cioè, le più alte zone contenevano platicefali, dolicoidi o brachioidi che fossero; le zone più basse, ma sempre montuose, brachiortocefali. È naturale che gli uni e gli altri fossero rigettati promiscuamente verso occidente. Nell'Italia centrale, secondo il Sera, il respingimento periferico dei brachioidi, alti e bassi, primitivi abitatori, non risulterebbe altrettanto evidente finora, per le differenti caratteristiche orografiche della regione, ove predominano le valli parallele e in direzione nord-sud, mentre abbiamo le opposte condizioni nella regione innanzi detta (valli disposte da est a ovest). I brachioidi là si sarebbero disseminati tra i dolicoidi xantocroici. Ma accurate ricerche per unità territoriali più piccole dei mandamenti dovrebbero render manifesto il fenomeno. A ogni modo sarebbe proprio la sede montuosa di questo tipo xantocroico la ragione del fatto osservato dal Livi dell'indice più basso e del colorito più chiaro dei montanari dell'Italia centrale e meridionale orientale. È probabile che questo tipo xantocroico sia disceso in Italia all'epoca del ferro, se non prima, e che sia stato il portatore del linguaggio ariano. La serie preistorica di Alfedena dovrebbe contenere abbondantemente tale tipo, secondo il Sera. Ma la parte più meridionale della zona relativamente chiara di colorito (Beneventano, Avellinese e, allo stato sporadico, tutto il mezzogiorno calabrese e siculo) deve forse il suo carattere ad afflussi assai più recenti (Longobardi, Normanni). L'assenza dei caratteri facciali xantocroici nella serie di Pompei dimostra la tardività dell'avvento dei caratteri del tipo chiaro nella regione, caratteri che nell'attualità troviamo abbastanza frequenti.
Il Sera ricostruisce provvisoriamente e nelle linee generali gli eventi antropologici della penisola italiana nella guisa seguente: in tempi di antichità geologica ricoprì la penisola un tipo umano a caratteri facciali prevalentemente etiopico-caucasiani (in certe regioni però non sono escluse mescolanze relativamente precoci con i due tipi facciali negritoide e atlanto-indico). Questo tipo era bruno, a piccola statura, a cranio cerebrale lungo e orto-ipsicefalico. Qua e là nella penisola, all'avvento del Glaciale, questo tipo dovette subire influenze climatiche, che lo modificarono alquanto, facendolo localmente deviare più o meno nel senso della morfologia della razza di Neanderthal (v. paleoantropologia). È dubbio che nell'Italia però si sia mai raggiunta una morfologia tipica di questa razza, quale la vediamo in Francia. Solo forse alcuni caratteri, come la platicefalia, si produssero chiaramente, sempre in zone poco estese e isolate. L'appartenenza del cranio fossile di Saccopastore, recentemente trovato, alla razza di Neanderthal pare al Sera, fino a prove migliori, assai dubbia. Col ristabilirsi del clima attuale, i monti furono nuovamente abitati e mentre i platicefali erano sospinti sulle zone più alte, sia sulle Alpi, sia sull'Appennino, gli abitatori delle zone montuose sottostanti si evolvevano verso la brachiortocefalia. Ciò si verificò però solo per le regioni ove le masse montuose hanno grande estensione in superficie, non per quelle dove, come la Calabria, la Sicilia e la Sardegna, hanno estensione piuttosto lineare. Le popolazioni di queste regioni rimasero dolico-ortoipsicefale, come le troviamo attualmente.
L'evoluzione verso la brachicefalia nella pianura padana fu forse più tardiva, se addirittura non fu per lenta immigrazione dei brachioidi montani circostanti, a mano a mano che il golfo pliocenico si colmava e si rendeva abitabile. Nella zona romagnola però il Sera tende a vedere una persistenza, nel nord, del tipo più primitivo che abitò l'Italia, con la sola variazione notevole della brachicefalia, ma del resto meno modificato che in altri luoghi. Un'altra zona di relativa persistenza del tipo nei suoi caratteri è quella della Lucchesia, ove l'evoluzione invece si sarebbe determinata nella statura. Nel sud il tipo primitivo italico si sarebbe conservato meno alterato in Calabria. Questa condizione di cose, relativamente semplice, fu modificata da avventi del tipo xantocroide in epoche assai differenti. L'avvento di gran lunga più importante fu certo quello che si verificò nell'epoca del bronzo o, più sicuramente, del ferro. Il possesso di questo metallo diede alle genti che lo portavano un vantaggio, che, per lungo tempo forse, supplì alla relativa scarsezza del numero e permise loro di stabilirsi largamente nelle parti centrali della penisola, mantenendosi però a preferenza nelle zone montuose e, a poco a poco, fondendosi con la popolazione preesistente. Le invasioni barbariche diverse, avvenute in epoche successive, portarono non così grandi cambiamenti. Il maggiore forse di essi, è quello della zona nord occidentale della Lombardia, che abbiamo vista, determinato forse dai Longobardi.
I varî avventi di genti per via di mare, colonizzazioni greche, albanesi, slave, compresa anche l'etrusca, non possono aver prodotto neppure localmente cambiamenti profondi; a ogni modo tali cambiamenti sono documentabili con estrema difficoltà, per cause diverse.
Censimenti. - Riesce assai difficile il calcolo della popolazione italiana nelle epoche passate, specialmente prima del secolo XIX, perché le basi che si hanno per i computi sono estremamente malsicure. G. Beloch calcolò la popolazione dell'Italia peninsulare (esclusa la Gallia Cisalpina e le isole) prima della guerra annibalica, a 5 milioni di abitanti, ma il computo, fondato sulle notizie tramandateci circa il numero dei maschi atti alle armi, è probabilmente alquanto esagerato. Più vicino al vero è forse il dato di 7 milioni di abitanti (comprese le isole) per il 28 a. C.
Per quasi tutto il Medioevo ci manca qualsiasi dato per calcoli attendibili; è da presumersi tuttavia che la popolazione fosse piuttosto diminuita alla caduta dell'Impero Occidentale e continuasse a diminuire (tranne forse nell'Italia meridionale e in Sicilia) nel periodo delle cosiddette invasioni barbariche, per poi riprendere a crescere, lentamente dapprima, assai più rapidamente dopo il Mille. Varî dati, per vero assai frammentarî, dànno valore alla supposizione che nei primi decennî del sec. XIV l'Italia avesse 10-11 milioni di ab. In quest'epoca si cominciano già ad avere, per alcuni stati italiani, numerazioni di fuochi e col secolo seguente queste numerazioni si fanno più frequenti, più regolari, più esatte; nel sec. XVI, si hanno già in alcuni casi anche censimenti per teste, paragonabili in certo modo agli attuali; i computi divengono pertanto meno incerti, ma restano tuttavia approssimativi anche perché le numerazioni nei varî stati d'Italia si facevano a epoche diverse. La prima metà del sec. XIV sembra rappresentasse un periodo di acme anche dal punto di vista demografico; la seconda metà del secolo vide una stasi e il secolo seguente forse anche una diminuzione; il dato di 10 milioni, che si dà per l'Italia alla fine del Medioevo, starebbe a provarlo. Per contro il secolo XVI rappresenterebbe un altro periodo d'incremento notevole: alla fine di quel secolo l'Italia superò certo i 12 milioni di ab. e toccò i 13 verso la metà del sec. XVII. Questi dati, intesi come largamente approssimativi, si possono ritenere come assai attendibili, al pari dell'altro che fa ascendere a 14 milioni gli ab. alla fine del sec. XVII; dal che si dovrebbe dedurre che l'incremento fu in questo secolo minore che nel precedente. Nel sec. XVIII abbiamo finalmente per tutti gli stati italiani censimenti o numerazioni della popolazione, che, nei loro risultati generali, appaiono degni di fiducia: un calcolo assai accurato fatto in base a essi, dà per il 1770 circa 16.475.000 per l'Italia nei confini prebellici; riferendoci ai confini attuali, si superano i 17 milioni. Per il 1800 si possono calcolare 18.125.000 ab. nei vecchi confini e 18.800.000 nei confini attuali; nel 1825 circa 20,5 milioni e nel 1852 un po' più di 25 milioni (confini attuali). A partire dal 1861 furono eseguiti nel Regno d'Italia regolari censimenti decennali (con la sola eccezione del 1891), dapprima al 31 dicembre, poi a epoche varie. A partire dal censimento 1881, accanto alla popolazione presente fu calcolata quella residente, determinata aggiungendo al numero dei presenti con dimora abituale gli assenti temporaneamente, cioè quelli che si presumeva dovessero far ritorno entro un periodo di tempo inferiore a un anno.
La seguente tabella riassume i dati principali risultati dai varî censimenti dal 1861 al 1931:
Dai dati ora esposti si può dedurre che la popolazione italiana si è all'incirca raddoppiata negli ultimi cento anni; pochi altri paesi d'Europa hanno dimostrato nel periodo corrispondente un ritmo di aumento così rapido. Questo aumento è dato, come è noto, da un lato dall'eccedenza dei nati vivi sui morti, dall'altra dall'eventuale eccedenza degl'immigrati sugli emigrati. Le cifre della penultima colonna della tabella mostrano che tale aumento si è mantenuto, nell'ultimo settantennio, con notevole costanza, poco sopra o poco sotto il 7 per mille.
Ma si deve osservare che, mentre fino al 1881 l'emigrazione era, come vedremo, un fenomeno di entità modesta, in seguito assunse proporzioni rilevantissime, in modo da sottrarre annualmente contingenti molto elevati di popolazione; tale sottrazione fu pertanto bilanciata da un aumento dell'eccendenza dei nati sui morti. In effetto tale eccedenza, che era appena del 7 per mille circa nel periodo 1872-1880, salì nel quinquennio seguente (1881-85) al 10,7 per mille e raggiunse il 12,6 per mille nel periodo 1911-14. La guerra e le epidemie arrestarono bruscamente il ritmo dell'aumento demografico, anzi, come è noto, nel 1918 vi fu una diminuzione di oltre 525.000 ab. pari al 14,8 per mille. Poi il ritmo dell'aumento riprese rapidamente: l'eccedenza dei nati vivi sui morti raggiungeva già il 13 per mille nel 1920, e ancora nel 1923. Negli anni successivi, fino al 1929, questa eccedenza mostrò una costante tendenza a diminuire, fino a ridursi a poco più del 9 per mille; il fenomeno cominciava a destare serie preoccupazioni, ma, in seguito alla campagna energicamente condotta dal governo contro la limitazione delle nascite e a favore delle famiglie numerose, sembra arrestato; infatti nel 1930 l'eccedenza ha di nuovo superato il 12,5 per mille. L'annesso diagramma esprime graficamente i dati per l'ultimo sessantennio.
Se si considera l'eccedenza dei nati sui morti nelle varie parti del regno si nota eh'essa si comporta molto diversamente. Nel 1929, anno nel quale la media fu, come si è detto più sopra, molto bassa (9,1 per mille) si superò il 15 per mille in Lucania e in Calabria, il 14 per mille in Puglia (oltre 19 per mille in provincia di Lecce), mentre la Liguria superò di poco il 3 per mille, il Piemonte restò sotto al 2 per mille (0,26 per mille in provincia di Vercelli). Sotto al 4,5 per mille rimase la Venezia Giulia, e la Toscana superò di poco il 5 per mille; anche alcune provincie della Lombardia mostrarono quozienti molto bassi (Pavia 2,7 per mille). Essi sono indubbiamente dovuti a volontaria limitazione della prole. Nell'Italia settentrionale il più alto quoziente di eccedenza è dato dal Veneto (11,4 per mille); nell'Italia meridionale il più basso quoziente è dato dalla Sicilia (9,1 per mille).
Quanto all'emigrazione, per quanto come si dirà, essa sia molto diminuita rispetto al periodo prebellico (la media annua nel periodo 1901-13 fu di oltre 625.000, mentre nel 1930, che diede la più alta cifra del quinquennio ultimo, fu di 300.000 o poco più), tuttavia in alcune regioni d'Italia sottrae ancora un'aliquota notevole. Per il che, in conclusione, anche attualmente l'aumento della popolazione, considerato per compartimenti e provincie, si manifesta assai disforme. Nell'intervallo corso fra gli ultimi due censimenti vi è una sola regione in lieve diminuzione, la Sicilia (prov. di Agrigento, Catania, Enna, Palermo, Ragusa e Trapani), dove alla natalità piuttosto scarsa si aggiunge una notevole emigrazione. Il Piemonte, considerato nel suo insieme, mostra un lieve aumento, cui concorre soprattutto la provincia di Torino, ma sono in diminuzione le provincie di Alessandria, Aosta, e Cuneo per scarsa natalità e in parte anche per emigrazione interna. Altre provincie con diminuzione sono Pavia, Trento, Belluno, Udine, Vicenza e Pistoia; alcune di esse sono caratterizzate da scarsa eccedenza dei nati sui morti, in altre, a spiccato carattere montano, si verificano esodi di popolazione, che trovano migliori condizioni di vita in regioni più basse, o in zone industriali, o anche si trasferiscono a colonizzare altri lembi italiani conquistati all'agricoltura e al popolamento dalla bonifica integrale, come si accennerà più oltre. Per contro alcune provincie dell'Italia meridionale (Abruzzo e Lucania), che nel penultimo decennio (1911-1921) mostravano una diminuzione della popolazione, accennano ora a riprendere il ritmo normale dell'aumento, per effetto della diminuita emigrazione e anche in genere delle migliorate condizioni sociali ed economiche.
Distribuzione e densità della popolazione. - Secondo il censimento del 21 aprile 1931, la densità della popolazione era, in Italia, in media di circa 133 ab. per kmq. (125 nel 1921); ma le deviazioni da questo valore medio sono fortissime, anche guardando alle sole provincie, come risulta dalla tabella a p. 739. Un quadro generale della distribuzione della densità è offerto dalla carta annessa. Si rileva da essa anzitutto un'evidente influenza del rilievo: normalmente la densità diminuisce col crescere dell'altezza e tanto nelle Alpi quando nell'Appennino oltre i 500 m. scende di solito sotto i 50 ab. per kmq. e al di sopra di 1000 m. normalmente sotto i 10. Ma un esame accurato mostra che il quadro della distribuzione della popolazione in montagna è molto variopinto, poiché, di contro alle aree elevate presso che vuote, si hanno ampî fondi vallivi e conche coltivate anche a notevole altezza, nelle quali la popolazione si addensa sovente fino al sovrapopolamento: basti guardare alla Val di Susa, alle valli confluenti ai laghi Maggiore e di Como, alla Val d'Adige e anche ad alcune valli e conche umbre e abruzzesi (Foligno, Terni, Sulmona; Fucino). Normalmente la popolazione tende anche ad affollarsi verso il mare, il che è ben naturale in un paese di così antica vita marinara come l'Italia, ma questa norma ha pure notevoli eccezioni: sono a questo riguardo indifferenti o negative le coste sarde, quelle della Toscana meridionale e del Lazio, notevoli tratti delle coste ioniche, le coste a lagune dell'Adriatico settentrionale, ecc.
Si osserva inoltre che nell'Italia peninsulare e nelle isole, regioni che hanno ancora un'economia prevalentemente agricola, la densità della popolazione nel maggior numero dei casi misura il grado di produttività del suolo: cosi si spiegano le aree ad alta densità, nelle vallate e colline della Toscana, dell'Emilia, della Campania, della Sicilia. Valori massimi (oltre 250-300 ab. per kmq.) si raggiungono in zone a suolo particolarmente fertile, come le colline vulcaniche dell'Antiappennino, la pianura campana, la regione etnea, mentre sono scarsamente popolate alcune zone collinose costituite da argille sterili, ingrate, franose, del Sannio, della Lucania, della Calabria, della Sicilia, ecc. In alcuni casi un notevole sviluppo industriale si aggiunge a determinare il concentramento della popolazione (Valdarno inferiore, Liguria centrale, dintorni di Napoli).
Questo fattore - la concentrazione dovuta alle industrie - agisce poi in molto più larga misura nell'Italia settentrionale; in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto la densità raggiunge perciò valori molto elevati, non solo in corrispondenza alla floridezza dell'agricoltura nelle regioni pianeggianti e collinose, ma anche in virtù del congestionamento determinato dalla grande industria; la nostra carta mette anzi in vista le aree a economia agricola prevalente, nelle quali la densità si mantiene di regola fra 100 e 200 ab. per kmq., e quelle a economia industriale dove si supera questo ultimo valore.
Le città costituiscono poi di per sé stesse, in generale, dei centri di attrazione della popolazione, e fanno sentire il loro effetto anche nella zona circostante; questo in Italia si verifica non solo per i grandi centri, la cui influenza in questo senso è messa in vista anche dall'annessa carta, ma altresì per numerose cittadine minori, che hanno, per ragioni storiche, un'importanza superiore alla loro entità demografica e che nella loro esistenza molte volte secolare hanno potuto esercitare questa azione di richiamo.
I nostri censimenti distinguono la popolazione raccolta in centri (di qualsiasi entità) da quella sparsa in campagna; ma questa distinzione non è stata sempre fatta con criterî uniformi, per il che i risultati sono da accogliersi come largamente approssimativi.
Nella tabella seguente sono messi a confronto, regione per regione, i dati offerti dal censimento 1931 con quelli di tre censimenti precedenti (1871, 1901, 1921).
Nonostante il valore approssimativo delle rilevazioni, si può segnalare come indice evidente del carattere agricolo di alcune regioni dell'Italia settentrionale e centrale la forte percentuale di popolazione sparsa nelle campagne (Veneto, Emilia, Marche, Umbria, Toscana); tale percentuale è minore là dove lo sviluppo industriale (Lombardia), o l'attività marinara (Liguria) o anche ragioni storiche (Piemonte) hanno favorito l'agglomerazione in centri. Invece nell'Italia meridionale, per un complesso di cause, che sono in parte eredità di epoche passate, anche la popolazione agricola vive agglomerata in centri, spesso assai grossi, ma a carattere rurale, laddove scarsissima è la proporzione della popolazione sparsa (Puglia, Lucania, Calabria, isole). Ma si osserva anche che, nel sessantennio considerato, la popolazione agglomerata tende in complesso nell'Italia settentrionale (compresa la Toscana) ad aumentare, soprattutto a causa della concentrazione dovuta al progresso delle industrie, mentre nel resto d'Italia è invece la popolazione sparsa che tende piuttosto ad aumentare, per quanto lentamente, sia per il graduale venir meno di alcune delle cause che tenevano gli abitanti lontani dalle campagne, sia per il popolamento di zone recentemente conquistate all'agricoltura (Lazio).
Questi medesimi fatti spiegano anche, almeno in parte, la diversa fisionomia dei centri. Nell'Italia meridionale e nelle isole luoghi che per entità di popolazione si dovrebbero chiamar città, hanno talora piuttosto l'aspetto di grossi villaggi, non solo per l'assoluto prevalere della popolazione occupata nell'agricoltura, ma anche per la presenza, nel nucleo urbano, di edifici e locali connessi con le occupazioni rurali o con l'allevamento del bestiame, laddove nell'Italia settentrionale, centri con poche migliaia di abitanti (meno di 5000, talora meno di 2000) hanno, per il carattere degli edifici e delle vie, per la presenza di una cinta murata, per lo sviluppo dell'attività industriale e commerciale, per l'esplicazione della vita intellettuale, ecc., la fisionomia di città.
Del resto vi è un'enorme varietà nel tipo dei centri italiani, così come nella loro situazione e nella configurazione planimetrica. Per molti dei maggiori, i quali ebbero varie fasi di sviluppo, queste fasi si possono riconoscere nella pianta stessa, fino a rimontare al nucleo più antico, non di rado risalente all'età romana, e caratterizzato spesso, in tal caso, dal reticolato ortogonale delle vie. Ma non sempre questo tipo regolare di reticolato a maglie quadrate o rettangolari denota l'origine da centri dell'epoca romana. Nelle città di origine medievale è invece spesso caratteristica l'irregolare e complicata disposizione delle vie, tortuosamente disposte intorno a una chiesa, a un castello o fortezza, ecc. Nella configurazione di molte città di pianura, libere di svilupparsi in ogni senso, è evidente di solito l'influsso esercitato dalla rete delle strade di grande comunicazione, ovvero l'influsso dei fiumi, specie in prossimità di ponti o passaggi. In collina e in montagna il centro ha invece dovuto adattarsi al rilievo e si è sviluppato secondo in possibilità da questo offerte (Cuneo, Siena, Perugia, Potenza sono esempî caratteristici). Ragioni di difesa hanno pure spesso determinato, soprattutto nell'Italia centrale e meridionale, la situazione e anche il tipo dei centri (su cocuzzoli, su dorsali, su sproni, ecc.).
Riguardo all'entità demografica, nel 1931, i comuni con più di 20.000 ab. erano 244 (sul totale di 7310) e di questi 66 soltanto superavano i 50.000 ab. e 22 i 100.000. Questi ultimi raccoglievano tuttavia 7.165.000 ab., cioè circa il 17,5% dell'intera popolazione d'Italia. Ma i centri con più di 20.000 ab. erano in numero minore; la cartina qui annessa ne dà la distribuzione, anche in riguardo all'altezza sul livello del mare.
L'incremento delle grandi città è stato nel sec. XIX molto notevole. Intorno al 1800 infatti non vi erano che 5 città con più di 100.000 ab. (Napoli oltre 400.000; Palermo oltre 200.000; Roma 153.000; Venezia 140.000; Milano 135.000); nel 1871 si aggiunsero Torino, Firenze, Genova, Trieste, Bologna, Venezia e Messina.
Lo sviluppo successivo delle grandi citta è messo in evidenza dalla seguente tabella.
Nel giudicare dell'incremento, molto ineguale, dei centri indicati dalla tabella, bisogna tener conto anche dell'ingrandimento recente di taluni di essi per aggregazione di comuni limitrofi (Genova, Firenze, Milano, Napoli, Reggio, Venezia). Per maggiori particolari vedi alle singole voci.
La tendenza ad affluire dalle campagne verso i grandi centri, per quanto non abbia in Italia assunto le proporzioni dimostrate da stati a più intenso sviluppo industriale (Gran Bretagna, Francia, Germania), tuttavia sembrò procedere, negli ultimi decennî, con un ritmo accelerato, che poteva divenire inquietante; opportuni provvedimenti sono intervenuti a frenare quanto di eccessivo vi era in questa tendenza; di fatto da alcuni anni il ritmo d'incremento delle maggiori città si è attenuato.
Insediamento rurale. - L'Italia presenta grandi contrasti nei modi di localizzazione della sua popolazione rurale, con insediamenti fortemente accentrati in villaggi compatti e grossi borghi, con abitazioni tutte sparse sui fondi e con molteplici forme miste o intermedie. Le regioni meridionali e le isole conservano ancora in molti luoghi le forme di maggiore accentramento, in cui tutta la classe rurale dimora nel "paese" e i contadini compiono due volte al giorno il percorso fra questo e i fondi coltivati, posti talora a distanza notevole: la campagna è priva di abitazioni e presenta soltanto "pagliare" (capanne di paglia) o i più modemi "casini", usati per la custodia di attrezzi o provviste e per un soggiorno temporaneo. Il grande sviluppo demografico nel sec. XIX ha fatto di molti tali borghi (Sicilia, Puglia) vere città rurali. Questo tipo d'insediamento, comune a molte regioni del Mediterraneo, ha cause storiche, etniche e fisiche, come la scarsa sicurezza politica o sociale del passato, l'indole delle genti meridionali incline alla vita urbana, la malaria e la scarsità delle acque d'alimentazione: ma riposa soprattutto su un vecchio tipo di economia agraria basato sulla cerealicoltura estensiva e su colture arboree (olivo, vite), condotta col sussidio di un largo ceto di braccianti e accompagnata da un assai modesto allevamento animale (ovini). L'introduzione di colture specializzate (agrumi, mandorlo, tabacco), o lo sviluppo dell'allevamento, specie dei bovini, o il passaggio alle colture promiscue, ha, dovunque, condotto alla fondazione di masserie, cascinali, case coloniche isolate. In molte regioni meridionali, il vecchio borgo contiene ormai, dei rurali, quasi soltanto i giornalieri: coloni, fittavoli, piccoli proprietarî hanno la casa sui fondi.
Fuori dell'Italia meridionale, l'insediamento accentrato coincide generalmente con la presenza di un ambiente agrario poco favorevole, p. es. la montagna. Le condizioni topografiche e la riduzione e frammentazione della superficie coltivata hanno dato però agl'insediamenti accentrati della montagna caratteri particolari: nell'Appennino, frazionando anche l'abitato, il quale appare perciò formato da una quantità di piccoli nuclei compatti, villaggi e casali: nelle Alpi, integrandosi inoltre con le dimore temporanee poste a diversi livelli per lo sfruttamento dei pascoli e del bosco. Anche questi tipi d' insediamento hanno dato origine a forme miste, soprattutto nelle Prealpi e nelle zone collinari dell'Appennino, dunque nelle più fertilî plaghe marginali, che sono anzi, forse, le forme più diffuse.
La necessità di aziende rurali isolate fu sentita, probabilmente, dapprima nelle regioni in cui l'esistenza di vaste estensioni di terreni pascolativi favorì lo sviluppo dell'allevamento e delle industrie derivate. Si diffuse, così, più di altri tipi (casali dell'agro laziale, vecchie masserie padronali delle pianure meridionali), il tipo della corte rurale, formata da più costruzioni disposte intorno a uno spazio chiuso, adatta alla custodia degli animali, dei foraggi e dei raccolti, facile anche a essere difesa, che oggi ancora s'incontra in larghe zone della Pianura Padano-veneta e nell'agro campano. Ma la corte isolata è, in genere, un'eccezione e, nei riguardi della forma dell'insediamento, appare invece caratteristica la sua tendenza a raggrupparsi in modo da formare piccoli aggregati rurali e, in qualche caso, anche grossi centri composti unicamente di corti rurali. Questo fatto e la facilità con cui la corte si presta a servire da abitazione per più famiglie permette di porla fra le forme d'insediamento intermedie fra l'accentramento e la dispersione.
Le regioni italiane nelle quali si è più nettamente affermato l'insediamento rurale di tipo disperso sono, anzitutto, quelle in cui domina il contratto agrario della mezzadria, con la divisione delle proprietà in poderi di entità proporzionata alla capacità lavorativa di una famiglia di contadini (Toscana): poi, varî distretti di vecchie e nuove bonifiche idrauliche e, qua e là, le plaghe particolarmente favorite nelle quali si è sviluppata la piccola proprietà. L'area della più recente bonifica padana presenta invece un tipo intermedio di insediamento, con le case allineate e talora concentrate lungo le strade e sugli argini. Un tipo da segnalare è anche quello dei villaggi a case disseminate che prevale, fuori delle vallate principali, nella zona a popolazione tedesca dell'Alto Adige.
Migrazioni interne ed emigrazione esterna. - L'aumento della popolazione italiana, verificatosi, come si è visto, in misura molto notevole soprattutto dopo il 1880, non è sempre andato di pari passo con l'aumento dei mezzi di sussistenza: specialmente in alcune regioni di montagna, scarso di suolo agricolo e povere d'industrie, si è pertanto venuto determinando uno squilibrio, consistente in ciò che una parte della popolazione non trovava più nella propria regione le risorse o l'occupazione necessaria a sostentarsi ed era spinta a cercarle altrove. Cooperavano a questa spinta le migliorate comunicazioni, che eliminavano la difficoltà di trasferirsi da luoghi prima chiusi e segregati, e anche l'intensificarsi dei rapporti fra le varie parti d'Italia e fra l'Italia e i paesi stranieri.
La ricerca di occupazione e di guadagno fuori dclla propria regione ha dato luogo al fenomeno delle migrazioni interne e a quello dell'emigrazione vera e propria. Le migrazioni interne sono in parte notevole periodiche, essendo effettuate da persone che si spostano dalla propria sede per impiegarsi solo per alcuni mesi dell'anno in lavori agricoli o industriali, e fanno poi ritorno alla propria residenza per il resto dell'anno. Le migrazioni per lavori agricoli hanno maggiore rilievo e si verificano specialmente alla fine della primavera e al principio dell'estate (maggioluglio) o in settembre; le regioni che a esse dànno maggior contributo sono la Puglia, l'Emilia, l'Abruzzo, il Veneto, la Lombardia. Nel complesso durante gli ultimi anni, nei quali queste migrazioni furono accuratamente sorvegliate, si ebbero circa 300-350.000 individui (per ¾ maschi) interessati annualmente in tali spostamenti. Ma si hanno anche migrazioni interne permanenti, cioè trasferimenti di gruppi di popolazioni da regioni povere di risorse in altre di recente conquistate all'agricoltura con opere di bonifica, ecc.: così durante il sec. XIX la graduale bonifica maremmana diede luogo a stanziamenti di genti provenienti dalle regioni meno produttive dell'Appennino toscano, e altrettanto è avvenuto nelle aree bonificate della Romagna; più di recente scesero dall'Appennino e Subappennino centrale coloni a stabilirsi nell'Agro Romano, e oggi, con provvedimenti opportunamente disciplinati, si favorisce il trapianto di famiglie di agricoltori da zone ove la pressione demografica è più forte in aree redente dalle opere della bonifica integrale e scarse di braccia proprie (come ad es., la Sardegna e oggi la pianura pontina). Una tendenza spontanea ad abbandonare talune regioni di montagna, nelle quali la vita è aspra e poco remunerativa, si è manifestata da tempo e per varie cause, specialmente in più parti delle Alpi piemontesi, e qua e là nelle Alpi lombarde e venete e anche nell'Appennino: vi contribuiscono in parte la naturale spinta verso le vallate e le pianure ove sono le regioni più produttive e le grandi vie di comunicazione, in parte la ricerca di lavoro negli stabilimenti industriali sorti o sviluppatisi di recente, o comunque il desiderio di procacciarsi occupazioni più lucrose, in parte la decadenza di alcune piccole industrie e attività proprie dei paesi di montagna (industrie domestiche, industrie connesse col bosco, ecc.), in parte altre molteplici cause; questo spopolamento montano, che non frequentemente appare in forme gravi ed è del resto fenomeno comune non solo a tutta intera la cerchia alpina, ma anche a molte altre zone montuose, è oggi oggetto di accurati studî.
Maggior importanza ha avuto, specialmente in passato, il fenomeno dell'emigrazione vera e propria, determinata anch'essa dalla crescente pressione demografica e dalla spinta a ricercare fuori dei confini della patria fonti di sussistenza e di lucro.
Il fenomeno cominciò ad assumere importanza rilevante solo nella seconda metà del sec. XIX, e manifestò la tendenza a un rapido incremento nell'ultimo quarto del secolo. Ma ancora nel 1875-80 gl'Italiani che ogni anno emigravano non erano più di centomila, mentre negli anni immediatamente precedenti la guerra mondiale, si raggiunse una cifra sette o otto volte maggiore.
Le correnti emigratorie hanno esse pure in parte carattere temporaneo, in parte carattere permanente. L'emigrazione temporanea è data da coloro che abbandonano l'Italia soltanto per alcuni mesi (di solito i mesi nei quali si attenuano da noi i lavori agricoli) e si dirige di preferenza ai paesi dell'Europa centrale e occidentale o del bacino mediterraneo mentre l'emigrazione permanente è data da coloro che abbandonano la patria col proposito di non più tornarvi, almeno per lungo tempo, e si dirige soprattutto oltre Oceano.
Fino al 1886 prevalse l'emigrazione per i paesi europei e mediterranei: in quell'anno su circa 168.000 emigranti, circa 85.000 erano diretti a questi paesi, 83.000 oltre Oceano (nel 1881 le cifre erano 95.000 e 41.000 rispettivamente). Da quell'epoca l'emigrazione transoceanica sale rapidamente e supera, di solito, e notevolmente, quella per i paesi più vicini: nel 1901 gli emigranti annui sono in complesso già più di mezzo milione (533.000, di cui 253.000 nei paesi europei e mediterranei, 280.000 oltre Oceano). In seguito, mentre l'emigrazione per i paesi europei non superò che raramente la cifra suindicata (massimo nel 1913: 313.000), quella transoceanica continuò ad aumentare fino a raggiungere nel 1913 i 560.000; in quest'anno dunque emigrarono circa 863.000 persone! Durante la guerra mondiale l'emigrazione fu ridotta al minimo (poco più di 28.000 nel 1918, e di questi appena 4000 oltre Oceano), anzi avvennero numerosi rimpatrî (almeno 500.000 persone in tutto il periodo bellico). Ma subito dopo la guerra, si ebbe un nuovo slancio: 253.000 emigranti nel 1919, 615.000 circa nel 1920, dei quali due terzi oltre Oceano. Successivamente i provvedimenti restrittivi adottati in alcuni paesi, soprattutto negli Stati Uniti, hanno indebolito le correnti emigratorie transoceaniche, onde dal 1922 tornò a prevalere l'emigrazione per i paesi europei e mediterranei, più tardi la crisi della disoccupazione, che si allarga sempre più, interviene ad attenuare le correnti migratorie, disciplinate e controllate ormai dall'opera del governo; il flusso annuo diminuisce notevolmente (183.000 emigranti in complesso nel 1928, poco più di 150.000 nel 1929); un rinnovato richiamo verso taluni stati europei (Francia, Svizzera) ha determinato un transitorio aumento nel 1930 (circa 280.000; nel 1931 si è di nuovo discesi a 165.000).
Il maggior contingente all'emigrazione temporanea è dato da talune regioni di confine, la Venezia, l'alta, Lombardia, il Novarese; poi da alcune provincie dell'Emilia, della Toscana, delle Marche. Negli anni precedenti la guerra Francia; Germania e Svizzera assorbivano, con aliquote poco differenti, la parte maggiore di questa emigrazione; ora l'emigrazione verso la Germania si è quasi annullata (1000-1500 individui l'anno e anche meno, in confmnto a 60-80.000 negli ultimi anni prebellici) e quella diretta verso la Svizzera è assai ridotta, per quanto dal 1922 tenda ad aumentare lentamente (7500 individui nel 1922; 26.000 nel 1930 e nel 1931, in confronto a 80-90.000 negli anni prebellici); il flusso maggiore si dirige verso la Francia (oltre 200.000 nel 1924; 167.000 nel 1930; 75.000 circa nel 1931).
All'emigrazione transoceanica davano, prima della guerra mondiale, il maggior contributo la Sicilia, la Calabria, l'Abruzzo (provincie di Chieti e Campobasso), la Lucania, la Campania; tra le regioni dell'Italia centrale le Marche, tra quelle della settentrionale il Piemonte; oggi si aggiungono, con notevoli contingenti, il Veneto e la Venezia Giulia. Fino alla fine del secolo scorso il maggior numero di emigrati veniva assorbito dall'America Meridionale (Brasile, Argentina, Uruguay); dal 1902 passano in prima linea i paesi dell'America Settentrionale (Stati Uniti e secondariamente Canada). Ad es., nel 1895 oltre 141.000 emigranti si diressero nell'America Meridionale, meno di 40.000 negli Stati Uniti e Canada; nel 1913 le cifre relative erano invece 145.000 e 407.000. Dopo la guerra il flusso tendeva a riprendere le medesime direzioni: nel 1920 meno di 50.000 emigranti si volsero al Brasile e agli stati del Plata, invece oltre 350.000 agli Stati Uniti e al Canada. Ma negli ultimi anni, per le limitazioni cui sopra si è fatto cenno, l'emigrazione negli Stati Uniti è tornata ad affievolirsi, e il maggior contributo di emigranti è di nuovo assorbito dall'Argentina; tra gli altri paesi americani hanno importanza anche il Canada e il Brasile.
Sulle condizioni attuali degl'Italiani residenti nei paesi che sono meta alla nostra emigrazione, vedi sotto: il paragrafo Italiani all'estero ed i cenni sotto le voci di ciascun paese.
In conclusione si può asserire che in Italia, per il costante, vivace aumento della popolazione, la pressione demografica si manifesta, ai nostri giorni, assai intensamente. La bonifica integrale mira sostanzialmente a mettere a disposizione della crescente popolazione tutto il territorio nazionale comunque utilizzabile; la disciplina delle migrazioni interne, mediante trasferimento permanente di coloni nelle plaghe nuovamente conquistate alla coltura, mira ad adeguare, fin dove è possibile, la densità della popolazione rurale alle risorse del suolo. Ma con ciò non si provvede che in modesta misura alle necessità di espansione della gente italiana, la quale è spinta naturalmente a traboccare fuori dei confini della patria e, non trovando che spazî limitati negli attuali possedimenti esterni, giustamente reclama più largo posto e più libero respiro nel mondo.
Condizioni economiche.
Prodotti del suolo. - Messa a confronto con le altre due penisole dell'Europa mediterranea, l'Italia appare in condizioni più favorevoli dal punto di vista dell'utilizzazione del suolo, sia per la presenza di una vasta pianura a nord (nella quale le condizioni climatiche sono anche propizie, per lo meno a talune colture erbacee più essenziali) e di altre minori pianure e fasce pianeggianti costiere, sia per lo sviluppo delle regioni collinose, abbastanza bene innaffiate da piogge, sia per il clima, che presenta minori contrasti in confronto all'Iberia e alla Balcania. Molto più sfavorevole è invece il confronto coi paesi dell'Europa centrale. Il suolo montuoso sottrae interamente all'Italia notevoli spazî all'agricoltura e in altri limita le possibilità agricole o richiede dall'uomo grande sforzo di preparazione e adattamento del terreno.
Secondo una statistica ufficiale sono classificati come pianura 63.322 kmq. del territorio nazionale, ossia il 20,4%; come collina 124.132 kmq., cioè il 40%, e come montagna un'area poco inferiore, 122.565 kmq., cioè il 39,6%. L'Italia settentrionale ha più della metà dell'area classificata come montagna, ma circa i due terzi dell'area di pianura. Quanto al clima, è da ricordare che in molte parti dell'Italia peninsulare e nelle isole, la siccità estiva, spesso assai cruda e prolungata, come si è già accennato, può essere molto nociva ai lavori agricoli e non meno nocivo è il regime irregolare, sia come quantità sia come epoca, delle piogge autunnali e primaverili. Il lavoro che l'uomo prodiga sul suolo non è dunque né facile, né di esito sicuro.
Tuttavia l'agricoltura può dirsi la base fondamentale dell'economia nazionale. Esercitandosi da millennî, con strumenti e procedimenti sempre più sviluppati, l'opera di utilizzazione agricola del suolo ha conseguito risultati imponenti, come è attestato anche dalle statistiche. Queste indicano che nell'Italia presa nel suo insieme il 49,4% del suolo è coltivato (44,1% a seminativi; 5,3% a colture legnose specializzate); il 20,3% è a pascoli naturali e a prati; il 18% è occupato da boschi (compresi i castagneti, 2%); solo il 12,3% è incolto e di questo incolto, un terzo circa è pure in qualche maniera produttivo. La percentuale di terreno improduttivo è assai piccola per un paese così montuoso, ed è inferiore a quella di tutti i maggiori stati europei. Tuttavia, come vedremo tra breve, vi sono ancora in Italia aree inutilizzate le quali possono essere conquistate all'agricoltura, e oggi vengono effettivamente a grado a grado risanate secondo un programma sistematico di bonifica.
L'importanza prevalente dell'agricoltura in Italia risulta anche dal fatto che, secondo il censimento agricolo del 19 marzo 1930, ben 8.810.000 persone avevano come loro principale occupazione un'occupazione agricola e altri 4.105.000 erano interessati all'agricoltura e occupazioni connesse, in linea secondaria. Ma è pur da osservare che, della somma totale degli agricoltori, appena il 28% sono proprietarî dei terreni, interessati perciò a curarne con ogni mezzo il massimo rendimento; il 41% sono fittavoli legati da patti agrarî di diverso tipo; il 30% e più sono lavoranti alla giornata. Questi e quelli hanno un interesse meno diretto a un razionale e progressivo miglioramento della produzione nei terreni loro affidati. In particolare, la diffusione delle grandi proprietà (latifondi) con le forme di economia a esse connesse e perpetuanti spesso condizioni di cose non più rispondenti agl'interessi attuali, ostacola l'introduzione e lo sviluppo di sistemi agricoli più idonei e convenienti. A ciò si cerca di porre rimedio con trasformazioni fondiarie promosse per ragioni di pubblico interesse: vi sono oggi 43.255 kmq. di terreni soggetti a tale trasformazione, soprattutto nel Tavoliere di Puglia e nella cosiddetta Fossa Premurgiana, nella Lucania, in Sardegna, nell'Agro Romano e in Maremma, nell'Istria, nella Bassa Bresciana, nell'Emilia, ecc.
Riguardo alla distribuzione delle colture, esiste un contrasto fra l'Italia continentale da un lato e la peninsulare con le isole, dall'altro; in quella, piogge abbastanza ben distribuite, vaste zone pianeggianti, larghe possibilità d'irrigazione e perciò ambiente favorevole alla coltura intensiva e specialmente a quella dei cereali, del riso, dei foraggi; nella penisola e nelle isole clima mediterraneo e perciò ambiente favorevole alle colture arboree: vite, olivo, alberi da frutto. I cereali, specialmente il grano, sono per vero da tempo antico molto diffusi anche qui, anzi proporzionalmente occupano un'area maggiore che nell'Italia continentale e si estendono anche su zone altimetriche poco adatte; ma i raccolti, specialmente in certe regioni del Mezzogiorno e delle isole sono alquanto aleatorî e frustrano talora le fatiche dell'agricoltore.
L'area coltivata a cereali non può andar soggetta a notevoli variazioni in un paese di antico sfruttamento agricolo, come il nostro; essa occupa il 23,6% della totale superficie territoriale (media del quinquennio 1928-32). Il frumento da solo assorbe più di due terzi di quest'area, cioè circa 4.8-4.900.000 ettari, area leggermente superiore alla media prebellica (4.790.000 ettari nel quinquennio 1909-1913) e soggetta a lievi oscillazioni annue. In linea assoluta, la maggiore estensione di terreno coltivato a grano lo ha la Sicilia, dove la granicoltura è tradizione antichissima, mai venuta meno; seguono, a grande distanza, l'Emilia, la Puglia, la Toscana, il Piemonte e l'Abruzzo. Ma l'area coltivata non è affatto in rapporto diretto con la produzione, perché, mentre nell'Italia settentrionale la coltura è intensiva, in tutto il Mezzogiorno - salvo che nelle pianure campane e pugliesi - è estensiva. Per la produzione l'Emilia (che pur dedica alla granicoltura appena i 6/8 del terreno che a essa è destinato in Sicilia) viene al primo posto; seguono la Sicilia, la Lombardia, il Piemonte, il Veneto e la Toscana. Se la superficie coltivata a grano è, rispetto al periodo prebellico, solo lievemente aumentata, il raccolto si è accresciuto in misura di gran lunga maggiore: la media del quinquennio 1909-13 fu di 50,4 milioni di quintali, quella del quinquennio 1927-31 fu di 62,2 milioni (in questo quinquennio il 1929 raggiunse la cifra altissima, senza precedenti, di 70,8 milioni; ma il 1927 diede 53,3 milioni di quintali soltanto). Nel 1932 il raccolto superò i 75 milioni di quintali con un nuovo cospicuo balzo in avanti sulle cifre del 1929.
È noto che, nonostante questi rilevantissimi progressi conseguiti, il grano prodotto in Italia non basta ai bisogni della popolazione, perché il consumo aumenta pure gradualmente; in media si consumano oggi 180 kg. l'anno per abitante, mentre nel 1860 il consumo era calcolato alla metà. Se si tiene conto del grano necessario per le semine, si può valutare a 82 milioni di quintali il fabbisogno annuo dell'Italia; 15-18 milioni di quintali debbono perciò essere importati dall'estero. La cosiddetta battaglia del grano, promossa dal governo con grande energia e con mezzi adeguati all'importanza del fine, mira a liberare l'Italia da questo gravame. Più che l'aumento dell'area dedicata alla granicoltura - che non è vantaggioso se non nei casi in cui i lavori di bonifica in corso mettano a disposizione nuovi terreni particolarmente idonei (Pianura pontina, Maremma, Sardegna, ecc.) - si cerca di aumentare il rendimento migliorando i sistemi di coltura (impiego di varietà di grano adatte alle condizioni varie di suolo e di clima, processi razionali di semina e soprattutto concimazioni idonee). I risultati già ottenuti si possono misurare in base alle cifre del rendimento medio; esso era prima della guerra di q. 10,5 per ettaro in tutta l'Italia, mentre salì a 12,5 nel 1928, a 13,8 nel 1931, a 15,2 nel 1932. Il rendimento di 16-17 q. per ettaro necessario a coprire l'intero fabbisogno nazionale, mantenendo l'area attualmente coltivata, fu nel 1931 superato di gran lunga in tutta l'Italia settentrionale (q. 21 per ha.; Lombardia 25,2; prov. di Cremona 31,6); mentre invece nell'Italia centrale non si raccolsero che 12,2 q. per ettaro e nella meridionale e isole 10,1-10,2 quintali. Le differenze sono dunque ancora molto elevate; ma la possibilità di arrivare in un prossimo avvenire a provvedere all'intero quantitativo necessario al paese non sembra, giudicando dai progressi fatti in pochi anni, da revocarsi in dubbio.
Come si è già accennato, il grano ha un'importanza assolutamente soverchiante sugli altri cereali, che sogliono perciò dirsi minori. Tra questi va ricordato anzitutto il riso, coltura propria di alcune tra le aree più basse della Pianura Padana, dove può essere facilmente praticato il necessario adacquamento. Su circa 140.000 ettari coltivati, 74.000 spettano al Piemonte (Vercellese), quasi 60.000 alla Lombardia (Lomellina, dintorni di Ostiglia), il resto al Polesine e ad alcune zone romagnole. L'area coltivata tende a restringersi, mentre i progressi della tecnica colturale accrescono il rendimento, che da 33 q. per ettaro (media 1909-13) è salito a 45 e più, e potrebbe ancora accrescersi notevolmente. La produzione annua oscilla fra i 6 e i 7 milioni di quintali ed è molto superiore al fabbisogno nazionale; un desiderabile aumento del consumo interno incontra ostacoli nelle abitudini delle popolazioni dell'Italia peninsulare e insulare, che non apprezzano abbastanza il riso come alimento abituale; lo smercio all'estero, nonostante che il prodotto italiano sia apprezzatissimo in confronto ai risi asiatici, incontra oggi qualche difficoltà.
La coltura del mais, che dal sec. XVI si è diffuso largamente nell'Italia settentrionale e specie nel Veneto, è oggi in regresso. L'area coltivata, ormai di poco superiore a 1.300.000 ettari, si è ristretta di 250.000 ettari nell'ultimo ventennio, e, poiché il rendimento medio rimane stazionario anche il raccolto tende a diminuire (18-25 milioni di q. annui; il 1932 ha segnato peraltro un nuovo aumento). Ha nociuto a questa coltura la crescente predilezione per l'alimentazione granaria, mentre non è ancora molto diffusa l'utilizzazione del mais come foraggio. Il Veneto coltiva a mais un'area (250.000 ettari) poco inferiore a quella coltivata a grano; in Lombardia l'impulso a una maggiore produzione di frumento ha determinato una contrazione della coltivazione del mais. Ma per la quantità raccolta, la Lombardia supera il Veneto; seguono il Piemonte, l'Emilia, le Marche, il Lazio, l'Abruzzo.
L'orzo ha ormai perduto l'importanza che ebbe un tempo per l'alimentazione; l'area attualmente coltivata si ragguaglia in media a 230.000 ettari; la produzione tende a elevarsi per l'aumento del rendimento annuo (2,38 milioni di quintali annui nella media 1927-31, in confronto a 2,08 nella media 1909-13). È una coltura dell'Italia meridionale; ¾ dell'area coltivata e 4/5 della produzione sono dati dalla Puglia, Sicilia e Sardegna unite; vengono poi la Lucania, l'Emilia, la Venezia Tridentina e la Giulia; in queste ultime due regioni il prodotto trova impiego anche per la fabbricazione della birra. La segala, cereale di montagna, ha importanza in prima linea in Piemonte, poi in Lombardia, nella Venezia Tridentina e in Calabria; si dedicano a essa in media 120-125.000 ettari e il raccolto è di 1½-1¾ milioni di quintali (per due terzi dal Piemonte e Lombardia). L'avena ha un'importanza maggiore, sia per area messa a coltura (510.000-520.000 ettari), sia come produzione; essa viene impiegata esclusivamente come foraggio. Il raccolto, che pur attraverso grandi oscillazioni tende ad accrescersi per aumento del rendimento annuo, è dato in prima linea dalla Puglia, dalla Lucania, dalla Calabria, regioni dove peraltro, anche a causa del clima, le oscillazioni annue sono molto grandi; nella Lombardia, in Toscana, nel Lazio, che vengono in seconda linea per entità del prodotto, i raccolti sono tuttavia meno oscillanti.
Tra i prodotti del suolo che entrano in assai larga misura nell'alimentazione degl'italiani sono ancora da menzionarsi la patata, i legumi, gli ortaggi. L'area che l'Italia dedica alla coltura della patata (oltre 350.000 ettari, per un quarto consociata ad altre colture) è cospicua, ma la produzione - circa 20 milioni di quintali l'anno - non è adeguata. Nell'Abruzzo e Molise (che da solo assorbe poco meno di un quarto dell'area) si raccolgono circa 20 q. per ettaro, laddove nella Venezia Tridentina e in Lombardia si arriva a 110 quintali. Questo enorme divario è in rapporto con la qualità dei terreni adibiti a tale coltura e coi metodi agricoli, che sono ancora molto arretrati nell'Italia centrale e meridionale. Per la produzione sono alla testa la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, la Toscana; Abruzzo, Campania e Calabria vengono in seconda linea. Nel complesso peraltro la patata non ha da noi l'importanza che, come integratrice dei cereali, essa ha assunto nell'Europa centrale, dove inoltre è largamente utilizzata anche per usi industriali.
Tra le leguminose ha da tempo antico grande diffusione la fava (Sicilia, Sardegna, Italia peninsulare) la cui produzione è in aumento (3,7-4,7 milioni di quintali annui); seguono a grande distanza i fagioli, di uso comune in tutta l'Italia, poi altri legumi di consumo più limitato e localizzato (piselli, ceci, lupini). Mentre le fave dànno luogo a esportazione, gli altri legumi non bastano a coprire il consumo nazionale.
Condizioni propizie di suolo e di clima favoriscono in Italia le colture orticole, ovunque sussidiate dall'adacquamento o dall'irrigazione; esse fioriscono intorno ai grandi centri di consumo, ma hanno assunto carattere intensivo in talune zone del Napoletano, della Sicilia, della Liguria, della Toscana, del litorale veneto (Chioggia) e pugliese, e anche in aree di recente bonifica; i prodotti circolano in tutta l'Italia affluendo verso le maggiori città. La produzione media annua di quelli che si denominano "ortaggi di grande coltura" è di 16-17 milioni di q.; spetta il primo posto ai pomodori (⅓ del prodotto totale; nel 1929 la metà); seguono cavoli, cocomeri e poponi, cipolle e agli, carciofi, cardi, finocchi, sedani. Questi prodotti varcano le nostre frontiere e alimentano una considerevole esportazione; l'incremento delle colture orticole è anzi da riguardarsi come un fattore non trascurabile di ricchezza nazionale.
La principale coltura arborea dell'Italia è la vite, che occupa circa 4 milioni di ettari, dei quali circa 1.030.000 a coltura specializzata, il resto a coltura promiscua (associata ad altre colture, per lo più erbacee); un ragguaglio approssimato permette di computare che il prodotto effettivo è pari a quello che si otterrebbe da 1.920.000 ettari di vigneto esclusivo, il che equivale a più del 6% dell'area totale d'Italia. Nessun paese dedica alla vite un'area così vasta (Francia e Spagna 3% circa); essa si è tuttavia ridotta nell'ultimo ventennio (del 10% circa) e tende ancora a diminuire. La viticoltura è praticata in tutte le regioni d'Italia; il vigneto esclusivo predomina assolutamente nell'Italia meridionale e nelle isole, dove il clima è prettamente mediterraneo; nell'Italia centrale e settentrionale prevale invece, specie in collina, la coltura promiscua. La raccolta dell'uva varia da 60 a 90 milioni di quintali, dei quali circa il 95% è destinato alla vinificazione. La produzione del vino - soggetta, come è noto, a grandi oscillazioni - negli ultimi anni si è mantenuta fra i 33 e i 47 milioni di ettolitri (media del quinquennio 1926-31: circa 40 milioni); è diminuita notevolmente rispetto al periodo prebellico (media del quinquennio 1909-13: 46 milioni), anzi negli anni 1930-32 ha accentuato in modo cospicuo tale diminuzione. Tuttavia questa non colpisce tutte le regioni italiane; è massima in Sicilia e rilevante nella Puglia, nella Campania, nelle Marche, nel Piemonte, nel Veneto; in questa ultima regione si attribuisce in parte alle conseguenze, tuttora vive, delle devastazioni causate dalla guerra; altrove è da ascriversi principalmente alla fillossera; in talune zone è peraltro collegata con trasformazioni agrarie avvenute di recente.
Per la produzione del vino, sono alla testa oggi il Piemonte e l'Emilia; seguono Campania, Toscana, Puglia, Lombardia, Sicilia, Veneto. Il vino viene in massima parte consumato in Italia; circa l'esportazione di alcune qualità di vino si dirà qualche parola più avanti.
Coltura più specificamente mediterranea è quella dell'ulivo, che in Italia si coltiva su 2.120.000 ettari, dei quali soltanto 830.000 esclusivamente a uliveto, il resto a coltura promiscua; in totale l'area si ragguaglia a 1.260.000 ettari di uliveto esclusivo, pari al 4,1% dell'area dell'Italia. La stessa percentuale si ha a un dipresso nella Spagna, con la quale pertanto il nostro paese divide un primato assoluto. La coltura specializzata è propria dell'Italia meridionale e della Sicilia (un po' anche della Liguria), regioni che sono pure alla testa (in primissima linea la Puglia) per area coltivata; seguono la Toscana e le Marche, nelle quali tuttavia prevale la coltura promiscua. La produzione è naturalmente soggetta a fortissime oscillazioni annue (2.278.000 hl. nel 1931; 1.343.000 hl. nel 1930; 3.113.000 nel 1929); nel complesso si può ritenere in aumento rispetto al periodo prebellico, mentre l'area coltivata variò di ben poco. Enorme è la differenza nel rendimento fra regione e regione, differenza che solo in parte può dipendere da condizioni naturali, ma in parte maggiore dipende probabilmente da diversità di tecnica colturale. Sembra che, pur senza accrescere notevolmente l'area, la produzione possa essere notevolmente aumentata. Alla testa per la produzione sono oggi la Puglia, la Calabria, la Sicilia; a distanza seguono la Toscana, l'Abruzzo, il Lazio.
Tra gli alberi da frutto, il primo posto spetta agli agrumi (113.000 ettari circa, dei quali tuttavia solo 48.000 a coltura specializzata), coltivati per tre quarti in Sicilia, poi in Calabria, sul litorale del Lazio meridionale e della Campania, qua e là in Sardegna, in Puglia, ecc. La produzione annua, alquanto caduta nel periodo postbellico, tende ora a riprendere, e si ragguaglia a 7,5-8 milioni di quintali annui, pari presso a poco alla media degli ultimi anni anteguerra. Essa alimenta un'esportazione diretta ora soprattutto nell'Europa centrale, perché gli Stati Uniti consumano ormai precipuamente la produzione propria; una parte del prodotto è peraltro utilizzata per la preparazione dei derivati agrumarî.
Gli altri alberi da frutto, numerosissimi (circa 60 specie diverse se ne annoverano in Italia), sono coltivati in gran parte promiscuamente con altre piante; la coltura specializzata si è andata tuttavia estendendo dal 1920 in poi, particolarmente per talune frutta di alto rendimento industriale. Tra queste si contano il pesco, la cui coltura ha assunto carattere specializzato in alcune zone della Romagna, della provincia di Cuneo, della Riviera di ponente, ecc.; il ciliegio (Campania, Emilia, Venezia Tridentina), il melo (Venezia Tridentina), ecc. Colture proprie di talune regioni sono il fico, albero prettamente mediterraneo, che in Calabria, in Puglia, in Sicilia forma associazioni molto estese, quasi dei piccoli boschi; il mandorlo, che è una coltura tradizionale quanto l'olivo in Sicilia e in Puglia, e conferisce ivi una speciale fisionomia al paesaggio; il noce e il nocciolo (Campania, Sicilia, Piemonte), il pistacchio (Sicilia). Nell'economia italiana hanno peso soprattutto le frutta secche, che meglio si prestano all'esportazione: in prima linea le mandorle, poi noci e nocciole, e anche fichi e susine, che vengono seccati con diversi processi. La produzione della frutta oscilla fra 8 e 11 milioni di quintali annui e tende ad aumentare. In questa cifra non è compresa la produzione delle castagne, che da sola raggiunge i 5,5-6 milioni di quintali con tendenza all'aumento. Per estensione dei castagneti (in complesso oltre 600.000 ettari) e per entità di produzione ha il primato la Toscana; seguono la Liguria, il Piemonte, la Calabria, l'Emilia.
La maggior parte delle colture alimentari che abbiamo fin qui menzionato è di antica introduzione in Italia; il Medioevo ha veduto la diffusione di uno solo fra i cereali, il riso; dall'America sono venuti il mais e la patata; dall'Oriente nel Medioevo gli agrumi e qualche altro albero da frutta di modesto valore; in epoca ancora più recente talune colture orticole. Diverso è invece il caso per le colture di piante che forniscono materie prime all'industria.
Tra le piante tessili, quella di più antico uso in Italia, il lino, ha ormai poca importanza; la coltura del lino per fibra, sparsa in varie parti d'Italia (Sicilia, Calabria, Abruzzo, Lazio, Lombardia, Sardegna), occupa zone ristrette e la produzione tende piuttosto a contrarsi (23-25.000 quintali l'anno); un po' più estesa, ma tuttavia in rapido declino è la coltura del lino da seme, che si fa soprattutto in Sicilia, ma anche in Calabria, nell'Emilia, ecc. (circa 50.000 q. l'anno). La canapa, già nota all'età romana, ha un'importanza molto maggiore; anzi dopo l'U. R. S. S., l'Italia è il primo tra i paesi produttori e concorre, in media per un quinto circa, al prodotto mondiale. La coltura è presso che esclusiva dell'Emilia e della Terra di Lavoro; l'area coltivata varia notevolmente col variare della convenienza di adibire a questa coltura terreni che sono adatti anche per altro. La produzione è alquanto aumentata rispetto al periodo prebellico; il massimo fu toccato nel 1925 con oltre 1.200.000 quintali, poi si ebbe una diminuzione, sensibile soprattutto negli anni 1931-32 (1932: 555.000 quintali). Va ricordato che, mentre nell'U. R. S. S. la canapa viene in gran parte consumata in paese, l'Italia dedica circa i due terzi del suo prodotto all'esportazione ricavandone considerevoli benefici; è perciò il primo stato esportatore del mondo e ha il massimo interesse a conservare tale primato, il che giustifica l'attenzione conferita oggi a questa nostra coltura.
La coltivazione del cotone, che ancora poco più di mezzo secolo fa era discretamente diffusa in Sicilia e dava un prodotto annuo di circa 300.000 quintali (cotone greggio), ora è limitata ad alcune aree molto ristrette della pianura di Gela e regioni vicine, e, nonostante il lieve incremento degli ultimi anni precedenti alla presente crisi cotoniera, contribuisce in misura assolutamente infima al fabbisogno dell'industria nazionale. La cotonicoltura sembra tuttavia suscettibile di qualche maggiore sviluppo, oltre che nella Sicilia meridionale, anche in Sardegna, nel Tarantino, in Calabria, sempre col sussidio dell'irrigazione.
Ma le due piante industriali, cui spetta oggi la maggiore importanza in Italia, la barbabietola e il tabacco, sono d'introduzione recente. Non è più di un terzo di secolo che si è iniziata da noi la bieticoltura per estrazione di zucchero, e già l'Italia dedica a essa ben 110-115.000 ettari, dei quali più che i nove decimi spettano al Veneto (Rovigo) e all'Emilia (provincie di Ferrara e di Bologna); la produzione, in aumento fino al 1930, anno in cui superò i 40 milioni di quintali (media prebellica circa 18 milioni), è poi anch'essa discesa; rimane tuttavia sempre sufficiente ai bisogni nazionali e ci ha perciò svincolato da un pesante gravame verso l'estero.
Per il tabacco, che, sia per la lavorazione sia per la vendita, è monopolio dello stato, l'introduzione e lo sviluppo sono ancor più recenti. Tanto l'area destinata alla coltura, che supera ormai i 40.000 ettari, quanto la produzione, crescono di anno in anno. Poco meno della metà dell'area coltivata è in Puglia (Leccese), dove s'incontrano condizioni favorevoli di clima e anche di suolo ma parecchie varietà si coltivano oggi nel Veneto, in Campania (Terra di Lavoro, agro di Salerno), in Toscana, nell'Emilia, nell'Umbria. La produzione, salita sopra i 500.000 quintali (quasi quintuplicata rispetto agli ultimi anni prebellici), sopperisce ormai per quattro quinti al consumo, pur sempre crescente, del paese, mentre prima della guerra le nostre fabbriche importavano dall'estero oltre il 70% del tabacco in foglie. Della gelsicoltura si farà cenno più avanti parlando dell'industria serica.
Infine, nell'esame delle produzioni agricole d'Italia, non vanno dimenticati i foraggi, prodotti dei prati artificiali, stabili. Questi, secondo i dati ufficiali, occupano un'area di oltre 2¼ milioni di ettari (compresi gli erbai) e dànno un prodotto di fieno pari a 230-270 milioni di quintali annui. Le colture foraggere tendono a estendersi, soprattutto in Lombardia, nell'Emilia, in Piemonte, in Toscana, ma nuove aree vengono conquistate anche altrove. Il loro progresso è in stretto rapporto con lo sviluppo e il miglioramento degli allevamenti, specie di bovini, come tra poco si dirà.
Date le condizioni di clima altrove accennate, molte colture sono in Italia sussidiate dall'irrigazione, necessaria a integrare l'entità del contributo che le precipitazioni apportano all'umidità dei terreni. Gli studî in proposito, per il passato alquanto trascurati, sono stati ora condotti innanzi sistematicamente, sia per quanto riguarda le condizioni pluviometriche delle varie regioni italiane (già precedentemente esaminate), sia per quanto riguarda il regime delle acque superficiali e sotterranee, allo scopo di determinare le disponibilità idriche dei principali corsi d'acqua nel semestre aprile-settembre, che è quello nel quale si effettua quasi esclusivamente la distribuzione di acqua a uso irrigatorio. Il diagramma di pag. 756 mostra il diverso comportamento di alcuni fiumi italiani assunti come tipici. Le pratiche relative all'irrigazione sono diversissime, non solo in regioni discoste, ma anche in località vicine, e le modalità della distribuzione dell'acqua non sono ancora ovunque regolate in modo razionale. In tutta la Pianura Padana, dove la pratica dell'irrigazione è più diffusa, essa viene usata soprattutto nelle risaie (marcite), nei prati da foraggio e in terreni seminativi; nell'Italia peninsulare, oltre che nei prati, largamente nelle colture orticole, e nel Mezzogiorno e isole anche per l'agrumeto e il vigneto. In Lombardia il 33% della superficie agraria è irrigata, in Puglia e in Sardegna appena il 0,3%. Il cartogramma di pag. 755 dimostra la superficie attualmente irrigata nelle varie regioni d'Italia.
I boschi occupano in Italia circa 49.800 kmq. (esclusi i castagneti) dei quali poco più di 1500 appartengono al demanio forestale dello stato; l'Italia, con una percentuale del 16% di foreste sull'area totale, è uno fra i paesi più poveri di boschi di tutta l'Europa, preceduto solo dalla Gran Bretagna (4%), dall'Olanda (8%), dalla Danimarca (9%). Ma mentre in questi paesi, come in altri dell'Europa centrale, il bosco è stato estirpato per far posto alle coltivazioni o ai prati artificiali, in Italia, purtroppo, non sempre è avvenuto così.
Gl'intensi diboscamenti, determinati dallo sfruttamento del legname per costruzioni edilizie e soprattutto navali, per usi industriali, ecc., datano da tempo remoto e hanno siffattamente denudato talune plaghe montane da lasciarle in preda agli agenti atmosferici e alle acque selvagge, che hanno ormai messo allo scoperto la roccia viva, desolata, priva di ogni sorta di mantello protettore. I disboscamenti avvennero invero a varie riprese e non dappertutto nello stesso tempo e con la stessa intensità. Nell'Appennino i primi di grande intensità sembra si avessero nell'età classica, soprattutto dopo lo sviluppo della potenza marinara di Roma, mentre l'alto Medioevo pare abbia rappresentato un periodo di sosta, durante il quale il mantello boscoso poté anzi riguadagnare una parte delle aree perdute. Il bisogno di legname si fece di nuovo sentire vivace a partire dal basso Medioevo e da allora il diboscamento, ripreso intensamente nell'Appennino, si estese anche alle Alpi; e continuò sempre, con diverse alternative, ma in genere in modo oltremodo inconsulto, nonostante i sagaci, ma sporadici interventi di alcuni governi più illuminati.
La situazione è lievemente migliorata dopo l'aggregazione della Venezia Tridentina che è la regione più ricca di boschi; seguono le Alpi Carniche e Giulie settentrionali, l'Appennino toscano, il Gargano, la Sila e gli altri rilievi calabresi. Tra le latifoglie predominano il faggio e la quercia; tra le aghifoglie varie specie di pino, l'abete, il larice. Per i limiti altimetrici nelle Alpi e nell'Appennino molto spesso perturbati dall'uomo vedi alle rispettive voci. Le regioni più povere di boschi sono la Puglia e la Sardegna.
Nelle regioni collinose e anche nelle pianure litoranee dell'Italia centro-meridionale e nelle isole, in luogo del bosco d'alto fusto, era prevalentemente diffusa la macchia, formazione di sempreverdi, tipicamente mediterranea. Ma anch'essa è stata estirpata in larghissima misura; aree un po' estese ne rimangono nel Lazio meridionale, nella Sicilia centrale, in Sardegna. Tra i componenti della macchia vi è la Quercus suber, il cui prodotto, il sughero, largamente raccolto, alimenta un'esportazione in notevole incremento. Invece il legname da costruzione (abete, larice, quercia, faggio) che viene fornito dai boschi italiani, sopperisce ai due quinti appena del fabbisogno nazionale. Mancano poi quasi totalmente in Italia le essenze (pioppo del Canada, abete) che oggi vengono adoperate per la preparazione della pasta da carta. Lo stato italiano promuove attualmente notevoli lavori di rimboschimento; negli ultimi anni si sono rimboschiti in media 4500 ettari di suolo all'anno.
Per concludere quanto riguarda i prodotti del suolo, si ricorderà che nell'Italia, paese a popolazione molto densa e in forte incremento, paese nel quale le aree destinate a uso agrario sono già proporzionalmente estesissime, il problema di utilizzare queste aree nel modo più razionale e di conquistare nuovi spazî per le coltivazioni, in una parola il problema della migliore valorizzazione del territorio nazionale per i bisogni presenti e per l'incremento futuro del paese, è un problema di altissimo interesse sociale. Esso non può perciò essere lasciato all'iniziativa privata, ma deve essere affrontato dallo stato in modo totalitario. A ciò tendono i provvedimenti per la bonifica integrale (per i quali v. bonifica). Qui giova avvertire tuttavia che tali provvedimenti non riguardano soltanto la sistemazione idraulica dei terreni acquitrinosi e il loro risanamento, ma anche l'utilizzazione di terreni aridi, che hanno piogge scarse e irregolari; la preservazione della montagna dalla degradazione per opera delle acque selvagge, delle frane, delle alluvioni; il restauro e la redenzione di aree lacerate da calanchi; la protezione del bosco; il miglioramento dei pascoli montani. I provvedimenti per la bonifica integrale si collegano perciò a tutti quelli che riguardano la regolarizzazione e l'uso delle risorse idriche, e ancora a quelli che concernono le migrazioni interne, mediante le quali si provvede al popolamento dei territorî nuovamente conquistati all'agricoltura. Per dare una idea dei progressi conseguiti in questa opera grandiosa, complessa e molteplice, si dirà che dal 1865 in poi si sono bonificati oltre 15.000 kmq. di territorio nazionale e che il complesso dei territorî ai quali si estendono le diverse opere di bonifica previste dalle leggi attuali abbraccia oltre 37.000 kmq. La distribuzione delle bonifiche attuali o in corso è dimostrata dalla cartina a pagina 757.
Allevamento e Pesca. - Per quanto riguarda il patrimonio zootecnico, l'Italia ha alcuni caratteri comuni con gli altri paesi mediterranei: la prevalenza degli ovini sui bovini e suini, degli asini e muli sui cavalli. Ciò deriva dal fatto che all'allevamento bovino si presta in modo egregio soltanto la grande Pianura Padano-veneta, con le sue vaste superficie di prati artificiali e le estese coltivazioni di piante foraggere ad alto rendimento. Qui solamente l'allevamento bovino può essere esercitato nelle forme più razionali e si associa all'agricoltura; i bovini sono stabulati nelle vaste aziende agricole, che pertanto utilizzano direttamente il concime naturale: una medesima azienda può dedicarsi alla cerealicoltura o ad altre coltivazioni e nello stesso tempo all'industria dei latticinî, che è di fatto fiorentissima. Oltre che nella pianura del Po, l'allevamento si esercita anche in talune pianure litoranee della penisola e si unisce all'agricoltura in Toscana, nelle Marche, ecc., senza tuttavia dar generalmente vita a grandi aziende come nella Pianura Padana. Dei 6.892.000 bovini censiti al 10 marzo 1930 (ultimo censimento agricolo) il 65% erano nelle quattro regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia) che si dividono la Pianura Padano-veneta. Nella zona alpina una parte del bestiame utilizza in estate i pascoli d'alta montagna, dove esistono perciò dimore temporanee e costruzioni adibite all'industria dei latticinî (alpi, casere, malghe, ecc.). I bovini sono in aumento: erano 4¾ milioni nel 1881 (vecchi confini), 6.240.000 nel 1918. La Pianura Padano-veneta ha anche il predominio per i suini (una metà circa del totale, che è di 3.150.000 circa), i quali tuttavia sono discretamente diffusi anche altrove, nell'Italia peninsulare, in Calabria, in Sardegna. L'aumento dei suini è stato maggiore di quello dei bovini; il numero calcolato nel 1881 (1.165.000) era raddoppiato nel 1918 (2.340.000) e poi si è ancora accresciuto notevolmente.
I prati più magri e i pascoli naturali della penisola e delle isole, a clima più secco, sono invece campo all'allevamento degli ovini, che dà luogo a un altro tipo di economia, interamente separato da quella agricola, anzi talora almeno in parte in contrasto con essa. I pastori utilizzano in estate gli alti pascoli appenninici, spesso magrissimi, e d'inverno conducono i greggi nelle pianure litoranee, tirreniche o adriatiche; esercitano perciò una specie di seminomadismo e hanno dimore temporanee tanto nelle sedi estive quanto in quelle invernali, che lunghe vie, riserbate ai periodici spostamenti dei greggi (tratturi, trazzere), congiungono. I greggi dimorano all'aperto, sia d'estate sia d'inverno. Queste abitudini risalgono a tempo remotissimo (se ne ha chiara notizia già nell'età classica), anzi un tempo erano diffuse anche nell'Italia settentrionale, dove del resto non sono del tutto scomparse; nel Mezzogiorno sono regolate da norme governative, che risalgono al Medioevo. Ma l'allevamento ovino è in complesso in forte diminuzione. Verso la fine del Medioevo si vuole che il Tavoliere di Puglia ospitasse d'inverno 4½ milioni di ovini; oggi non vi stanziano più di 600-700.000 capi. Complessivamente in Italia nel 1930 si censirono circa 8.900.000 pecore e 1.800.000 capre. Nel 1881 le cifre rispettive erano 8.600.000 e 2.016.000. Da allora fino al 1918 vi fu un aumento e in quell'anno si contarono 11¾ milioni di pecore e circa 3.100.000 capre; in seguito si è avvertita una nuova diminuzione, forte soprattutto per le capre, che recano gravi danni all'agricoltura. La messa a coltura di vaste zone già adibite a pascolo nel Tavoliere di Puglia, nella Campagna Romana, in Maremma, ecc., sottrae continuamente spazio ai pascoli naturali. Si rimedia a ciò accrescendo il rendimento nelle aree che restano a disposizione, migliorando le pratiche dell'allevamento, procurando anche di sostituire la stabulazione alla dimora all'aperto dei greggi, ecc. Le tradizionali, antichissime forme dell'allevamento ovino vanno dunque, sia pur lentamente, modificandosi. Anche l'industria dei latticinî che deriva dell'allevamento degli ovini dà prodotti cospicui.
I pochi bufali che si trovano nella Campagna Romana, in Terra di Lavoro, nella piana di Pesto, sono in diminuzione (16.000 nel 1930 in confronto a 24.000 nel 1918). I cavalli (975.000) sono numerosi in Lombardia (1/5 circa), nel Veneto, nell'Emilia, ma anche nella Campagna Romana, in Puglia e in Sicilia; gli asini (870.000) e i muli (465.000) si trovano numerosi in Sicilia, in Campania, nel Lazio, ecc.; tutte e tre queste categorie di equini hanno subito una diminuzione rispetto al 1918.
La pesca è, in più o meno larga proporzione, occupazione di tutte le popolazioni litoranee dell'Italia; ma nel Mediterraneo in generale, e nei mari che bagnano l'Italia in specie, si verificano in piccola misura le condizioni fisiche che altrove (p. es., nell'Europa di nord-ovest), determinando una speciale abbondanza della fauna marina, permettono lo sviluppo della grande pesca. La piattaforma continentale, che è l'area più pescosa, ha grande estensione solo nell'Adriatico settentrionale, dove si può effettuare la pesca meccanica d'alto mare; ma quasi ovunque altrove è ristretta a una limitata cornice, nella quale spesso s'incontra anche fondo roccioso, costituente un grave ostacolo all'uso di taluni sistemi di pesca (reti a strascico). Perciò la pesca è rimasta, in gran parte d'Italia, alle condizioni della piccola pesca costiera, esercitata con navi a vela e con pratiche antiquate; la pesca d'alto mare, con battelli a propulsione meccanica, viene esercitata, oltre che nell'alto Adriatico nell'area compresa tra la Sicilia, Malta e la Tunisia, in prossimità delle coste dell'Africa settentrionale, dall'Egitto al Marocco, e da alcuni anni anche fuori dello Stretto di Gibilterra, sulle coste del Rio de Oro, ecc.
Il numero dei pescatori è di 110-120.000; il numero delle barche e battelli è di circa 41.000 (al 1° gennaio 1932) per un tonnellaggio superiore a 105.000 tonn. È assai aumentato il numero dei battelli a propulsione meccanica, che nel 1915 erano appena 10, nel 1925 erano saliti a 208 e nel 1931 a 500 circa. Un terzo e più dei pescatori appartiene ai porti adriatici; segue a breve distanza la Sicilia e al terzo posto vengono i porti tirrenici della Penisola.
Carattere e importanza speciale ha la pesca del tonno, che, come è noto, in determinate epoche dell'anno viaggia in grandi branchi seguendo rotte ben conosciute; su queste rotte sono situate le tonnare, delle quali la cartina a pag. 757 mostra la distribuzione. Le più importanti sono quelle sulle coste della Sicilia e della Sardegna. Pesche speciali sono quella del corallo, che si esercita soprattutto nelle zone di mare poco profondo fra la Sicilia e l'Africa, e anche nelle acque algerine, tunisine e nel Mar Egeo; quella delle spugne presso Lampedusa, Malta, sulle coste libiche e nel Mar di Levante.
La pesca nei fiumi e nei laghi ha poca importanza, ed è assai trascurata, mentre sembrerebbe suscettibile di grande sviluppo. Notevole è l'allevamento delle anguille e di altri pesci nelle valli da pesca e lagune dell'Estuario Veneto e nelle Valli di Comacchio; di recente sviluppo l'ostreicoltura nel Mar Piccolo di Taranto, nel Lago Fusaro presso Napoli e altrove.
Il popolo italiano non è grande consumatore di pesce; ciò nondimeno la produzione italiana, assorbita quasi interamente dal consumo interno, è insufficiente al bisogno; s'importano perciò notevoli quantità di pesce preparato (specialmente merluzzo, salmone, aringa, sgombro) per un valore superiore a mezzo miliardo l'anno. L'esportazione, che consiste soprattutto in tonno preparato, sardine, ecc., si ragguaglia invece a meno di un decimo di quel valore.
Prodotti minerarî. - Nel complesso l'Italia non è molto favorita per le risorse del sottosuolo; un paese minerario non è stato mai, ma oggi le sue condizioni d'inferiorità, rispetto, non solo ai grandi stati extraeuropei meglio dotati, ma anche alla maggior parte di quelli europei, derivano essenzialmente da due cause: da un lato dalla penuria di alcuni prodotti, dei quali il bisogno e il consumo sono cresciuti a dismisura in tempi recenti (combustibili fossili, petrolio, ferro, rame, ecc.), dall'altro dalla esiguità e dalla disseminazione di molti giacimenti minerarî, che ne rendono oggi economicamente poco conveniente l'utilizzazione, praticata invece sovente con profitto in passato, quando tutte le industrie avevano un raggio più limitato.
Le miniere e le cave hanno dato occupazione, in questi ultimi anni, a 110.000 persone appena, e hanno procurato un reddito non superiore a 1,1-1,2 miliardi. Grandi centri minerarî non esistono: nelle Alpi i distretti minerarî sono sparpagliati e di modesta entità; nella penisola il distretto più importante è in una delle parti geologicamente più antiche, la cosiddetta Catena Metallifera toscana con l'Elba; esso ha un riscontro in quello della Sardegna di sud-ovest (Iglesiente). Un posto ragguardevole spetta anche alla Sicilia per lo zolfo, alle Alpi Apuane per i marmi.
Tra i prodotti delle miniere vere e proprie il primo posto per valore spetta allo zolfo, che si rinviene qua e là in tutto il Subappennino, in una caratteristica formazione miocenica, che si dice formazione gessoso-zolfifera, ma, come si è detto or ora, dà luogo a sfruttamento soprattutto in Sicilia (zolfare della provincia di Agrigento e Caltanissetta) e secondariamente in Romagna. La produzione italiana, che culminò nel periodo 1899-1905 ed era allora in prima linea in tutto il globo, decadde di fronte alla concorrenza degli Stati Uniti, che dànno oggi un prodotto all'incirca triplo di quello italiano. Questo si aggira intorno a 2-2,3 milioni di tonnellate di minerale, pari a 325-350.000 tonn. annue di zolfo greggio; da alcuni anni è di nuovo in costante e notevole aumento. Per le condizioni nelle quali si effettua l'estrazione, v. sicilia.
Per la produzione del ferro il centro più importante è tuttora l'isola d'Elba; vengono poi le miniere della Val d'Aosta (Cogne), della Val Camonica e regioni vicine, e della Sardegna (Iglesiente, Nurra); fra queste ultime alcune, attivate durante la guerra mondiale, sono ora inattive; si cerca infatti di risparmiare, fin dove è possibile, le modeste riserve italiane (forse appena 150 milioni di tonnellate di minerale, secondo calcoli di grande approssimazione). La produzione del minerale, che era di circa 560.000 tonn. annue nell'ultimo quinquennio prebellico, si avvicinò a 1 milione durante la guerra (994.000 tonn. nel 1917), poi cadde; dal 1925 è in ripresa e nel 1929-30 raggiunse di nuovo le 700.000 tonn. In questa cifra non sono comprese le piriti di ferro, che si estraggono largamente (per un quantitativo press'a poco eguale) soprattutto nella Catena Metallifera toscana. La produzione è diminuita nel 1931-32. Per i minerali di piombo e zinco, l'Italia viene terza in Europa, ma a grande distanza dopo la Spagna e la Prussia; la produzione raggiunge 200-280.000 tonnellate annue, per tre quarti dall'Iglesiente (inoltre Catena Metallifera toscana; miniera dell'Agordino, ecc.). Associato ai minerali di piombo (soprattutto alla galena) si trova l'argento (circa 15.000 kg. annui estratti). In progresso è l'estrazione della bauxite, che data, si può dire, dal 1920 (90.000 tonn. nel 1926; 192.000 nel 1929 e 161.000 nel 1930; nel 1931 si verificò una forte diminuzione, presumibilmente temporanea) dalla quale si ricava l'alluminio (miniere in Abruzzo e in Istria), ma il prodotto è ben lontano dal bastare al fabbisogno italiano, che va aumentando di anno in anno, come in tutti i paesi civili
L'Italia ha il primato nel mondo per la produzione del mercurio, fornito dalle miniere del M. Amiata (Toscana) e d'Idria (Gorizia) (220-240.000 tonn. annue di minerale pari a 2000 tonn. di mercurio metallico) e ha qualche miniera di ferro manganesifero (Sardegna) e di antimonio (Toscana); produce invece quantità di rame modestissime (circa 15.000 tonn.; in aumento dal 1928: Toscana, Alpi Liguri) in confronto ai bisogni sempre crescenti. Più grave è la mancanza di combustibili fossili, elemento indispensabile alla grande industria moderna. A prescindere dalla piccolissima produzione di antracite e litantrace vera e propria, si estrae, nell'Istria, una certa quantità di combustibile che per tenore di carbonio si avvicina al litantrace e ha la denominazione di carbone liburnico (200-220.000 tonn. annue). Abbonda invece la lignite, che nel periodo bellico fu attivamente estratta, ma oggi, venute meno le più impellenti necessità, si utilizza solo nei giacimenti più ricchi e meglio accessibili (Valdarno superiore, dintorni di Spoleto, Iglesiente, Valdagno nel Vicentino); il quantitativo annuo tende a diminuire (da 600-700.000 a 300-400.000 tonn.). Anche alcune torbiere sono abbandonate, restando in attività le più abbondanti (una decina, che dànno un prodotto di 7-8000 tonn.).
Alla deficienza di carbon fossile da utilizzarsi per usi industriali si è cercato di riparare con lo sfruttamento dell'energia idraulica, della quale l'Italia è assai ben provvista. Numerosi studî recenti hanno accertato il quantitativo disponibile e hanno condotto all'esecuzione d'ingenti lavori per regolarne la distribuzione. Nel 1898 la potenza installata degl'impianti idroelettrici per forza motrice non arrivava a 100.000 kilowatt, mentre oggi supera i 3½ milioni di kilowatt. Concorrono per circa tre quarti gl'impianti del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e della Venezia Tridentina, cioè dell'Italia alpina, che ha fiumi più copiosi d'acque e regime più regolare; l'impianto più grandioso è quello di Cardano sull'Isarco (182.000 kW. di potenza installata); altri otto impianti superano i 50.000 kW. Seguono per importanza il Lazio (impianti sull'Aniene), l'Umbria (Nera e Velino), l'Abruzzo (Pescara), la Calabria (Ampollino e Neto). Altri grandi impianti sono in corso d'esecuzione.
Nonostante le numerose e diligenti ricerche proseguite negli ultimi anni, scarsissima è la produzione del petrolio; le tasche oggi utilizzate si trovano quasi soltanto al piede delle ultime propaggini appenniniche degradanti verso la Pianura Padana, nelle provincie di Parma e Piacenza a diverse profondità; piccole quantità vengono dalla provincia di Frosinone (San Giovanni Incarico); altrove gli assaggi non hanno finora dato l'esito sperato. Il quantitativo, da meno di 5500 tonn. nel 1926, è salito a circa 8000 nel 1930, percentuale minima rispetto al quantitativo totale richiesto dai bisogni nazionali. In misura alquanto superiore si ricavano asfalto, bitume e prodotti affini, utilizzati oggi anche per la preparazione di olî lubrificanti, ecc.; gli scisti bituminosi sono assai diffusi nel Subappennino peninsulare e siculo (dintorni di Ragusa: asfalto), ma non dappertutto appaiono redditizî; anzi negli ultimi anni la produzione (220-320.000 tonnellate) tende a diminuire.
Altri prodotti, che hanno qualche importanza in Italia, sono la grafite (Cuneo, Carrara: 6-7000 tonnellate annue); l'allumite (Tolfa presso Civitavecchia: 825 tonn. nel 1930); il salgemma (quasi solo in Sicilia: 60-70.000 tonnellate annue). Più ricca è la produzione di sale marino (500-650.000 tonn. annue), che si ottiene da sei o sette saline attive (Cagliari, la più importante per produzione; Margherita di Savoia, in Puglia; Pirano; Cervia; Comacchio; Tarquinia; Trapani; Siracusa); ad essa si aggiunge il sale di sorgente (saline di Volterra).
Tra i prodotti delle cave, vengono anzitutto i marmi, i quali anzi, ragguagliati in valore, hanno il primo posto assoluto tra i prodotti del sottosuolo italiano, a causa dell'alto pregio del marmo bianco statuario delle Alpi Apuane, che ha dato luogo a una fiorente industria marmifera; Carrara, che ne è il centro, è anzi la città italiana che ha la maggiore percentuale della popolazione dedita a occupazioni connesse con l'estrazione dei minerali. Marmi bianchi vengono anche dalla Val Venosta (Lasa) e dal Novarese; marmi colorati da molte zone alpine e da qualcuna dell'Appennino e Antiappennino. Le pietre da costruzione o da taglio sono poi numerose e varie: graniti, porfidi, sieniti, dioriti delle Alpi, ardesie a Lavagna (Riviera di Levante), arenarie in Toscana, travertino nel Lazio, tufi vulcanici, peperini, ecc., pure nel Lazio e in Campania, pietre calcaree di notevole valore in Puglia (tufo, pietra leccese); e poi alabastro (Volterra), gesso; inoltre talco, pomici, ecc.
Un'altra ricchezza del sottosuolo, di cui l'Italia è ben provvista, è infine offerta dalle sorgenti minerali, ora a temperature elevate (termali) soprattutto nel dominio di apparati vulcanici attivi o spenti (Abano presso Padova, Agnano, Ischia, ecc.), più spesso a temperatura ordinaria. Tra queste alcune hanno larga fama per qualità terapeutiche e hanno perciò dato vita a fiorenti luoghi di cura (Roncegno, Levico, Recoaro, Peio, S. Pellegrino, Salsomaggiore, Montecatini, Porretta, Tivoli, Telese, Fiuggi, Termini Imerese e tante altre); in talune sorgenti si effettua anche l'estrazione di sali (oltre il sale di sorgente, anche solfati, carbonati, ecc.). Un posto a parte spetta ai soffioni boraciferi della Toscana (bacini della Cecina e della Cornia: Larderello, Serrazzano e Castiglione) che sono emissioni di vapor acqueo costanti ad altissima temperatura (120°-190°) e a forte pressione (fino a 4 atmosfere); essi sono da tempo utilizzati per l'estrazione dell'acido borico, di altri sali borici e anche di carbonato di ammonio, ecc., ma più recentemente hanno permesso un'applicazione ben più importante, in quanto, per la costanza del getto e la costanza della temperatura, vengono convenientemente impiegati per azionare centrali termoelettriche. Si tratta in sostanza delle prime utilizzazioni industriali del calore appartenente a strati interni della Terra.
Industrie. - Come si è già accennato, l'agricoltura è tuttora, in Italia, la base dell'economia nazionale, ma non può più dirsi oggi, come sessant'anni fa, che l'Italia sia un paese esclusivamente agricolo. Il progressivo sviluppo della grande industria moderna è, anzi, uno dei fatti più salienti che caratterizzano la trasformazione dell'Italia dopo la sua unificazione. Intorno al 1870, infatti, l'industria si trovava ancora quasi soltanto allo stadio della piccola manifattura domestica o dell'artigianato, che aveva dato all'Italia un primato glorioso nel Medioevo e al principio dell'età moderna e aveva anche creato nobilissime tradizioni di lavoro e d'arte industriale con maestranze preziose e mano d'opera specializzata ed esperta.
La grande industria moderna, ostacolata dalla penuria del carbon fossile, inceppata anche dalle molteplici eredità della frammentazione politica, ha tardato a svilupparsi, in confronto di altri grandi stati europei meglio favoriti; ma, nell'ultimo quarto del secolo XIX, ha manifestato chiari segni d'un movimento ascendente, che si è andato facendo sempre più vivace nel sec. XX, soprattutto di pari passo col progresso dell'utilizzazione dell'energia idroelettrica. Tale movimento ha determinato non solo la trasformazione delle vecchie industrie domestiche o artigiane, ma anche il sorgere di rami interamente nuovi, i quali oggi non sono certo i meno progrediti e attivi (v. industria: Origini e sviluppo della grande industria in Italia).
Le industrie si sono localizzate in Italia in maniera assai varia, secondo l'influsso di differenti fattori. Alcune, specie tra le più antiche, sono tuttora strettamente connesse ai luoghi di produzione della materia prima, come, ad es., parecchie delle industrie alimentari (industria enologica, casearia; zuccherificio), come l'industria serica, legata da tempo remoto ai centri della coltura del gelso, che sono anche quelli di allevamento del baco; altre sono piuttosto legate ai centri di consumo del prodotto (come il pastificio e talune industrie meccaniche), ovvero ai porti, quando si tratta d'industrie i cui prodotti si esportano largamente. Ma talune industrie, specie tra le più recenti, si sono invece sin dall'origine localizzate presso le grandi centrali idroelettriche; così è accaduto di parecchie industrie chimiche e anche, in più casi, delle metallurgiche; queste ultime si trovavano poi già in gran parte localizzate presso la cerchia alpina, sin da tempo remoto, quando cioè dalle Alpi proveniva principalmente la materia prima. Per altri rami delle industrie chimiche, metallurgiche, meccaniche, infine evidente la localizzazione in prossimità dei grandi nodi delle comunicazioni, i più adatti a favorire in larga misura l'irraggiamento dei prodotti.
Per il complesso di queste cause, piuttosto che per maggiore attitudine della popolazione o per altri fattori d'ordine storico-sociale, le regioni più industriali si trovano oggi nell'Italia settentrionale. Secondo il censimento industriale del 1927, su 1000 abitanti sopra i 10 anni si avevano 129 addetti alle industrie come media globale per tutta l'Italia; ma la percentuale saliva a 253 per la Lombardia, a 202 per la Liguria, a 192 per il Piemonte; prossime alla media del regno, ma un po' al di sopra, erano la Venezia Giulia, il Lazio, la Toscana, poco al di sotto il Veneto (con la Venezia Tridentina) e l'Emilia; tutti gli altri compartimenti venivano molto addietro.
Industrie alimentari. - Le tre principali industrie alimentari, quella vinicola, il caseificio, e lo zuccherificio, sono localizzate in prossimità dei centri di produzione. La prima non è assurta finora a quel grado di progresso che ha raggiunto altrove, soprattutto quanto a preparazione di tipi costanti di vini fini destinati all'esportazione. A questo riguardo, accanto a taluni vini della Toscana (Chianti) e del Piemonte, hanno importanza dei tipi speciali, come il marsala, gli spumanti (Asti, Conegliano), il vermut, ecc. L'esportazione si è tuttavia negli ultimi anni contratta, anche in causa del regime proibizionistico introdotto negli Stati Uniti e altrove. Il caseificio ha per centro la Valle Padana, dalla quale provengono sia il burro sia tipi ben noti di formaggi, in quantità tale da fornirne non solo il resto dell'Italia, ma anche altri paesi europei. Per il formaggio vanno tuttavia ricordati anche il Lazio, la Campania, la Sardegna, la Sicilia, che confezionano tipi con latte di ovini (e anche di bufalo). La produzione totale del formaggio supera i 2 milioni di quintali annui. L'allevamento dei suini, che prospera pure, come si è veduto, nella Pianura Padano-veneta, ma anche nell'Italia centrale, ecc., alimenta la fiorente industria dei salumi. Dello zuccherificio si è già parlato precedentemente.
Altre industrie alimentari sono localizzate presso i centri maggiori di consumo o presso i porti, come il pastificio (Napoli e dintorni, Roma, Genova), l'industria delle conserve alimentari, delle marmellate, della cioccolata. Meritano d'essere ricordate anche l'industria della birra, che ha svincolato quasi interamente l'Italia dall'importazione estera, ma che tuttavia non può avere grande diffusione in un paese così riccamente dotato di vini; la preparazione dell'alcool e degli spiriti (800.000 hl. annui), la preparazione delle acque gassose, quella dei liquori, che ha raggiunto una notevole perfezione, ecc.
Industrie metallugiche. - Sono legate alla necessità d'importare la massima parte della materia prima e perciò non hanno assunto in Italia uno sviluppo paragonabile a quello di altri paesi, il cui sottosuolo è più ricco di minerali metallici. I maggiori centri siderurgici si trovano o presso i luoghi di produzione del ferro (Elba, Piombino; Cogne in Val d'Aosta), o in prossimità dei porti e di centri d'industrie meccaniche (Savona, Voltri, Sestri, ecc. in Liguria; Trieste, Bagnoli presso Napoli), o presso cospicue sorgenti di energia idroelettrica (Terni). La produzione della ghisa e dell'acciaio, portata durante la guerra mondiale a grande sviluppo, declinò in seguito; ma nel 1922 aveva una vivace ripresa superando poi notevolmente la produzione stessa del periodo bellico. Infatti nel 1929 si sono prodotte oltre 670.000 tonnellate di ghisa (media prebellica 370.000; anni di guerra 465-470.000) e oltre 2¼ milioni di ferro e acciaio (media prebellica 970.000; anni di guerra 1.300.000). Dal 1930 la produzione è in diminuzione. Scarsissima importanza hanno la produzione del rame, dello zinco, ecc.; è in aumento quella dell'alluminio (8763 tonn. nel 1930), che oggi si estrae oltre che dalla bauxite, dalla leucite, molto più abbondante in Italia, con processo nazionale (processo Blanc).
Tra le industrie meccaniche un'importanza veramente rilevante hanno soltanto quelle dei veicoli d'ogni categoria: anzitutto le navi, come è ovvio in un paese nel quale l'attività marinara è cosi antica e sviluppata (grandi cantieri della Liguria, di Livorno, Napoli, Palermo, ecc.); poi il materiale ferroviario (locomotive, vagoni, caldaie, rotaie), le biciclette e motociclette, le automobili e gli autocarri, industria recente che ha assunto grande sviluppo a Torino e Milano, infine gli aeroplani. Il progresso di questi più recenti rami dell'industria meccanica ha messo l'Italia in grado di concorrere con altri paesi europei nella conquista di mercati esteri.
Un altro ramo dell'industria meccanica assai sviluppato è quello dei materiali bellici: corazze, cannoni, fucili, proiettili (Terni, Torino, Sampierdarena). Tra i rami meno sviluppati possiamo citare la fabbricazione di macchine agricole, di strumenti di precisione, la coltelleria, la fabbricazione dei caratteri da stampa; per tutti questi e altri rami l'Italia è ancora vincolata all'importazione dall'estero (soprattutto per macchine d'ogni genere e strumenti di precisione).
Industrie tessili. - Per il peso che hanno nell'economia generale dello stato italiano, il primo posto fra le industrie spetta di gran lunga alle industrie tessili: sono quelle che hanno fatto in tempi recenti i maggiori progressi; occupano normalmente circa 650.000 persone, il 16% della popolazione totale addetta alle industrie, e determinano un movimento di denaro che, tra importazioni ed esportazioni, si avvicina a 10 miliardi di lire. Primeggia il setificio, per il quale l'Italia ha un posto assolutamente preminente in Europa. Esso si è localizzato nell'Italia settentrionale, dove il gelso trova condizioni favorevoli di sviluppo nelle regioni collinose subalpine (p. es., sugli anfiteatri morenici) e nell'alta pianura, e dove perciò la bachicoltura ha potuto assumere grande sviluppo come occupazione domestica, cui attende soprattutto l'elemento femminile. Su 52,7 milioni di kg. di bozzoli prodotti nel 1930, l'85% furono dati dalla Lombardia (35% circa), dalla Venezia Euganea (circa altrettanto) e dal Piemonte presi insieme. La bachicoltura ha ancora qualche importanza nell'Emilia, nelle Marche, nella Toscana, in Calabria, nella Venezia Tridentina. La Francia, che dopo l'Italia è la maggiore produttrice di bozzoli in Europa, ne diede nel 1930 meno di 3 milioni di kg. La produzione della seta greggia filata in Italia superò i 5½ milioni di kg. negli anni 1928 e 1929 (secondo i calcoli ufficiali; altri calcoli dànno cifre anche più elevate, intorno a 6½ milioni), poi si è contratta, di poco nel 1930, assai più nel 1931, a causa del ribasso delle sete (forse ⅓ di meno che nel 1930). In media circa il 90% della seta greggia è filata da bozzoli prodotti in Italia, onde questa industria conserva ancor oggi il suo carattere prettamente nazionale. Una parte della seta greggia è esportata (semplice, addoppiata o torta) soprattutto in Francia, negli Stati Uniti, in Svizzera, in Germania; un'altra parte è tessuta in Italia. Le tessiture seriche sono per la maggior parte in Lombardia e dispongono di circa 25.000 telai meccanici e 3000 telai a mano; dànno lavoro normalmente a 30.000 operai. Ma una gran parte degli stabifimenti lavora oggi anche il rayon (seta artificiale) e nella produzione dei tessuti le due provenienze non sono ben distinte statisticamente. Questa del rayon è un'industria recentissima, che si è sviluppata in Italia con grande rapidità, a causa del buon mercato del prodotto; dal 1926 al 1929 la produzione (esclusi i cascami) è più che triplicata superando i 32 milioni di kg. annui (massimo 34,6 nel 1931); gli stabilimenti di produzione (27) sono localizzati nel Piemonte e in Lombardia. Sulla produzione totale dei manufatti serici (seta naturale e rayon) non si hanno statistiche precise, ma ce ne possiamo fare un'idea, considerando che almeno una metà, e forse più, del prodotto è normalmente inviata all'estero. E le esportazioni, in continuo aumento dal 1922 al 1927, hanno in quest'anno raggiunto 1182 milioni di lire (ragguaglio al valore attuale) mantenendosi sopra al miliardo anche nei due anni successivi; la diminuzione, molto considerevole nel 1930 (737,4 milioni di lire, rappresentata per 244,1 milioni da manufatti di seta e 493,3 da manufatti di rayon) è dovuta non tanto a contrazione nell'entità della merce esportata, quanto alla crescente proporzione dei manufatti di rayon, che valgono assai meno, e al ribasso generale dei prezzi. Le esportazioni hanno due direzioni principali: in prima linea l'Europa centro-occidentale (Gran Bretagna, al primissimo posto; poi Svizzera, Francia, Germania), in seconda linea l'America (Stati Uniti, Argentina; in piccola misura anche il Brasile). Una minore corrente si avvia in Egitto.
Un altro ramo dell'industria tessile, con tradizioni antiche in Italia, è quella laniera, un tempo alimentata in massima parte da materia prima italiana. Oggi peraltro la produzione italiana di lana greggia è relativamente scarsa (180-200.000 q. di lana sudicia; 90-100.000 q. di lana lavata di cui forse la metà impiegata per filatura) perché l'allevamento ovino si volge piuttosto a ricavare latte e carne: la maggior parte delle lane lavorate negli stabilimenti sono importate dall'estero (soprattutto lane naturali, ma anche lane lavate, pettinate e cascami). L'industria laniera era fino al 1930 in notevole incremento; essa dispone di 800 pettinatrici, 520.000 fusi di cardato, 610.000 fusi di pettinato, 21.000 telai meccanici e 2000 a mano; dà lavoro normalmente a 75-80.000 operai. I centri principali sono in Piemonte (Biella, Cossato, Borgosesia, Valle Mosso, Alessandria, Vercelli, ecc.); seguono la Lombardia (Bergamo, Gandino, Desio, Lodi, ecc.); il Veneto (Schio, Arsiero), la Venezia Tridentina (Rovereto), la Toscana (Prato), ecc. La maggiore parte dei manufatti di lana è assorbita dal consumo nazionale; infatti, per i tessuti, su circa 300.000 q. consumati in Italia, negli ultimi anni, circa 280.000 erano tessuti nazionali; il piccolo residuo di tessuti importati è quasi esclusivamente rappresentato da qualità molto fine. Ma l'industria italiana alimenta per contro una notevole esportazione, cresciuta dal 1924 in poi con grande slancio (70-80.000 quintali l'anno) e che non accenna a diminuire (si è contratta invece, negli ultimi due anni, l'esportazione di tessuti misti). Tale esportazione è diretta per più della metà in Asia (India, Cina), poi in Europa (Gran Bretagna); modeste correnti si avviano nell'America Meridionale e in Egitto.
Alimentata in massima parte dal prodotto nazionale è l'industria della canapa la quale lavora in media 300.000 quintali di canapa nazionale, e 40.000 di canapa importata (compresa la canapa di Manila), mentre l'industria del lino, che ha scarsa importanza in Italia, lavora in media appena 70.000 quintali, dei quali 50.000 importati. Le filande di canapa e di lino si trovano in prima linea in Lombardia; inoltre nel Veneto, nell'Emilia, ecc.; dispongono di oltre 120.000 fusi; le tessitorie dispongono di 8000 telai. Gli operai impiegati sono 20-25.000 (oltre 5-6000 occupati nella fabbricazione di cordami di canapa). Filati, tessuti e cordami sono largamente esportati; a partire dal 1930, in conseguenza della depressione economica generale, le esportazioni si sono notevolmente contratte.
Di recente introduzione in Italia è invece l'industria cotoniera, la quale ha tuttavia rapidamente guadagnato il secondo posto fra le industrie tessili, per quanto lavori quasi interamente materia prima importata dall'estero. Nel 1871 il cotone greggio importato per alimentare l'industria italiana era di circa 270.000 quintali; alla fine del secolo era salito a oltre 1¼ milioni, negli ultimi anni si è aggirato intorno a 2-2½ milioni (scendendo solo a 1,7 milioni nel 1931 per effetto della depressione economica attuale). Il progresso era stato dunque assai notevole. Il cotone greggio viene in massima parte dagli Stati Uniti, poi dall'India e dall'Egitto. L'industria cotoniera occupa normalmente ben 250.000 operai e dispone di circa 6 milioni di fusi (di filatura e torcitura) e di 150.000 telai meccanici; di questi circa 100.000 spettano agli stabilimenti lombardi; oltre 30.000 ai piemontesi; 7000 al Veneto; seguono la Liguria, la Toscana, la Campania. Si producono in media 2 milioni di quintali di filati (media 1926-29), che provvedono al consumo nazionale (fortemente contratto nel 1930), lasciando un margine del 10-12% e più per l'esportazione; la produzione dei tessuti raggiunge 1,5 milioni di quintali, dei quali all'incirca un terzo si esporta. L'esportazione si rivolge ai paesi balcanici (Iugoslavia, Romania, Bulgaria, Grecia), alla Turchia, all'Egitto, all'India; al Levante insomma, nel quale lo smercio italiano anzi si irradia sempre più, conquistando mercati assai lontani (i tessuti arrivano ora anche nelle Indie Olandesi). Fra i paesi americani è cliente dell'Italia, in misura assai larga, solo la Repubblica Argentina. Ancora nel 1930, anno in complesso poco lieto per l'industria cotoniera italiana, l'Italia ha esportato per oltre 1,4 miliardi di lire di prodotti derivati dal cotone (materie gregge, semilavorate e finite), valore che supera, sebbene di poco, quello dei prodotti serici.
Da ultimo, fra le industrie tessili che lavorano materiale importato, è da ricordare lo iutificio, che importa per 500-550.000 quintali di fibra (principalmente dall'India) e la trasforma in sacchi, tessuti varî e altri manufatti, in parte notevole esportati. Gli stabilimenti sono concentrati a Terni, Alessandria, Bergamo e dintorni.
Un'idea complessiva dell'importanza che le industrie tessili hanno sulla bilancia economica dell'Italia, può aversi ancora considerando il valore globale delle esportazioni che, secondo i calcoli del Mortara, si può riassumere nella tabella qui sopra riportata.
Industrie chimiche. - Un altro ramo d'industrie di recente diffusione in Italia, e in sempre crescente sviluppo, è quello che viene genericamente designato col nome d'industrie chimiche.
Esse sono localizzate soprattutto o in vicinanza delle grandi centrali elettriche, che forniscono l'energia, o in prossimità dei maggiori centri di consumo. I prodotti sono svariatissimi e trovano gl'impieghi più diversi. Tenendo conto dell'entità del prodotto fabbricato, sono al primo posto la fabbricazione dell'acido solforico, dell'acido nitrico, del cloridrico e del citrico, quella del carburo di calcio, degli estratti tannici, dei perfosfati, dei superfosfati e di altri concimi chimici, della soda caustica, delle sostanze coloranti (sia minerali sia vegetali), dei prodotti farmaceutici; poi la fabbricazione dei fiammiferi, delle candele, dei saponi, ecc.
Altre industrie. - Un'industria molto recente è quella del caucciù, che lavora materia prima importata (in massima parte da Ceylon, dall'Indocina, dalle Isole della Sonda) e la trasforma nei più svariati articoli (rivestimenti per condutture elettriche e per cavi; pneumatici, ecc.) in parte anche esportati. I centri maggiori sono a Milano e a Torino.
Un'industria antica e fiorente è quella della carta; i maggiori stabilimenti (385 in tutto) sono localizzati nelle provincie di Novara (Varallo, Borgosesia, Serravalle e Romagnano), Varese, Vicenza (Arsiero), Ancona (Fabriano), Roma (Tivoli) e Frosinone (Ceprano, Isola del Liri); la materia prima (pasta di legno e cellulosa) è quasi tutta importata; la produzione si avvicina a 3,5 milioni di quintali annui.
Molto sparsa in Italia, con prevalente accentramento in prossimità dei grandi centri urbani, è l'industria dei cementi, delle calci idrauliche e dei laterizî. L'industria, schiettamente nazionale, della porcellana, è invece concentrata in due grandi stabilimenti (Doccia presso Firenze e S. Cristoforo presso Milano), mentre quella delle maioliche e ceramiche, molto antica, è assai sparsa; essa richiede mano d'opera esperta, fornita di senso d'arte, ed è ancora rimasta in alcuni centri minori, ricchi di gloriose tradizioni, allo stato dell'artigianato o della piccola industria (Faenza, Pesaro, Deruta, Gubbio e altri luoghi dell'Umbria; Castelli nel Teramano; Caltagirone in Sicilia, ecc.); pochi i grandi stabilimenti recenti (Laveno).
L'industria vetraria è poco sviluppata, ma si va diffondendo; solo alcuni rami speciali (per esempio i vetri soffiati a Murano e oggi in alcuni piccoli centri toscani, ecc.) hanno larga rinomanza. Ma per molte categorie di prodotti fini l'Italia è ancora cliente dell'estero (Boemia, Francia, Belgio).
Tra le minori industrie, molto florida e diffusa è quella dei mobili; grandi fabbriche si hanno principalmente in Lombardia (Milano, Monza, Varese, Cantù, Brianza); ma le fabbriche piccole, molto attive, sono sparse un po' dappertutto. Infine si ricordano le industrie delle pelli e derivati, alimentate in gran parte da prodotti nazionali (guantificio, calzaturificio), le industrie poligrafiche (Torino, Milano, Roma, ecc.), la lavorazione dei bottoni (valle dell'Oglio) alimentata in parte da prodotti provenienti dalle Colonie (noccioli di palma dum), ecc.
Commercio. - Allorché, nel 1870, l'Italia raggiunse la sua unificazione politica, gravissimi ostacoli si frapponevano ancora agli scambî commerciali e ai traffici fra le varie parti del nuovo stato, tanto esteso in senso meridiano e tanto accidentato: le comunicazioni ferroviarie erano del tutto inadeguate, anche la viabilità ordinaria era insufficiente e non omogenea. Moltissimo si è fatto da allora per agevolare e intensificare le relazioni d'ogni specie fra le diverse regioni d'Italia, come si dirà più avanti, parlando delle comunicazioni; se la fittezza e la distribuzione delle ferrovie e delle grandi strade di comunicazione è ancora assai diseguale, tuttavia il commercio interno si svolge ora liberamente e i prodotti italiani circolano da un capo all'altro della penisola. Così ad esempio, all'approvvigionamento della capitale in derrate alimentari possono oggi concorrere prodotti di ogni regione italiana; i manufatti tessili della Lombardia si distribuiscono in ogni angolo della penisola e delle isole; anche l'amalgamazione, dal punto di vista economico, col resto dell'Italia delle provincie annesse dopo la guerra mondiale, si va compiendo con molta rapidità. Anche per le merci di prima necessità che affluiscono dall'estero ai grandi porti italiani, ciascuno dei quali serve un proprio retroterra, l'inoltro senza difficoltà, sempre all'interno, si compie più speditamente.
Anche il commercio con l'estero si venne a poco a poco sviluppando, sebbene dapprima piuttosto lentamente. Nel 1871 si ragguagliava a poco più di 2 miliardi; alla fine del secolo (1900) salì fino a 3. Ma dal 1872 in poi le importazioni superarono sempre le esportazioni, dapprima di 100-200 milioni di lire annue, poi perfino di 400-500 milioni negli anni 1885-1887 che furono i più critici del secolo passato; in seguito lo squilibrio della bilancia commerciale tornò ad attenuarsi. Tale squilibrio aveva tuttavia le sue contropartite (spese dei forestieri, rimesse degli emigrati, ecc.), cosicché lo stato italiano non aveva bisogno di contrarre debiti all'estero in misura notevole. Più rapidi furono i progressi dal principio del sec. XX, sia per il considerevole slancio delle industrie italiane, sia per lo sviluppo della navigazione e dei porti, cui si accennerà più oltre. Nell'ultimo quinquennio di relazioni normali con l'estero anteriormente alla guerra mondiale, il commercio salì al valore globale di 5,85 miliardi circa, dei quali oltre 3,4 all'importazione e 2,4 all'esportazione. Se ragguagliamo, per comodità di confronto, queste cifre commisurandole al valore attuale della lira, secondo il procedimento dell'Ufficio centrale di statistica e le paragoniamo a quelle prebelliche, a quelle del periodo culminante della guerra mondiale e poi alle attuali, si hanno i dati esposti nella seguente tabella:
Lo squilibrio nella bilancia commerciale, che era dunque di circa 3,6 miliardi di lire attuali nel quinquennio prebellico, salito alla enorme cifra di quasi 30 miliardi nel 1918, è disceso a poco più di 5 miliardi annui nel 1930 e tende a diminuire ancora; dal 1921, anno nel quale, nel periodo postbellico, si ebbe il minimo delle importazioni, queste sono nuovamente cresciute fino al 1928, per poi ancora diminuire; le esportazioni tendevano invece a crescere con confortante slancio, prima che intervenissero i sintomi dell'attuale depressione economica mondiale. Giova peraltro avvertire - come confortante indice del progresso industriale italiano - che il confronto dell'attuale commercio estero con quello del periodo prebellico, dimostra una chiara tendenza verso una riduzione degli acquisti italiani all'estero in prodotti fabbricati e verso una maggiore importazione di merci gregge occorrenti alle industrie italiane; a questa tendenza fa riscontro la minore esportazione di merci gregge e semilavorate e la maggiore esportazione di manufatti e prodotti finiti.
I maggiori gravami con l'estero sono rappresentati per l'Italia dall'importazione del frumento (1930, ancora oltre 1½ miliardi; circa 3 miliardi nel 1928), del mais (400 milioni circa nel 1930; circa 800 nel 1928), del legname (oltre 600 milioni), del carbon fossile (1⅓ miliardi nel 1930), del petrolio e altri carburanti (oltre 600 milioni). Le esportazioni sono rappresentate in prima linea dalla seta greggia, dai tessuti di seta e misti, e dalla seta artificiale (2,3 miliardi nel 1930; oltre 3 nel 1929), dai tessuti di cotone (1-1,3 miliardi), dagli agrumi, frutta, ortaggi, dai latticinî (formaggi, ecc.), dalle automobili. In tutti questi rami è indubbiamente possibile all'Italia di raggiungere, in condizioni normali dell'economia mondiale, un maggiore sviluppo. Un'altra caratteristica del commercio italiano con l'estero è il progressivo estendersi del raggio mondiale dei traffici; sia per le importazioni sia per le esportazioni, si allacciano rapporti con paesi sempre più lontani, come è dimostrato, tra l'altro, dall'espansione delle linee di navigazione, delle quali si dirà più oltre.
Sette stati si trovano tuttavia all'avanguardia delle relazioni commerciali con l'Italia: cinque europei (Germania, Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Austria) e due americani (Stati Uniti e Argentina); essi assommavano nel 1930 il 55% delle importazioni e il 62% delle esportazioni. Per le importazioni sono al primo posto gli Stati Uniti, ma la loro preponderanza tende a diminuire, soprattutto per la diminuita importazione di derrate alimentari; al secondo posto dal 1925 è tornata la Germania; seguono Gran Bretagna e Francia; a notevole distanza gli altri paesi. Per le esportazioni al primo posto è ora la Germania, seguita subito dagli Stati Uniti; vengono poi Francia e Gran Bretagna; a non grande distanza Svizzera e Argentina.
Ma, accanto a questi pochi paesi, che pesano per la massa del traffico, non vanno dimenticati i molti, verso i quali, sia pure con corrente di minore intensità, irraggiano le esportazioni italiane. Ora è sintomatico il fatto che queste correnti minori, ma vivaci, sono quasi interamente rivolte all'Oriente: agli stati balcanici, all'Egitto, alla Turchia, all'India, e oggi anche verso paesi più lontani. E da questi stessi paesi vengono in misura considerevole anche materie prime per le industrie e perfino prodotti alimentari. Modesti sono ancora i traffici italiani con i paesi africani (Egitto escluso), anche con le sue colonie; ma, prima del periodo di depressione economica generale, essi tendevano tuttavia a estendersi e a intensificarsi: anche l'Italia seguiva dunque la tendenza generale dell'Europa a stringere sempre più i rapporti commerciali con quel continente che, per la sua vicinanza, per le sue possibilità economiche e per la sua situazione politica, si configura sempre meglio come il più naturale integratore dei bisogni dell'economia europea.
Come chiusa di questo esame delle condizioni economiche attuali dell'Italia, riferiamo i dati sull'entità numerica degli addetti alle categorie principali di occupazioni, secondo il censimento del 1921 (i dati corrispondenti per il 1931 non sono ancora conosciuti). Si avevano allora oltre 10.275.000 persone occupate nell'agricoltura nelle attività connesse con le foreste e nella pesca (pari al 55,7% della popolazione lavoratrice), oltre 4.220.000 persone occupate nelle industrie e miniere (22,9%), circa 1.860.000 persone occupate nel commercio (10,1%). Il residuo è dato da persone occupate nei servizî pubblici (compreso l'esercito) o in professioni libere (1.247.000, pari a 6,8%), da persone attendenti a servizî domestici (445.600 pari a 2,4%) e da categorie varie di occupazioni (382.000 pari a 2,1%).
Comunicazioni.
Ferrovie. - Come già si è accennato, la natura del paese oppone molto gravi ostacoli alla creazione di una rete organica di comunicazioni rapide, pienamente rispondenti alle moderne esigenze del trasporto di merci e viaggiatori tanto entro i confini del regno, quanto fra il regno e gli stati limitrofi. Alla configurazione allungata nel senso della latitudine, onde fra gli estremi punti settentrionali e meridionali intercorrono distanze maggiori che in altri stati molto più estesi, si aggiungono la presenza del sistema montuoso appenninico, che ostacola le comunicazioni dirette fra i due mari principali, la struttura geologica sfavorevole di molte plaghe, dove la presenza di rocce argillose, instabili e franose, rende difficile la costruzione e costosa la manutenzione delle strade ordinarie e ferrate, il carattere irregolare di molti corsi d'acqua, le cui ampie vallate soggette a inondazioni debbono essere piuttosto sfuggite che ricercate dalle vie di comunicazione, infine la presenza, soprattutto in passato, di zone paludose lungo le coste, evitate anche per l'infierire della malaria. A queste difficoltà naturali si aggiungeva poi in passato anche il frazionamento politico e la divergenza d'interessi economici fra gli antichi stati.
Il primo tronco ferroviario italiano, da Napoli a Portici, fu aperto il 4 ottobre 1839; prima del 1850 non esistevano in Italia più di 600 km. di ferrovie. La lunghezza totale era salita a 6200 km. nel 1870, al momento dell'unificazione, ma si aveva a che fare, in parte almeno, con linee create per servire i singoli stati e non nell'interesse del traffico attraverso il nuovo stato unitario. Dal 1870 in poi grandi progressi sono stati effettuati, mercé l'intervento diretto del governo, e, sebbene l'attuazione del programma ferroviario abbia subito soste e rallentamenti, gli ostacoli naturali sovra accennati sono stati gradualmente sormontati con impiego di mezzi tecnici talora grandiosi (costruzione di lunghe gallerie), e successivamente si è vinto anche l'ostacolo maggiore che si frapponeva al collegamento ferroviario con gli stati finitimi, la catena alpina, valicata ormai da sette grandi linee e da alcune altre minori. L'attuale rete ferroviaria italiana, se anche per fittezza di maglia rimane indietro a quella degli altri maggiori stati europei più favoriti per condizioni naturali, va via via assumendo il carattere di un sistema organico, adattato bensì necessariamente alle condizioni geografiche, ma sempre meglio rispondente ai bisogni delle industrie e delle intensificate relazioni interne ed estere.
La rete, ragguagliata a circa 20.000 km. prima della guerra mondiale, è salita (1° gennaio 1932) a 22.522 km., e a 26.557 se s'includono le ferrovie secondarie e le tramvie extraurbane. Sono a scartamento normale circa 21.700 km. e di questi circa 3000 km. a trazione elettrica. Allo stato appartengono 16.850 km., dei quali oltre 4000 a doppio binario e 1940 a trazione elettrica. Questo sistema di trazione è stato notevolmente sviluppato negli ultimi anni, anche in linee di primaria importanza (come la Modane-Torino-Genova-Livorno, la più lunga linea a trazione elettrica attualmente in esercizio in Italia); alla fine del 1931 si avevano in complesso in Italia oltre 3400 km. di linee elettrificate (comprese le secondarie). Il piano completo dei lavori per i prossimi 10 anni comprende l'elettrificazione delle arterie fondamentali del sistema ferroviario statale per un complesso di oltre 4000 km. di linee.
Come media si hanno in Italia poco più di 8 km. di ferrovie per ogni 100 kmq., mentre nella Gran Bretagna se ne hanno 13, nella Germania 12, nella Francia 10 (nel Belgio 37). In relazione alla popolazione si hanno poco più di 5 km. per ogni 10.000 abitanti (Francia 13, Germania 9, Gran Bretagna 8, Belgio e Svizzera 14). Nessun centro comunale italiano dista più di 50 km. da una stazione ferroviaria. La rete più fitta si ha nella Pianura Padano-veneta, sia perché ivi mancano grandi ostacoli naturali, sia soprattutto perché qui è la sede delle più fiorenti e sviluppate industrie. Due sono le massime arterie di questa regione, una corrente ai piedi delle Alpi (Torino-MilanoVerona-Venezia - Udine-Trieste) e una ai piedi dell'Appennino (Alessandria-Piacenza-Bologna-Rimini); esse sono riunite da numerose trasversali (principali: Torino -Alessandria; Milano-Bologna; Verona-Bologna; Venezia-Ferrara-Bologna, ecc.). Grandi nodi ferroviarî sono Milano, Torino, Verona, Bologna e Venezia-Mestre. Alle anzidette linee si allacciano da un lato quelle che traversano le Alpi, conducendo in Francia (Torino-Nizza e Torino-Modane; inoltre la litoranea Genova-Nizza-Marsiglia), in Svizzera (Milano-Domodossola-Briga e Milano-Chiasso-Lucerna), in Austria (Verona-Bolzano-Innsbruck e Bolzano-Lienz; Venezia-Udine-Villaco), nella Iugoslavia (Trieste - Postumia - Lubiana; e Fiume - Zagabria), dall'altro le linee per l'Italia peninsulare. In questa, due linee longitudinali di grande traffico corrono lungo la costa o a breve distanza da essa, l'una da Genova (anzi dal confine francese a Ventimiglia) per Livorno, Roma e Napoli, fino a Reggio Calabria, l'altra da Rimini, per Ancona, Foggia e Bari a Brindisi, e da Bari, per Taranto, a Reggio Calabria. La più importante linea longitudinale interna è quella da Bologna, per Firenze, a Roma e a Napoli; essa varca l'Appennino toscano a notevole altezza (616 m.). L'Appennino è poi valicato da una decina di linee trasversali (v. appennino). Le ferrovie che fanno capo a Reggio Calabria sono collegate mediante ferry-boats alla rete sicula, che ha per principali arterie la Messina-Palermo e la Messina-Catania-Siracusa. Le comunicazioni tra la penisola e la Sardegna si effettuano invece principalmente da Civitavecchia (e anche da Livorno e Genova) a Terranova, congiunta per ferrovia tanto a Cagliari quanto a Sassari.
Nell'Italia meridionale e nelle isole, dove, per il mediocre sviluppo delle industrie, il traffico è ancora modesto, il collegamento di molti centri minori alle ferrovie principali si effettua mediante linee secondarie a scartamento ridotto, molte delle quali sono notevoli per l'ardimento con cui superano i forti dislivelli mediante ingenti opere d'arte o con applicazioni di sistemi eccezionali di trazione (cremagliera). Invece nelle regioni nelle quali il movimento è maggiore, si tende ad abbreviare i percorsi, sia con l'introduzione di treni rapidi, sia con la creazione di linee direttissime, come la Roma-Napoli (per Formia) e quella, di prossima apertura, da Firenze a Bologna che attraversa l'Appennino in una nuova galleria lunga circa km. 18,5, la più lunga in territorio interamente italiano e la seconda del mondo per lunghezza, dopo la galleria del Sempione.
È da notare che le linee trasversali della Pianura Padano-veneta servono oggi anche al traffico di transito fra l'Europa occidentale e l'orientale (o fra quella di nord-ovest e quella di sud-est): passa infatti sulla linea Domodossola-Milano-Mestre-Trieste una delle massime comunicazioni ferroviarie europee, il Simplon-Orient Express, al quale s'innestano altre linee internazionali provenienti da Nizza e da Modane. È invece diminuita oggi d'importanza, come arteria internazionale di comunicazioni per il Levante, l'Egitto e l'Asia, la linea Modane-Bologna-Ancona-Brindisi, prima utilizzata dalla valigia delle Indie.
Nel complesso circolarono negli ultimi anni (1925-29) sulle ferrovie dello stato circa 108-115 milioni di viaggiatori e 55-65 milioni di tonnellate di merci l'anno (escluso il bestiame); si aggiungono ad essi 60-70 milioni di viaggiatori e 9-10 milioni di tonnellate di merci trasportate nelle ferrovie private (escluse le tramvie). Dal 1930 la depressione economica generale ha prodotto naturalmente una forte restrizione del traffico: tra il 1929 e il 1931 è diminuito del 24% il numero dei viaggiatori e del 27% il peso delle merci trasportate dalle ferrovie statali.
Strade. - La rete delle strade ordinarie accessibili a veicoli a ruote supera i 225.000 km.; oltre 20.000, costituenti la rete delle grandi comunicazioni, sono di pertinenza dello stato, e un'apposita azienda, l'Azienda autonoma della strada, ne cura la manutenzione e il miglioramento, in relazione allo sviluppo del traffico. Anche le strade ordinarie sono diventate, infatti, mezzi di comunicazione rapida, mercé lo sviluppo dell'automobilismo, che si va diffondendo sempre maggiormente: infatti il numero delle automobili, calcolato a circa 57.000 nel 1924, si è da allora più che quadruplicato, quello degli autocarri (25.000 nel 1924) è quasi triplicato. Servizî automobilistici pubblici allacciano fra loro le stazioni di linee ferroviarie diverse o a queste i paesi più lontani, e perciò sono, specialmente nelle regioni di montagna, un utile complemento delle ferrovie. Alla fine del 1931 erano in esercizio oltre 3000 linee automobilistiche per una lunghezza di circa 70.000 km.; la Lombardia, l'Emilia, la Toscana, il Piemonte, la Sicilia ne sono più fornite. Esistono già anche autostrade, destinate all'esclusivo transito delle automobili. Il traffico automobilistico, per servizio viaggiatori e merci, tende a far concorrenza alle ferrovie, specie su percorsi brevi e su linee di non grande movimento. Su alcuni percorsi í servizî ferroviarî sono anzi già stati surrogati, in tutto o in parte, da servizi automobilistici; su altre linee si sperimenta la sostituzione ai treni ordinarî di autovetture e autoconvogli su rotaie. In un paese montuoso come l'Italia il futuro sviluppo delle comunicazioni rapide appare senza dubbio legato alla risoluzione del problema di una sagace combinazione e integrazione dei due sistemi di trasporto, quello ferroviario e quello automobilistico.
Navigazione e porti. - Il traffico marittimo dei porti italiani, considerato in base al quantitativo totale delle merci caricate e scaricate, era di circa 32 milioni di tonn. nel 1913; dopo la depressione seguita alla guerra mondiale, ha raggiunto di nuovo questa cifra nel 1924, poi ha continuato a crescere, pur con interruzioni, toccando nel 1929 il massimo di 39,5 milioni; in seguito si sono fatti sentire gli effetti della crisi economica mondiale, che ha prodotto una sensibile restrizione del traffico nel 1930 e una più considerevole nel 1931 (34,5 milioni). Ma un fatto meritevole d'essere rilevato è la sempre maggiore compartecipazione della bandiera italiana al traffico dei porti nazionali: da poco più del 50% nel 1913, tale compartecipazione è salita al 67% nel quadriennio 1926-29. Il traffico è costituito per la massima parte da scambî con l'estero, e in esso si osserva, come fu accennato, un forte squilibrio tra la mole preponderante delle importazioni e quella delle esportazioni.
Un'altra caratteristica rispetto all'anteguerra, è l'allargato raggio dei traffici, non essendovi ormai più nessun paese del mondo, tra quelli che hanno una qualche importanza commerciale, che non sia in relazione diretta con i porti italiani, e a questi collegato anche da linee di navigazione italiane. La corrente principale dei traffici è quella da e per i porti europei oltre Gibilterra, che assorbe da sola circa la metà del commercio totale con l'estero; segue la corrente mediterranea, che contribuisce (incluso il Mar Nero) con un altro quarto circa; vengono successivamente la corrente dell'America Settentrionale, quella dell'America Meridionale e Centrale, quella oltre Suez (paesi dell'Oceano Indiano e del Pacifico) e ultima, finora molto debole, la corrente da e per i porti dell'Africa occidentale. Nel traffico con l'Europa occidentale e settentrionale prevale la bandiera estera (con predominio della britannica), e questa è in prevalenza anche negli scambi con l'America Centrale e Meridionale e con l'Australia; in tutte le altre correnti ha la prevalenza la bandiera nazionale; al traffico tra i porti italiani e gli altri del Mediterraneo partecipano tuttavia anche la Spagna e la Grecia.
Tra i porti italiani, quelli che hanno un qualche movimento commerciale sono un centinaio, e una ventina hanno oggi un traffico superiore o prossimo a un milione di tonnellate (stazza netta). Per numero di navi entrate e uscite, il primo posto spetta a Trieste, cui seguono Napoli, Fiume, Genova, Venezia, Livorno e Messina. Ma per la mole delle merci sbarcate e imbarcate, Genova supera di gran lunga tutti gli altri; seguono, in ordine decrescente, Venezia, Trieste, Napoli, Savona, Livorno, Civitavecchia, Palermo, Fiume, Ancona, ecc. Per numero di viaggiatori imbarcati e sbarcati, Trieste e Napoli hanno un primato assoluto; il movimento di Napoli è tuttavia diminuito in seguito alla contrazione dell'emigrazione. Questa contrazione ha anzi influito notevolissimamente nel ridurre il traffico globale dei viaggiatori con l'estero (da circa 1.100.000 viaggiatori nel 1913 a meno della metà nel 1929), mutandone anche la fisionomia; oggi infatti, almeno per importanza economica, il movimento turistico supera quello migratorio.
Tra le linee di navigazione nell'interno del regno hanno il primo posto naturalmente quelle che effettuano il collegamento con le due isole maggiori del Tirreno e con Zara sulla sponda orientale dell'Adriatico. Per le comunicazioni con la Sardegna, è al primo posto la linea Civitavecchia-Terranova (giornaliera); seguono le settimanali Civitavecchia-Cagliari e Napoli-Cagliari. Per la Sicilia l'unica linea importante, in concorrenza con la ferrovia, è la giornaliera Napoli-Palermo. Zara è collegata ad Ancona (servizio giornaliero), a Trieste, a Venezia; Venezia è pure collegata a Trieste da una linea giornaliera. Hanno anche un notevole movimento le linee da Genova a Livorno, a Napoli, a Palermo; da Livorno ai porti sardi; da Napoli a Messina, da Bari ad Ancona, da Ancona a Fiume, ecc. Tra le linee mediterranee sono da ricordare anzitutto quelle di collegamento con la Libia, che fanno capo principalmente a Siracusa. Tra le altre linee hanno la prevalenza quelle determinate dalla già segnalata situazione geografica dell'Italia, che appare quasi un molo proteso verso il Levante, onde comunicazioni celerissime con l'Egitto, da Trieste, Venezia, Brindisi, Genova e Napoli (il percorso da Brindisi è oggi il più breve percorso marittimo tra l'Europa e l'Egitto ed è perciò largamente utilizzato dal movimento internazionale dei viaggiatori); comunicazioni frequenti tra i porti adriatici e quelli dell'opposta sponda balcanica (sopra tutto con l'Albania), comunicazioni tra gli stessi porti e quelli dell'Egeo, del Levante asiatico, del Mar di Marmara, del Mar Nero e del Danubio inferiore. La situazione geografica favorisce anche le comunicazioni tra la Sicilia e la Tunisia, tra la Liguria e la Catalogna. Molto meno importanti le comunicazioni con l'Algeria e il Marocco.
Per le linee transoceaniche hanno importanza, come punto di partenza o d'arrivo, quasi soltanto i due porti tirrenici di Genova e Napoli e quelli adriatici di Trieste e Venezia. Le linee più importanti in partenza dai due porti tirrenici (che di solito vengono entrambi toccati sia nell'andata sia nel ritorno) sono quelle dirette ai porti atlantici dell'America Settentrionale e dell'America Meridionale, servite da piroscafi e motonavi moderne e veloci, soprattutto per il trasporto dei passeggeri; seguono le linee dirette, oltre Suez, ai porti dell'Africa orientale, dell'Asia meridionale, dell'Estremo Oriente, delle Indie Olandesi e dell'Australia; una linea è diretta al Canale di Panamá, e oltre questo, ai porti sudamericani del Pacifico; una ai porti atlantici dell'Africa fino a Città del Capo. Ai due porti adriatici fanno capo invece i collegamenti più frequenti e rapidi con l'Asia meridionale e l'Estremo Oriente; inoltre due linee, dirette all'America Centrale, e oltre Panamá ai porti nordamericani del Pacifico; una linea che compie l'intero periplo africano, una diretta ai porti del Plata e altre di minore importanza.
La navigazione interna è pochissimo sviluppata in Italia. Si esercita la navigazione a vapore sui laghi Maggiore, d'Orta, di Como, di Lugano, d'Iseo, di Garda, sul Trasimeno e sulle lagune venete, per un complesso di appena 560 km. di linee (435 se si escludono le lagune); per il trasporto dei viaggiatori hanno il primo posto i laghi Maggiore e di Como, per quello delle merci ha il primato assoluto il lago d'Iseo (4/5 del traffico totale). I corsi d'acqua italiani si prestano poco alla navigazione (in confronto a quelli dell'Europa centrale e orientale) per le già accennate caratteristiche di regime, pendenze, ecc. Il Po è classificato tra le arterie navigabili di prima classe da Casale fino alla foce (540 km.), ma solo fino alla confluenza col Mincio possono risalire natanti di qualche mole (fino a 600 tonn.); inoltre nel delta la navigazione è spesso ostacolata da barre, per il che si utilizza il canale che unisce Cavanella Po a Brondolo nella laguna veneta; l'unico scalo fluviale di qualche importanza è Pontelagoscuro. Sono in corso di sistemazione lavori per rendere possibile l'accesso a natanti di 600 tonnellate fino alla foce dell'Adda. Degli affluenti del Po, sono navigabili il Ticino da Pavia (dove si sta costruendo un porto fluviale) alla foce (47 km.), l'Adda da Pizzighettone alla foce, l'Oglio a valle di Pontevico, il Mincio dal lago inferiore di Mantova (che ha un piccolo porto fluviale) alla foce, oltre ad alcuni tratti minori intermedî degli stessi fiumi. La navigazione sull'Adige, che ebbe in passato considerevole importanza, è ora limitata per natanti di oltre 100 tonnellate ad alcuni tratti. Nei fiumi veneti la navigazione è limitata ai tronchi inferiori (Livenza da Portobuffolè alla foce per 75 km.; Piave da Zenson a Cortellazzo 34 km.; Sile da Treviso alla foce, ecc.). In Lombardia, nel Veneto e nelle Romagne la navigazione è integrata da una rete di canali navigabili (Canale di Vizzola, Naviglio Grande, Naviglio di Paderno, della Martesana, di Volano; Canale di Primaro; Canale dal Po di Levante all'Adige; Naviglio Brenta; Canale Battaglia, Canale Piòvego; Canale Bisatto, Canale Este-Monselice; Naviglio Adigetto; Canale Gorzone, ecc.). Per mezzo di tronchi fluviali e di canali interni e lagunari si sono stabilite negli ultimi anni talune linee notevoli, come quella che unisce l'Isonzo al Po (183 km.), la più lunga, quella da Venezia a Padova, quella da Vicenza a Este e Monselice, ecc. Parecchie di queste vie d'acqua, accompagnate sempre da alzaie, sono a chiuse. Numerose e importanti sono le opere progettate o in corso; di maggior considerazione quelle dirette a collegare all'Adriatico il massimo centro lombardo, Milano, che sarà dotato di un porto fluviale.
Nella penisola ha qualche importanza la navigazione sul Tevere da Roma a Fiumicino e quella sull'Arno a valle di Pisa, sussidiata dal Canale dei navicelli. Nel complesso le vie d'acqua interne variamente utilizzate oggi non raggiungono (esclusi i laghi) i 1500 chilometri.
Industria aeronautica. - È nata, per la massima parte, durante la guerra mondiale. Per quello che riguarda la costruzione dei velivoli ricordiamo: la "Società aeronautica d'Italia" appaitenente al gruppo "Fiat" con officine a Torino; la "Società Caproni" con officina a Taliedo (Milano); la "Società idrovolanti Alta Italia (SIAI)" con officine a Sesto Calende; la "Società Macchi" con officine a Varese; la "Società italiana E. Breda " con officine a Sesto S. Giovanni (Milano); la "Società costruzioni meccaniche aeronautiche", derivata dalla "Dornier" di Friedrichshafen con officine a Marina di Pisa, del gruppo "Fiat"; la "Società officine ferroviarie meridionali", con officina a Napoli; i "Cantieri riuniti dell'Adriatico", controllati dalla "Cosulich", con cantieri a Monfalcone; la "Società Piaggio", con cantieri a Finale Marina; la "Compagnia nazionale aeronautica" (Roma), che si limita solamente alla costruzione d'interessanti prototipi e alla gestione di una scuola di pilotaggio.
Parallelamente all'industria della costruzione degli aeroplani si è sviluppata quella dei motori; basti ricordare: la "Fiat" con officine a Torino, la "Isotta Fraschini" con officine a Milano; la "Alfa Romeo" con officine a Milano; la "Piaggio" con officine a Pontedera (Pisa); le "Officine Colombo" con stabilimento a Milano.
Vi sono poi società che si sono dedicate alla preparazione dei piloti, come la "Scuola Caproni", con officina a Vizzola, che ripara anche apparecchi; la "Compagnia nazionale aeronautica" a Roma; la "Gabardini" a Cameri; la "Breda" a Sesto S. Giovanni (Milano), ecc.
Nel 1931 l'esportazione di apparecchi e motori d'aviazione dall'Italia è salita ad oltre 60 milioni di lire.
Turismo. - L'importanza del turismo per l'Italia risulta evidente solo che si pensi alle svariatissime caratteristiche e manifestazioni che possono attirare verso l'una o l'altra località della penisola e delle grandi isole l'elemento italiano o straniero: i numerosi luoghi di cura e di riposo, le stazioni climatiche e balneari, le fiere e i mercati periodici, le competizioni sportive, i monumenti e gli spettacoli d'arte antica e moderna, le feste tradizionali, le grandi manifestazioni politiche e religiose costituiscono altrettanti motivi per cui il turismo assume in Italia un'importanza affatto caratteristica.
Al complesso delle industrie e delle attività turistiche italiane presiede il Commissariato del turismo (r. deereto-legge 23 marzo 1931, n. 31), cui spetta il compito di dirigerle e coordinarle, promovendone lo sviluppo e vigilando su tutti gli enti e istituti che se ne occupano. Suo organo esecutivo centrale è l'Ente nazionale per le industrie turistiche (E.N.I.T.). Gli organi periferici sono i Comitati provinciali del turismo, che si costituiscono in base ad accordi tra il Ministero delle corporazioni, il Commissariato e i prefetti e che si occupano dei problemi turistici provinciali.
A questa attività multiforme ha risposto, dal 1920 in poi, un continuo aumento di turisti dapprima (1920-26), quindi una costanza di afflusso nonostante la crisi (1927-31). Le statistiche per i singoli anni dànno:
Tali cifre statistiche riguardano il movimento via mare, quello di transito ai varî posti di frontiera e il traffico nelle singole stazioni di cura, soggiorno, ecc.: località riconosciute dalla legge come "turistiche". Per il 1931 le percentuali dei turisti stranieri, distinti per nazionalità, offrono le cifre seguenti: Inglesi 10,5; Francesi 6,4; Belgi 1,5; Tedeschi 26,4; Austriaci 7,8; Ungheresi 3,5; Cecoslovacchi 4; Iugoslavi 1,2; Olandesi, Danesi, Scandinavi 3,6; Spagnoli, Portoghesi 1,3; Svizzeri 4,9; Albanesi, Bulgari, Greci, Turchi, Romeni 2,1; Russi o,6; Polacchi 1,8; Egiziani 0,5; Nordamericani 17; Sudamericani 2,9; varie nazionalità 4.
La bilancia economica italiana, negli anni 1923-32 per la voce "turismo", dà le seguenti cifre:
Poste, telegrafi, telefoni. - Ordinamento amministrativo. - L'amministrazione postale-telegrafica dipende dallo stato che la gestisce attraverso una speciale direzione generale presso il Ministero delle comunicazioni. I servizî postali e telegrafici nell'ambito di ogni provincia dipendono direttamente dalle direzioni provinciali. Il r. decreto 18 giugno 1931, n. 1827, andato in vigore nel marzo 1932, ha istituito delle direzioni compartimentali delle poste e telegrafi con giurisdizioni su più provincie. ll provvedimento ha avuto inizio di applicazione con la costituzione della direzione di Cagliari con giurisdizione sulla Sardegna.
Fino al 31 giugno 1925 i servizî telefonici dipendevano dallo stato. A partire dal 1° luglio 1925 l'Italia è stata divisa in cinque zone (1. Piemonte e Lombardia; 2. Tre Venezie, Fiume e Zara; 3. Emilia, Marche, Umbria, Abruzzo e Molise; 4. Liguria, Toscana, Lazio, Sardegna; 5. Italia meridionale e Sicilia) e i servizî telefonici urbani e interurbani compresi in ciascuna zona sono stati ceduti ad altrettante società private (rispettivamente: 1. "Società telefonica interregionale piemontese e lombarda", STIPEL; 2. "Società telefonica delle Tre Venezie", TELVE; 3. "Società telefonica Italia media-orientale,, TIMO; 4. "Società telefonica tirrena", TETI; 5. "Società esercizî telefonici", SET). Nel giugno 1925 fu creata - alla dipendenza amministrativa del direttore generale delle Poste e telegrafi - l'Azienda di stato per i servizî telefonici, per l'esercizio diretto da parte dello stato delle grandi linee telefoniche regionali e internazionali e per il controllo e la sorveglianza sulle linee concesse in esercizio all'industria privata.
Servizî postali. - Al 30 giugno 1932 esistevano in Italia 11.293 stabilimenti postali. Durante l'esercizio 1931-32 il movimento delle corrispondenze postali ha raggiunto la cifra di 2.309.016.000 unità, delle quali 2.201.195.000 a pagamento e 107.821.000 in esenzione di tassa. Durante lo stesso esercizio il movimento generale dei pacchi fu di 14.415.050 pacchi. I pacchi spediti a tariffa ridotta contenenti libri furono complessivamente 1.197.787. I pacchi soggetti a privativa, trasportati da concessionarî, furono 4.424.330.
Servizî a denaro. - Durante l'esercizio 1931-32 furono emessi in complesso 24.233.587 vaglia postali (3.816.428 di servizio; 201.102 internazionali) per un valore di L. 13.515.134.000 (11.555.640.000 per i vaglia di servizio; 71.468.000 per i vaglia internazionali). Il servizio dei conti correnti postali ha svolto durante l'esercizio 1931-32, 12.745.000 operazioni (3.092.816 durante il 1924-25) per conto di 91.936 correntisti (9312 durante il 1924-1925) che hanno un credito complessivo di lire 477.413.000 (43.435.676 durante il 1924-25). Il credito dei libretti postali di risparmio al 30 giugno 1925 era di L. 10.003.000.000, e al 30 giugno 1932, L. 8.465.000.000. La cifra investita nei buoni postali fruttiferi era di L. 163.000.000 al 30 giugno 1925 ed è salita a 6.956.000.000 al 30 giugno 1932.
Servizî telegrafici ordinarî. - Gli stabilimenti postali con servizio telegrafico ammontavano complessivamente (al 30 giugno 1932) a 10.375. Questi uffici erano dotati alla stessa data di 12.989 apparati Morse, 923 apparati Hughes, 280 apparati Baudot, e numerosi altri apparati. Lo sviluppo delle linee della rete telegrafica ordinaria comprendeva km. 65.308 con un totale di km. 541.711 di fili (288.174 di proprietà dell'amministrazione telegrafica). La lunghezza dei cavi sottomarini con fili telegrafici era di km. 6809 con 7010 km. di fili. Durante l'esercizio 1931-32 sono stati accettati circa 26.684.185 telegrammi privati, mentre il traffico complessivo è stato di 142.793.046 telegrammi.
Servizî della compagnia Italcable. - La compagnia Italcable gestisce il cavo transatlantico Anzio-Malaga-Las Palmas-S. Vincent-Fernando di Noronha-Rio de Janeiro-Montevideo (13.000 km. circa di lunghezza) attivato a sua cura il 12 ottobre 1925. Ha inoltre attivato: 1. il cavo Anzio-Malaga-Azzorre (che si allaccia al cavo Azzorre-New York della compagnia americana associata Western Union); 2. il cavo Anzio-Barcellona e Barcellona-Malaga (posato nel 1927 come raddoppio della preesistente linea cablografica Anzio-Malaga richiesto dalle esigenze del traffico); 3. il cavo Malaga-Lisbona; 4. il cavo Cagliari-Palermo (attivati nel 1929); 5. il cavo Lisbona-La Panne (Belgio) attivato nel 1930. Durante il sesto anno di esercizio (1930-1931) del cavo sudamericano il traffico telegrafico è stato di 2.291.515 parole unitarie.
Radiocomunicazioni. - L'Italia è stata una delle prime nazioni che abbia creato delle stazioni per radiocomunicazioni: fin dal 1910 infatti la Somalia e l'Eritrea erano radiocollegate mediante le stazioni di Massaua e Mogadiscio mentre le comunicazioni delle colonie con l'Italia erano assicurate dalla stazione ultrapotente di Coltano. In seguito, col graduale perfezionamento degl'impianti radioelettrici, la radiotelegrafia è entrata in decisa concorrenza con i collegamenti a filo fra punti fissi e in particolare con i cavi sottomarini. Presentemente (1933) esistono in Italia tre grandi stazioni radio: 1. centro di radiocomunicazioni della R. Marina di Roma-S. Paolo, creato durante la guerra e adibito oggi soprattutto ai collegamenti con le colonie; 2. il centro di Roma-Torrenova, gestito dalla "Società Italo Radio" (costituita nel 1923-24), adibito ai collegamenti europei e transcontinentali e fornita (dal 1932) d'impianti per il servizio radiofonico transoceanico che permettono di parlare da ogni città d'Italia con qualsivoglia corrispondente della rete telefonica argentina o brasiliana, 3. centro di Coltano-Radio, gestito dalla "Società Italo Radio", costituito di due stazioni (cioè della trasmittente di Coltano e della ricevente duplex di Nodica) ed esclusivamente adibito (dal 1929-30) alle comunicazioni radiomarittime con le navi in navigazione in ogni mare; il centro di Coltano è anche fornito di apparecchiature radiotelefoniche che permettono ai passeggeri di alcuni dei più grandi transatlantici (fra i quali quelli nazionali Conte Rosso, Conte Verde, Rex e Conte di Savoia) di scambiare durante la navigazione conversazioni con gli abbonati delle reti telefoniche italiane e dei varî stati europei.
Oltre a queste tre grandi stazioni esistono numerose stazioni costiere (Genova, La Maddalena, Cagliari, Napoli, Messina, Trapani, Vittoria, Brindisi, Ancona, Venezia, Fiume e Zara) con servizio limitato alle sole comunicazioni di carattere ravvicinato o d'interesse portuale e alla vigilanza per segnali di soccorso. Ad analogo servizio sono destinate nelle colonie le stazioni costiere di Tripoli, Bengasi, Derna, Tobruch, Rodi, Lero, Massaua, Assab, Alula, Obbia, Mogadiscio, Brava, Merca, Chisimaio.
In Italia esiste altresì una completa organizzazione radioelettrica a zervizio dell'aeronautica (servizî di radiocomunicazione, servizî radiogonometrici e di radiofaro interessanti la sicurezza del volo). Generalmente le stazioni radioelettriche adibite ai servizî aerei sorgono nei principali aeroporti commerciali o in prossimità di essi. Attualmente esistono nel regno e nelle isole 45 stazioni aeronautiche terrestri e varie di esse anche nelle colonie.
Durante l'esercizio 1931-32 il servizio radiotelegrafico fra punti fissi ha trasmesso 981.811 telegrammi con 17.901.984 parole. Il totale generale delle parole trasmesse a bordo delle navi in navigazione dalle stazioni costiere (comprese quelle delle società concessionarie) e ricevute da bordo è stato di circa un milione e mezzo.
Servizî telefonici. - L'ordinamento dei servizî telefonici in Italia consta di una rete interregionale e internazionale riservata alla gestione di stato; di reti urbane e di una rete interurbana e internazionale di secondaria imponanza gestita dall'industria privata. La rete telefonica interurbana gestita dall'amministrazione di stato era costituita quasi esclusivamente, prima del 1922, di linee aeree che non davano garanzia sufficiente sia di stabilità delle comunicazioni, sia anche di buona audizione. Fra il 1922 e il 1932 fu studiato e attuato un vasto programma di comunicazioni sotterranee a mezzo di cavi convoglianti gran numero di linee: fu così realizzata una completa rete di comunicazioni dirette fra i centri più lontani: 18 fra Roma e Napoli, 8 fra Roma e Firenze, 17 fra Roma e Milano, 8 fra Genova e Roma, 8 fra Bologna e Roma, 4 fra Torino e Napoli, 4 fra Milano e Napoli, 4 fra Venezia e Milano, 3 fra Venezia e Roma, 5 fra Bologna e Milano. Si provvedeva contemporaneamente ad attivare il servizio telefonico con la Sardegna prima a mezzo di un ponte-radio costituito da onde corte a fascio di 9 metri di lunghezza, quindi a mezzo di un cavo sottomarino (la più lunga comunicazione telefonica sottomarina esistente) attivato il 28 ottobre 1931 e che permette di effettuare, oltre alla comunicazione telefonica, anche due comunicazioni telegrafiche in duplice. Prossimamente verrà messa in esercizio la tratta di cavo fra Napoli e Bari, mentre proseguono i lavori per la posa e la messa in opera del tratto Napoli-Reggio-Messina-Catania-Palermo.
Allo sviluppo e al perfezionamento delle comunicazioni interurbane hanno concorso anche le società concessionarie di zona: la STIPEL, con l'attivazione di un cavo sotterraneo fra Torino-Milano e la zona dei laghi; la TIMO, col cavo fra Bologna e Ancona; la TETI con il collegamento a mezzo cavo di Savona, Genova, La Spezia, Lucca, Pisa, Pistoia, Livorno, Firenze.
Nel 1922 la rete telefonica italiana comprendeva 20 circuiti internaxionali e 1470 interurbani, con uno sviluppo complessivo di 74.500 chilometri di circuito. Nel 1932 (30 giugno) si avevano 115 circuiti internazionali e 5.535 circuiti interurbani con uno sviluppo complessivo di 275.734 km. di circuito. Gli uffici collegati alla rete interurbana italiana al 30 giugno 1932 erano 2235. Le conversazioni interurbane statali e sociali da circa 12.000.000 effettuate nel 1922 raggiunsero circa i 29.000.000 nel 1932 (con una percentuale, nelle linee dello stato, dell'1,65% per conversazioni di stato; 11,94% di borsa; 14,26% di stampa; 72,15% del pubblico). Le conversazioni internazionali nello stesso periodo sono salite da 280.000 a 1.430.000.
Il servizio telefonico urbano, che nel 1922 era costituito da 439 reti urbane e da 132.372 abbonati, dei quali soltanto 7000 erano automatici, al 30 giugno 1932 comprendeva 957 reti con 339.364 abbonati collegati direttamente, dei quali 268.100 automatici, pari al 79% del totale. Alla stessa data i telefoni in servizio raggiungevano i 467.066 apparecchi. La percentuale degli abbomati automatici è superiore di molto a quelle raggiunte anche dalle nazioni telefonicamente più progredite. Le reti urbane predette comprendono collegamenti fino a un massimo di 10 km. dal centro di rete. I posti telefonici in estensione di reti urbane che nel 1922 erano 3410, hanno raggiunto nel 1932 la cifra di 14.101. L'incremento degli abbonati e lo sviluppo in genere del servizio telefonico urbano sono principalmente dovuti alla automatizzazione del servizio che, iniziato prima nelle grandi città come Torino, Milano, Genova, Roma, è oggi esteso a 387 reti. Nelle principali città d'ltalia le società concessionarie hanno organizzato una serie di servizî telefonici accessorî a vantaggio degli abbonati (ora esatta; orario ferroviario; notizie sportive; orario dei musei; teatri e cinema; notizie varie; sveglia; sorveglianza abbonati assenti, ecc.).
Radiodiffusione circolare. - Il servizio di radiodiffusione telefonica ha cominciato a svilupparsi in Italia dal 1925, ma ha ricevuto notevole incremento solo nel quinquennio 1928-1933.
Attualmente sono in funzione le seguenti stazioni per il servizio di radiodiffusione: Roma (2 stazioni: onde medie e onde corte), Milano, Milano Vigentino, Genova, Torino, Trieste, Firenze, Napoli, Bari, Palermo, Bolzano. Il servizio è affidato all'Ente italiano audizioni radiofoniche (EIAR).
Trasmissione telegrafica d'immagini. - Il servizio fototelegrafico è eseguito in Italia, con l'apparato Siemens-Karolus ed è ammesso fra l'Italia e Austria, Cecoslovacchia, Danimarca, Francia, Germania, Inghilterra, Svezia, Ungheria, Stati Uniti d'America. Le stazioni fototelegrafiche dei predetti stati corrispondono per mezzo della rete internazionale dei cavi telefonici con la stazione fototelegrafica di Roma, la sola in Italia aperta al servizio pubblico. Tutti gli uffici telegrafici di capoluogo di provincia accettano, peraltro, fototelegrammi che inoltrano all'ufficio di Roma per mezzo di raccomandata espresso.
Bibl: A partire dal 1894 una bibliografia geografica dell'Italia è stata curata per il Geographischen Jahrbuch (pubblicato a Gotha), prima da T. Fischer, poi da R. Alagià. L'ultima puntata (nel vol. XLVI, 1931, pp. 137-202) riguarda gli anni 1925-30. Dal 1890 è pubblicata regolarmente anche la Bibliographie géographique annuelle (vol. XLI, 1931), alla quale collaborano studiosi italiani. Dal 1925 una Bibliografia geografica dell'Italia è stata edita prima a cura del Comitato nazionale per la geografia (1925-1928), poi nel numero di dicembre d'ogni anno del Bollettino della R. Società geografica. Copiose indicazioni nel IV volume della Terra di G. Marinelli; in F. Cardon, Saggio di catalogo di pubblicazioni geografiche stampate in Italia fra il 1800 e il 1890, Roma 1892, e in Catalogo metodico della Biblioteca sociale (1868-1901) della Società geografica italiana, Roma 1903, pp. 207-301. Una bibliografia metodicamente ordinata è annessa alla guida bibliografica di R. Almagià, La geografia, 2ª ed., Roma 1922.
Circa il nome d'Italia: J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, I, 2ª ed., Lipsia 1881, p. 217; E. Pais, Storia della Sicilia e della Magna Grecia, I, Torino 1894, p. 387 segg.; E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, Stoccarda 1893, p. 496; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 110 segg.; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I, Milano 1924, p. 42 segg.; B. Heisterbergk, Über den Namen Italien, Friburgo in B. 1881; M. Orlando, Il nome Italia nella prosodia, nella fonetica, nella semantica, Torino 1928 (cfr. G. Pasquali, in Studi it. di fil. clas., VII, 1929, p. 312 segg.); M. Schipa, Le "Italie" del Medioevo (per la storia del nome d'Italia), in Archivio storico per le provincie napoletane, XX (1895); id., Per i nomi Calabria, Sicilia, Italia nel Medioevo, in Atti Accademia Pontaniana, XXVI (1896); G. Scaramella, Dove sia sorto per la prima volta il nome Italia, in Studi storici, IV (1896); O. De Grazia, in Bollettino della R. Società geografica (1919).
Principali opere geografiche sull'Italia: a) fino al 1900: Strabone, La descrizione d'Italia (trad. di L. O. Zuretti del libro IV dei Geographica), Milano 1923; Plinio il Vecchio, La descrizione d'Italia (trad. di L. Domeneghi della parte relativa all'Italia della Naturalis Historia), Milano 1920; M. Amari e C. Schiapparelli, L'Italia descritta nel "Libro del re Ruggero" compilato da Edrisi, Roma 1883; Flavio Biondo, Italiae illustratae, Verona 1482; Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Bologna 1550; J.-B. D'Anville, Analyse géographique de l'Italie, Parigi, 1744: A. F. Büsching, L'Italia geografico-storico-politica, Venezia 1780 (in 2 voll., che fanno parte della Geografia universale, tradotta in italiano, con aggiunte di G. Jagemann); A. Zuccagni Orlandini, Corografia storica e statistica dell'Italia e delle sue isole, Firenze 1835-45, voll. 12 in 19 tomi e atlante; C. F. Marmocchi, Prodromo della storia naturale d'Italia, Firenze 1844; A. Stoppani, Il Bel Paese, Milano 1876; E. Reclus, Nouvelle géographie universelle, I, Parigi 1876, pp. 299-630; A. Amati, Dizionario corografico dell'Italia, Milano 1878, voll. 8; L. Gatta, L'Italia. Sua formazione, suoi vulcani e terremoti, Milano 1882; H. Nissen, Italische Landeskunde, Berlino 1883; W. Deecke, Italien, Berlino 1898. - Per la descrizione dell'Italia in opere di viaggiatori e studiosi stranieri fino al 1815 è da vedere A. D'Ancona, L'Italia alla fine del secolo XVI, giornale del viaggio di Michele Montaigne in Italia nel 1580 e 1581, Città di Castello 1889 (con bibliografia riguardante 500 opere di viaggiatori stranieri). - b) Dopo il 1900: G. Marinelli, La terra: IV (in 2 tomi), L'Italia, Milano 1902 (capitoli sul clima di L. De Marchi, sulla flora di G. Paoletti e A. Fiori, sulla fauna di E. H. Giglioli, sulle lingue e genti di F. L. Pullè); T. Fischer, La Penisola italiana. Saggio di corografia scientifica, Torino 1902 (traduzione a cura di V. Novarese, F. M. Pasanisi, F. Rodizza); G. De Lorenzo, Geologia e geografia fisica dell'Italia Meridionale, Bari 1904; G. Jaja, L'Italia, Geografia economica, Roma 1912; G. Greim, Italien, Breslavia 1925; K. Hielscher, Italien, Milano 1925 (raccolta di vedute); G. Pullè, Italia continentale. Italia peninsulare e insulare, Firenze 1925-26; H. W. Ahlmann, Études de géographie humaine sur l'Italie subtropicale, in Geografiska Annaler, Stoccolma 1925, pp. 257-322, e 1926, pp. 74-124; N. Krebs, Italien, in Geographie des Welthandels, I, Vienna 1926, pp. 815-68; O. Maull, Italien, in Länderkunde von Südeuropa, Vienna 1929, pp. 133-298; H. Kanter, Italien, in Handbuch der geogr. Wissenschaft, Wildpark-Potsdam 1933. Sono poi da vedere i volumi della coll. Italia Artistica dell'Istitituto d'arti grafiche di Bergamo, le monografie regionali della coll. La Patria, geografia dell'Italia, dell'Unione tipografica editrice torinese e soprattutto la Guida d'Italia del Touring Club Italiano, compilata da L. V. Bertarelli.
Per quanto riguarda lo sviluppo della rappresentazione cartografica dell'Italia del del sec. XIV al XVII si veda l'opera di R. Almagià, Monumenta Italiae chartographica, Firenze 1930, e per i lavori eseguiti prima dai diversi stati e poi dal regno d'Italia quella di Att. Mori, La cartografia ufficiale in Italia e l'Istituto geografico militare, Roma 1922. Un'ampia bibliografia di carte sull'Italia e nel volume di P. Arrigoni ed A. Bertarelli, Le carte geografiche sull'Italia conservate nella raccolta delle stampe e dei disegni del comune di Milano, Milano 1930. La carta fondamentale che serve di base per ogni altra costruzione cartografica è la Grande carta topografica del Regno d'Italia, alla scala di 1 : 100 mila, costruita sotto la direzione del corpo di Stato maggiore, per cura dell'Istituto geografico militare di Firenze, tra il 1862 e il 1900. Essa constava in un primo tempo di 277 fogli (o meglio di 271 perché 6 non contengono disegno), per formare i quali concorsero 1666 minute di campagna, 661 (dette quadranti) fatte al 50 mila e 1005 (tavolette) al 25 mila. A ogni foglio al 100 mila corrispondono 16 originali di campagna se eseguiti alla scala di 1 : 25 mila e 4 se alla scala di 1 : 50 mila. L'origine delle longitudini della carta è il meridiano di Monte Mario, le cui coordinate sono state fissate il 41°55′26″ per la latitudine e 12°27′06″ E. da Greenwich per la longitudine; la proiezione adottata e è quella policentrica. Con l'annessione delle nuove provincie furono aggiunti altri 26 fogli, che sono contrassegnati con numeri romani per distinguerli dagli altri numerati con cifre arabiche. D'altra parte i rilievi al 25 mila, che erano limitati alle zone pianeggianti e di minore importanza demografica, sono stati ripresi nelle zone precedentemente rilevate al 50 mila e proseguono tuttora allo scopo di dotare tutto il suolo nazionale di una carta topografica sufficientemente dettagliata. Una raccolta di stralci di queste levate, ordinati secondo argomenti geografici, opportunamente raccostati per le diverse regioni d'Italia e con accompagnamento di opportune spiegazioni, costituisce l'Atlante dei tipi geografici di O. Marinelli (Firenze 1922). La prima edizione della carta alla scala di 1 : 100 mila è in nero (incisione su rame e, nelle edizioni successive, su zinco e su pietra) con orografia a curve e a tratteggio. Successivamente sono state eseguite tre edizioni policrome, con l'orografia a sole curve di livello, con l'orografia a curve e sfumo e con l'orografia a curve e tratteggio (quest'ultima in corso avanzato di edizione). Esiste anche un'edizione in bistro con i limiti amministrativi dei comuni e una in calco pallido. L'Istituto geografico militare ha pubblicato anche una Carta corografica del Regno d'Italia e delle regioni adiacenti alla scala di 1 : 500 mila, che consta di 35 fogli (proiezione conica di Bonne); esistono quattro edizioni, a due colori e senza orografia, a quattro colori con l'orografia a sfumo, a due colori senza orografia, in calco pallido con i limiti amministrativi. L'istituto ha pubblicato anche 5 fogli della carta del mondo al milionesino, in cui è rappresentata quasi tutta l'Italia (manca solo la Sardegna meridionale, che è compresa nel foglio di Tunisi edito dalla Francia). Tra le carte non ufficiali è da ricordare quella del Touring Club Italiano alla scala di 1 : 250 mila (61 fogli). Di essa esiste l'indice generale (Milano 1916), che è il massimo repertorio toponomastico italiano. Carattere turistico ha l'Atlante stradale del Touring Club Italiano in scala 1 : 250 mila, dell'Istituto d'arti grafiche di Bergamo (35 fogli).
Per i confini: V. Adami, Storia documentata dei confini del Regno d'Italia: I, Confine italo-francese; II, Confine italo-svizzero (in due parti); III, Confine italo-austriaco; IV, Confine italo-jugoslavo, Roma 1920-1931.
Per l'area: Istituto geografico militare, Superficie del Regno d'Italia calcolata nel 1884, Firenze 1884 (3ª appendice, 1901); O. Marinelli, Area dell'Italia naturale, in Atti del II Congresso geografico italiano, Roma 1895; id., L'area e la popolazione dei territori assegnati all'Italia col trattato di Rapallo, in Rivista geografica italiana, 1920.
Per la situazione: P. Silva, Il Mediterraneo dall'unità di Roma all'unità d'Italia, Milano 1927; H. Hassinger, Die geopolitischen Probleme Italiens, in Italien. Moderne Entwicklungen und Probleme, Stoccarda 1932, pp. 39-54.
Geologia, vulcanismo: Bibliographie géologique et paléontologique de l'Italie, Bologna 1881 (continuata ora da M. Gortani); C. F. Parona, Trattato di geologia, Milano 1924; F. Sacco, Les Alpes occidentales, 1913; id., L'Appennino settentrionale e centrale, Torino 1904; id., L'Appennino meridionale, 1912; L. Baldacci, La carta geologica d'Italia (Cinquant'anni di vita italiana, I), Roma 1911; R. Ufficio geologico, fogli al 100.000 della Carta geologica d'Italia; Carta geologica d'Italia alla scala di un milionesino (1931); G. Mercalli, Vulcani e fenomeni vulcanici, Milano 1883; H. J. Johnston-Lavis, Bibliogr. of the geol. and erupt. phenom. of the more important volcanoes of Southern Italy, Londra 1918. - Per i terremoti è da vedere: M. Baratta, I terremoti d'Italia. Saggio di storia, geografia e bibliografia sismica italiana, Torino 1901; A. Sieberg, Einführung in die Erdbeben und Vulkankunde Süditaliens, Jena 1913. La maggior parte degli scritti sui terremoti italiani è raccolta nei 30 volumi del Bollettino della Società sismologica italiana. L'elenco dettagliato dei macrosismi e microsismi viene pubblicato annualmente nel Bollettino sismico del R. Ufficio centrale di meteorologia e geofisica. - Per la tettonica e genesi si veda l'ultima edizione del citato Trattato di C. F. Parona, nel quale si troveranno anche copiose indicazioni sugli scritti più importanti (specie nel paragrafo: Origine e struttura delle Alpi e degli Appennini, pp. 566-74).
Per le forme del terreno e i tipi di paesaggio: oltre al già ricordato Atlante dei tipi di O. Marinelli, il Trattato di geologia morfologica di G. Rovereto (voll. 2, Milano 1923-24), la Relazione sui terrazzi fluviali e marini d'Italia di M. Gortani (in Rapport de la Commission des terrasses pliocènes et postpliocènes, Firenze 1928; cfr. anche dello stesso: Bibliografia dei terrazzi marini e fluviali d'Italia, Imola 1931). Per il fenomeno carsico: L. V. Bertarelli e E. Boegan, Duemila grotte, Milano 1926, e la bibliografia sull'idrografia sotterranea di M. Gortani, in Giornale di geologia pratica, XIX (1924), pp. 29-84. - Per le frane: R. Almagià, Studi geografici sulle frane in Italia, Roma 1907-10 (voll. 2). - Per i ghiacciai quaternarî e attuali: T. Taramelli, L'epoca glaciale in Italia, in Atti della Società italiana progresso scienze, IV (1910), pp. 235-75; C. Porro, Elenco dei ghiacciai italiani. Monografia statistica, Roma 1925; id., Atlante dei ghiacciai italiani, Firenze 1927. Dal 1913 viene pubblicato regolarmente il Bollettino del Comitato glaciologico, che contiene anche una completa bibliografia di tutti gli scritti glaciologici italiani. - Per le coste: Portolano delle coste d'Italia, Genova 1923-32, Istituto idrografico della R. Marina (voll. 5). - Per il clima manca un'opera recente che aggiorni quella di G. Roster, Climatologia dell'Italia nelle sue attinenze con l'igiene e con l'agricoltura, Torino 1909. Si hanno tuttavia alcuni lavori di F. Eredia, Le precipitazioni atmosferiche in Italia dal 1880 al 1905, Roma 1908; I venti in Italia, Roma 1909; La temperatura in Italia, Roma 1911; lo stesso autore ha pubblicato anche tutti i dati sulle piogge anteriori al 1920. A partire da questa data ha cominciato a funzionare la rete delle stazioni climatiche e idrologiche impiantate per conto del Ministero dei lavori pubblici, del Servizio idrografico. L'attività di quest'ultimo è riassunta nel volume Il servizio idrografico italiano, pubblicato (Roma 1931) in occasione del XV Congresso internazionale di navigazione tenuto a Venezia nel settembre 1931; ivi sono pure raccolti alcuni importanti articoli sul clima e l'idrografia dell'Italia. I dati delle numerosi stazioni, a cura delle sezioni del Servizio idrografico, vengono pubblicati negli Annali idrologici (ogni anno una ventina di fascicoli). Per le acque interne, oltre alla vecchia opera di L. De Bartolomeis, Idrografia del Regno d'Italia, Torino 1864, e ai dati raccolti nei già ricordati Annali idrologici, si hanno 38 volumi di Memorie illustrative della Carta idrografica d'Italia, Roma 1888-1916. - Per i laghi: G. De Agostini, Atlante dei laghi italiani, Novara 1917, e R. Riccardi, I laghi d'Italia, in Bollettino della R. Società geografica italiana, 1925, pp. 506-87.
Per la flora: F. Parlatore, Études sur la géographie botanique de l'Italie, Parigi 1878; Adr. Fiori, Prodromo di una geografia botanica dell'Italia, ecc., Padova 1908; id. Nuova flora analitica d'Italia, Firenze 1923-29; C. J. Forsyth Mayror, Die Thyrrhenis, in Kosmos, XIII (1883); R. Pampanini, Essai sur la géographie botanique des Alpes et en particulier des Alpes sud-orientales, Friburgo 1903; A Trotter, Gli elementi balcanico-orientali della flora italiana e l'ipotesi dell'"Adriatide", in Atti R. Ist. d'Incoraggiamento di Napoli, s. 6ª, IX (1912); L. Nicotra, Adria e rispettiva flora adriatica, in Atti R. Accademia Peloritana, XXVI (1915) e XXVIII (1916); id., I superstiti della paleoflora mediterranea, in Malpighia, XXVI (1913) e XXVII (1914-15); H. Bessel Hagen, Geographische Studien über die floristischen Beziehungen des mediterran. und orientalischen Gebietes zu Afrika, Asien u. Amerika, I, in Mitt. d. Geogr. Gesellsch. in München, IX, 1 (1914); L. Buscalioni e G. Moscatello, Endemismi ed esodemismi nella flora italiana, in Malpighia, XXV (1912) e XXVI (1913); A. Béguinot, Gli aspetti e le origini della vegetazione d'Italia, in Ann. R. Università di Modena, 1927-1928; id. e Traverso, Ricerche intorno alle "arboricole" della flora italiana, in Nuovo giornale botanico italiano, n. s., XII (1905); id. e Mazza, Le avventizie esotiche della flora italiana, ecc., in Nuovo giorn. bot. ital., XVIII (1916); id. e M. Landi, L'endemismo nelle minori isole italiane ed il suo significato biogeografico, I, in Archivio botanico, VI (1930) e VII (1931); A. Béguinot, Considerazioni intorno al "Monotipismo" e sui generi monotipici della flora italiana, I in Archivio botanico, V (1929); L. Emberger, La végétation de la région méditerranéenne, ecc., in Rev. de Botanique, XLII (1930), nn. 503-04; P. Keller, Die postglaziale Entwicklungsgeschichte der Wälder von Norditalien, Berna-Berlino 1931.
Fauna: G. Colosi, La fauna d'Italia, Torino 1933.
Per la suddivisione amministrativa e regionale: O. Marinelli, La divisione dell'Italia in regioni con particolare riguardo alle Venezie, in L'Universo, IV (1923); S. Fabbri, La circoscrizione politico-amministrativa delle Provincie del Regno d'Italia, Milano 1930; Dizionario dei comuni secondo le circoscrizioni amministrative vigenti al 15 ottobre 1930, Roma 1932.
Per il movimento della popolazione esiste dal 1862 la pubblicazione annuale Movimento della popolazione secondo gli atti dello stato civile, edita a cura dell'Istituto centrale di statistica.
Antropologia: G. Nicolucci, Antropologia dell'Italia nell'evo antico e nel moderno, in Atti R. Acc. sc. fis. mat. Napoli, s. 2ª, II (1888); R. Livi, Antropometria militare, I, Roma 1896; W. Z. Ripley, The races of Europe, New York 1899; V. Giuffrida-Ruggeri, A sketch of anthropology of Italy, in Journ. R. Anthrop. Institute, XLVIII (1918); C. Pelizzola, Linee generali della distribuzione dell'altezza del cranio nella penisola italiana, in Atti Soc. ital. sc. natur., LVII (1918); G. Sergi, Italia. Le origini, Torino 1915; J. Deniker, Races et peuples de la terre, 2ª ed., Parigi 1926.
Opere sull'economia italiana: P. Maestri, Italia economica, Firenze-Roma 1867-73, voll. 5; G. Sensini, Le variazioni dello stato economico d'Italia nell'ultimo trentennio del sec. XIX, Roma 1904; B. King e T. Okey, L'Italia d'oggi, 2ª ed., Bari 1904; Movimento economico dell'Italia, a cura della Banca Commerciale Italiana (a partire dal 1909, annuale); R. Bachi, L'Italia economica (annuale, dal 1909 al 1920); P. Lanino, La nuova Italia industriale, Roma 1916-17; L'economia italiana nel suo divenire durante l'ultimo venticinquennio e nelle sue condizioni attuali, voll. 2 Milano 1921; G. Mortara, Prospettive economiche, Milano, pubblicazione annuale (dal 1921); V. Porri, L'evoluzione economica italiana nell'ultimo ciquantennio, Roma 1926; C. E. Ferri, Aspetti economici della vita italiana, Milano 1927; Atlante della produzione e dei commerci, Novara 1930; E. Corbino, Annali dell'economia italiana, Napoli 1931-33 (tre volumi finora pubblicati per il periodo 1861-1890). Principali pubblicazioni statistiche: Annuario statistico italiano (iniziato nel 1878), annuale; Bollettino mensile di statistica, mensile (dal novembre 1926).
Per i prodotti del suolo, allevamento e pesca, miniere: G. De Angelis d'Ossat, La carta dei terreni agrari d'Italia, in Boll. Soc. geol., 1928, pp. 275-90; Superficie territoriale e superficie agraria e forestale dei comuni del Regno d'Italia al 1° gennaio 1913, Roma 1913; Catasto agrario del Regno d'Italia, Roma 1911-1915 (5 fascicoli); è in corso la pubblicazione del nuovo Catasto, con i dati relativi al 1929; Bollettino mensile di statistica agraria e forestale (dal 1928); per il periodo anteriore: Annali di agricoltura (1870-79) e Notizie periodiche di statistica agraria. Annuario dell'agricoltura italiana, Roma 1930; T. Virgilii, L'Italia agricola odierna, Milano 1930; L'Italia agricola (rivista mensile; settanta annate fino al 1933); A. Buongiorno, Le bonifiche in Italia nei riguardi geofisici, storici, tecnici ed economici, Roma 1927; H. Bernhard, Die landbauliche Wasserwirtschaft, Berna 1919; Le irrigazioni in Italia, Roma 1931; Italia forestale, Firenze 1926; C. Manetti, Geografia zootecnica italiana, Catania 1928; La pesca in Italia, Roma 1931, voll. 3; Rivista del servizio minerario (annuale).
Per le industrie: Censimento commerciale e industriale al 15 ottobre 1927, Roma 1929-32, voll. 8; L'industria italiana, Roma 1929; E. Corbino, serie di articoli sulle varie industrie nella rivista L'Ingegnere (1930); R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Bari 1931.
Per il commercio: Movimento commerciale del Regno d'Italia (annuale); Statistica del commercio speciale di importazione e di esportazione (mensile); Le esportazioni italiane negli anni 1911-13 e 1923-27, Roma 1928.
Per la distribuzione e densità della popolazione: G. Beloch, La popolazione d'Italia nei secoli XVI, XVII e XVIII, Firenze 1888; Censimenti generali della popolazione del regno per gli anni 1861, 1871, 1881, 1901, 1911, 1921, 1931; E. Raseri, Atlante di demografia e geografia medica d'Italia, Roma 1906; G. Mortara, La popolazione delle grandi città italiane, Torino 1908; Annuario statistico delle città italiane, Roma, anno VII, 1929; F. Coletti, La popolazione rurale in Italia e i suoi caratteri demografici, psicologici e sociali, Piacenza 1925; M. Haberlandt, Die Bevölkerung der italienischen Halbinsel, in G. Buschan, Illustrierte Völkerkunde, vol. II, 1925; P. Biasutti e altri, Ricerche sui tipi degli insediamenti rurali in Italia, in Mem. della R. Soc. Geografica italiana, XVII, Roma 1932.
Per l'emigrazione e le migrazioni interne: Statistica dell'emigrazione italiana per l'estero (biennale; cessa col 1920); L'emigrazione italiana dal 1910 al 1923, Roma 1926; Annuario statistico dell'emigrazione italiana dal 1876 al 1925 con notizie sull'emigrazione negli anni 1869-75, Roma 1926; Bollettino dell'emigrazione (mensile, cessa col 1928); Le migrazioni interne in Italia. Dati statistici (annuale, dal 1928).
Per le ferrovie: Sviluppo delle ferrovie italiane dal 1839 al 31 dicembre 1927, Roma 1928, e la Relazione annuale del Ministero delle comunicazioni. L'intera rete stradale, le ferrovie in servizio, le linee di navigazione sono segnate nella Carta itineraria del Regno d'Italia alla scala 1 : 300 mila (in 29 fogli) dell'Istituto geografico militare. Per le strade si veda pure la Guida itineraria delle strade di grande comunicazione, Milano, Touring Club Italiano, 1927-30, voll. 4. Per la navigazione e porti: Movimento della navigazione del Regno d'Italia (annuale); Monografia storica dei porti dell'antichità nella Penisola italiana e nell'Italia insulare, Roma 1905; G. Ricci, I grandi porti marittimi d'Italia, Roma 1931. E per la navigazione interna: La navigazione interna dell'Alta Italia, Roma 1931. - Per la marina mercantile v.: Inchiesta parlamentare sulla marina mercantile 1881-1882, voll. 7, Roma 1881-83; G. Roncagli, L'industria nei trasporti marittimi, in Cinquant'anni di storia italiana, Milano 1911; C. Supino, La marina mercantile italiana, Bologna 1919; Sulle condizioni della marina mercantile italiana. Relazione del Direttore generale della marina mercantile a S. E. il Ministro delle Comunicazioni, Roma 1926; G. Ingianni, Navigazione e traffici, in Mussolini e il fascismo, Roma 1929; L. Fea, La marina mercantile moderna, in Rivista marittima, settembre 1931; N. Albini, Il problema dei cantieri navali, in Riforma sociale, luglio agosto 1932; M. W. Van de Velde, La marina mercantile italiana, Milano e Roma 1933. - Per le poste, telegrafi, telefoni, v. le Relazioni annuali pubblicate dal Ministero delle comunicazioni.
ORDINAMENTO.
Ordinamento politico (p. 774); Il Re (p. 775); Il governo (p. 775); Il Gran Consiglio del fascismo (p. 775); Il parlamento (p. 775); Il Partito nazionale fascista (p. 776); Potere giudiziario (p. 776); Ordinamento corporativo (p. 776); Amministrazioni locali (p. 777). - Forze armate: Esercito (p. 777); Marina militare (p. 779); Aviazione militare (p. 781). - Finanze: Le finanze dell'Italia dal 1914 (p. 782); Bilanci e debito pubblico (p. 784); Moneta e credito (p. 785). - Educazione: Ordinamento scolastico (p. 785); Istituti scientifici e culturali (p. 789). - Dominî coloniali (p. 790).
Ordinamento politico.
Lo stato italiano ha assunto il nome di Regno d'Italia per la legge 17 marzo 1861, n. 4671, che ha conferito al re Vittorio Emanuele II e ai suoi successori il titolo di re d'Italia. Tuttavia, secondo l'opinione prevalente fra i giuristi, esso non si deve ritenere come uno stato nuovo, formatosi in seguito alla fusione dei varî stati prima esistenti nella penisola, ma come la continuazione del Regno di Sardegna, che di mano in mano ha allargato i proprî confini con successive annessioni.
Questo spiega perché la costituzione fondamentale dell'Italia sia tuttora lo statuto elargito dal re Carlo Alberto ai popoli del Regno Sardo il 4 marzo 1848, che si è venuto estendendo successivamente ai territorî annessi senza bisogno di leggi apposite, ma con una semplice pubblicazione, che in qualche provincia, ad esempio l'Umbria, non è nemmeno avvenuta. Redatto sulla carta francese del 1830, a sua volta informata agli ordinamenti inglesi, lo statuto, pure essendo una costituzione elargita dal monarca, è, per il suo contenuto, una vera legge. Anzi, nel suo preambolo, esso è qualificato "legge fondamentale, perpetua e irrevocabile della monarchia".
Tuttavia, nonostante queste due ultime qualifiche, lo statuto non è da ritenere affatto immutabile. Invero non solo le norme dello statuto possono venir meno o modificarsi in forza di consuetudini, come è di fatto avvenuto per talune di esse, ma possono anche essere, e sono state in più punti modificate dal parlamento, non essendosi mai ritenuto necessario, per far questo, creare un apposito potere costituente o una procedura speciale per la riforma della costituzione o per le cosiddette leggi costituzionali (salvo ora l'obbligo per il governo, sancito dalla legge sul Gran Consiglio del fascismo, di chiedere il parere del Gran Consiglio stesso sui progetti di legge relativi a parecchie materie che toccano lo statuto). L'italiana non è dunque una costituzione rigida, ma elastica.
Non tutto, quindi, il diritto pubblico italiano è compreso nello statuto: molte leggi importantissime e fondamentali, che hanno dato nuovo assetto a istituti costituzionali o altri ne hanno creati, si sono aggiunte: basti citare quelle sul capo del governo, sul Gran Consiglio del fascismo, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, sull'ordinamento corporativo, ecc. La trasformazione più profonda nelle istituzioni costituzionali è stata portata, dopo lo statuto, dall'avvento del fascismo al potere. Se la forma non ne è stata sostanzialmente modificata, grandissima è invece stata la trasformazione intima, poiché sono mutate la concezione e la struttura sociale su cui si basava in passato la costituzione italiana.
Anzitutto, ripudiando i principî fondamentali del liberalismo democratico, il fascismo ha sostituito allo stato astrazione lo stato come concreta manifestazione di volontà, di potenza e di autorità, di fuori del quale non possono esistere né individui, né gruppi ed ha rafforzato il prestigio e i poteri del governo e del primo ministro. Ancora, il fascismo ha portato nella vita pubblica un elemento originale e potentissimo, quello corporativo, in quanto alle concezioni liberale e socialista del diritto degl'individui e delle classi isolate nello stato (che rendevano possibile una loro attività antistatale o almeno extrastatale), ha sostituito quella tipicamente fascista del diritto degl'individui e delle classi solo in quanto parti della nazione organizzata sulla base corporativa e ha creato un sindacalismo nazionale, dando agli enti sindacali facoltà normative e tributarie, nonché la rappresentanza dei rispettivi gruppi sociali, che si manifesta e opera anche nella formazione di organi amministrativi e politici e raggiunge la sua più significativa espressione nel concorso alla formazione della Camera dei deputati. Così, con la Carta del lavoro, il fascismo ha posto un nuovo fondzmento alla nazione concepita come un solido fascio di forze produttive, e, con il Consiglio nazionale delle corporazioni, ha creato un organo centrale di controllo e di direzione della vita economica e sociale dello stato.
Il re. - Il primo organo costituzionale del vigente ordinamento politico italiano è la corona, costituito da una sola persona fisica, il re, che ripete il suo ufficio direttamente dalla costituzione ed esercita poteri dello stato in nome e per conto dello stato. Il trono è ereditario secondo la legge salica, interpretata nel senso che sono escluse le donne e si dà la preferenza alla linea discendente sulla collaterale e nella stessa linea al primogenito. Sono ammessi alla successione solo i discendenti legittimi e sempre che appartengano alla dinastia regnante, cioè alla famiglia reale. Il passaggio della corona si opera ipso iure al momento della morte. Il re, salendo al trono, presta, in presenza delle camere riunite, il giuramento di osservare lealmente lo statuto. La persona del re è rivestita di alcuni diritti speciali, costituenti speciali prerogative (v. re; lista civile). Quando il re si trovi nell'impossibilità fisica o giuridica di esercitare i poteri della corona, si fa luogo all'istituto della reggenza (v.). La consuetudine ha ammesso l'istituto della luogotenenza (v.), consistente in una delega provvisoria, fatta dal re stesso a una persona, di tutti o parte dei poteri regi, di solito quelli relativi ad affari correnti.
Il re è l'organo supremo dello stato italiano: è "il capo supremo dello stato" (art. 5 dello statuto), di cui rappresenta l'unità. Nell'attività legislativa, al re spetta l'iniziativa delle leggi, la loro sanzione e la promulgazione; nell'amministrativa, egli è l'organo costituzionale essenziale del potere esecutivo; nella giurisdizionale, la giustizia emana dal re ed è amministrata in suo nome dai giudici ch'egli istituisce (art. 68 dello statuto). Al re inoltre compete il diritto di grazia.
Il re nomina i senatori, convoca il collegio elettorale nazionale, apre e chiude o proroga le sessioni parlamentari e nomina a tutte le alte cariche dello stato. Al re spetta il comando di tutte le forze militari e quindi il potere di chiamare alle armi i cittadini sia per leva sia per mobilitazione e di provvedere all'organizzazione delle forze militari, per quanto di fatto l'effettiva organizzazione delle forze stesse rientri nelle attribuzioni del governo e il capo di Stato maggiore generale sia alla diretta dipendenza del capo del governo. Il re rappresenta lo stato nei rapporti internazionali, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, di alleanza, di commercio (art. 5 dello statuto). Il re è quindi il sovrano: questa posizione, però, del re non pone gli altri organi costituzionali dello stato in una condizione di subordinazione di fronte a lui. Ciò sarebbe incompatibile col carattere costituzionale di quegli organi: ma egli ha una competenza più larga degli altri organi, perché partecipa a tutti i poteri fondamentali dello stato e ha una preminenza, che però sugli organi costituzionali è solo di forma. Inoltre nessuna attribuzione può essere esercitata dalla corona senza il concorso di un altro organo dello stato, normalmente di un ministro.
Il governo. - L'art. 1 della legge 24 dicembre 1925, n. 2263, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, dispone: "Il potere esecutivo è esercitato dal re per mezzo del suo governo. Il governo del re è costituito dal primo ministro segretario di stato e dai ministri segretarî di stato. Il primo ministro è capo del governo". La legge citata ha mutato fondamentalmente sia la forma del governo, sia la posizione del primo ministro. Secondo l'applicazione che fin dal 1848 si era sempre data agli articoli dello statuto relativi ai ministri (non vi si parlava né di ministero come ente collegiale, né del presidente del Consiglio), il governo aveva senz'altro assunto in Italia la forma tipicamente parlamentare perché il ministero, per quanto nominato dal re, era considerato quasi un comitato della maggioranza parlamentare e non poteva restare al potere se gli veniva meno la fiducia del parlamento. Il presidente del Consiglio aveva una posizione di preminenza sugli altri componenti del ministero, in quanto egli rappresentava il governo e ne manteneva l'unità d'indirizzo politico e amministrativo, e in genere aveva compiti di direzione e coordinamento, ma era anch'esso subordinato al parlamento. Per la citata legge del 1925 il capo del governo, presidente di diritto del Gran Consiglio del fascismo, è il solo responsabile dell'indirizzo generale politico del governo. Il capo del governo è responsabile direttamente e personalmente verso il re e i ministri lo sono verso il re e verso il capo del governo per tutti gli atti e provvedimenti dei loro ministeri (art. 2). Ogni responsabilità politica del capo del governo e dei ministri verso il parlamento è quindi venuta meno. La preminenza del governo sulle camere risulta pure da altre disposizioni della legge sul primo ministro, dirette a rafforzare la posizione del governo e a difenderlo contro l'abuso di discussioni o mezzi procedurali, come quella per cui nessun oggetto può ora essere posto all'ordine del giorno di una delle due camere, senza l'adesione del capo del governo.
Quanto alle attribuzioni del governo, la legge del 31 gennaio 1926 gli ha riconosciuto la facoltà di "emanare norme giuridiche aventi valore di legge, con decreto reale nei casi straordinarî, nei quali ragioni di urgente e assoluta necessità lo richiedano". Il primo ministro capo del governo in tale sua specifica qualità controfirma la propria nomina, propone al re la nomina e la revoca degli altri ministri e dei sottosegretarî di stato, dirige e sorveglia l'opera dei ministri, decide delle controversie che possano sorgere tra loro. Da lui dipendono direttamente alcuni organi o corpi amministrativi. È presidente del Consiglio nazionale delle corporazioni. Ad altre attribuzioni partecipano collegialmente tutti i membri del governo, che costituiscono così il Consiglio dei ministri, che è però sempre convocato e presieduto dal primo ministro: ad esso può essere chiamato ad assistere, con decreto reale, su proposta del capo del governo, il segretario del Partito nazionale fascista. Le materie di competenza del Consiglio dei ministri sono quelle relative ai disegni di legge, ai regolamenti generali, ai rapporti internazionali, alla nomina e revoca dei funzionarî più elevati, ecc. La presidenza del consiglio non ha un proprio ministero, ma ha un sottosegretario di stato e un gabinetto. Ogni ministro poi ha le sue competenze speciali, come capo di una parte dell'amministrazione, cioè di un ministero, il cui numero, costituzione e attribuzioni sono stabilite con decreto reale su proposta del primo ministro. Attualmente i ministeri sono tredici: Affari esteri, Interno, Colonie, Grazia e giustizia, Finanze, Guerra, Marina, Aeronautica, Educazione nazionale, Lavori pubblici, Agricoltura e foreste, Comunicazioni, Corporazioni. Di regola, ogni ministro ha la direzione di un solo ministero e, solo eccezionalmente e temporaneamente, di più d'uno di essi. Al primo ministro può invece essere affidata la direzione stabile di più ministeri. A fianco d'ogni ministro si hanno uno o più sottosegretarî di stato, che lo coadiuvano: essi non hanno attribuzioni proprie, ma solo quelle loro delegate dal ministro rispettivo.
Il Gran Consiglio del fascismo. - Accanto al governo del re e subito dopo di esso, ha preso posto, fra gli organi costituzionali dello stato italiano, il Gran Consiglio del fascismo che "coordina ed integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell'ottobre 1922" (art. 1 della legge 9 dicembre 1928, n. 2693, modificato da quella 14 dicembre 1929, n. 2099). Esso è organo di collegamento fra partito e stato, e dei diversi organi costituzionali statali fra loro. Il Gran Consiglio s'inserisce nel potere esecutivo, accanto al governo del re, sebbene abbia attribuzioni che interessano anche il potere legislativo, pur non facendone parte integrante. Grandissima è l'autorità del Gran Consiglio, che gli viene dal fatto di essere presieduto dal capo del governo e dal modo della sua formazione: esso rappresenta tipicamente la fusione del partito nello stato, ed è lo strumento maggiore per armonizzare i bisogni della nuova società nazionale, plasmata dal fascismo, con le istituzioni politiche: esso è il supremo organo consultivo politico della corona e del governo. Il Gran Consiglio del fascismo è presieduto dal capo del governo: suo segretario è il segretario del Partito nazionale fascista. Per la composizione del Gran Consiglio e altri particolari v. consiglio, XI, pp. 196-197.
Il parlamento. - Accanto alla Corona e agli altri organi costituzionali, l'ordinamento politico italiano ha posto il Senato e la Camera dei deputati: ha adottato, cioè, come la maggior parte degli stati moderni, il sistema bicamerale, perché le due camere possano equilibrarsi e integrare meglio la rappresentanza politica e, nello stesso tempo, perché l'opera legislativa sia più ponderata e perfetta. Ciò naturalmente importa che le due camere, che, nonostante siano designate spesso con la parola comprensiva "parlamento", sono organi separati, indipendenti l'uno dall'altro e non subordinati, siano formate in modo diverso. Rinviando per maggiori particolari alle voci rispettive (camera; senato), è bene chiarire qui questi punti: il Senato, di nomina regia, è rimasto immutato nella sua forma, nelle sue linee essenziali e nel suo funzionamento, quale fu creato dallo statuto; la Camera dei deputati, elettiva, ha invece subito una profonda trasformazione; la posizione costituzionale del parlamento poi, nei suoi rapporti con il governo, si è essenzialmente modificata, come si è detto parlando del governo.
Le camere sono organi dello stato, ma non sono persone giuridiche: sono organi essenzialmente legislativi, in quanto la loro competenza ordinaria è di cooperare alla funzione legislativa; hanno però anche funzioni di carattere amministrativo (specialmente per la propria organizzazione interna, ma anche in altre materie, ad esempio nell'emanare le leggi relative alla dotazione della Corona e agli appannaggi dei principi reali, alle mutazioni nelle circoscrizioni amministrative, all'approvazione dei bilanci, atti tutti che sono sostanzialmente atti amministrativi), e il Senato ha anche attribuzioni di carattere giudiziario. Godono d'autonomia per la quale hanno facoltà di determinare per mezzo di regolamenti interni il modo d'esercizio delle loro attribuzioni. Però tale autonomia ha limiti costituzionali: anzitutto nei poteri della Corona, che deve mantenere il coordinamento tra i varî organi dello stato e dalla quale solo dipende il determinare i periodi di effettivo lavoro parlamentare, cioè di aprire e chiudere le sessioni (che ormai, in pratica, coincidono con le legislature): quindi, tranne in caso di semplice aggiornamento dei lavori per determinate ricorrenze o per l'esaurimento dell'ordine del giorno, il funzionamento di entrambe le camere è subordinato alle disposizioni della Corona; inoltre i lavori delle due camere debbono compiersi entro la stessa sessione e ogni riunione di una camera fuori di questo periodo è illegale e gli atti ne sono interamente nulli. Con la chiusura della sessione o legislatura, la Corona determina il decadere di tutto il lavoro parlamentare che sia ancora pendente innanzi alle camere. Un limite di fatto è costituito, poi, dall'obbligo che le camere hanno, per assicurare la vita stessa dello stato, di approvare ogni anno i bilanci. Inoltre l'autonomia delle camere trova dei limiti nei poteri del capo del governo, come si è visto a suo luogo. L'autonomia quindi va intesa piuttosto nel senso dell'amministrazione e del reggimento interiore delle assemblee che non in quello costituzionale e politico.
La potestà legislativa, secondo l'art. 3 dello statuto, è esercitata collettivamente dal re e dalle due camere. Per l'art. 10, l'iniziativa delle leggi spetta al re, che la esercita per mezzo del governo, e a ciascuna camera, ed essa può esercitarsi da qualsiasi senatore o deputato. Vi sono a tale diritto d'iniziativa due limiti: per disegni e proposte di legge di carattere costituzionale occorre il preventivo parere del Gran Consiglio del fascismo, e, come si è detto, nessuna proposta di legge può essere messa all'ordine del giorno di una camera senza la preventiva adesione del capo del governo. Un disegno di legge può essere dal governo presentato indifferentemente all'una o all'altra camera, ma, per l'art. 10 dello statuto, le leggi che riguardano imposizione di tributi (e quindi anche emissioni di prestiti) e approvazioni di bilanci e di conti (v. bilancio) debbono essere prima presentati alla Camera dei deputati. Il re partecipa al potere legislativo anche e principalmente con la sanzione, cioè con l'approvazione del disegno di legge, la quale si verifica con la apposizione della firma del sovrano. Essa è un atto giuridicamente libero, in quanto il re potrebbe anche negarla. Divenuta perfetta la legge con la sanzione, il re, come organo supremo del potere esecutivo, provvede a promulgarla, a renderla cioè esecutiva e obbligatoria, ordinandone la pubblicazione, che è compiuta dal ministro della Giustizia. Nel promulgare le leggi costituzionali, è prescritta l'esplicita indicazione che il Gran Consiglio del fascismo ha espresso il suo parere.
Accanto alla funzione legislativa, le camere hanno anche quella che alcuni chiamano funzione ispettiva politica, per mezzo della quale esercitano un controllo sull'azione di governo; essa si estrinseca nelle interrogazioni verbali e scritte, nelle interpellanze, nelle mozioni e nel diritto d'inchiesta. Sembra però più consono ai rapporti attuali tra i poteri in Italia il ritenere tali istituti, piuttosto che estrinsecazione di una funzione ispettiva, mezzi che le camere hanno per ottenere notizie e comunicazioni. Una vera forma di controllo politico e finanziario in relazione con il bilancio è piuttosto quella che il parlamento esercita sulle registrazioni con riserva effettuate dalla Corte dei conti (v. corte, XI, p. 543 segg.).
Il Partito nazionale fascista. - In connessione con il Gran Consiglio del fascismo, va rilevata la posizione che nel diritto pubblico italiano è andato assumendo il Partito nazionale fascista. Prima della rivoluzione del 1922, esso rappresentava un'organizzazione politica fuori dello stato, che mirava a conquistare il governo dello stato per attuarvi il proprio programma. Ma, assunto il fascismo al potere, il partito si è inserito nello stato è entrato a far parte dell'organizzazione statale come forza propulsiva delle fondamentali manifestazioni della vita nazionale. Esso oramai, conservando il nome di partito, si è trasformato in un'istituzione sussidiaria dello stato, a questo subordinata: cioè, come è stato qualificato, in un "ausiliario dello stato".
Di questo riconoscimento giuridico del partito molte sono le prove. Lo statuto del partito è approvato con decreto reale (lo statuto vigente è stato approvato con r. decreto 17 novembre 1932, n. 1456); il segretario del partito è nominato per decreto reale e i membri del direttorio con decreto del capo del govemo; il segretario del partito può essere chiamato a partecipare alle sedute del Consiglio dei ministri; è, fra l'altro, membro di diritto della Commissione suprema di difesa, del Consiglio superiore dell'educazione nazionale, del Consiglio nazionale delle corporazioni e del Comitato centrale corporativo; egli, e i suoi vice-segretarî, fanno parte del Gran Consiglio. Egli ne è il segretario; designa alcuni membri della giunta provinciale amministrativa e di altri enti pubblici; nelle precedenze a corte sono assegnati posti di rango a cariche del partito; a tutti gli enti, associazioni e istituti promossi dal partito può essere riconosciuta la capacità giuridica, che, fra l'altro, è stata riconosciuta alla direzione del partito; il fascio littorio è considerato, a tutti gli effetti, emblema dello stato ed è stato incluso nello stemma dello stato.
Ecco dunque che, se il partito nel suo complesso non può considerarsi persona giuridica, né pubblica, né privata, né organo vero e proprio dello stato, è indubbiamente un'istituzione pubblica riconosciuta dallo stato e integrativa dell'azione di questo.
Potere giudiziario. - Quanto al potere giudiziario, rinviando alla voce giudiziario, ordinamento, basterà qui n0tare che l'art. 68 dello statuto dispone che "la giustizia emana dal re ed è esercitata in suo nome dai giudici che egli istituisce". Però ciò va inteso solo nel senso formale: in sostanza i giudici esercitano le loro funzioni indipendentemente da ogni delegazione regia: il potere giudicante è un potere costituzionale, che trae la sua origine direttamente dalla legge. Non solo per lo statuto, ma anche, per la legge citata 31 gennaio 1926, n. 100, solo la legge può disciplinare l'ordinamento giudiziario e la competenza dei giudici. Per quel che riguarda i rapporti fra i varî poteri, nel nostro diritto il magistrato non può sindacare la costituzionalità delle leggi e dei decreti legislativi o dei decreti legge: può invece esaminare la legalità dei regolamenti. Il potere governativo non può turbare l'ordine costituzionale delle giurisdizioni, né dare ordini ai giudici sul modo come risolvere le questioni loro sottoposte. Alla funzione giurisdizionale il re partecipa direttamente, con il potere di grazia spettantegli (v. estinzione: Diritto penale) non come organo del potere giudiziario, ma come organo costituzionale del governo: si tratta cioè di un potere politico.
Ordinamento corporativo. - La nuova concezione dello statonazione, la concezione corporativa, ha il suo documento nella Carta del lavoro (v. carta, IX, pag. 206 segg.), atto fondamentale del regime riconosciuta dal parlamento quale norma di diritto pubblico. La sua proposizione prima, dice: "La nazione italiana è un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori per potenza e durata a quelli degli individui, divisi o raggruppati, che la compongono. È una unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello stato fascisia". La Carta del lavoro, pur riferendosi precipuamente ai rapporti del lavoro, proclama i seguenti principî fondamentali dello stato fascista sotto l'aspetto economico e sociale: gl'interessi e le attività individuali sono subordinate all'interesse della nazione organizzata a stato; il lavoro è elevato a dovere sociale, a funzione civica; l'organizzazione sindacale o professionale è libera, ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e controllato dallo stato ha il diritto di rappresentare legalmente la sua categoria; la solidarietà fra i varî fattori della produzione si concreta nel contratto collettivo di lavoro; le corporazioni costituiscono l'organizzazione unitaria delle forze produttive; lo stato corporativo considera l'iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace ed utile all'interesse della nazione: ma essendo l'organizzazione privata della produzione una funzione d'interesse nazionale, l'organizzatore è responsabile di fronte allo stato: l'intervento dello stato nella produzione ha luogo solo quando manchi o sia insufficiente l'iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello stato. Questi concetti sono a base di quello che si chiama, con espressione sintetica ormai molto diffusa, lo stato corporativo, non nel senso che tutti i cittadini solo in tanto partecipino alla vita pubblica in quanto siano membri di corporazioni o nel senso che tutti i poteri pubblici si esplichino attraverso le corporazioni, ma nel senso che lo stato ha accolto come principio fondamentale d'organizzazione sociale il riconoscimento anche come istituzioni pubbliche delle categorie economiche e la loro partecipazione alla vita politica e amministrativa dello stato, ordinando su basi sindacali nazionali i rapporti di lavoro sotto il proprio controllo. Inoltre lo stato nell'esplicazione della propria funzione sociale ritiene di dovere esercitare il controllo della direzione della industria nazionale: e tipica importantissima e profondamente originale manifestazione di questo suo diritto è la nuova legge 12 gennaio 1933, n. 141, che ha delegato al governo i poteri per sottoporre ad autorizzazione i nuovi impianti industriali. E tale è l'importanza riconosciuta nel nuovo diritto pubblico italiano all'ordinamento sindacale e corporativo, che esso è dichiarato espressamente nella legge sul Gran Consiglio materia costituzionale (v. corporazione, XI, pp. 463-465).
Al vertice dell'ordinamento corporativo è il Consiglio nazionale delle corporazioni, il quale è alle dirette dipendenze del capo del governo, che lo presiede di diritto, come presiede del pari tutti gli organi del consiglio, ma che può delegarne la presidenza al ministro delle Corporazioni. Esso fu istituito con regio decreto 2 luglio 1926, n. 1131, come organo di pura consultazione interna presso il Ministero delle corporazioni, ma è stato radicalmente riformato nella composizione, nelle attribuzioni e nel funzionamento dalla legge costituzionale 20 marzo 1930, n. 206, e dal decreto reale 12 maggio 1930, n. 908. A quanto è detto nel citato articolo corporazione occorre aggiungere che, per l'art. 32 del decreto 12 maggio 1930, n. 908, in merito al potere normativo del consiglio è stato stabilito non potere il consiglio emanare norme su materie già disciplinate da leggi o regolamenti. Vivissima è la disputa tra i giuristi sulla natura giuridica del Consiglio nazionale delle corporazioni, specialmente sul quesito se sia o meno organo costituzionale, o puramente amministrativo, e quali siano i suoi rapporti col parlamento e col governo. Quello che si può sicuramente affermare è questo: il Consiglio nazionale delle corporazioni ha preso posto nell'ordinamento politico italiano, quale organo statale di diritto pubblico, con funzioni non solo consultive ma anche creative di norme giuridiche e con funzioni di coordinamento e di controllo su tutto l'ordinamento corporativo, alle dirette dipendenze del capo del governo che gli dà impulso e ne presiede l'attività: esso non rappresenta quindi una terza camera legislativa, né si sostituisce in modo alcuno al parlamento, poiché la sua facoltà regolamentare è subordinata alle leggi e perfino agli altri regolamenti statali, che non può modificare. Esso è una creazione originale, che non può essere paragonata agli altri consigli economici istituiti presso parecchi stati, essendo assai più ampie le sue facoltà e diversi i principî su cui si basa.
Amministrazioni locali. - Il quadro delle istituzioni che possiamo chiamare di governo si completa con l'ordinamento delle amministrazioni locali, considerato sotto i due punti di vista dell'amministrazione governativa e di quella degli enti autarchici territoriali. Si tratta, è vero, di istituti rientranti nell'organizzazione amministrativa, ma che hanno un contenuto politico di grandissimo rilievo, in quanto gl'interessi generali dello stato nell'organizzazione amministrativa vengono perseguiti non solo al centro della vita statale, ma in tutto il territorio. Lo stato è diviso in circoscrizioni territoriali, le provincie e i comuni. Nelle provincie l'organo più elevato che rappresenta il governo, è il prefetto, il quale, alle dirette dipendenze del ministro dell'Interno, assicura l'unità d'indirizzo politico nello svolgimento dei diversi servizî spettanti allo stato e agli enti locali, e coordina l'azione di tutti i pubblici uffici, amministrativi, corporativi, finanziarî, ecc. La legge 3 aprile 1926, n. 660, per l'estensione delle attribuzioni dei prefetti, ha avuto importanza fondamentale, attuando il principio organico dell'unità etica e politica dello stato, anche nelle provincie, in conformità dell'ordinamento statale del fascismo. Tuttavia il coordinamento politico affidato ai prefetti non implica invasione delle singole sfere di competenza tecnica dei varî rappresentanti delle altre amministrazioni dello stato nella provincia. Accanto al prefetto e da lui presieduti, sono, come organi consultivi o di controllo, il Consiglio di prefettura, il Consiglio provinciale di sanità, la Giunta provinciale amministrativa e il Consiglio provinciale dell'economia corporativa, istituito, in sostituzione delle antiche camere di commercio, dalla legge 18 aprile 1926, n. 731, e meglio coordinato all'ordinamento corporativo dello stato dalla legge 18 giugno 1931, n. 875. Esso, composto principalmente di rappresentanti sindacali, è l'organo unico che nella provincia rappresenta, armonizza e coordina gl'interessi economici e le forze sociali rivolte all'incremento dell'economia corporativa, dell'attività assistenziale e del progresso sociale, e che al tempo stesso esplica opera di consulenza nelle materie relative all'economia pubblica e al lavoro.
Organo statale nell'amministrazione locale è poi, nell'ambito del comune, il podestà, quale ufficiale del governo. Quanto all'amministrazione degli enti autarchici territoriali, comuni e provincie, essa nell'ordinamento politico vigente in Italia, si basa sugli stessi principî che reggono l'ordinamento statale: abolizione dell'elettorato e accentramento dei poteri nelle mani di autorità di nomina regia che siano al disopra delle passioni e degl'interessi di parte. Questo concetto è alla base della riforma degli ordinamenti comunali e provinciali. La riforma (v. comune; consulta; podestà; per il governatorato di Roma, v. roma), attuata con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, e coi decreti-legge 9 maggio 1926, n. 818, e 3 settembre 1926, n. 1910, ha mirato anche a combattere le difficili condizioni in cui versano specialmente i piccoli comuni, anche per la loro incapacità a darsi amministratori adatti. La riforma dell'amministrazione provinciale, effettuata con la legge 27 dicembre 1928, n. 2962, ha sostituito alla deputazione provinciale e al suo presidente, tutti sorgenti da elezione, un preside e un rettorato tutti di nomina regia (v. preside; provincia; rettorato).
L'ordinamento politico vigente in Italia, frutto di un'evoluzione d'istituti costituzionali accelerata dalla guerra e dal nuovo sviluppo, con l'avvento del fascismo al potere, dei rapporti politici e sociali, può riassumersi così: l'Italia è uno stato monarchico rappresentativo, con forma di governo costituzionale avente caratteristiche sue proprie, cioè governo fascista, con parlamento bicamerale, ma con la camera dei deputati che richiama le sue origini prevalentemente da organizzazioni corporative. La nazione è concepita come un blocco avente unità morale, politica ed economica, che si realizza integralmente nello stato fascista; quindi l'autorità statale è stata potentemente rafforzata: il potere esecutivo o, meglio, di governo ha una funzione preminente ed è, con la collaborazione del Gran Consiglio del fascismo, l'espressione delle forze nazionali organizzate nel partito fascista.
Bibl.: Oltre i Discorsi di B. Mussolini, cfr.: Commissione presidenziale per lo studio delle riforme costituzionali, presieduta da G. Gentile, Relazioni e proposte, Roma 1925 (2ª ed., Firenze 1932); C. Costamagna, Elementi di diritto costituzionale corporativo fascista, Firenze 1929; O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico: Il nuovo diritto pubblico italiano, 2ª ed., Padova 1931; A. Ferracciu, Norme e riforme costituzionali in Italia, in Studi di diritto pubblico in onore di O. Ranelletti, I, Padova 1931; L. Raggi, Ordinamento corporativo e stato italiano, in Studi di diritto pubblico in onore di O. Ranelletti, II, Padova 1931; G. Bortolotto, Lo stato e la dottrina corporativa, 2ª ed., Bologna 1931; S. Panunzio, Leggi costituzionali del regime. Relazione al I Congresso giuridico italiano, 1932; P. Chimienti, Manuale di diritto costituzionale fascista, Torino 1933; R. Purpura, Il Consiglio nazionale delle corporazioni, Bologna 1932; S. Romano, Corso di diritto costituzionale, 3ª ed., Padova 1932; Partito nazionale fascista, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma 1933.
Forze armate.
Esercito. - Cenno storico. - Sino dall'inizio dell'unificazione d'Italia e poi, sempre più, col procedere e col completarsi di essa, si manifestò la necessità di costituire un forte esercito "italiano". Erano disponibili per tale costituzione elementi numerosi, ma disparati e di varia efficienza; esisteva peraltro un nucleo saldo, fidato, ottimo, attorno al quale era possibile raggruppare gli altri elementi: l'esercito sardo, il quale possedeva tradizioni, ordini moderni, sistemi amministrativi sani, devozione provata alla causa italiana. Fu perciò adottato il sistema di fondere successivamente nell'esercito sardo le forze armate dei singoli stati o parti di stato che divenivano provincie del nuovo regno: contingenti cioè lombardo, toscano, emiliano, borbonico, ai quali si aggiunsero gli elementi garibaldini.
Il nucleo sardo era stato completamente riorganizzato tra il 1849 ed il 1859. Alla vigilia della campagna del 1859, il reclutamento era nazionale, tranne per la brigata Savoia. Le ferme erano due: una d'ordinanza per alcune categorie di militari di carriera, della durata di 8 anni, da passare interamente sotto le armi; una provinciale, per tutti gli altri (due categorie, determinate dall'estrazione a sorte: 1ª categoria, 5 anni alle armi e 6 in congedo illimitato, 2ª categoria, 5 anni a disposizione e istruzione di 6 settimane). L'esercito comprendeva: 91 battaglioni di fanteria, 9 reggimenti di cavalleria, 3 reggimenti d'artiglieria, 1 reggimento del genio. Lo stato era diviso in 5 divisioni territoriali (Torino, Alessandria, Liguria, Savoia, Sardegna) e 2 sottodivisioni (Novara e Nizza). Le due campagne del 1848 e 1849 avevano permesso una larga selezione di ufficiali generali e superiori, la quale, nel complesso, aveva dato buoni risultati; gli ufficiali provenivano, per due terzi, dall'Accademia militare di Torino, per il rimanente terzo dai sottufficiali; la loro carriera era ben regolata da apposite leggi. Nella campagna del 1859 l'esercito era stato costituito su 5 divisioni; all'esercito regolare si erano aggiunti molti volontarî, parte dei quali era stata incorporata nei reggimenti sardi e parte aveva formato 4 reggimenti cacciatori; con disertori e volontarî ungheresi si era formata 1 legione ungherese.
Il contingente lombardo (in parte volontario, in parte proveniente dall'esercito austriaco) fu il primo che venne ad accrescere l'esercito sardo subito dopo la campagna del 1859. Era prevalentemente costituito da elementi disciplinati e accuratamente istruiti, ma scarsamente provvisto di ufficiali. La sua ammissione consentì la nuova formazione di 6 brigate di fanteria, 6 battaglioni bersaglieri, 3 reggimenti di cavalleria, 12 batterie da campagna. Alla fine del 1859 l'esercito italiano fu così portato ad 8 divisioni.
L'esercito toscano era stato riordinato sul tipo austriaco nel 1853, quanto a reclutamento, a sistemi disciplinari e amministrativi e persino alla foggia dell'uniforme. Doveva formare, in caso di guerra contro il Piemonte, l'ala sinistra dell'esercito austriaco. La ferma era di 8 anni; il rimpiazzo era obbligatorio per gli acattolici. Comprendeva: 1 battaglione veliti (guardie), 1 battaglione cacciatori, 10 battaglioni fanteria di linea; 2 squadroni cacciatori a cavallo; 2 batterie da campagna; 1 compagnia artiglieria da piazza; 5 compagnie cannonieri guardacoste (doganieri). Per l'eventualità di guerra era previsto uno sdoppiamento delle unità (ciò che in parte avvenne durante la campagna del 1859). Dopo la campagna del 1859 il colonnello Raffaele Cadorna, piemontese, divenuto ministro della Guerra in Toscana, ebbe l'incarico di preparare la fusione dell'esercito toscano con quello dell'Italia settentrionale. Egli organizzò le truppe toscane in 4 brigate di fanteria, 2 battaglioni bersaglieri, 2 reggimenti di cavalleria, 1 reggimento artiglieria da campagna, 6 compagnie artiglieria da piazza. Le maggiori deficienze qualitative esistevano nei quadri degli ufficiali, i quali erano molto giovani anche nei gradi più elevati, in conseguenza di promozioni affrettate, più che per riconoscimento di speciali benemerenze. Immessi nell'esercito nazionale, essi costituirono perciò un elemento poco omogeneo.
Le truppe modenesi, dopo la campagna del 1859, avevano seguito il loro duca a Mantova. L'esercito emiliano fu perciò costituito con le sole truppe parmensi (1 reggimento di fanteria, 2 squadroni di cavalleria, 1 compagnia d'artiglieria), oltreché con reparti pontifici che avevano aderito alla rivoluzione di Romagna e con corpi di volontarî di varie regioni. Di tale costituzione fu incaricato il generale dell'esercito sardo Manfredo Fanti, modenese, il quale formò 7 brigate di fanteria, 9 battaglioni bersaglieri, 2 reggimenti di cavalleria, 9 batterie artiglieria da campagna, 9 compagnie artiglieria da piazza. L'ufficialità emiliana era di piovenienza diversissima; focosa, dotata di buone attitudini militari, ma non molto malleabile. Così riordinati i due eserciti centrali, la fusione tra gli stessi e l'esercito sardo fu operata dal generale Fanti, che fuse i primi nel secondo, formando, in complesso, 13 divisioni omogenee, raggruppate in 5 corpi d'armata.
L'esercito borbonico, durante la campagna del 1860, comprendeva: fanteria, 18 reggimenti, più 19 battaglioni; cavalleria, 9 reggimenti; artiglieria, 2 reggimenti a piedi, 1 battaglione operai e pontieri, 1 batteria a cavallo; genio, 2 battaglioni; guardie del corpo; fanteria marina; compagnie provinciali di veterani; numerosa gendarmeria. L'esercito era reclutato con la coscrizione sul continente, con arruolamenti volontarî in Sicilia. L'obbligo di servizio era di 10 anni, dei quali 5 di ferma; ma, in pratica, il governo, valendosi di una propria facoltà, teneva i soldati 8 anni alle armi, indi li congedava definitivamente. Gli ufficiali provenivano, in massima parte, dai sottuffciali; pochi - e questi erano ottimi - delle armi d'artiglieria e del genio, uscivano dal collegio militare della Nunziatella; il sovrano aveva inoltre facoltà di conferire il grado di ufficiale a guardie del corpo e paggi. Dopo la campagna del 1860 l'esercito borbonico, in parte accettò il nuovo stato di fatto, in parte si rifugiò in territorio pontificio; la rimanente parte capitolò all'atto dell'annessione. Tutte le classi; meno le 4 più giovani, vennero congedate. Degli ufficiali, i più preferirono ritirarsi, i rimanenti furono ammessi nell'esercito nazionale col grado che coprivano nell'esercito borbonico prima del settembre 1860.
L'esercito garibaldino, dopo la campagna del 1860, comprendeva, nominalmente, 7000 ufficiali e una forza a ruolo di circa 50.000 uomini; forza però soltanto nominale e, in realtà, inferiore. Dopo qualche tentennamento, l'esercito garibaldino fu sciolto. Alla truppa fu fatta facoltà di scegliere tra l'invio in congedo con 6 mesi di paga e la ferma di 2 anni in un corpo speciale di volontarî. I più chiesero di essere congedati; i corpi speciali di volontarî ebbero un'esistenza effimera. Degli ufficiali, circa 1500 furono ammessi nell'esercito nazionale, previo giudizio di una commissione mista di generali e volontarî. Dal concorso dei contingenti borbonici e garibaldini derivò all'esercito italiano un nuovo aumento di 3 divisioni e di 1 corpo d'armata.
Il rapido processo di questa fusione non fu scevro d'inconvenienti: specie il corpo degli ufficiali fu e rimase a lungo eterogeneo. Comunque, l'aver formato in breve un forte esercito atto a entrare in campagna, fu opera notevole, della cui riuscita va fatto onore alla solidità del nucleo fondamentale sardo e al patriottismo degl'Italiani.
Evoluzione organica sino alla guerra mondiale. - Nella campagna del 1866 l'esercito raggiunse una notevole forza (20 divisioni di fanteria, riunite in 4 corpi d'armata, 1 divisione di cavalleria). Dal 1866 al 1870 difficili condizioni finanziarie indussero a ridurre al minimo le spese per l'esercito, lasciandone in sospeso le necessarie riforme. Dal 1870 all'agosto 1914 l'esercito venne profondamente trasformato e accresciuto con successivi ordinamenti, principali quelli Ricotti 1872-1873; Mezzacapo 1877; Ferrero 1882-83; Bertolè-Viale 1887, Mocenni 1894; Pelloux 1897; Ottolenghi 1902; Spingardi 1909-1910. Dall'agosto 1914 al maggio 1915 si provvide a un' intensiva preparazione, colmando le principali lacune ancora esistenti rispetto all'ordinamento Spingardi e attuando successivi provvedimenti di mobilitazione occulta. L'esercito italiano entrò così in campagna forte di circa 23.000 ufficiali e 852.000 uomini nella composizione indicata sotto guerra mondiale, XVIII, p. 144. Durante la guerra furono complessivamente mobilitati: nell'esercito operante circa 4.200.000 uomini; nel territorio circa 840.000, per le industrie circa 860.000; in totale, circa 5.900.000 uomini.
Evoluzione organica dopo la guerra mondiale. - In attesa della definitiva sistemazione dell'esercito, veniva approvato, nel novembre 1919, un ordinamento provvisorio (Albricci) ispirato al concetto di effettuare le trasformazioni suggerite dall'esperienza bellica e tutte le riduzioni possibili in quel momento, ripartendo l'esercito in un numero di grandi unità territoriali alquanto superiore a quello prebellico (15 corpi d'armata, 30 divisioni di fanteria e 2 di cavalleria); forza bilanciata 210.000 uomini (inferiore a quella dell'anteguerra). Ulteriori riduzioni vennero attuate nell'aprile 1920 con un nuovo "ordinamento provvisorio" (Bonomi), inteso a ricondurre l'esercito a proporzioni e a forme pressoché eguali a quelle del periodo prebellico (10 corpi d'armata, 27 divisioni di fanteria, 3 divisioni alpine, 1 divisione di cavalleria; forza bilanciata 175.000 uomini). Seguì l'ordinamento 1923 (Diaz), inteso a dare all'esercito un assetto definitivo e una salda intelaiatura. Con questo ordinamento le grandi unità territoriali venivano di poco variate (10 corpi d'armata, 30 divisioni di fanteria), ma ispettorati, comandi, truppe e servizî subivano notevoli modificazioni nel numero e nella composizione organica, in relazione soprattutto alle prevedibili esigenze della mobilitazione. Nel 1926, essendo titolare del Ministero della guerra Benito Mussolini, veniva approvato un completo progetto di ordinamento (legge n. 396 dell'11 marzo) che, non sostanzialmente variato, è attualmente in vigore.
Organizzazione 1930. - Comandante supremo è il re che delega, in pace, il comando dell'esercito al ministro della Guerra. Il ministro della Guerra è membro del governo e suprema autorità gerarchica dell'esercito. Egli ha alle sue dipendenze il sottosegretario di stato alla Guerra, al quale conferisce le attribuzioni che ritiene opportune. Per l'esercizio dei suoi alti compiti, il ministro della Guerra si serve del Ministero della guerra, complesso organo centrale, composto di: 1 gabinetto del ministro, 1 ufficio coordinamento, 1 ufficio dei generali, 11 servizî (direzioni generali, ispettorati, ecc.).
Alto consulente tecnico del ministro della Guerra è il capo di Stato maggiore dell'esercito, che, alle dipendenze del ministro stesso, dirige gli studî e le predisposizioni per la preparazione alla guerra. Egli è a capo del comando del corpo di Stato maggiore, composto di varî uffici, presso il quale è coadiuvato dal comandante in 2ª del corpo di Stato maggiore e da un generale addetto. Quale organo consultivo, ai fini delle più importanti questioni relative all'organizzazione, al funzionamento, alla mobilitazione dell'esercito e alla difesa nazionale, il ministro della Guerra dispone del Consiglio dell'esercito. Dipendono infine direttamente dal ministro della Guerra e, per suo incarico, ricevono direttive dal capo di Stato maggiore dell'esercito, gl'ispettori d'arma (delle truppe celeri, delle truppe alpine, dell'artiglieria, del genio), i quali sovraintendono all'istruzione, agli studî, alle esperienze relative all'arma o alle specialità rispettive; i comandanti designati d'armata che eseguono gli studî e dirigono le predisposizioni per l'organizzazione della zona di territorio loro assegnata e per la preparazione alla guerra di un'armata.
Ordinamento. - L'esercito comprende: una parte metropolitana e una parte coloniale. La prima è alle dipendenze del Ministero della guerra, che provvede alla spesa relativa; la seconda è alle dipendenze, per l'impiego, del Ministero delle colonie, che vi provvede col proprio bilancio. L'ordinamento della parte metropolitana è stabilito dalla legge 11 marzo 1926, n. 396 e successive aggiunte e varianti; l'ordinamento della parte coloniale è mutevole a seconda delle esigenze delle singole colonie.
La forza bilanciata in cifre arrotondate, per la parte metropolitana, è la seguente (esclusi i carabinieri reali): ufficiali in servizio permanente effettivo 15.000; sottotenenti di complemento di prima nomina 3000; sottufficiali 13.500; truppa 220.000, di cui 162.000 a ferma ordinaria e 78.000 a ferma riducibile. Per i carabinieri la forza bilanciata è di ufficiali 1100, sottufficiali e truppa 50.000. Il bilancio del Ministero della guerra 1930-31 prevede spese effettive per 2853 milioni di lire (2652 per la parte ordinaria e 201 per la parte straordinaria), di cui 455 milioni per i carabinieri reali.
Il personale militare dell'esercito è costituito di ufficiali, sottufficiali, truppa, la cui gradazione gerarchica è la seguente:
Generali: Maresciallo d'Italia (grado conferito esclusivamente per azioni di guerra). Generale d'armata (grado conferito esclusivamente in guerra o in caso di mobilitazione parziale o totale). Generale di corpo d'armata comandante designato d'armata. Generale di corpo d'armata. Generale di divisione, tenente generale d'artiglieria, del genio, medico, commissario, del servizio tecnico automobilistico. Generale di brigata; maggior generale d'artiglieria, del genio, medico, commissario del servizio tecnico automobilistico.
Superiori: Colonnello. Tenente colonnello. Maggiore.
Inferiori: Capitano. Tenente. Sottotenente; sottotenente maestro direttore di banda; sottotenente maestro di scherma. Aspirante (grado conferito durante la guerra mondiale e mantenuto per alcune categorie di militari che non hanno potuto conseguire la nomina a sottotenente).
Aiutante di battaglia (grado conferibile per merito di guerra a sottufficiali e militari di truppa delle armi combattenti). Maresciallo maggiore; maresciallo d'alloggio maggiore dei carabinieri reali. Maresciallo capo; maresciallo d'alloggio capo dei carabinieri reali. Maresciallo ordinario; maresciallo d'alloggio ordinario dei carabinieri reali. Sergente maggiore; brigadiere dei carabinieri reali. Sergente; vice-brigadiere dei carabinieri reali.
Caporale maggiore; appuntato dei carabinieri reali. Caporale; carabiniere. Appuntato; soldato; allievo carabiniere.
La parte metropolitana dell'esercito consta dei seguenti elementi:
1. Corpo di Stato maggiore: è costituito degli ufficiali di Stato maggiore (350 dei varî gradi, da colonnello a capitano). 2. Arma dei carabinieri reali (v. carabiniere). 3. Scuole militari: preparatorie (2 collegi militari); di reclutamento per ufficiali (R. Accademia di fanteria e cavalleria; R. Accademia d'artiglieria e genio; 10 scuole allievi ufficiali di complemento); di reclutamento per sottufficiali (3 scuole allievi sottufficiali); di applicazione (scuola d'applicazione di fanteria, scuola d'applicazione di cavalleria, scuola d'applicazione di artiglieria e genio, scuola d'applicazione di sanità militare); di perfezionamento (scuola centrale di fanteria, scuola centrale d'artiglieria, scuola centrale del genio, scuola centrale di educazione fisica, scuola di guerra). 4. Armi di fanteria, di cavalleria, d'artiglieria, del genio, carri armati. 5. Servizio chimico militare, retto da un generale con organi di studio e di esperienza. 6. Distretti militari (105, più una sezione di distretto), i quali provvedono essenzialmente alla chiamata e all'assegnazione ai corpi delle reclute, a tenere a ruolo la forza in congedo (ufficiali inferiori, sottufficiali e truppa). 7. Corpo sanitario militare: consta di ufficiali medici (866) e chimici farmacisti (117) e provvede, col concorso delle truppe di sanità, al servizio sanitario (v. sanità militare). 8. Corpo di commissariato militare: comprende ufficiali commissarî (262) e di sussistenza (152), e provvede, col concorso delle compagnie di sussistenza, al servizio di commissariato (v. commissariato militare). 9. Corpo di amministrazione militare: è formato da ufficiali di amministrazione (939) e provvede al servizio amministrativo. 10. Corpo veterinario militare: consta di ufficiali veterinarî (176); provvede al servizio veterinario. 11. Servizio automobilistico militare (v. carreggio). 12. Istituto geografico militare, il quale provvede, essenzialmente, al servizio cartografico per le forze amiate dello stato (v. firenze: Istituti di cultura). 13. Tribunale supremo militare e tribunali militari (v. tribunale militare). 14. Reparti di correzione e stabilimenti militari di pena: hanno lo scopo di educare e riabilitare gl'individui in essi incorporati e comprendono 1 comando, 2 compagnie di disciplina, 12 carceri militari preventive, 3 reclusorî militari, 3 carceri militari.
L'esercito è ordinato in: 1 comando del corpo di Stato maggiore, retto dal capo di Stato maggiore dell'esercito; 4 comandi, designati d'armata; 11 corpi d'armata territoriali; truppe della Sicilia; truppe della Sardegna; 29 divisioni militari territoriali; 2 divisioni celeri. Presso i comandi di divisione militare territoriale e delle truppe della Sardegna sono istituiti 30 ispettorati di mobilitazione. Le grandi unità territoriali comprendono: 1 comando, truppe e servizî in misura variabile.
Per la parte coloniale v. colonia: Le truppe coloniali.
Reclutamento. - Si basa sul principio fondamentale dell'obbligo generale e personale di servizio militare. In applicazione di tale principio, ai cittadini sono fatti i seguenti obblighi militari: a tutti l'obbligo di leva; ai cittadini arruolati e chiamati: obblighi di servizio militare, ch'essi adempiono alle armi e in congedo illimitato. Le operazioni di leva avvengono tra l'anno in cui il giovane compie il 18° anno e quello in cui egli compie il 20° anno.
Le fasi di adempimento dell'obbligo di servizio militare sono le seguenti: anno in cui il giovane compie il 21° anno e successivi: prestazione del servizio alle armi; dal termine del servizio alle armi al 31 dicembre dell'anno in cui il militare compie il 55° anno d'età congedo illimitato, durante il quale è assunto in forza e tenuto a ruolo dal distretto militare di residenza stabile. In tale periodo esso ha l'obbligo di tenere costantemente al corrente l'autorità militare circa la sua residenza, di rispondere a chiamate di controllo, nonché a richiami alle armi per istruzioni o per altre eventuali esigenze. Dopo il compimento del 55° anno di età, i militari sono collocati in congedo assoluto, e vengono prosciolti da ogni obbligo militare.
Il principio dell'obbligo generale e personale non è applicato in modo rigidamente assoluto; ciò nell'interesse dell'esercito, della società, della famiglia, del bilancio. Il testo unico delle leggi sul reclutamento prevede: esclusione degl'indegni (condannati all'ergastolo e alla reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici); esenzioni per inabilità fisica e intellettuale; dispense provvisorie e definitive, a vantaggio degli arruolati residenti all'estero e nelle colonie, di ministri della religione cattolica di individui limitatamente idonei al servizio militare, ecc., temperamenti, consistenti in: riduzioni (ferme più brevi di quelle ordinarie, congedamenti anticipati), rinvii a chiamate successive, ritardi sino al compimento del 26° anno (studenti in determinate condizioni).
La ferma è di due specie: di leva, quando il cittadino è chiamato alle armi d'autorità; speciale quando il cittadino si sottopone al servizio per propria elezione. Le ferme di leva sono: la ferma ordinaria, di mesi 18; la ferma riducibile, non inferiore a 6 mesi; la ferma minima di 3 mesi. La legge di reclutamento dispone tassativamente quali iscritti di leva debbono essere ascritti alle singole ferme predette. Le ferme speciali sono di durata varia, da mesi 6 a 3 anni, per categorie di volontari determinate dalla legge.
Provvedono alla chiamata i distretti militari, mediante invio di cartoline-precetto alle singole reclute e pubblicazione di apposito manifesto. Le reclute dichiarate fisicamente idonee dai consigli di leva, si presentano ai distretti militari che le sottopongono a una nuova visita medica, le assegnano (in base a "tabelle numeriche di assegnazione" compilate dal Ministero della guerra) definitivamente ai corpi presso i quali debbono prestare servizio e le avviano ai corpi stessi. Presso i corpi le reclute subiscono un'ultima visita medica e, se incondizionatamente riconosciute idonee, vengono incorporate.
Il reclutamento dei militari per la "parte coloniale" dell'esercito avviene come segue:
a) Militari nazionali. Sono tratti dalla parte metropolitana e posti a disposizione del Ministero delle colonie; possono essere destinati in colonia a domanda o d'autorità. L'ufficiale comunque destinato in colonia deve permanervi per almeno due anni (4 anni se destinato a domanda in Eritrea e Somalia) e per non più di sei anni successivi. Il sottufficiale, se destinato di autorità, deve rimanere in colonia sino al compimento degli obblighi di servizio in corso; se destinato a domanda, non meno di due anni; egli può far parte dei corpi coloniali sino al compimento del 41° anno d'età, se di grado inferiore a quello di maresciallo ordinario, senza limiti di età, se maresciallo dei varî gradi. Il militare di truppa, se destinato d'autorità, compie in colonia la fermaa alla quale è vincolato, se a domanda, contrae la ferma coloniale di anni due e può poi raffermarsi fino al 35° anno di età.
b) Militari di colore. Il reclutamento è esclusivamente volontario. La ferma è annuale in Eritrea e Somalia, biennale in Tripolitania e Cirenaica. Al termine della ferma gl'indigeni possono raffermarsi (rafferme annuali o biennali) rimanendo in servizio sino a quando siano giudicati moralmente e fisicamente idonei al servizio stesso. Le loro famiglie sono alloggiate a carico dell'amministrazione militare e normalmente possono seguire i capi famiglia in occasione di trasferimenti. Nel R. Corpo truppe coloniali dell'Eritrea e in quello della Somalia esistono militari di colore indigeni, o reclutati nelle regioni finitime; nei R. Corpi della Libia esistono, oltre militari indigeni, unità composte di Eritrei appositamente reclutati in Eritrea e regioni finitime per conto delle colonie libiche stesse.
Marina militare. - Alla costituzione del regno d'Italia esistevano due marine da guerra nazionali: la napoletana e la sarda.
La prima, fondata da Carlo III, sviluppata da Ferdinando IV (ammiraglio J. F. E. Acton), era andata grandemente decadendo nel sec. XIX, specie sotto Ferdinando II. Essa nel 1860 aderì alla causa italiana. La marina piemontese, chiamata poi sarda, fondata da Emanuele Filiberto e decaduta col volgere degli anni, riprese vigore quando agli stati sabaudi venne aggiunta la Sardegna, ma la sua vera organizzazione avvenne dopo il ritorno di Vittorio Emanuele I a Torino. Essa era stata aumentata gradualmente durante il regno di Carlo Felice e aveva partecipato con onore alla guerra del 1848-49. Dopo Novara, Cavour sentì l'importanza di una forte marina da guerra e vi dedicò assidue cure: creò la base navale de La Spezia, fece costruire navi, diede nuovo spirito a ufficiali ed equipaggi.
Nel 1861, con la fusione delle marine sarda e napoletana, nacque la marina italiana, la cui funzione si dimostrava fondamentale nell'esistenza della nazione, che possiede oltre 6000 km. di coste con due grandi isole e un imponente naviglio mercantile, che riceve dal mare i due terzi delle materie prime necessarie alla sua vita, e che ha bisogno di colonie oltremare. I problemi organici della nuova marina furono vasti e ardui: si dovevano fondere in un solo organismo uomini che avevano abitudini, tradizioni, cultura del tutto diverse; si doveva superare la critica situazione del naviglio, allora in profonda trasformazione.
Il giovane regno affrontò gli ostacoli che si opponevano al rapido sviluppo della sua marina da guerra: il personale fu riorganizzato, il naviglio venne rinnovato, anche mediante ordinazioni all'estero. Ma la breve guerra del 1866, che colse la marina nel delicatissimo periodo della trasformazione, e le polemiche che la seguirono, apportarono un momento di depressione: intorno al 1870 si arrivò a discutere se convenisse conservarla o provvedere invece alla difesa del litorale con batterie costiere. A. Riboty, S. di Saint-Bon, C. A. Racchia, G. Acton, A. Albini, B. Brin combatterono strenuamente l'ingiustificata sfiducia, e la marina risorse.
Il ministro Riboty poté far approvare dal parlamento il suo "Piano organico per la marina" (1871) che, insieme con la legge del Saint-Bon sull'alienazione e il rinnovamento del naviglio (1875), costituisce l'atto di nascita della marina italiana da guerra. Il rinnovamento riguardò tutte le parti dell'organizzazione: personale, armi e naviglio, impianti a terra. Si fondò l'Accademia navale a Livorno (legge Brin, 1882), e la Scuola superiore d'ingegneria navale a Genova; si procedette a una rigorosa selezione, adattando meglio gli uomini alle nuove armi e ai nuovi mezzi meccanici; sì favorirono gli studî e le ricerche. I grandissimi calibri, la loro manovra meccanica, la balistite, i siluri, le corazze d'acciaio furono introdotti in Italia quasi prima che in ogni altra marina, e per produrre i nuovi materiali bellici s'impiantarono grandiosi stabilimenti a Terni (acciaierie), a Pozzuoli (artiglierie), a Venezia (siluri). Il Brin fu il degno costruttore della nuova marina: svincolandosi da tutte le tradizioni, egli progettò le grandi corazzate di linea Duilio e Dandolo, vere rivelazioni per la loro epoca, le più potenti unità che allora solcassero i mari e che portarono la marina italiana quasi al secondo posto nel mondo. Accanto a queste corazzate si costruirono navi meno protette, ma anche più armate e più veloci, che potessero seguire e sostenere il naviglio minore esplorante: l'Italia e la Lepanto, che furono il prototipo degli attuali incrociatori da battaglia. Numerosi incrociatori leggieri e torpediniere costruite in Italia e all'estero completarono allora la nostra flotta. Questo sforzo fu mirabile perché in Italia nel 1870 la costruzione in ferro era appena all'inizio e l'industria meccanica quasi non esisteva; ambedue vennero energicamente sviluppate. Si trasformarono gli arsenali esistenti (La Spezia, Napoli e Castellammare di Stabia, Venezia), si fondò il nuovo arsenale di Taranto, si diede grande impulso ai principali cantieri e fabbriche di macchine (Ansaldo e Odero, Genova; Orlando, Livorno; Guppy e Pattison, Napoli, ecc.), ricorrendo anche a sperimentate organizzazioni estere.
L'impianto a terra, così completato nella sua funzione industriale venne integrato con adeguate piazze militari, rese necessarie dalla situazione geografica e da quella politica della nazione italiana, che, cessata la tensione con l'Austria-Ungheria, si era decisamente orientata verso le potenze centrali (Triplice alleanza, accordo con la Gran Bretagna). A occidente, per la delicatezza della situazione delle coste, per la sicurezza delle isole, per la presenza della Corsica e delle basi nordafricane, si diede sviluppo alla base principale de La Spezia e a quelle secondarie della Maddalena e di Messina. A sud si creò la grande piazzaforte di Taranto. A oriente, dove pure la situazione delle coste italiane è difficile rispetto a quelle prospicienti, si sviluppò la base principale di Venezia accanto alle secondarie di Ancona e Brindisi. Il bilancio della marina dal 1870 al 1895 passò da 38,5 milioni a 102,2 milioni.
In tutto questo periodo la marina rispose sempre degnamente ai compiti affidatile. La guerra d'Africa del 1895-96, e l'ondata di sfiducia che a essa seguì, ebbero una ripercussione anche sulla marina da guerra. Si continuarono a costruire buone navi, ma con ritmo assai lento, e l'approntamento dell'impianto terrestre fu ritardato, mentre anzi questo preponderava passivamente sul naviglio, mentre si addensavano aspre e non sempre giustificate critiche all'amministrazione (inchiesta sulla marina, 1903). Solo dopo il 1900 si ebbe una lieve ripresa nelle costruzioni, che ricevettero nuovo deciso impulso per opera dell'ammiraglio Carlo Mirabello. Questi ebbe a collaboratori l'amm. Bettolo, e gl'ingegneri V. E. Cuniberti, che concepì genialmente la grande nave armata con 12 cannoni da 12 pollici (305 mm.), grande innovazione nel campo delle costruzioni navali, ed E. Masdea, che realizzò tali idee (corazzate Dante Alighieri e Conte di Cavour).
Al Mirabello l'Italia deve la bella ed efficiente flotta che tanto si segnalò durante la guerra italo-turca. La conquista della Libia e del Dodecaneso influì sulla situazione marittima nazionale, ponendo il problema delle comunicazioni della nuova grande colonia con la metropoli, e quello dei punti d'appoggio del Mediterraneo orientale (Tobruch e Leros). Il bilancio della Marina dal 1895 al 1905 passò da milioni 102,2 a 136,1, e nel 1914 era di 313,5.
Lo scoppio del conflitto mondiale trovò la marina italiana forte di spiriti e pronta di navi, pur nelle difficili condizioni in cui la guerra navale dovette svolgersi. Le differentissime caratteristiche della costa orientale adriatica (austro-ungarica) e di quella occidentale (italiana) e la distanza delle basi navali italiane resero necessario il blocco a distanza della flotta di superficie nemica, cui occorreva poi aggiungere il compito di sbarrare ai sommergibili austrotedeschi il canale d'Otranto, e di proteggere il traffico nazionale contro le offese subacquee. Le perdite subite dal naviglio furono solo in parte compensate dall'incorporazione di poche unità leggiere ex-tedesche ed ex-austro-ungariche, ma le mutazioni portate nella situazione marittima nazionale dalla guerra e dalla sistemazione politica del dopoguerra furono di gran lunga più notevoli. In Adriatico la posizione dell'Italia venne migliorata con la liberazione dell'Istria e della piazzaforte di Pola, e con la scomparsa della flotta austro-ungarica. Nel Mediterraneo invece l'equilibrio preesistente fra le varie potenze marittime fu profondamente modificato, quindi i compiti della difesa marittima italiana si accrebbero, mentre la guerra aveva dimostrato l'importanza essenziale del fatto che il paese dipende dalle importazioni marittime via Gibilterra e Suez.
Purtroppo nell'immediato dopoguerra la marina militare italiana fu trascurata, le costruzioni navali furono abbandonate o rallentate, gli arsenali vennero adibiti a produzioni industriali, i lavori delle basi navali sospesi. La maggior forza navale armata si ridusse ben presto a quattro grandi navi, e a una squadriglia di cacciatorpediniere. Alla conferenza di Washington (1921) il coefficiente assegnato all'Italia, calcolato sulla base del tonnellaggio globale delle navi di linea, fu assai basso. Tuttavia si ottenne l'esplicito riconoscimento della parità dell'Italia con la Francia (Stati Uniti e Gran Bretagna 5, Giappone 3, Francia e Italia 1,5).
Il regime fascista, cosciente dell'importanza fondamentale della marina per la potenza della nazione, affrontò in pieno anche questo problema: Benito Mussolini si scelse a collaboratore il grande ammiraglio Thaon di Revel, duca del Mare. Gli elementi essenziali per la ricostruzione erano di tre ordini: amministrativo-finanziario, organico, tecnico-costruttivo, e su ciascuno di essi il governo fascista portò la sua azione. Il bilancio venne successivamente accresciuto, passando sino alla cifra di 725 milioni annui destinati alle nuove costruzioni. Nello stesso tempo tutte le spese vennero sottoposte a un accurato controllo, perché divenissero massimamente redditizie. A tale scopo venne radiato tutto il naviglio non completamente efficiente, anche se i corrispondenti tipi erano conservati in altre marine; e fu radicalmente ridotto l'impianto a terra, che gravava soprattutto come spesa di mano d'opera. Quindi i cinque arsenali (La Spezia, Napoli, Taranto, Venezia e Pola) furono ridotti a due (La Spezia e Taranto), conservando due stabilimenti di lavoro (Castellammare di Stabia e Venezia). Il bilancio nel decennio 1922-1932 passò da milioni 1460,4 a 1633,2. Nel campo organico si provvide al completamento dei quadri; fusione del corpo del genio navale e dei macchinisti; creazione del corpo delle armi navali; riforma dell'Accademia navale e dei corsi di specializzazione, creazione dell'Istituto di guerra marittima, della scuola di comando, di istituti e di gabinetti scientifici per esperienze. Si diede inoltre vita al volontariato a premio, si accrebbe la forza bilanciata, si procedette alla riorganizzazione delle scuole per gli specialisti del corpo R. Equipaggi, ecc. La soluzione dei problemi amministrativo-finanziarî e organici costituiva l'appoggio indispensabile su cui fondare solidamente la ricostruzione della flotta; compiuta in armonia con le disposizioni dei trattati internazionali, che limitavano le possibilità di rinnovamento di naviglio leggiero, costituendo un tutto armonico. La maggioranza della flotta attuale, a parte le grandi navi, è stata costruita nel decennio 1922-32.
La marina ha provato la sua rinnovata efficienza dall'incidente di Corfù (1923) all'azione in Cina (1932). Il capo del governo, come ne ha curato lo sviluppo, così ne ha difeso la potenza nelle nuove discussioni internazionali (Londra 1930, Parigi-Roma 1931, Ginevra 1932), sostenendo il principio della parità con le altre potenze europee continentali, rivendicando anzi il diritto teorico dell'Italia a sviluppare anche più largamente la sua marina. per evidenti ragioni geografiche, economiche e storiche.
Oggi la marina militare italiana comprende il seguente naviglio, per complessive tonn. 397.642:
4 corazzate: A. Doria e C. Duilio (1913), 21.900 tonn., 21 nodi, 13/305, 16/152, 6/76 antiaerei, 2 lanciasiluri; G. Cesare e Cavour (1911), 21.950 t., 20,5 nodi, 13/305, 20/120, 6/776 antiaerei, 2 lanciasiluri;
1 incrociatore corazzato: S. Giorgio (1908), 9350 t., 22 nodi, 4/254, 8/190, 18/76, 6/76 antiaerei, 2 lanciasiluri;
22 incrociatori leggieri: Trieste, Trento e Bolzano (1926-32), 10.160 t., 36 nodi, 8/203, 16/100 antiaerei, 8 lanciasiluri da 533; Zara, Fiume, Gorizia e Pola (1930-31), 10.160 t., 32 nodi, c. s.; Giussano, Barbiano, Bande Nere e Colleoni (1930), 5150 t., 37 nodi, 8/152, 6/100 antiaerei, 4 lanciasiluri da 533; Diaz, Cadorna (1931-32), 5089 t., 37 nodi, c. s.; Montecuccoli e M. Attendolo, in costruzione, 5950 t 37 nodi, e. s.; E. F. di Savoia e Principe Eugenio, in costruzione, 6850 t., 37 nodi, c. s.; Bari (ex-tedesco, 1914), 3248 tonn., 27 nodi, 8/152, 6/76, 2 lanciasiluri; Ancona (ex-tedesco, 1913), 3838 t., 27 nodi, 7/152, 4/76, 2 lanciasiluri; Taranto (ex-tedesco, 1911), 3184 t., 26 nodi, c. s.; Quarto (1911), 2900 t., 28 nodi, 6/120, 7/76, 2 lanciasiluri; Libia (1912), 3700 t., 21 nodi, 8/120 e 3/76 antiaerei;
i nave portaerei: Miraglia, piroscafo trasformato (1923), 5400 tonn., 21 nodi, 4/102 antiaerei, 20 velivoli;
20 esploratori: 12 tipo Vivaldi (1929-30), 1564 t., 38 nodi, 6/120 e 6 lanciasiluri da 533; 3 tipo Leone (1923-24), 1550 tonn., 33,5 nodi, 8/120, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 450; 2 tipo Aquila (1914-16), 1306-1430 t., 33,5 nodi, 4/120, 2/76, 4 lanciasiluri da 450; Premuda (ex-tedesco, 1918), 1550 t., 33 nodi, 4/149, 4 lanciasiluri da 500; 2 tipo Mirabello (1915-16), 1405 t., 33,5 nodi, 8/102, 4 lanciasiluri da 450;
40 cacciatorpediniere: 4 tipo Maestrale, in costruz., 1472 tonn., 38 nodi, 4/120 e 6 lanciasiluri 533; 4 tipo Folgore (1931), 1240 t., 38 nodi, armati c. s.; 4 tipo Freccia (1930), 1225 t., 38 nodi, armati c. s.; 4 tipo Zeffiro (1926-27), 1090 t., 36 nodi, armati c. s.; 4 tipo Nembo (1926-27), 1100 t., 36 nodi, armati c. s.; 4 tipo Sauro (1926-27), 1075 t., 36 nodi, armati c. s.; 4 tipo Sella (1925), 950 t., 35 nodi, armati c. s.; 4 tipo Monzambano (1923-24), 982 t., 33 nodi, 4/102, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri 450; 4 tipo S. Martino (1920-22), 875 t., 32 nodi, armati c. s.; Rossarol (ex-tedesco, 1916), 756 t., 36 nodi, 3/120, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 500; Ardimentoso (ex-tedesco, 1915), 816 t., 25 nodi, 3/102, 4 lanciasiluri 500; 2 tipo Poerio (1915), 858 t., 32 nodi, 5/102, 4 lanciasiluri da 450;
38 torpediniere: 2 in costruzione da 625 tonn.; 6 tipo Generali (1921-22), 645 t., 32 nodi, 3/102, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 450; 7 tipo La Masa (1917-19), 645 t., 32 nodi, 4/102, 2/76 antiaerei, 4 lanciasiluri da 450; 4 tipo Sirtori (1916-17), 680 t., 32 nodi, 6/102, 4 lanciasiluri da 450; Audace (1915), 638 t., 34 nodi, 7/102, 4 lanciasiluri da 450; 8 tipo Pilo (1915-16), 625 t., 32 nodi, 5/102, 4 lanciasiluri da 450; 6 tipo Ardente e Indomito, antiquate, 600 t., 5/102, 4 lanciasiluri da 450; 4 ex-austro-ungariche, tipo Grado, antiquate, 800 t., 2/100, 4/66, 4 lanciasiluri da 550.
Sommergibili: a) da grande crociera: 3 tipo Balilla, in costruzione, 1354/1997 tonn., 17 nodi, 1/120, 8 lanciasiluri da 533; 4 tipo Balilla (1927-1928), 1390/1904 tonn., 18 nodi, 1/120, 6 lanciasiluri da 533; Fieramosca (1929), 1361/1788 tonn., 19 nodi, 1/120, 1/100, 8 lanciasiluri da 533; b) posamine: 1 Pietro Micca, in costruzione, 1393/1913 tonn., 16 nodi, 1/120, 6 da 533; 2 tipo Bragadino (1929-30), 815/1608 tonn., 14 nodi, 1/102, 4 lanciasiluri da 533; 2 tipo X, antiquati, 394/460 tonnellate, 10 nodi, 1/76 antiaerei, 2 lanciasiluri; c) media crociera: 4 tipo Settembrini, in costruzione, 894/1251 t., 17 nodi, 1/100, 8 lanciasiluri da 533; 2 tipo Squalo, in costruzione, 876/1186 t., 17 nodi, c. s.; 2 tipo Settembrini (1929-30), 810/1152 t., 17 nodi, 1/102, 8 lanciasiluri da 533, 4 tipo Squalo (1929-30), 823/1094 t., 16,5 nodi, c. s.; 4 tipo Manara (1929-30), 828/1096 t., 16,5 nodi, c. s.; 4 tipo Colonna (1927), 804/1057 t., 17 nodi, 1/102, 6 lanciasiluri da 533; 4 tipo Mameli (1926-27), 782/1010 t., 17 nodi, armati c. s.; 4 tipo Galvani, antiquati; d) piccola crociera: 12 tipo Rubino e Sirena, in allestimento, 600/800 t., 14 nodi, 1/100, 8 lanciasiluri; 7 tipo Argonauta (1930-31), 609-791 t., 14 nodi, 1/102 e 6 tubi di lancio; 3 tipo N, 7 tipo H, 5 tipo F, antiquati.
Inoltre: 6 posamine tipo Azio (1925-27), 700 tonn., 15 nodi, 1/102 e 200 mine; 4 posamine tipo Buccari (1925-26), 600 t., 10 nodi, 1/76 e 200 mine; una trentina di dragamine di vario tipo; 16 cannoniere tra cui Carlotto e Caboto per servizî fluviali in Cina; 18 MAS di vario tipo; 1 nave reale, Savoia (1925), 4980 tonn., 21 nodi; 1 yacht del capo del governo, Aurora (1904-1928), 1430 tonn. e 13 nodi; 2 navi-scuola, A. Vespucci, C. Colombo (1930-31), 4000 tonn.; 1 nave-officina, Quarnaro (1926), 8200 tonn. e 14 nodi; 2 navi-appoggio sommergibili, Volta e Pacinotti (1921-22), 2400 tonn. e 19 nodi; infine navi-cisterna, acqua e nafta; trasporti varî; rimorchiatori, navi idrografiche (v. anche organica).
Aviazione militare. - All'inizio della guerra mondiale le forze aeronautiche facevano parte dell'esercito e della marina ed erano alle dipendenze del Ministero della guerra (direzione generale di aeronautica) e di quello della Marina (ufficio del capo di Stato maggiore, 5° reparto).
Le supreme necessità della guerra mondiale superarono ogni ostacolo derivante da visioni particolari dell'efficacia della nuova arma, e gli organismi aeronautici rapidamente si modificarono e aumentarono di numero e di efficienza. Nell'immediato dopoguerra il programma d'un nuovo ordinamento delle forze aeree, già in corso di attuazione, fu subitamente interrotto. Una smobilitazione precipitosa condusse al disgregamento delle forze aeronautiche, proprio quando già si preconizzava la fusione degli organismi aeronautici in un solo ministero e si parlava dell'aeronautica come di una nuova temibile forza armata per le guerre future.
Col decreto del 24 maggio 1923 i resti delle smobilitate aeronautiche dell'esercito e della marina furono riuniti in un solo organismo denominato Commissariato per l'aeronautica, con bilancio proprio e organizzazione indipendente. Facevano parte del commissariato un comando generale di aeronautica e una intendenza generale. Dal comando generale dipendevano tutte le forze aeronautiche d'impiego, mentre l'intendenza abbracciava tutti i servizî tecnici e civili. Nello stesso anno 1923 furono costituiti il corpo di Stato maggiore dell'aeronautica, il corpo del Genio aeronautico e il corpo di Commissariato aeronautico, formando così la R. Aeronautica, cioè la terza forza armata dello stato. Tale organizzazione puramente transitoria si consolidò nell'agosto del 1925 con la trasformazione del commissariato in ministero.
Questa legge creava, a sua volta, il primo ordinamento del nuovo grande organismo militare. Fissato il principio informatore nella formula "unità organica e professionale dell'arma e specializzazione d'impiego", l'ordinamento stabiliva la proporzione delle varie specialità dell'aeronautica, sulla base delle prevedibili necessità di guerra e delle caratteristiche di mobilitazione, e definiva la composizione organica della nuova forza armata.
Successivamente, con la legge 6 gennaio 1931, fermo restando il concetto militare dell'unica entità tecnico-professionale, si dava alla forza aerea l'assetto definitivo, valorizzando sempre più l'armata aerea, che riunisce attualmente tutte le forze disponibili.
L'armata aerea è il complesso delle forze aeree destinate ad assolvere i compiti della guerra aerea, compresa la difesa aerea del territorio. Essa è composta dalla squadriglia, che ne è l'unità organica fondamentale; dal gruppo, che è costituito da un comando e da un numero variabile di squadriglie; dallo stormo, costituito da un comando e da un numero variabile di gruppi; dalla brigata, costituita da un comando e da un numero variabile di stormi; dalla divisione aerea, costituita da un comando e da un numero variabile di brigate; dalla squadra aerea, costituita da un comando e da un numero variabile di divisioni. La squadra, la divisione e la brigata costituiscono le grandi unità aeree. L'armata aerea è costituita da 42 gruppi di squadriglie, raggruppabili in un numero variabile di unità aeree di ordine superiore.
L'aviazione per l'esercito comprende le forze aeree destinate ad assolvere i compiti che in pace e in guerra ad essa verranno assegnati dai comandi dell'esercito. Essa si compone di 15 gruppi di squadriglie da osservazione aerea, costituiti ciascuno da un comando e da un numero variabile di squadriglie; la squadriglia è l'unità organica fondamentale dell'aviazione per l'esercito. I gruppi di squadriglie saranno ordinati in cinque stormi, aventi costituzione analoga a quella degli stormi dell'armata aerea.
L'aviazione per la marina è costituita dalle forze aeree destinate ad assolvere i compiti in pace e in guerra ad essa assegnati dai comandi della marina. Essa si compone di quattro comandi di aviazione, di un numero variabile di squadriglie da ricognizione marittima e dagli aerei imbarcati sulle navi.
L'armata aerea, l'aviazione per l'esercito e quella per la marina costituiscono l'aviazione metropolitana. Vi è poi l'aviazione coloniale, costituita da tutte le forze aeree dislocate nelle colonie e destinata ad agire alle dipendenze dei comandi delle truppe coloniali. L'aviazione coloniale comprende quattro comandi d'aviazione: Tripolitania, Cirenaica, Eritrea e Somalia.
A seconda dei compiti di guerra per i quali vengono organizzate, le unità dell'aeronautica si suddividono in: a) specialità da caccia, che raggruppa i mezzi destinati all'offesa e alla difesa contro obiettivi aerei; b) specialità da ricognizione, che raggruppa i mezzi adatti all'esplorazione lontana o strategica e a quella vicina, tattica; c) specialità da bombardamento, che raggruppa i mezzi adatti all'offesa su obiettivi terrestri o navali. L'aviazione da bombardamento, già distinto in diurno e notturno, leggiero o pesante, va unificandosi verso una sola specializzazione.
Per il corpo del genio aeronautico, v. genio (XVI, p. 533). ll corpo di Commissariato militare aeronautico è costituito dagli ufficiali del Commissariato aeronautico ed esercita funzioni logistiche, tecnico-amministrative e contabili per quanto concerne i servizî di cassa, sussistenza, vestiario, equipaggiamento e casermaggio. Le scuole militari dell'aeronautiea comprendono: a) la scuola di guerra aerea con corsi di alti studî militari (in corso di istituzione); b) la R. Accademia aeronautica, con sede a Caserta, dalla quale si reclutano gli ufficiali naviganti dell'arma aerea in servizio permanente effettivo; c) la scuola di osservazione aerea, con sede a Cerveteri, nella quale si preparano gli ufficiali dell'esercito e della marina allo speciale servizio aereo di cooperazione aeroterrestre e navale: d) le scuole di specialità caccia e bombardamento, con sedi a Lonate e Castiglione del Lago; e) la scuola specialisti, con sede a Capua, per il reclutamento e il perfezionamento di tutte le categorie di specializzati dell'aeronautica; f) la scuola di alta velocità (superiore ai 500 km. orarî) di Desenzano; g) la scuola di navigazione d'alto mare di Orbetello (v. anche organica).
Accanto alle forze armate che hanno esclusivamente scopi bellici, v'è in Italia la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, caratteristica espressione della rivoluzione fascista (v. fascismo, XIV, p. 878), di cui è trattato ampiamente in apposito articolo.
Sono inoltre comprese nella qualifica generale di forze armate dello stato, la R. Guardia di finanza (v. finanza, regia guardia di), e il corpo di agenti di polizia (v. polizia).
Finanze.
Le finanze dell'italia dal 1914. - L'inizio della guerra mondiale colse l'Italia in una situazione d'indubbia inferiorità nei confronti delle altre nazioni. Essa non si era infatti ancora del tutto rimessa dalle perdite subite in conseguenza del terremoto calabro-siculo e della guerra libica (6 miliardi circa) e le era mancato inoltre quel periodo di prosperità economica di cui quasi tutti gli altri stati avevano goduto nel 1909-12 dopo la rapida soluzione della crisi generale del 1907, che in Italia, verificatasi con un certo ritardo, si era tradotta invece in una prolungata fase di marasma e di depressione degli affari. E per quanto questo graduale processo d'infiacchimento che l'economia italiana subiva da oltre un quadriennio abbia potuto in un certo modo attutire la violenza della scossa iniziale, tuttavia fortissima, è certo che la non florida finanza e lo scarso reddito privato (oltre alla povertà di materie prime, all'esiguità dei mezzi di trasporto e alla debole attrezzatura industriale) dovevano aggravare lo sforzo necessario per far fronte alle nuove esigenze belliche. Il contribuente italiano era infatti assai più onerato di quello di altri stati (basti pensare che 1/5 del reddito nazionale era assorbito dai tributi mentre, per es., in Inghilterra la quota riservata allo stato era di appena 1/16) e molto gravoso era già il carico del debito pubblico; il livello dei consumi era d'altra parte assai basso, benché col miglioramento economico verificatosi dopo il 1900 si fosse iniziata anche in Italia una graduale ascesa del tenore di vita (l'Italia era quasi sola infatti ad avere ancora una bilancia fisiologica passiva). Le aliquote dei tributi esistenti furono ciò nonostante inasprite e s'introdussero nuovi tributi straordinarî (imposta sopra i profitti di guerra, sul patrimonio, ecc.) riuscendo con tali provvedimenti, oltre che con l'allargamento del regime dei monopolî, ad aumentare le entrate del bilancio da 2,5 miliardi nel 1913-14 a 9,7 nel 1918-19. L'enorme aumento dei compiti dello stato causò però un ben più forte incremento delle uscite, passate negli stessi esercizî da 2,7 a 32,5 miliardi; e i varî esercizî si chiusero con sempre maggiori disavanzi (complessivamente dal 1913-14 al 1918-19, 62,7 miliardi; si noti però che l'ammontare delle sole spese di guerra e dipendenti dalla guerra fino al 30 giugno 1919 fu di oltre 70 miliardi). Lo stato fu quindi costretto a contrarre prestiti all'estero (al 30 giugno 1919, 19,2 miliardi, contratti quasi esclusivamente con l'Inghilterra e con gli Stati Uniti per l'approvvigionamento dell'esercito e del paese), ad emettere sul mercato interno prestiti consolidati e redimibili e buoni poliennali del tesoro (i primi, superando notevolmente il risparmio disponibile ed essendo quindi in gran parte sottoscritti dalle banche, assunsero la tipica figura dei prestiti espansionisti che si traducono in una subdola inflazione; i secondi offrirono alle banche un comodo investimento per l'enorme quantità di danaro che riaffluiva alle loro casse in conseguenza dell'inflazione stessa), ad emettere allo scoperto biglietti di stato e ad autorizzare l'emissione di biglietti di banca per conto dello stato. Al 30 giugno 1919 il debito pubblico estero e interno, patrimoniale e fluttuante (comprese le anticipazioni in biglietti bancarî e la circolazione di biglietti di stato) aveva raggiunto così 79,4 miliardi, da 14,8 che era al 30 giugno 1914, e la circolazìone complessiva di banca e di stato era salita, nello stesso periodo, da 2,7 a 14,5 miliardi, senza che si fosse verificato un corrispettivo aumento delle riserve.
Né tale stato di cose poteva immediatamente cessare col cessare delle ostilità, ché troppo grande era stato lo sconvolgimento causato dalla guerra nella vita economica del paese e troppi elementi d'incertezza pemmanevano nei rapporti internazionali per permettere un rapido ritorno alla normalità (nel far finire al 30 giugno 1919 il periodo bellico precedentemente considerato si è tenuto conto appunto della inopportunità di scindere in due fasi l'esercizio finanziario 1918-1919, data la stretta analogia che corre sotto molti punti di vista tra gli ultimi mesi di guerra e i primi dopo l'armistizio). Ingenti oneri gravavano ancora il bilancio dello stato e altri se ne aggiunsero, sia per la liquidazione di alcune gestioni di guerra (principalmente di quelle per il traffico marittimo e per gli approvvigionamenti e consumi alimentari), sia per la necessità di provvedere alla soddisfazione dei bisogni pubblici trascurati negli ultimi anni; oneri che le entrate ordinarie, per quanto in sensibile aumento, non potevano certo fronteggiare. Un'intensa domanda di consumi risorgeva frattanto ovunque come reazione alla lunga astinenza, errata previsione e inadeguata percezione della situazione monetaria alimentavano un generale senso d'illusione e, non frenato da una politica restrittiva dello sconto, s'iniziava dopo una breve fase di riservatezza un periodo di effervescenza degli affari. Non si arrestò quindi il ricorso al eredito né l'emissione di biglietti, sia per conto dello stato sia del commercio. L'inflazione toccò anzi il suo massimo (22 miliardi di biglietti in circolazione alla fine del 1920) in questo immediato dopoguerra, i cui caratteri fondamentali sono appunto il declinare del potere d'acquisto della moneta (si ricordi anche che nel marzo 1919 erano venuti meno gli accordi interalleati con cui i cambî erano stati artificialmente sostenuti negli ultimi tempi della guerra) e la conseguente progressiva dissoluzione dell'organismo economico, mascherata da un'apparente prosperità. L'ingiusta redistribuzione della ricchezza e l'instabilità dei redditi, che sempre si accompagnano all'inflazione, fomentavano frattanto i perturbamenti sociali e in particolare le agitazioni operaie, cui forniva motivo la crescente disoccupazione (in parte dovuta alla smobilitazione) e tutto ciò doveva necessariamente aggravare la difficile situazione dell'industria che già risentiva il disagio dell'esagerata imprudente dilatazione degli impianti e i primi sintomi della prossima crisi. Crisi che si manifestò in Italia con un certo ritardo sull'estero, raggiungendo il suo punto culminante soltanto nell'anno 1921, e il cui processo di liquidazione non fu brusco e risanatore, come avvenne in paesi a struttura economica più forte e a politica creditizia più severa, ma diede luogo invece a un marasma negli affari a lento decorso.
Bilancio in forte disavanzo (7,9, 17,4 e 15,8 miliardi rispettivamente negli esercizî 1919-20, 1920-21 e 1921-22), sia per il graduale esaurirsi dei tributi di guerra, per l'inadeguato aumento del gettito dei tributi ordinarî e per le molte evasioni fiscali, sia per la difficoltà di contenere le pubbliche spese e per gl'ingenti deficit delle aziende industriali dello stato, specie delle ferrovie; debito pubblico in progressivo aumento (da 79,4 al 30 giugno 1919 a 114,5 al 30 giugno 1922); circolazione viziata dall'inflazione (20,5 miliardi di biglietti alla fine di ottobre 1922) e moneta ridotta a ¼ del suo valore di fronte alla sterlina e a meno di ¼ di fronte al dollaro e all'oro (cambî, al 31 ottobre 1922, rispettivamente a 100,95, 445,36 e 445,18): questa era la situazione delle finanze italiane allorché assunse il potere il governo fascista.
La situazione fu subito decisamente affrontata dal ministro A. de' Stefani. S'imponeva anzitutto un riordinamento dei tributi, sia allo scopo di ristorare le finanze dello stato, sia per facilitare lo sviluppo economico della nazione, ostacolato soprattutto da un pesante e mal distribuito carico fiscale. Ottenuti i pieni poteri, il governo provvide quindi ad emanare una numerosa serie di decreti al duplice scopo di creare un nuovo e razionale sistema tributario che, con l'elasticità del suo provento, assicurasse la possibilità di fronteggiare il graduale decrescere delle imposte straordinarie e di colmare parte del disavanzo; e di raggiungere nello stesso tempo un'equa distribuzione degli oneri tra le varie categorie di contribuenti, senza ridurre la capacità produttiva del paese e aumentandone anzi l'efficacia col liberare da vincoli i congegni della produzione e degli scambî e con l'agevolare la formazione del risparmio e l'afflusso dei capitali esteri ed emigrati. L'eliminazione delle soprastrutture tributarie belliche e postbelliche, il riordinamento delle tre imposte dirette fondamentali a carattere reale (sui redditi dei terreni, dei fabbricati e di ricchezza mobile) e la loro integrazione con una nuova imposta complementare progressiva di carattere personale, la quasi generale riduzione delle aliquote, la sostituzione di una nuova tassa ad aliquota unica alle molteplici che intralciavano lo scambio della ricchezza, l'abrogazione della nominatività obbligatoria dei titoli, l'esenzione dall'imposta di ricchezza mobile dei capitali stranieri, l'abolizione dell'imposta successoria nel nucleo familiare, le molte riduzioni dei dazî doganali e le severe misure adottate per evitare e reprimere le evasioni fiscali, sono gli elementi essenziali di questa riforma che diede all'Italia un sistema tributario mite a larghissima base, elasticissimo, e che, nonostante l'abolizione dei tributi straordinarî e la riduzione delle aliquote, si tradusse in un notevole incremento delle entrate fiscali (il gettito delle imposte dirette, delle tasse e delle imposte indirette sui consumi aumentò infatti da 10,5 miliardi nel 1921-22 a 13,3 nel 1924-25). Condotta contemporaneamente una rigorosa revisione delle spese, unificati e rinsaldati i controlli, riordinata e snellita l'amministrazione finanziaria, liberato lo stato dalla gestione di alcuni servizî industriali con la creazione di aziende autonome, alla fine del 1923-24 l'equilibrio del bilancio era già quasi completamente raggiunto e l'esercizio successivo poteva chiudersi con un avanzo effettivo di 417 milioni.
Perché il riassetto della finanza italiana fosse compiuto era necessario però restituire il valore stabile alla moneta, che, indebolita dalla progressiva svalutazione, era in balia delle circostanze (pur presentando in complesso tra le monete deprezzate le meno accentuate fluttuazioni), e che nel febbraio 1925 era stata scossa da una pericolosa crisi interna di sfiducia, nonostante che il popolo italiano avesse saputo fin dal marzo 1924 che le entrate ordinarie sarebbero state d'allora in poi sufficienti a fronteggiare le spese e che il governo si proponeva di utilizzare i previsti avanzi di bilancio per regolarizzare la circolazione e rimborsare gradualmente il debito fluttuante (al 30 novembre 1924 il debito pubblico era stato già ridotto infatti di 2,5 miliardi con un miglioramento patrimoniale, al netto della diminuzione della cassa, di 1,9 miliardi ed era stata riscattata inoltre una gran parte dell'onere derivante dalle polizze d'assicurazione per gli ex-combattenti). Il rapido deciso intervento del governo e la severa disciplina imposta ai contratti a termine, valsero allora a mantenere il panico e la speculazione, ma a pochi mesi di distanza una nuova violenta crisi comprometteva le sorti della lira e il 2 luglio il cambio con il dollaro saliva a 29,88 (mentre il massimo toccato nella crisi precedente era stato 25,13). La crisi era dovuta però questa volta soprattutto al giuoco della speculazione internazionale; il raggiunto risanamento del bilancio, la graduale diminuzione del debito fluttuante, l'aumento delle disponibilità in oro per la difesa del cambio e il freno opposto dal rialzo del tasso dello sconto all'aumento della circolazione non potevano interpretarsi infatti che come indizî di una situazione interna in progressivo miglioramento.
Analogo e ancor più accentuato carattere ebbe la seconda crisi del cambio, che si scatenò nel luglio 1926 (massimo raggiunto dal cambio col dollaro il 28 luglio: 31,60) e che non trova anch'essa giustificazione alcuna nella situazione economica e finanziaria dell'Italia; anche l'esercizio 1925-26 si era chiuso infatti con un avanzo effettivo di circa ½ miliardo e il governo aveva nel frattempo provveduto a regolare i debiti di guerra, proporzionandoli ai crediti in conto riparazioni, ad aumentare ancora le sue disponibilità in oro per la difesa del cambio mediante la conclusione del prestito Morgan e di altri prestiti industriali, a unificare la circolazione bancaria concentrando il privilegio dell'emissione nella sola Banca d'Italia e a controllare severamente le operazioni di cambio e gl'investimenti sul mercato interno.
Bisognava quindi sottrarre definitivamente la moneta italiana alla pericolosa influenza della speculazione internazionale, che, orientata in senso pessimistico, minacciava di compromettere i risultati già conseguiti nella faticosa opera di rivalutazione della lira, e creare anzitutto in Italia e all'estero un'ondata di fiducia capace di rovesciare la tendenza del movimento speculativo. Il 18 agosto 1926 a Pesaro il Capo del governo italiano proclamò allora che lo stato e la nazione tutta avrebbero da quel giorno in perfetto accordo per un tempo indefinito e con tutte le loro forze giocato al rialzo della lira. Giuoco che aveva tutte le probabilità di riuscire, dato che era intrapreso dalla grande maggioranza dei possessori di lire, e che doveva quindi orientare in senso favorevole anche le previsioni degli speculatori esteri. Da quel giorno infatti fino al 25 giugno 1927, in connessione con lo svolgimento di un efficace piano di deflazione cartacea (riduzione dell'ammontare del debito dello stato verso l'istituto di emissione, accrescimento delle riserve metalliche, limitazione della circolazione bancaria per conto del commercio, contrazione della quantità di biglietti di stato, e trasformazione della circolazione minuta propria dello stato da cartacea in metallica) e di consolidamento del debito fluttuante, il corso del dollaro in rapporto alla lira non fece che ribassare, passando da 31,60 a 17,24. Né deve stupire che il movimento di rivaluzione abbia avuto inizio ancor prima che potesse prodursi l'effetto dei nuovi provvedimenti finanziarî (il 6 novembre, giorno in cui fu autorizzata la emissione del prestito del Littorio che servì a consolidare 15 miliardi di buoni del Tesoro, il cambio con il dollaro era già sceso infatti a 23,44), ché il discorso di Pesaro aveva inciso con avveduta energia su un preordinato piano in pieno sviluppo e le condizioni necessarie e sufficienti per la ripresa della moneta italiana erano già sostanzialmente in atto quando l'espressione della ferma volontà del governo seppe infondere nella nazione quell'elemento di morale certezza che fu decisivo per la riuscita. Il 21 dicembre 1927, dopo 6 mesi di stabilità di fatto, ottenuta dalla Banca d'Italia l'apertura di due crediti di garanzia per la durata di 1 anno (uno di 75 milioni di dollari da parte dei principali istituti di emissione esteri e uno di 50 milioni da parte della ditta Morgan e di alcune banche inglesi) la lira carta fu dichiarata convertibile in oro o in valute equivalenti all'oro, al tasso fisso di 3,66 in rapporto alla lira oro, di 92,46 in rapporto alla sterlina e di 19 in rapporto al dollaro, salve le differenze nascenti dai cosiddetti punti dell'oro. Il regime del gold exchange standard, ormai generalmente applicato nei varî stati usciti dalla crisi monetaria postbellica, sostituì così anche in Italia il corso forzoso, dando ai biglietti in circolazione la fissità del pregio e sottraendoli agli ondeggiamenti del cambio con l'estero. In conseguenza dell'accreditamento allo stato delle plusvalenze emergenti dalla rivalutazione delle riserve della Banca d'Italia, sulla base della nuova parità aurea, il Tesoro fu liberato inoltre definitivamente dal debito contratto con la banca stessa, e i biglietti emessi per conto dello stato rimasero, previa l'occorrente copertura, a carico della banca: unificazione della circolazione bancaria che era condizione indispensabile per la stabilizzazione del cambio. La riforma monetaria, meta ultima di tutta la concatenata serie di provvedimenti adottati dal governo fascista a cominciare dalla riforma fiscale, era così raggiunta e poteva dirsi anche solidamente assicurata.
Il movimento di rivalutazione della lira sottomise però a dura prova l'economia nazionale e le impose severe compressioni (di cui risentirono anzitutto gli stipendî e i salarî) per il necessario adattamento dei costi alla discesa dei prezzi. Quando fu promulgata la legge di stabilizzazione, la fase più violenta della crisi di deflazione si poteva dire tuttavia superata e grandi e decisivi passi si fecero durante il 1928 sull'ardua via del riassestamento della vita economica italiana in conformità della nuova posizione monetaria, tanto che alla fine dello stesso anno la Banca d'Italia e il Tesoro ritennero che l'avallo concesso dalle banche centrali e dalle grandi ditte bancarie all'atto della stabilizzazione non fosse più necessario e rinunciarono alla prosecuzione dei prestiti di garanzia. Fu invece solo nel 1928 che si manifestarono in pieno gli effetti della deflazione sulla bilancia commerciale (aumento delle importazioni e riduzione delle esportazioni), sia per la tardività con cui si propagano sempre i fenomeni economici, sia in conseguenza della crisi di molte attività produttive che aveva contratto negli ultimi mesi del 1926 e nel 1927 gli acquisti di materie prime; e lo squilibrio della bilancia commerciale (e quindi anche, per la diminuita portata di alcune partite compensative, della bilancia dei pagamenti) che ne risultò influì sulla scorta di divise estere possedute dalla Banca d'Italia, accentuando quel movimento di diminuzione che già si andava verificando in seguito all'autorizzazione concessa alla banca stessa, nel giugno 1928, di trasformare in oro una parte delle sue riserve equiparate.
Più che nel 1926-27 anche le ripercussioni sulle finanze dello stato furono sensibili negli esercizî successivi e per fronteggiare la conseguente contrazione delle entrate fu necessaria una rigorosa revisione degli stanziamenti di bilancio e una severa economia, tanto più che si delineava l'urgente necessità di alcune spese indilazionabili, non solo per reintegrare le scorte di materiali militari fino allora non ricostituite, ma anche per l'indispensabile esecuzione di opere pubbliche e per agevolare lo sviluppo economico della nazione con un complesso d'iniziative culminanti nella battaglia del grano e nelle opere di bonifica. Progressivi aumenti di tariffa sui consumi voluttuarî e una sempre più rigorosa applicazione delle imposte furono attuati per quel che riguarda l'entrata, mentre la semplificazione degli organismi amministrativi, la costituzione di alcuni servizî dello stato in aziende autonome e il trasferimento all'industria primta di taluni esercizî pubblici a carattere industriale, avevano utili effetti sulla gestione delle spese. L'equilibrio del bilancio non ne risultò quindi scosso ma grazie all'adattamento delle spese all'andamento delle entrate effettive anche gli esercizî 1927-28 e 1928-29 si chiusero con un'eccedenza attiva di 497 e di 555 milioni, che affluì, come quella degli esercizî precedenti, alla Cassa per l'ammortamento del debito pubblico, istituita nell'agosto 1927.
La crisi economica mondiale era però alle porte e già nel 1929-30 la situazione, del resto ancora estremamente sensibile, della produzione e del commercio cominciò ad essere turbata e se ne ebbero le prime ripercussioni anche sull'andamento del bilancio (avanzo effettivo di soli 170 milioni). Manifestatasi poi in tutta la sua violenza e complicatasi nel primi mesi del 1931 con gravi perturbamenti nel campo monetario e creditizio, tutto l'organismo economico ne soffrì penosamente e tuttora ne soffre, nonostante la complessa serie di provvedimenti adottati dal governo per accrescerne il potere di resistenza.
Per fronteggiare la crisi economica bisognava anzitutto impedire che la lira potesse venire travolta dagli sconvolgimenti monetarî internazionali e si cercò per questo di rafforzare sempre più le riserve auree in modo da costituire solo con esse la normale copertura della circolazione; politica invero già seguita dalla Banca d'Italia fino dalla fine del 1927 e tendente ad evolvere dal regime di gold exchange standard verso l'adozione di un sistema monetario più vicino ai regimi monometallistici aurei d'anteguerra, in modo da assicurare ai biglietti e agli altri impegni a vista la garanzia massima della riserva aurea e da poter nello stesso tempo destinare tutti i crediti sull'estero e i buoni di tesoreria stranieri alla funzione esclusiva di massa di manovra. Dal 31 dicembre 1927 al 30 giugno 1933 il rapporto dell'oro in cassa al totale dei debiti a vista è salito infatti da 20,80 a 46,98% e quello dell'oro in cassa all'ammontare dei biglietti in circolazione da 25,27 a 51,94%. Il rapporto della riserva totale al totale degl'impegni è diminuito invece nello stesso periodo da 55,47 a 49,2%, in seguito alla notevole contrazione verificatasi nelle riserve equiparate sia per soddisfare alle esigenze dei rapporti mercantili e finanziarî con l'estero, sia soprattutto per ritirare dalla circolazione i biglietti esuberanti. Si ricordi a questo proposito che la maglior parte delle divise possedute dalla Banca d'Italia all'atto della stabilizzazione era stata formata con spendita di biglietti, che la successiva estinzione del debito dello stato rappresentato da biglietti di banca aveva caricato l'istituto di emissione anche del peso di questi ultimi, e che, dato anche il diminuito bisogno di medio circolante in conseguenza della depressione economica, la banca doveva necessariamente provvedere a proporzionare la circolazione al suo giro normale d'affari e al livello dei prezzi; la riduzione di 5 miliardi circa non va quindi attribuita a un'energica politica di deflazione ma a un necessario adattamento alla nuova situazione monetaria. Sempre per difendere la valuta, un'assidua vigilanza è stata esercitata sul mercato dei cambî e dei titoli e allo stesso scopo, oltre che negl'interessi del commercio di esportazione e della produzione, si è fatto il possibile, con concreti risultati, per migliorare la bilancia commerciale. In conseguenza di tutto ciò la lira ha risentito molto limitatamente l'influsso dell'irregolarità del corso che precedette e seguì la crisi della sterlina e si è dimostrata una delle valute più resistenti anche in occasione della recente caduta del dollaro.
Era necessario d'altra parte sostenere i varî rami della produzione e del commercio e accrescere le liquidità degl'istituti di credito per metterli in grado di ammortizzare le conseguenze della crisi senza detrimento del risparmio e delle aziende sane; e vastissima fu anche in questo campo l'attività svolta dal governo sia attraverso l'Istituto di liquidazione, sia, ancora, con la creazione dell'Istituto mobiliare italiano, destinato ad attuare una più completa separazione dell'attività finanziaria da quella bancaria, in modo da alleggerire le banche ordinarie del compito di finanziare l'industria e da evitare quindi le dannose interferenze tra gli organismi della produzione e del credito, e, da ultimo, con quella dell'Istituto per la ricostruzione industriale, cui è riservato il duplice compito di provvedere a un più rapido smobilizzo delle attività antieconomiche (e ha perciò riassorbito l'Istituto di liquidazione) e di accordare finanziamenti industriali d'interesse pubblico, facilitando e controllando l'afflusso del risparmio dell'industria.
Per attenuare poi l'inevitabile peggioramento della situazione del bilancio, il governo ha cercato di limitare, per quanto era possibile, la flessione del gettito delle imposte dirette senza creare una pressione non adeguata alle reali condizioni dei contribuenti, e di neutralizzarla in parte con l'inasprimento di alcune tasse e soprattutto di alcuni dazî doganali; e ha contemporaneamente affiancato alle nuove indispensabili spese per favorire le attività produttive e ridurre la disoccupazione una rigorosa economia in tutti gli altri capitoli. Ciò nonostante lo squilibrio del bilancio, che dopo 6 anni di avanzo era tornato a manifestarsi nel 1930-31, si è accentuato nel 1931-32 e nel 1932-33 che si sono chiusi con un disavanzo effettivo rispettivamente di 3,9 e di 4,0 miliardi contro 504 milioni nell'esercizio precedente; inevitabile è stato quindi l'aumento del debito pubblico interno salito dal 30 giugno 1930 al 30 giugno 1933 da 87,9 a 97,0. Notevole soprattutto l'emissione di buoni novennali del Tesoro avvenuta nel maggio 1932, che oltre a permettere il rinnovamento di un miliardo circa di buoni pure novennali d'imminente scadenza, ha fruttato anche 3 miliardi in contanti che sono stati destinati in parti eguali a opere pubbliche e forniture industriali, a diminuire il disavanzo del bilancio e a diminuire il debito dell'Istituto di liquidazione verso la Banca d'Italia per aumentare la liquidità delle partite attive della banca stessa. L'aver fatto fronte alla diminuzione delle entrate effettive e alle maggiori spese con accensione di prestiti non deve però indurre ad apprezzamenti pessimistici sulla condotta delle finanze pubbliche italiane nell'ultimo biennio. Il governo infatti che, anche a costo di gravi sacrifici della nazione, ha conservato per anni il raggiunto equilibrio del bilancio, non poteva d'altra parte non tener conto dell'eccezionale depressione in cui il paese si trova attualmente per effetto della crisi e dell'aggravamento della situazione che deriverebbe dal voler giungere ad ogni costo al pareggio con ulteriori riduzioni di spese o inasprimenti fiscali. È naturale quindi che sulla rigida applicazione dei sani principî di politica finanziaria finora seguiti abbia creduto opportuno far prevalere transitoriamente un'azione rivolta soprattutto alla conservazione e al rinvigorimento delle attività produttrici, sicuro che la ripresa dell'organismo economico, sia spontaneamente, sia permettendo un ritorno a una politica più severa, potrebbe in breve tempo assicurare anche il risanamento del bilancio dello stato.
Bilanci e debito pubblico. - Il bilancio dello stato italiano, eliminate a partire dal 1926 le due categorie accessorie delle costruzioni ferrate e delle partite di giro, risulta composto di due parti: entrate e spese effettive e entrate e spese per movimento di capitali. È la prima parte però quella di gran lunga più importante e che rispecchia la vera situazione delle finanze dello stato, mentre la seconda in cui figurano le accensioni di debiti e i rimborsi, indica la situazione patrimoniale. Nell'esaminare l'andamento del bilancio dal 1913-14 al 1932-33 è opportuno quindi tener conto esclusivamente dei dati relativi alle entrate e spese effettive (come pure sempre ad essi ci si è riferiti durante il corso dell'articolo) e considerare a parte l'andamento del debito pubblico (in miliardi di lire).
I numerosi provvedimenti fiscali adottati durante la guerra spiegano l'aumento progressivo delle entrate, che il crescente gettito delle imposte straordinarie e la svalutazione della moneta accentuarono ancor più nell'immediato dopoguerra. La flessione verificatasi nel 1922-23 è dovuta all'esaurirsi dei tributi transitorî oltre che alla ripercussione immediata del riordinamento tributario (in quanto abolì alcune imposte e concesse numerosi sgravî): mentre l'incremento determinatosi negli esercizi successivi è da attribuirsi soprattutto all'allargamento della base tributaria e alle severe sanzioni contro le evasioni fiscali che costituiscono il pernio del riordinamento stesso. Con ritmo assai più accelerato delle entrate crebbero le spese negli anni di guerra e, sia per gli oneri derivanti dalla liquidazione di talune gestioni belliche, sia per l'ascesa dei prezzi connessa all'inflazione, toccarono il loro massimo nel 1920-21. Per il necessario ridursi delle spese straordinarie e per il severo riordinamento finanziario si contrassero poi nel 1922-23 di oltre ⅓ nei confronti dell'esercizio precedente e continuarono a diminuire fino al raggiungimento del pareggio del bilancio per riaumentare poi leggermente in connessione con l'incremento delle entrate. Dopo tutto quel che si è già detto circa le ripercussioni della crisi di deflazione e quindi della crisi mondiale sulle entrate e sulle spese dello stato si possono facilmente comprendere anche le cifre relative agli ultimi esercizî.
L'ossatura del bilancio italiano è costituita dalle entrate fiscali, sia per il loro carattere di stabilità, sia perché in regime normale dànno un gettito che raggiunge gli 8/10 dell'entrata complessiva. Sono di regola le imposte dirette (e fra queste principalmente le imposte sui redditi di ricchezza mobile) che assicurano allo stato il massimo contributo; esse sono però seguite a breve distanza e sono anche state superate negli ultimi esercizî dalle imposte indirette sui consumi (tra cui hanno particolare importanza i dazî doganali e le imposte di fabbricazione sullo zucchero). La metà circa delle entrate effettive, e in qualche esercizio più della metà, deriva da questi due cespiti fondamentali, mentre le tasse sullo scambio della ricchezza (tasse di registro, bollo e bollo sugli scambî, oltre molte altre di minore entità), i monopolî di stato (specie le entrate attribuite allo stato a titolo d'imposta sul consumo del tabacco) e in piccola parte il giuoco del lotto dànno complessivamente il 30% circa delle entrate stesse. Fra le altre entrate figurano i proventi dei servizî pubblici, i redditi demaniali e gli utili netti delle aziende autonome e cioè dell'amministrazione delle ferrovie costituita nel 1905 (in attivo nel dopoguerra solo dal 1924-25 al 1930-31), dell'azienda postale e telegrafica, di quella per i servizî telefonici e di quella dei monopolî (le entrate a carattere fiscale di quest'ultima sono pure, come si è già detto, devolute allo stato, di modo che l'utile di cui qui si tratta si riferisce alle sole entrate di carattere industriale, riservate alla azienda), istituite rispettivamente nell'aprile 1925, giugno 1925 e dicembre 1927. Gli avanzi di gestione dell'azienda delle foreste demaniali e di quella della strada, istituite nel maggio 1926 e nel febbraio 1930, sono invece particolamente destinati a contribuire alla spesa per la Milizia nazionale forestale e all'esecuzione di opere straordinarie. Le spese che più gravano attualmente il bilancio dello stato sono quelle per il servizio del debito pubblico, per la difesa militare, per i servizî dell'amministrazione finanziaria, per le opere pubbliche e per l'educazione pubblica. Le spese dipendenti dalla guerra che nel 1918-19 raggiunsero la cifra massima di 26 miliardi sono ora ridotte a circa un miliardo.
Il progressivo aumento dell'indebitamento dello stato nell'immediato dopoguerra, la successiva politica di riduzione e di consolidamento, e il nuovo ricorso al credito negli ultimi anni sono già stati sufficientemente illustrati nel corso dell'articolo e ci limitiamo quindi a dare le cifre del debito pubblico interno alla chiusura dei singoli esercizî postbellici (in miliardi di lire).
È opportuno ricordare inoltre la recente riforma della Cassa per l'ammortamento del debito pubblico interno (decr. 26 aprile 1930 n. 424) che, assicurando alla Cassa stessa la più completa autonomia e dotandola di mezzi finanziarî proprî (fondamentale un provento diretto di 500 milioni derivante da un aumento del prezzo di vendita sui tabacchi), le ha dato modo d'intensificare e di svolgere con ritmo costante la sua importante funzione e ha d'altra parte alleggerito lo stato dall'obbligo di devolvere alla Cassa gli avanzi di bilancio e gl'interessi sui titoli ammortizzati. Il compito della Cassa è stato limitato ai soli debiti consolidati che costituiscono la parte assolutamente prevalente dei debiti patrimoniali.
Del totale dei debiti contratti dall'Italia con l'estero in dipendenza della guerra (24,22 miliardi), estinti quelli di minore entità (228 milioni) alla fine del 1925 restavano il debito con gli Stati Uniti e quello con l'Inghilterra il cui ammontare, compresi gl'interessi, mediante gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra (27 gennaio 1926) fu rispettivamente consolidato in 2408 milioni di dollari e in 276,7 milioni di sterline. Il pagamento fu ripartito in sessantadue annualità progressive, e il 3 marzo 1926 fu istituita la Cassa per l'ammortamento del debito di guerra per provvedere al pagamento delle suddette annualità con introiti provenienti dalle annualità di riparazioni della Germania. Nel luglio 1931 erano già stati pagati 39,6 milioni di dollari e 26,6 milioni di sterline, quando il pagamento fu sospeso per effetto della moratoria Hoover. Per il mancato prolungamento di questa, nonostante la continuata carenza della Germania, è stata versata agli Stati Uniti la rata del 13 dicembre 1932 e parte di quella del 15 giugno 1933 (totale 22,2 milioni di dollari), in attesa che un accordo internazionale provveda a sistemare definitivamente la questione dei debiti e delle riparazioni (v. riparazioni).
Il capitale del debito estero postbellico ammontava al 30 giugno 1933 a 1653 milioni di lire.
Moneta e credito. - Unificata l'emissione bancaria col r. decr. 6 maggio 1926 n. 812, che attribuì alla Banca d'Italia (la cui costituzione rimonta al 1893) le riserve auree ed equiparate dei Banchi di Napoli e di Sicilia, i loro crediti stessi verso il Tesoro e il Consorzio per sovvenzioni industriali, nonché l'ammontare dei loro biglietti in circolazione al 30 giugno 1926, e unificata anche, in seguito alla legge di stabilizzazione del dicembre 1927, la circolazione bancaria per conto del commercio e quella per conto dello stato, la circolazione bancaria del regno dipende ora esclusivamente dalla Banca d'Italia. Per il r. decr. legge 22 dicembre 1927 n. 2325 questa ha l'obbligo di convertire, contro presentazione presso la sede centrale e in base alla nuova parità aurea (fissata in ragione di gr. 7,919 di oro fino per ogni 100 lire), i proprî biglietti in oro o, a sua scelta, in divise di paesi esteri nei quali sia vigente la convertibilità in oro; e di tenere una riserva in oro o in divise corrispondenti non inferiore al 40% dell'ammontare dei suoi biglietti in circolazione e di ogni altro suo impegno a vista (limite che in seguito agli accordi col Tesoro del giugno 1928 può discendere anche al 30%). Alla Banca d'Italia spetta inoltre l'esercizio di tutte le Stanze di compensazione del regno nonché una funzione di vigilanza su tutte le aziende bancarie che raccolgono depositi (decr. legge 7 dicembre 1926 n. 1511).
Le quattro maggiori banche di credito ordinario sono: la Banca commerciale italiana, il Credito italiano, il Banco di Roma e l'Istituto italiano di credito marittimo (istituite rispettivamente nel 1894, 1895, 1880 e 1916), che insieme raggruppano il 25% circa del patrimonio complessivo degl'istituti di credito e assorbono il 23% circa dei depositi. Hanno notevole importanza inoltre nel nostro sistema bancario alcuni istituti parastatali e principalmente tra essi il Banco di Napoli (1863) e il Banco di Sicilia (1860).
Per ulteriori notizie sulle finanze italiane v. gli articoli sotto i singoli esponenti, per es., banca; bilancio; debito pubblico; emissione; imposte e tasse, ecc.
Bibl.: B. Stringher, Sulle condizioni della circolazione e del mercato monetario durante e dopo la guerra, Roma 1920; id., Unificazione dell'emissione bancaria, Roma 1927; id., Il nostro risanamento monetario, Roma 1928; A. de' Stefani, Documenti sulla condizione finanziaria e economica dell'Italia, Roma 1923; id., La restaurazione finanziaria, Bologna 1926; id., La legislazione economica della guerra, Bari 1926; id., La politique monétaire d'Italie, in La Politique monétaire de divers pays d'Europe, Parigi 1928; e articoli varî in Corriere della Sera, raccolti in volumi annuali, Milano 1927 segg.; E. Rosboch, La politica finanziaria fascista, Roma 1924; id., La riforma monetaria italiana, Milano 1927; G. Volpi di Misurata, Il consolidamento dei debiti con i governi degli Stati Uniti e della Gran Brettagna, Roma 1926; id., Finanza fascista, Roma 1929; Ministero delle finanze (Ragioneria generale delle stato), Il bilancio dello stato dal 1913-14 al 1929-30, ecc., Roma 1931; si possono utilmente confrontare inoltre le varie esposizioni finanziarie al parlamento, le relazioni annuali della Banca d'Italia, il Bollettino parlamentare, le Prospettive economiche di G. Mortara (Città di Castello, I-V, 1921-25; Milano, VI segg., 1926 segg.) e l'Italia economica di R. Bachi (Città di Castello 1915-1922).
Educazione.
Ordinamento scolastico. - I compiti dell'istruzione e quelli dell'educazione pubblica sono affidati al Ministero dell'educazione nazionale che soprintende a tutte le scuole. Le superiori, le artistiche e le musicali ne dipendono direttamente; le altre, attraverso i 19 regi provveditori agli studî (uno per regione) assistiti da una giunta, per l'istruzione media e professionale, e da un consiglio scolastico, per l'istruzione elementare. Ogni provveditorato agli studî, poi, è diviso, solo per ciò che riguarda le scuole elementari, in circoscrizioni rette da un ispettore scolastico. Il ministro, inoltre, a vigilare le scuole non superiori ha un corpo d'ispettori tecnici, ma per le medie e le professionali si vale anche, come ispettori, di professori universitarî o di presidi e professori di scuole medie e professionali. Accanto a questi, sono presso il ministero 18 ispettori amministrativi. ll Consiglio superiore dell'educazione nazionale (in origine "della pubblica istruzione") è un collegio consultivo la cui competenza, limitata in origine all'istruzione superiore, si è allargata ora a ogni grado e ordine di scuole; esso è costituito di 5 sezioni. Attinenti all'ordinamento scolastico sono anche le due commissioni chiamate a dar parere l'una sui ricorsi dei maestri elementari, e l'altra sui ricorsi e i procedimenti disciplinari del personale direttivo e insegnante delle scuole medie e professionali.
Avendo riguardo al loro grado e all'età degli alunni che esse accolgono, le scuole si dovrebbero dividere in elementari, medie, superiori; ma dalle medie si tengono distinte le professionali (agrarie, commerciali, nautiche, industriali), le artistiche, le musicali.
Dalla costituzione del regno d'Italia legge fondamentale dell'istruzione pubblica d'ogni grado fu la legge Casati (promulgata il 13 novembre 1859) fino al 1923 quando la scuola italiana fu riordinata dal ministro G. Gentile, i cui provvedimenti costituiscono quella che fu chiamata la più fascista delle riforme; la quale, peraltro, toccò solo indirettamente le scuole professionali che allora non dipendevano dal Ministero della pubblica istruzione. Di qui quelle discrepanze nell'ordinamento generale che la legislazione successiva al 1928 non ha ancora del tutto eliminato.
Le scuole italiane si può dire che siano tutte o dello stato o di enti pubblici; le private sono un'esigua minoranza, che la riforma del 1923 cercò di favorire mediante il nuovo ordinamento degli esami (cosiddetti esami di stato) e l'adozione del numerus clausus nell'ammissione alle regie scuole medie. Questo principio fu abbandonato nel 1932, ma l'esame di stato è rimasto sempre in vigore e anzi è stato esteso a talune scuole professionali. Esso ha queste caratteristiche: 1. è dato su di un programma che non è quello d'insegnamento ché questo è formato dall'insegnante secondo il suo criterio; 2. è dato dinnanzi a una commissione composta, nella quasi totalità, di professori statali che non sono i professori della classe donde proviene il candidato; 3. gli esaminatori sono tratti, in parte, da quel superiore grado scolastico cui il candidato aspira: quindi non più esame di licenza, ma esame di ammissione (alla 1ª classe di scuola media inferiore, alla 4ª classe ginnasiale, alla 1ª del corso superiore d'istituto tecnico o magistrale; alla 1ª classe di liceo scientifico o classico) ed esame di maturità (classica o scientifica o artistica per coloro che intendono darsi agli studî superiori) o di abilitazione (tecnica o magistrale per coloro che intendono dedicarsi subito a una professione: di ragioniere, di geometra, di maestro). Peraltro anche gli esami di abilitazione aprono la via a taluni degli studî superiori. La spesa dell'istruzione è sostenuta per le scuole elementari e medie integralmente dallo stato; per alcune scuole superiori dallo stato, per altre dallo stato in concorso con enti locali; per quelle professionali da consorzî di enti locali, ma il contributo di gran lunga maggiore è quello statale. Gratuita per l'alunno è soltanto la scuola elementare; l'alunno di scuola secondaria d'avviamento professionale è obbligato a un contributo annuo di L. 25, tutti gli altri alunni sono soggetti a tasse d'immatricolazione, d'iscrizione annua, di esame e di diploma varie secondo il grado e il tipo di scuola; ma gli alunni bisognosi e meritevoli possono ottenerne l'esonero o parziale o totale. Per l'assistenza agli alunni di scuole medie e professionali, v. cassa: Cassa scolastica. Per gli studenti universitarî valgono disposizioni speciali; per gli stranieri le tasse sono ridotte della metà.
L'educazione fisica degli studenti ha avuto negli ultimi anni ordinamento moderno, larghezza di mezzi e notevole sviluppo per merito dell'Opera Nazionale Balilla (v.) cui dal 1927-28 è affidata.
L'insegnamento religioso, già impartito dal 1923-24 nelle scuole elementari, fu introdotto come obbligatorio (per tutti gli alunni i cui genitori non ne chiedano la dispensa) anche nelle scuole medie, professionali e artistiche con la legge 5 giugno 1930, n. 824, in esecuzione dell'art. 36 del concordato dell'11 febbraio 1929. L'insegnamento è affidato per incarico a persona (un sacerdote e solo in via sussidiaria un laico riconosciuto idoneo) scelta dal capo dell'istituto, inteso l'ordinario diocesano. La scelta del libro di testo deve esser fatta fra quelli approvati dagli ordinari diocesani previa revisione della Sacra Congregazione del Concilio. Non vi sono voti né esami in questa materia.
Maestri e professori, anche quelli di grado universitario, sono astretti al loro dovere da un giuramento di fedeltà al regime.
Istruzione elementare. - L'istruzione elementare dalla costituzione del regno d'Italia al 1911 fu compito attribuito per legge ai comuni, che l'assolvevano con i mezzi del loro bilancio - salvo i casi eccezionali e rarissimi in cui altri enti morali vi fossero tenuti per disposizioni statutarie - e sotto la vigilanza delle autorità scolastiche statali: regio provveditore agli studî (uno per provincia assistito da un consiglio per le scuole) e regi ispettori scolastici, pure dislocati nella provincia. Di questo precedente ordinamento due leggi meritano di essere ricordate come più importanti: la legge Coppino del 1877 che stabilì l'obbligo dell'istruzione elementare - affermazione di principio che ebbe solo una parziale applicazione - e la legge Orlando del 1904 che, mediante la concessione di sussidî ai comuni e lo sdoppiamento di classi, migliorò sensibilmente le condizioni dell'istruzione elementare e agevolò l'istituzione della 4ª classe in molte località che avevano soltanto le prime 3. Nel 1911 la legge Daneo-Credaro modificò radicalmente l'ordinamento scolastico, avocando a un organo, quasi statale, creato in ogni provincia alla dipendenza del regio provveditore agli studî (amministrazione provinciale scolastica) le scuole elementari di tutti i comuni che non fossero capoluogo né di provincia né di circondario amministrativo o che per riguardo alla bassa percentuale di analfabeti avessero ottenuto di conservare l'amministrazione delle scuole. A questo nuovo organo i comuni amministrati dovevano un contributo annuo e il ministero concedeva un sussidio. Ai comuni che conservavano l'amministrazione delle scuole elementari rimase l'obbligo di soddisfare con i proprî mezzi anche i bisogni avvenire. Questa legge del 1911 creò con abbondanza di personale i nuovi uffici provinciali scolastici, allargò il ruolo degl'ispettori e istituì quello dei vice-ispettori, accrebbe di componenti il consiglio scolastico cui pose accanto un nuovo organo collegiale, la deputazione scolastica, e nello stesso tempo - merito maggiore - promosse e facilitò l'istituzione d'un gran numero di nuove classi, e portò il corso elementare da 5 a 6 anni creando una 6ª classe che assieme alla 5ª costituì il cosiddetto corso popolare. Va aggiunto che la legge del 1911 organizzò l'assistenza rendendo obbligatoria l'istituzione dei patronati scolastici.
Il presente ordinamento si deve soprattutto alla riforma Gentile del 1923, alla legge del 1929 sui libri di testo e al t. u. 14 settembre 1931 sulla finanza locale per effetto del quale alle amministrazioni scolastiche - che da provinciali s'erano fatte regionali - sono state devolute anche le scuole elementari dei comuni che avevano conservato l'autonomia scolastica e ogni spesa per l'istruzione elementare (eccetto quelle per l'edilizia e per l'arredamento) fu assunta esclusivamente dallo stato. Con r. decr. 1 luglio 1933, n. 786, sono state dettate le norme per il passaggio allo stato di tali scuole. Inoltre il numero dei provveditori agli studî fu ridotto (per effetto della trasformazione delle circoscrizioni scolastiche da provinciali in regionali) da 69 a 19, furono soppresse le deputazioni scolastiche, si ridusse a 7 il numero dei membri del consiglio scolastico, si elevarono notevolmente gli stipendî dei maestri, si adeguò il numero delle scuole ai bisogni della popolazione, si sclassificarono le scuole rurali con meno di 40 alunni, affidando a enti di cultura, sotto la guida dell'autorità scolastica, il compito d'istruire questi piccoli e sparsi nuclei di popolazione. Inoltre si concessero sussidî a scuole sorte per libera iniziativa locale dove gli obbligati non superavano il numero di 15. E infine si organizzò ex-novo l'istruzione dei ciechi e quindi (nel 1925) quella dei sordomuti.
Ma la riforma Gentile ha, soprattutto, rinnovato l'anima della scuola. Vi ha ricollocato l'insegnamenio della religione cattolica, vi ha ristabilito il culto della patria, vi ha reso obbligatorio ed esclusivo l'insegnamento in lingua italiana anche nei pochi comuni ove erano in uso la lingua francese o la lingua tedesca, ha elevato il tono e la cultura del maestro (con la riforma dell'istituto magistrale), ha istituito una settima e ottava classe che insieme con la 6ª andarono a formare i corsi integrativi, ha reso più efficace l'adempimento dell'obbligo scolastico; infine ha tolto ai programmi quanto avevano di meccanico, ha favorito le attitudini artistiche del fanciullo, ha permesso, in una parola, un più libero sviluppo delle sue facoltà. Quanto al libro di scuola (libro di testo), gl'inconvenienti dei sistemi precedenti (decr. luog. 17 giugno 1915, n. 897 e r. decr. 11 marzo 1923, n. 737) e anche la considerazione della maggiore convenienza economica per l'alunno, consigliarono il ministro Fedele ad adottare il libro unico di stato in conformità dei programmi Gentile; libro da rivedersi e aggiornarsi ogni 3 anni (legge 7 gennaio 1929, n. 5).
Oggi la scuola elementare è così ordinata. L'obbligo dell'istruzione s'inizia per il fanciullo al 6° anno d'età, e ha termine quando il fanciullo abbia frequentato l'ultima classe elementare esistente nel luogo (normalmente la 5ª, ma nei centri minori anche la 4ª o soltanto la 3ª elementare) e ne abbia superato l'esame finale. Se però esistano nel luogo le scuole di avviamento professionale (che sono costituite di 3 classi) e il fanciullo non si sia iscritto a una scuola media o ad altra scuola professionale l'obbligo dell'istruzione ha termine con il 14° anno di età. Di regola, le classi maschili sono affidate a maestri, le femminili a maestre, le miste indifferentemente a maestre o a maestri, nominati in seguito a concorso per titoli e per esame. L'insegnamento religioso è impartito dallo stesso insegnante se riconosciuto idoneo dall'ordinario della diocesi.
I fanciulli ciechi sono assoggettati all'obbligo dell'istruzione che si adempie in 10 istituti i quali, nel diverso loro ordinamento, permettono al cieco di dedicarsi al lavoro più rispondente alle sue attitudini (v. ciechi, X, p. 225). L'obbligo dell'istruzione dei sordomuti ha fine non al 14° ma al 16° anno, e si assolve in circa 40 opere pie (v. sordomuti).
Accanto alle statali o pubbliche sano numerose scuole private, specie nei centri maggiori, tenute in grandissima parte da ordini e congregazioni religiose e in piccolo numero da altri enti morali. Anche in queste scuole private soggette alla vigilanza governativa è obbligatorio il libro di stato. Per i giardini d'infanzia v. asilo, IV, p. 942.
Istruzione professionale. - L'ordinamento delle scuole professionali manca di tradizione perché queste scuole sono di data recente; manca d'uniformità perché debbono adattarsi alle variabilissime condizioni ed esigenze dei singoli luoghi, e manca di stabilità a causa degl'incessanti progressi tecnici specie nel campo dell'industria e dell'agricoltura. Così è che a queste scuole, per assicurar loro elasticità e adattabilità di ordinamento, la legge ha dato autonomia amministrativa e, dentro certi confini, didattica, con il creare per ognuna di esse un apposito consorzio di cui fanno parte rappresentanti locali degl'interessi commerciali, industriali e agricoli messi in grado, per tal modo, di concorrere con il consiglio e con il denaro all'incremento della scuola. Tali consorzî funzionano per ora solo in poche provincie.
Sul limitare dell'istruzione professionale si trovano le scuole secondarie d'avviamento professionale, istituite nel 1928, per trasformazione delle scuole d'avviamento al lavoro, dei corsi integrativi (6ª, 7ª e 8ª classe elementare) e della scuola complementare in cui nel 1923 s'era trasformata la vecchia scuola tecnica. Le scuole d'avviamento professionale - triennali - sono 486. Hanno indirizzo diverso: agrario (69), commerciale (238), industriale (162), professionale femminile (17). Vi s'impartiscono da professori laureati e da maestri elementari insegnamenti di materie letterarie e scientifiche, del disegno, della calligrafia e della computisteria, oltre elementari insegnamenti di alcune delle materie tecniche proprie di ciascun indirizzo.
Istruzione agraria. - La prima scuola media agraria è del 1876 (Conegliano); la prima legge organica del 1885 (6 giugno, n. 3141), ma il riordinamento generale è del 1923 (r. decr. 30 dicembre, n. 3214), anno in cui si ridussero le scuole già esistenti, trasformandole in base a questi criterî: 1. assegnare alle scuole medie agrarie il compito di preparare i dirigenti di medie aziende rurali o industriali-agrarie, i subalterni delle grandi aziende e infine gli esperti e i tecnici degl'istituti di propaganda e d'istruzione agraria; 2. dare a ogni scuola una sfera d'azione corrispondente alla circoscrizione agraria; 3. dotare ogni scuola di un'azienda agraria; 4. fare della specializzazione il complemento dell'istruzione agraria. Ora l'insegnamento agrario medio è impartito: a) da scuole agrarie medie (regie e pareggiate); b) da scuole pratiche di agricoltura, consorziali; c) da istituti varî aventi, per lo più, natura di fondazioni.
a) A ogni scuola agraria media è annesso un convitto; il corso di studî è triennale. Le scuole regie sono 23, di cui 9 specializzate (in viticoltura ed enologia; pomologia, orticoltura e giardinaggio; olivicoltura e oleificio; zootecnica e caseificio; economia montana); le pareggiate sono 2. Rilasciano il diploma di perito agrario, che vale per la professione libera e per l'ammissione agl'istituti superiori d'agraria previo esame di cultura generale. Si accede a dette scuole o senza esame di ammissione da chi abbia compiuto 4 anni di scuola media inferiore (corso inferiore dell'istituto tecnico o magistrale, 4ª ginnasiale) o con esame da chi abbia la licenza sia da scuola pratica d'agricoltura, sia da scuola secondaria d'avviamento professionale. Insegnamenti di cultura generale e di cultura tecnica sono comuni a tutte le scuole.
b) Il corso di studî delle scuole pratiche di agricoltura è triennale; alla scuola è annesso il convitto. Queste scuole sono 11 in tutta Italia. Rilasciano una licenza. Vi si accede senz'esame dal fanciullo dell'età di almeno 13 anni che abbia compiuto la scuola elementare o conseguito l'ammissione a scuola media inferiore. Le materie d'insegnamento variano da scuola a scuola, ma il gruppo di materie di cultura generale è comune a tutte. Grande importanza è data alle esercitazioni.
c) Degl'istituti varî, 16 sono assimilati alle scuole pratiche, 14 sono di varia natura; 5 accolgono soltanto alunne.
Istruzione commerciale. - Per molti anni l'istruzione commerciale fu impartita in Italia dall'istituto tecnico. Il primo istituto medio commerciale è del 1902 (Roma), ma ben presto sullo stesso tipo sorsero altre scuole, alle quali un primo ordinamento fu dato dalla legge 30 luglio 1907, n. 414. Riordinate nel 1912 (legge 14 luglio, n. 854) ebbero assetto organico dal r. decr.-legge 7 maggio 1924, n. 749 che subì modificazioni nel 1929 (legge 7 gennaio, n. 8). Ora l'istruzione commerciale s'impartisce in scuole e in istituti.
Le scuole commerciali sono biennali; hanno per fine di preparare gli alunni a esercitare il commercio per conto proprio o a diventare agenti e impiegati di case commerciali. Rilasciano il titolo di computista commerciale. Vi si accede senza esame con la licenza dalla scuola di avviamento professionale o, mediante esame, da chi 3 anni innanzi abbia ottenuto l'ammissione a scuola media inferiore. Vi s'insegnano materie di cultura generale e specifica, oltre 2 lingue straniere. Le scuole regie sono 13, di cui 2 con programmi speciali; le pareggiate sono 10; altre 5 scuole né regie né pareggiate sono sedi d'esame.
Gl'istituti commerciali sono quinquennali (compreso un anno preparatorio) e hanno per fine d'impartire una cultura teorica e pratica sufficiente per coprire uffici direttivi e di controllo nelle aziende commerciali. Rilasciano il titolo di ragioniere e perito commerciale, che vale per l'esercizio della professione e per l'ammissione agl'istituti superiori di commercio. All'anno preparatorio si è ammessi con gli stessi titoli o esami che alla scuola commerciale e inoltre con la promozione dalla 3ª alla 4ª classe sia del ginnasio sia del corso inferiore tecnico o magistrale; al 1° anno normale, con la promozione dall'anno preparatorio, con la licenza da scuola commerciale o mediante esame d'ammissione da chi abbia ottenuto 4 anni prima l'ammissione a scuola media inferiore. Vi s'impartisce l'insegnamento di materie di cultura generale e di materie professionali. Gl'istituti regi sono 24; vi sono inoltre 6 istituti pareggiati e 3 dichiarati sede d'esami.
Istruzione nautica. - La prima organizzazione uniforme delle scuole nautiche ereditate dagli antichi stati è del 1865 (r. decr. 16 ottobre, n. 1712); nel 1866 l'insegnamento fu diviso in due gradi (scuole nautiche e istituti reali); nel 1873 si stabilì una differenziazione di studî per il conseguimento dei diversi titoli (capitano di gran cabotaggio e di lungo corso, macchinista in 2ª e in 1ª, costruttore in 2ª e in 1ª). Nel 1891 si elevò il titolo d'ammissione che non fu più la licenza elementare ma la licenza da un corso preparatorio triennale, cui fu presto sostituita la licenza tecnica. Nel 1917 gl'istituti nautici passati dal Ministero dell'istruzione pubblica a quello della marina divennero da triennali, quadriennali. Nel 1923 (r. decr. 21 ottobre, n. 2557) gli studî furono coordinati per quanto fu possibile a quelli delle scuole medie: fu ridotto il numero degl'istituti (e in questi quello degli allievi), si resero obbligatorî gli esami di licenza, si prescrisse come titolo d'ammissione l'ammissione al corso superiore dell'istituto tecnico o magistrale o al liceo; si provvide a formar gl'insegnanti delle materie speciali dando nuovo idoneo assetto al regio istituto navale superiore di Napoli. Nel 1928 gl'istituti nautici furono nuovamente posti alla dipendenza del Ministero dell'educazione nazionale; nello stesso anno per il tirocinio pratico dei licenziati dalla sezione capitani, fu creata una società di navigazione (Nazario Sauro) alla quale è affidata la gestione d'una nave-scuola (Patria). Il corso dura da 12 a 18 mesi. I regi istituti nautici sono 17 (quadriennali); 3 di essi hanno tutt'e tre le sezioni: capitani, macchinisti, costruttori; 4 hanno soltanto la sezione capitani; gli altri, le sezioni capitani e macchinisti. La licenza vale anche per l'ammissione all'istituto superiore navale di Napoli.
Istruzione industriale. - Le scuole d'arte e mestieri che nel 1861 erano 10, nel 1869 erano salite a 154, vanamente ordinate. Un primo ordinamento fu tentato nel 1877, poi si ebbero provvedimenti singoli e infine la legge organica del 1907 (30 giugno n. 44), e quella, più importante, del 1912 (14 luglio, n. 854) che dotò le scuole di maggiori fondi e le distinse in scuole di 1°, di 2° e di 3° grado. Nuovo impulso a questo ramo d'istruzione fu dato nel maggio 1917 e nell'immediato dopoguerra, ma la legge fondamentale in vigore è il r. decr. 31 ottobre 1923, n. 2523. Per essa l'istruzione industriale è impartita oltre che dalle scuole secondarie d'avviamento professionale (v. sopra), dalle scuole seguenti: corsi per maestranze (corsi complementari) a frequenza obbligatoria annessi alle scuole di tirocinio; laboratorî-scuola per la preparazione di mano d'opera per cui sia richiesta minor cultura; sono 26 oltre quelli annessi alle scuole d'avviamento professionale; scuole industriali e istituti industriali che hanno entrambi lo scopo di fornire quel tirocinio che l'apprendista faceva un tempo nelle botteghe e nelle officine e di preparare all'esercizio d'una professione o come operaio qualificato o come capo d'arte. Le scuole industriale sono triennali o quadriennali e si compongono d'una o più sezioni, volta ciascuna a una diversa arte o mestiere. Vi sono iscritti fanciulli di 13 anni, senz'esame se forniti della licenza da scuola complementare o di avviamento professionale, con esame se abbiano compiuto 3 anni di scuola media. Alla fine del corso, esame di licenza; i licenziati sono ammessi a sostenere un esame d'abilitazione per operaio qualificato. Delle scuole industriali 41 sono regie e 10 libere, riconosciute come sede d'esame; vi sono inoltre 10 scuole di tirocinio a orario ridotto (serali). Gl'istituti industriali sono quinquennali e si compongono di una o più sezioni a seconda delle diverse specialità. Valgono per l'ammissione le stesse norme che per le scuole di tirocinio; i licenziati sono ammessi a sostenere l'esame di abilitazione a perito industriale. Di questi istituti 21 sono regi, 6 liberi (riconosciuti come sedi d'esame).
Si contano, inoltre, 8 scuole professionali femminili regie e 4 libere con fini diversi e molto variamente ordinate. Fanno parte inoltre di questa branca d'istruzione le 4 regie scuole minerarie (riordinate con r. decr. 15 dicembre 1927, n. 2800), quadriennali, per l'abilitazione all'esercizio della professione di capo minatore e di perito minerario.
Istruzione artistica. - Prima del 1923 l'insegnamento dell'arte applicata all'industria veniva considerato come una branca dell'istruzione industriale, epperò le relative scuole dipendevano dal Ministero dell'agricoltura, industria e commercio (poi, dell'Economia nazionale), mentre erano poste alla dipendenza del Ministero dell'istruzione pubblica le scuole d'arte non applicata (istituto o accademia di belle arti). Ma col r. decr. 31 dicembre 1923, n. 3123 anche le scuole d'arte applicata all'industria furono trasferite al Ministero dell'istruzione pubblica. Oggi l'istruzione artistica viene impartita in tre ordini di scuole:
Scuole ed istituti d'arte. - Quelle formano gli artieri, questi, i capi d'arte. La scuola d'arte è il primo grado o corso inferiore dell'istituto d'arte ma può stare anche a sé. Questo nome e questo ordinamento è di poche scuole; la maggior parte ha nome e ordinamento diversi; ma in tutte l'alunno è tenuto, oltre che al lavoro in officina, a seguire insegnamenti artistici e di cultura generale. Oggi si contano in Italia 6 istituti d'arte, 10 istituti d'arte industriale e scuole artistico-industriali, 15 scuole d'arte applicata, 25 scuole professionali, 2 scuole speciali (per l'alabastro a Volterra, per l'incisione del corallo a Torre del Greco).
Licei artistici. - Sono quadriennali; se ne contano 8. Vi si accede mediante esame di ammissione da chi abbia la licenza da scuola complementare o l'ammissione o promozione alla 4ª classe di una scuola media. Accanto alle materie artistiche vi s'insegnano materie di cultura generale. Alla fine del corso si consegue il diploma di maturità artistica. Queste scuole comprendono due sezioni, con il fine di preparare l'una agli studî dell'accademia di belle arti, l'altra agl'istituti superiori d'architettura e agli esami di abilitazione per l'insegnamento del disegno nelle scuole medie e professionali.
Accademie di belle arti. - Sono 9 e hanno il compito di preparare all'esercizio dell'arte mediante la frequenza e il lavoro nello studio d'un maestro. Comprendono corsi di pittura, scultura e decorazione (alcune anche di scenografia) della durata di 4 anni. L'insegnamento di queste materie può essere impartito da professori di ruolo o anche, a titolo privato, da maestri d'arte (riconosciuti dal Ministero) ai quali viene concesso all'uopo l'uso gratuito d'uno studio.
Istruzione musicale. - S'impartisce nei regi conservatorî di musica di Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Parma e Roma (presso quest'ultimo è anche una scuola di recitazione) secondo l'ordinamento stabilito nel 1923 (r. decr. 31 dicembre, n. 3123) e completato nel 1930 (r. decr. 11 dicembre, n. 1845). In ogni conservatorio vi sono di regola oltre le scuole di composizione e di canto, scuole per i singoli strumenti musicali. Il corso di solfeggio è comune a tutte le scuole. L'insegnamento è, nelle singole scuole, diviso in 2 o 3 periodi. Per l'ammissione al primo anno del primo periodo occorre la promozione alla 5ª classe elementare; per l'ammissione a qualsiasi altro anno d'una singola scuola occorre superare un esame d'idoneità. Vi sono inoltre 10 licei musicali pareggiati. V. anche conservatorio.
Istruzione media. - La scuola media dalla legge Casati al 1923 non subì modificazioni nelle sue linee sostanziali: la scuola classica costituita del ginnasio e del liceo; l'uno di 5 e l'altro di 3 anni; l'istituto tecnico originariamente di 3, poi di 4 anni, diviso in sezioni (fisico-matematica, commercio e ragioneria, agrimensura, agronomia, industriale), la scuola tecnica, di tre anni, con la sua duplice finalità di scuola per sé stante e di scuola preparatoria sì all'istituto tecnico come alla scuola normale (questa ultima pure di tre anni, per la formazione dei maestri elementari), restarono, salvo particolari di minor conto, nel loro aspetto originario, o quasi, sino all'avvento del governo fascista. Solo si aggiunsero, a quelle, due altre scuole: la sezione moderna del liceo ginnasio, voluta dai fautori di una scuola media per i giovani desiderosi di seguire gli studi scientifici superiori, ai quali studî sembrava che la sezione fisico-matematica degl'istituti tecnici fornisse inadeguata preparazione; e il corso magistrale, annesso ai ginnasî isolati, che permetteva agli alunni del ginnasio di conseguire il diploma di maestro elementare. Tormentatissimo sempre l'argomento degli esami e delle classificazioni, ché si volevano - e tale contraddizione non è mai cessata - programmi estesi, studî serî, esaminatori coscienziosi e una bassa percentuale di riprovati. I professori, poi, lasciati prima per lungo tempo in balia dell'amministrazione centrale, furono poi (1906 e 1914) dotati d'uno stato giuridico ispirato al sospetto e alla diffidenza verso le autorità, ossia di garanzie tali e tante che volendole tutte rispettare, dovevano rinunziare di fatto al governo della scuola il preside sul luogo e il ministero dall'alto. E poiché la popolazione scolastica cresceva in relazione non tanto all'aumento della popolazione del regno quanto alla crescente facilità degli studî e per ragioni di economia non si poteva creare un adeguato numero di nuovi istituti, si permetteva che quelli esistenti si affollassero oltre misura e a ciò si formavano annualmente, secondo l'occorrenza, nuove classi, e non interi corsi, le quali e per la loro instabilità e per ciò che l'obbligo d'insegnamento di un professore non si restringe normalmente a una classe soltanto, non potevano esser tenute da professori di ruolo. Erano queste le cosiddette classi aggiunte affidate frammentariamente a insegnanti titolari di altre classi e talora di altre materie sia dello stesso sia di altro istituto del luogo, cosicché gli alunni di queste classi restavano senza una guida e i loro professori non si sentivano soggetti al capo di quell'istituto ove solo per poche ore settimanali si recavano a esercitare il proprio ministero. La scuola media si andava così meccanizzando e abbassando.
Urgeva dunque riformare la scuola media e la riforma doveva operare così sulla quantità come sulla qualità degl'istituti. E questo fece. Infatti: 1. soppresse le classi aggiunte facendo ogni scuola capace d'un determinato insuperabile numero d'alunni (sistema dei corsi paralleli); 2. soppresse le sezioni moderne dei licei ginnasî; 3. ridusse a 95 i ginnasî isolati; 4. soppresse i corsi magistrali (44) e diminuì da 153 a 87 le scuole normali che furono trasformate nei nuovi istituti magistrali; 5. soppresse negl'istituti tecnici tanto le sezioni di agronomia (doppioni delle scuole agrarie medie) quanto le sezioni fisico-matematiche e riunì agli istituti industriali, ossia a scuole meramente professionali, le sezioni industriali; 6. creò al posto delle sezioni fisico-matematiche e delle sezioni moderne dei licei ginnasî un istituto a sé stante, il liceo scientifico, di 4 anni, 7. diede un apposito corso inferiore quadriennale così all'istituto tecnico come all'istituto magistrale; 8. creò il liceo femminile che però dopo stentata vita cessò dovunque alla fine del 1927-28; 9. trasformò la scuola tecnica in scuola complementare con schietto carattere popolare, alleviando l'orario dell'alunno, dando a questo unità di guida e unità d'indirizzo alla scuola. Ma questa scuola, come si disse, fu mutata (1928 e 1929) in scuola secondaria d'avviamento professionale.
A migliorare, poi, la costituzione interna e il funzionamento della scuola il ministro Gentile usò questi mezzi: 1. miglioramento della classe dei professori, prescrivendo per la nomina a titolare il concorso per esami, elevando le condizioni economiche di essi, creando, premio ai migliori, il ruolo d'onore; 2. la riforma dei programmi (1923) indirizzati a restituire agl'insegnanti individualmente e collegialmente tutta la responsabilità dei metodi d'insegnamento, a dare un contenuto serio alla cultura, a richiamare l'attenzione dalla forma sulla sostanza, dalla grammatica e dalla retorica sull'arte, sul pensiero e sugl'interessi reali, umani e profondi dello spirito. Questi programmi furono modificati nel 1924, nel 1925, nel 1927, nel 1929 e nel 1930; 3. la concentrazione degl'insegnamenti, affidando materie affini allo stesso professore; 4. l'esame di stato, ossia l'esame d'ammissione e di licenza sostenuto dinnanzi a giudici che non fossero gl'insegnanti del candidato.
Quanto s'è detto spiega il presente ordinamento dell'istruzione media, che così si compendia. Poste alla dipendenza del regio provveditore agli studî che è assistito da una giunta per l'istruzione media sono le seguenti scuole:
1. Liceo e ginnasio, istituti naturalmente riuniti (i regi sono 180). Esistono tuttavia un r. liceo isolato e 111 regi ginnasî isolati. Quinquennale il ginnasio, triennale il liceo. Fra le varie materie d'insegnamento vi lanno largo posto il latino e il greco, la filosofia e la storia. Alla 1ª ginnasiale si accede dal fanciullo, che sia nel 10° anno di età, mediante un esame d'ammissione (che vale per la 1ª classe inferiore d'ogni altra scuola media); alla 1ª liceale, pure mediante esame d'ammissione da chi 5 anni prima sia stato ammesso a una scuola media di grado inferiore. Alla fine della 3ª liceale, esame di maturità classica, che è titolo d'iscrizione a ogni facoltà universitaria e istituto superiore.
2. Liceo scientifico, quadriennale. I regi sono 52. Mancando questa scuola di un proprio corso inferiore vi è iscritto, mediante esame d'ammissione, chi, 4 anni prima, sia stato ammesso a una scuola media inferiore. Non vi s'impartisce l'insegnamento del greco; vi s'insegnano una lingua moderna e il disegno, e più intenso che nel liceo classico è il programma delle scienze, segnatamente della matematica. Alla fine della 4ª classe, esame di maturità scientifica che dà titolo all'iscrizione a tutti gl'istituti superiori e a tutte le facoltà universitarie eccetto quelle di giurisprudenza e di filosofia e lettere.
3. Istituto tecnico: corso inferiore e corso superiore entrambi quadriennali e fino a tutto il 1930-31 necessariamente congiunti. Sono 103 (regi); esistono inoltre 30 regi corsi inferiori isolati. Vi è l'insegnamento del latino nel solo quadriennio inferiore. Quello superiore, cui si accede da chi 4 anni innanzi abbia ottenuto l'ammissione a una scuola media di 1° grado, è diviso in sezione di ragioneria e commercio e sezione di agrimensura; da quella mediante esame d'abilitazione si esce con il diploma di ragioniere, da questa con il diploma di geometra.
4. Istituto magistrale; corso inferiore quadriennale, corso superiore triennale, necessariamente congiunti. Vi è l'insegnamento del latino in tutto l'istituto. Alla fine, esame di abilitazione magistrale, ossia di abilitazione all'insegnamento elementare. I regi istituti magistrali sono 106.
Oltre alle scuole regie, di cui s'è detto, il compito dell'istruzione media è assolto da scuole pareggiate e private. Le prime perfettamente modellate, per legge, sul tipo della scuola media sono tenute da comuni, da provincie e da altri enti morali, le seconde invece sono, nella quasi totalità, di ordini e congregazioni religiose. Si pensava che per effetto dell'esame di stato, trovandosi l'alunno di scuola privata dinnanzi agli esaminatori nelle stesse condizioni che quello di scuola pubblica, le scuole private si sviluppassero ossia crescessero di numero e si rinvigorissero. Ma la previsione si è scarsamente avverata.
In ultimo resta a dire degli educatorî governativi, conservatorî (della Toscana), collegi di Muria (di Sicilia) e di altre istituzioni femminili con o senza convitto, volte all'istruzione delle giovinette. Ma l'istruzione che oggi vi s'impartisce, oltre l'elementare, è pura istruzione magistrale perché una scuola di diverso tipo ossia di pura cultura, che non conduca, perciò, a un titolo professionale, non è desiderata per le stesse ragioni per le quali non ebbe fortuna alcuna il liceo femminile creato nel 1923. Per i convitti nazionali, v. collegio.
Istruzione superiore. - La libertà d'insegnamento cui la legge Casati aveva informato l'ordinamento universitario invece che rafforzarsi nella pratica e nel costume andò man mano scomparendo e non per effetto soltanto d'improvvide leggi. E poiché con il tramonto di quella libertà si avvertì il decadimento dell'università italiana, parlamento e governo si adoperarono attorno a varî disegni di legge aventi per oggetto l'autonomia didattica e amministrativa dell'università. Nessuno di quei disegni si tradusse in provvedimento e gl'inconvenienti lamentati si aggravarono. Troppi studenti, troppe università, troppa facilità di accedervi. Ridurre il numero delle università o quanto meno, ove non si volesse o potesse contrastare a città gelose delle antiche e spesso gloriose tradizioni dei proprî istituti superiori, concentrare le cure e i mezzi del governo sulle università più importanti; accertare con maggior rigore che per il passato la maturità di chi vi vuole essere ammesso; rendere più efficace, più vivo l'insegnamento; obbligare lo studente a uno studio più intenso e nel tempo stesso riconoscergli il diritto di vedere con i proprî occhi e di pensare con la propria mente; dargli i mezzi materiali se povero, concedergli la possibilità di perfezionarsi negli studî se dotato di singolari qualità; e infine, togliendo alla laurea il valore di titolo professionale, allontanare dall'insegnamento del professore e dalla preparazione dello studente la perniciosa influenza delle esigenze di carriera. Tutto ciò fu realizzato nel 1923 dal ministro Gentile (r. decr. 30 settembre 1923, n. 2102) nei limiti entro i quali tali concetti possono tradursi in legge. I provvedimenti emessi poi in grande numero per ritoccare, attenuare, coordinare le disposizioni di quella riforma, non ne hanno alterato l'intima essenza e le principali sue linee esteriori.
Il numero delle università regie fu portato a 21 (essendosi regificata l'università libera di Perugia, trasformati in università l'istituto di studî superiori di Firenze e gl'istituti clinici di perfezionamento di Milano, e fondata l'università di Bari) delle quali, peraltro, 10 soltanto (Bologna, Cagliari, Genova, Napoli, Padova, Palermo, Pavia, Pisa, Roma e Torino) furono poste a completo carico del bilancio dello stato. Si riordinarono gl'istituti superiori d'ingegneria (costituendoli di un corso triennale di studî di applicazione che fanno seguito a un corso biennale di studî propedeutici ordinati presso le facoltà di scienze matematiche) e si crearono, in un secondo tempo, gl'istituti superiori di architettura, dei quali uno soltanto (quello di Roma) a carico dello stato; infine si coordinarono alle università gl'istituti superiori di scienze economiche e commerciali. Minori modificazioni furono introdotte nell'ordinamento degli istituti superiori agrarî e di quelli di medicina veterinaria.
Complessivamente sono a carico dello stato, oltre le 10 università, i seguenti istituti superiori: 6 d'ingegneria, 1 di architettura, 6 di agraria e 8 di medicina veterinaria. Sono invece mantenute, mediante convenzioni fra stato e altri enti, 11 università e i seguenti istituti superiori: 3 d'ingegneria, 1 di chimica industriale, 4 di architettura, 1 di medicina veterinaria e 9 di scienze economiche e commerciali.
Hanno inoltre grado universitario e personalità giuridica gl'istituti superiori di magistero (3 regi e 3 pareggiati) ove coloro che sono provvisti di abilitazione magistrale possono conseguire il diploma o di materie letterarie, o di filosofia e pedagogia (aventi esclusivo valore di qualifiche accademiche) o di abilitazione alla vigilanza nelle scuole elementari. E inoltre vanno qui ricordati 5 istituti superiori con ordinamento speciale: l'istituto orientale di Napoli (v. napoli), per l'insegnamento delle lingue dei popoli dell'Asia e dell'Africa e delle discipline coloniali; l'istituto superiore navale di Napoli, che prepara all'esercizio della professione e degli uffici attinenti all'industria e al commercio marittimi; la scuola normale superiore di Pisa, che prepara all'insegnamento nelle scuole medie accogliendo 100 alunni convittori a posto gratuito; l'accademia fascista di educazione fisica e giovanile di Roma (v. balilla); e l'università per stranieri in Perugia che organizza speciali corsi di letterature e di cultura per stranieri.
Il governo delle università e degl'istituti superiori appartiene al rettore nelle università, e al direttore negl'istituti superiori, al senato accademico, al consiglio d'amministrazione, ai presidi e ai consigli delle facoltà e scuole. Rettori, direttori e presidi sono nominati dal ministro; il senato accademico (che è solo delle università) è composto del rettore e dei presidi, il consiglio di amministrazione (delle università e istituti superiori a carico dello stato) è composto del rettore o direttore, di 2 professori designati dalle facoltà e scuole, di due rappresentanti del governo; i consigli di facoltà di tutti i professori, di ruolo, della medesima.
Non tutte le università comprendono lo stesso numero di facoltà: le maggiori, come Roma, ne hanno 5: giurisprudenza; medicina e chirurgia; filosofia e lettere; scienze matematiche, fisiche e naturali; scienze politiche, oltre un certo numero di scuole determinato, università per università, dal rispettivo statuto che è l'ordinamento interno e didattico che ciascuna università ha potestà di darsi. Chi abbia superato il numero di esami prescritto dallo statuto consegue la laurea o diploma.
Ma per cogliere la vera essenza del presente ordinamento degli studî superiori occorre soffermarsi sui varî caratteristici aspetti di quello che fu il vero principio informatore del decreto legislativo del 1923:
1. Università libere. - È resa possibile l'apertura di qualunque università o scuola privata con diritti uguali a quelle di stato per ciò che concerne i gradi accademici e il valore legale di questi. Inoltre è concesso ai professori di queste di essere trasferiti alle università regie. Per effetto di tali disposizioni accanto alle vecchie università libere di Camerino, Ferrara, Urbino e all'istituto di magistero di Napoli sono sorti in Milano: l'università del S. Cuore e l'istituto superiore di magistero "Maria Immacolata", e in Torino l'istituto superiore di magistero del Piemonte.
2. Autonomia amministrativa. - Ogni università o istituto superiore (salva la facoltà d'ispezione da parte del Ministero) eroga come meglio crede le entrate del proprio bilancio che sono costituite dalle rendite patrimoniali, dai contributi dello stato (o dello stato e degli enti locali) e dalle tasse scolastiche e soprattasse.
3. Libertà didattica, che ha l'espressione massima nel diritto riconosciuto a ogni università o istituto superiore di dettarsi uno statuto. Questa libertà didattica non è soltanto la libertà d'insegnare, ciascun professore a modo proprio secondo le sue dottrine e i suoi convincimenti scientifici, "ma facoltà in ciascun istituto di organizzare tutti insieme i proprî insegnamenti. Libertà non solo di combinare variamente ai fini diversi le varie materie d'insegnamento ma, prima di tutto, di stabilire e definire quali conviene che siano queste materie e quale il miglior modo d'impartirne l'insegnamento e di accertare il profitto dei giovani, e inoltre libertà di scelta dei professori".
4. Libera docenza. - A proposito di questo istituto, è stato stabilito: a) che l'abilitazione alla libera docenza si acquisti normalmente solo per concorso per titoli integrato da una conferenza sui titoli stessi e, eventualmente, da prove sperimentali e sia sottoposta alla conferma della facoltà o scuola, e si perda se dopo cinque anni di effettivo esercizio non sia confermata ovvero se per cinque anni consecutivi non sia stata esercitata, b) che a liberi docenti della materia o di materia affine siano preferibilmente affidati gl'incarichi degl'insegnamenti ufficiali quando a questi non si voglia o possa preporre un titolare.
5. Esami di stato. - Poiché la laurea e il diploma conferito dall'università o istituto superiore ha esclusivo valore di qualifica accademica, il laureato che voglia esercitare una qualunque professione deve assoggettarsi a uno speciale esame di stato. Per ogni professione gli esami di stato vengono indetti annualmente su programma ufficiale dal Ministero dell'educazione nazionale; quelli per le professioni legali dal Ministero di grazia e giustizia. Per l'abilitazione all'esercizio della professione di insegnante di scuole medie vale l'idoneità conseguita negli esami di concorso indetti periodicamente dal Ministero dell'educazione nazionale al fine di coprire le cattedre vacanti nelle regie scuole medie.
L'assistenza agli studenti si esercita a mezzo di due istituzioni esistenti presso ciascuna università o istituto superiore: la cassa scolastica e l'opera, quest'ultima con personalità giuridica. La cassa scolastica cui è devoluto (oltre le elargizioni degli enti e dei privati) il 10% delle tasse pagate dagli studenti, provvede con questi fondi a fornire i giovani di disagiate condizioni economiche e più meritevoli, dei mezzi per far fronte in tutto o in parte al pagamento delle tasse, soprattasse e contributi. L'opera, invece, ha il compito più largo di promuovere, attuare e coordinare le varie forme di assistenza materiale, morale e scolastica (casa dello studente, mensa universitaria, ecc.) e organizzare anzitutto un ufficio sanitario. All'opera è dovuta una tassa (di L. 250) che ciascun laureato o diplomato deve pagare nel presentarsi all'esame di abilitazione all'esercizio della professione. Il coordinamento delle varie forme di assistenza spetta a un comitato centrale per le opere universitarie che ha sede presso il Ministero dell'educazione nazionale.
Infine, sul bilancio del Ministero, agli studenti italiani e stranieri si possono concedere assegni annui per seguire corsi o compiere studî presso università, istituti superiori o istituti d'istruzione artistica rispettivamente dell'estero o del regno; e in favore di laureati e diplomati, sono aperti annualmente concorsi a borse di perfezionamento presso università o istituti superiori italiani o stranieri.
Per la storia delle università, v. università.
Istituti scientifici e culturali. - Sotto le voci archivio; biblioteca; galleria; museo; accademia è svolta la trattazione storica e tecnica dei varî istituti scientifici e culturali italiani e sotto le voci dedicate alle singole città d'Italia l'enumerazione attuale e descrittiva di essi: è data qui una rapida rassegna generale dei principali enti italiani di cultura che, direttamente o indirettamente, dipendono dagli organi centrali dello stato, i ministeri (in particolare quello dell'Educazione nazionale), i quali contribuiscono anch'essi con i loro organi consultivi e tecnici - consigli superiori, comitati e commissioni permanenti, laboratorî, gabinetti, stazioni sperimentali, ecc. - alla conoscenza in tutti i suoi aspetti e interessi, e in genere al progresso della scienza e della cultura. Tutti sono coordinati e indirizzati dagli alti consessi scientifici dello stato, quali il Consiglio nazionale delle ricerche, l'Unione accademica nazionale, l'Istituto centrale di statistica, ecc.
Gli archivî italiani pubblici dipendono dal Ministero dell'interno, e si dividono in: regi archivî di stato (quello di Bologna istituito nel 1874; di Cagliari, 1763; di Firenze, 1852; di Genova, 1817; di Lucca, 1859; di Massa, 1857; di Milano, 1785; di Modena, 1461; di Napoli, 1808; di Palermo, 1814; di Parma, 1592; di Reggio Emilia, 1892; di Roma, 1871; di Siena, 1858; di Torino, sec. XIV; di Trento, 1919; di Trieste, 1926; di Venezia, 1819; di Zara, 1624); archivî provinciali di stato (in alcuni capoluoghi di provincia del Napoletano e della Sicilia); archivî provinciali, comunali, ecclesiastici, familiari ecc.
Le biblioteche dipendono dall'apposita direzione generale del Ministero dell'educazione nazionale, e si possono distinguere in: governative o statali, delle provincie e dei comuni, di enti culturali, e private. Le statali si raggtuppano in: a) nazionali o centrali (quella di Firenze, fondata nel 1714; la Braidense di Milano, 1770; la Vittorio Emanuele III di Napoli, 1734; quella di Palermo, 1782; la Vittorio Emanuele II di Roma, 1875; la Marciana di Venezia, 1468); b) governative semplicemente dette, con o senza appellazione propria (quella di Cremona, 1774; la Marucelliana, 1702, la Mediceo-Laurenziana, 1571 e la Riccardiana, fine sec. XVI, di Firenze; quella di Gorizia, 1822; la Palatina di Parma, 1769; quella di Lucca, del sec. XVII; l'Angelica, 1614, la Casanatense, 1700, la Medica, 1925, quella del Risorgimento, 1917 e la Vallicelliana, 1581, di Roma); c) biblioteche universitarie (fra cui l'Estense di Modena e l'Alessandrina di Roma, 1667); d) biblioteche annesse a enti statali (della Camera dei deputati, del Senato, dei ministeri, delle accademie e degl'istituti accademici); e) delle provincie e dei comuni: fra le più ragguardevoli, dell'Archiginnasio di Bologna, 1801; la Queriniana di Brescia, 1743; la Federiciana di Fano, 1681; la Comunale di Ferrara, 1746; la Berio di Genova, 1775; la Labronica di Livorno, 1817; le Comunali di Mantova, 1780; di Padova, sec. XII; di Palermo, 1760; di Perugia, sec. XVII; di Siena, 1750; di Trento, sec. XVIII; di Udine, 1827; di Verona, 1792, ecc.; f) le civiche o municipali (di Milano, 1890; di Reggio Emilia, 1796; di Rovereto, 1764; di Torino, 1869; di Trieste, 1796; la Oliveriana di Pesaro, 1793; la Forteguerriana di Pistoia, 1450; la Classense di Ravenna, 1710; la Gambalunghiana di Rimini, 1619; la Bertoliana di Vicenza, 1696); h) di enti regionali di cultura, di fondazioni o corporazioni religiose: la Zelantea di Acireale, circa 1670; della Fraternità dei laici in Arezzo, 1603; della Badia della SS. Trinità di Cava; la Malatestiana di Cesena, 1452; l'Ambrosiana, 1609; quella di Montecassino; l'Antoniana, sec. XIII, di Padova; del Seminario di Padova, 1671; de Concordi di Rovigo, 1580; di Santa Scolastica a Subiaco; la Querini-Stampalia, 1870 a Venezia; la Capitolare a Verona; i) o finalmente di famiglie principesche (come la Trivulziana di Milano, secolo XVIII) o di privati. Abbiamo enumerate fra le penultime alcune biblioteche ecclesiastiche che, secondo il Concordato, dipendono direttamente dalla Santa Sede, la quale ha per sua biblioteca centrale l'Apostolica Vaticana (v. vaticano).
Tra i musei, che, se hanno in prevalenza o esclusivamente quadri, prendono nome di gallerie, pinacoteche, quadrerie secondo la loro importanza e collocazione, si distinguono rispetto alla qualità delle raccolte: gli archeologici o d'antichità, quelli spiccatamente artistici o medievali e moderni, i numismatici, i lapidarî o epigrafici, le collezioni egiziane di Torino, ecc.; etrusche di Firenze, di Cortona, ecc.; orientali di Genova, di Venezia, ecc. dei gessi o gipsoteche, ecc.; rispetto alla loro quantità e varietà, i nazionali, i regionali, provinciali, comunali o civici, dei duomi, delle fabbricerie, ecc.; rispetto alla loro dipendenza e amministrazione, i governativi o regi, quelli appartenenti a provincie, a comuni, a capitoli, abbazie, santuarî, ecc. Sono regi: l'Archeologico d'Ancona, la Pinacoteca di Bologna, l'Archeologico di Cividale, in Firenze il R. Museo archeologico, le Gallerie degli Uffizî, e Palatina, il Museo Nazionale e quello di S. Marco, il Museo Nazionale di Messina, il R. Gabinetto numismatico di Brera a Milano, Pinacoteca, Museo e Medagliere Estense a Modena, il Museo Nazionale di Napoli e quello di Palermo, Museo di antichità e Pinacoteca di Parma, i Musei e Gallerie Nazionali di Roma, il Nazionale di Taranto, RR. Museo e Pinacoteca di Torino, RR. Gallerie di Venezia ecc. Più di 300 sono complessivamente i musei d'Italia, alcuni famosissimi, parecchi abbastanza noti, molti piccoli e poco o punto conosciuti, quantunque non manchino neppur questi di cimelî, singolarmente importanti per la storia o per le arti locali, come il Museo internazionale delle ceramiche in Faenza. Occorre appena menzionare i grandiosi celeberrimi Musei Vaticani, le collezioni missionarie ed etnografiche cristiane di Roma, i tesori delle basiliche e dei duomi, ecc.
La vigilanza e tutela sulle biblioteche e musei, sulle collezioni custodite dallo stato o comunque entro i limiti dello stato, di proprietà pubblica e anche privata, l'inventariamento degli oggetti d'arte di carattere o d'importanza nazionale, sono esercitati dal governo mediante apposite soprintendenze dipendenti dal Ministero dell'educazione nazionale; mediante i direttori degl'istituti governativi locali, e anche mediante una rete d'ispettorati onorarî, bibliografici, archeologici e di belle arti.
La funzione di elaborare e illustrare gli elementi culturali, le memorie e i documenti del passato, per promuovere e diffonderne la conoscenza, alla costruzione della scienza della natura e dello spirito, spetta per un verso agl'istituti d'insegnamento e per un altro a quelli d'attività ricercatrice e costruttiva del sapere umano, alla scuola cioè e all'accademia o consociazione del lavoro scientifico propriamente detto. Dell'ordinamento didattico statale si fa parola a p. 787; qui si tratta delle associazioni scientifiche.
Sono accademie di riconosciuto carattere nazionale e cosiddette di nomina regia: la Reale Accademia d'Italia in Roma, la R. Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna; la R. Accademia della Crusca per la lingua d'Italia in Firenze; il R. Istituto Lombardo di scienze e lettere di Milano; la Società Reale di Napoli; la R. Accademia di scienze, lettere e belle arti di Palermo; la Società Italiana delle scienze, detta dei XL, in Roma; la Reale Accademia Nazionale dei Lincei; la R. Accademia delle scienze di Torino; l'Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti di Venezia. A queste s'aggiungono nei centri maggiori e nei minori: le associazioni con scopi scientifici, quelle con scopi tecnici ed economici, gli enti e associazioni per l'igiene e la pubblica assistenza, con intento fra teorico e pratico, le associazioni professionali e di categoria, enti e associazioni per la diffusione della cultura in genere, in particolare per la ricerca storica, cioè enti e società speciali per la storia, l'archeologia e le belle arti. Undici Deputazioni di storia patria (v. XII, p. 637) attendono alla ricerca e pubblicazione delle fonti storiche, regionali e nazionali, afffiancate da istituti, associazioni, comitati e direzioni di periodici di storia, ecc., nelle minori sedi. Il lavoro è per quanto è possibile coordinato o integrato dal R. Istituto storico italiano con sede in Roma.
Accanto agl'istituti d'insegnamento propriamente detti, e spesso annessi a essi, sono inoltre particolari istituti e laboratorî, senza funzione didattica, stazioni sperimentali, orti botanici, ecc., che, forniti di propria biblioteca e spesso di proprî gabinetti, attendono e collaborano, con scopi teorici o teorico-pratici, alla ricerca, incremento e diffusione della scienza. Tutti questi istituti e laboratorî scientifici (che oggi in Italia assommano a più che 800) si possono raggruppare in tre categorie: 1. di scienze fisico-matematiche e geografiche (osservatorî astronomici, geodetici, geofisici, istituti di fisica, di chimica, d'ingegneria, e laboratorî sperimentali per determinate industrie); 2. istituti di biologia (antropologia, fisiologia, zoologia, botanica, ecc.), d'igiene e batteriologia, di agraria (patologia vegetale, bachicoltura, zootecnica, ecc.); 3. istituti per le scienze mediche Per l'enumerazione ed illustrazione di essi si rimanda alle fonti citate nella bibliografia.
Si ricordano da ultimo gl'istituti culturali internazionali che sono in Italia in gran numero: ad esempio l'Istituto internazionale di agricoltura a Roma; gl'istituti esteri fondati in Italia, con particolare carattere e scopo, archeologico, artistico, ecc. nei principali più ricchi centri di cultura (Roma, Firenze, Napoli, Bologna, ecc.), da numerose nazioni d'Europa e d'America; gl'istituti italiani all'estero; le missioni scientifiche, ecc.
Bibl.: A intendere il nuovo spirito informatore della scuola v. soprattutto le opere di G. Gentile, di G. Lombardo-Radice, E. Codignola, ecc. Delle numerosissime pubblicazioni ufficiali v. sull'istruzione superiore la relazione Ceci della Commissione reale per il riordinamento degli studî superiori, I, Roma 1914. Fra le più recenti v. Annali dell'istruzione elementare, rassegna bimestrale, annate I a V, Roma, VI e segg., Firenze; Annali della pubblica istruzione, II, Istituti medi e superiori, anno 1°, Roma 1924-26; poi, Annali dell'istruzione media, anno 2° a 9°, Firenze 1926-32; L'istruzione nautica in Italia, Roma 1931; Notizie sull'istruzione agraria media in Italia, Roma 1930; L'insegnamento commerciale medio in Italia, Roma 1930; L'istruzione industriale in Italia, Roma 1930. V. inoltre: D. Lupi, La riforma Gentile e la nuova anima della scuola, Milano 1924; L. Severi e G. Sangiorgio, Manuale di legislazione sull'istruzione media, Torino s. a.
Per gl'istituti culturali e scientifici: oltre agli organi d'informazione bibliografica forestieri e generali (quali Minerva e Index generalis), oggi si hanno anche in Italia varî repertorî enumerativi e descrittivi; ad es. S. Pivano, Annuario degl'istituti scientifici italiani, Bologna-Roma 1919-20, I e II. Allo scopo di preparare e svolgere la bibliografia nazionale italiana il Consiglio nazionale delle ricerche ha già dato una serie di pubblicazioni descrittive, statistiche e bibliografiche, che attraverso varie edizioni, vanno diventando sempre meglio informate e complete; sono: Enti culturali italiani, 1ª ed. in un vol., Bologna 1929; 2ª ed., in 3 voll., Roma 1931-32; Istituti e laboratori scientifici italiani, 1ª ed. in un vol., Bologna 1928; 2ª ed., in 3 voll., Roma 1931-32; Periodici italiani scientifici e tecnici e di cultura generale, 3ª ed., Roma 1931, ecc. Per gli enti culturali delle due categorie particolarmente qui contemplate, utili contributi storici e bibliografici sono raccolti nella rivista Accademie e biblioteche del Ministero dell'educazione nazionale. - Per le collezioni artistiche, archeologiche ecc., v. Le gallerie nazionali italiane, Roma 1894-1902, voll. 5; e Fr. Pellati, I musei e le gallerie d'Italia, Roma 1922. - Per gl'istituti stranieri in Roma, cfr. i ricchi Annales institutorum quae provehendis humanioribus disciplinis artibusque colendis a variis in urbe erecta sunt nationibus, Roma 1928-31, voll. 3.
Dominî coloniali.
I dominî esterni dell'Italia sommano complessivamente a circa 2.471.535 kmq. di territorio, con circa 2.430.000 ab., e sono quasi per intero costituiti dalle tre colonie africane dell'Eritrea, della Somalia e della Libia; all'infuori di esse comprendono le Isole italiane dell'Egeo e l'isoletta di Saseno nell'Adriatico meridionale. Di fronte ai 34 milioni di kmq. con 450 milioni di ab., costituenti l'Impero Britannico e ai 12.700.000 kmq. e 65 milioni di ab. del dominio coloniale francese, la disparità appare enorme; e tale essa è anche rispetto ai dominî esterni di alcuni stati minori, quali l'Olanda (2.000.000 kmq. e 62 milioni di ab.) e il Belgio (2.385.000 kmq. e 13 milioni di ab.). Tale disparità ha la sua prima radice in cause d'ordine storico ben note: assorbita interamente, fino al 1870, dal problema, sopra ogni altro preponderante, della ricostituzione della sua unità, non poteva l'Italia - o per essa i governi degli stati più vitali - partecipare al movimento coloniale che caratterizza il secolo XIX; né ciò fu possibile al nuovo regno dopo la sua proclamazione e neppur dopo la presa di Roma, perché, per quanto uomini di stato avveduti sostenessero sin d'allora la necessità di un'espansione politica oltremare e avviassero anche qualche timido tentativo, le preoccupazioni inerenti alla riorganizzazione interna sembrarono assorbire esclusivamente l'attenzione dei dirigenti la politica italiana. Quando, dopo il 1880, si entrò, pur attraverso dubbî e incertezze, nella fase di un'attuazione concreta, la partizione dei possedimenti coloniali era già nella massima parte avvenuta e l'Italia si trovava esclusa dalle regioni più ricche o più promettenti in tutti i continenti.
Per le vicende dell'occupazione dei territorî africani si vegga il paragrafo: Storia, alle singole voci.
Qui si osserverà che i rapporti commerciali fra madrepatria e colonie sono ancora, nonostante il vigoroso impulso dato all'attività coloniale nell'ultimo decennio, assai modesti. Nessuna delle colonie ha per ora grande valore come paese minerario o come integratrice, su larga scala, di materie prime mancanti nella madrepatria. Sotto quest'ultimo riguardo può entrare in qualche considerazione solo la Somalia (cotone, ecc.). Come sbocco alla popolazione esuberante può valere, ma certo in misura limitata rispetto alle necessità dell'Italia, la colonia libica la quale tuttavia, per la larga parte di territorio desertico o subdesertico che comprende, ha un valore di gran lunga minore di qualsiasi delle colonie di analoga estensione che altri stati posseggono in Africa. Maggior importanza ha la Libia come "quarta sponda" dell'Italia, contribuendo a rafforzarne la situazione nel Mediterraneo. Importanza notevole hanno le due colonie orientali in relazione alle vie verso l'Oceano Indiano che rimangono largamente aperte, per l'avvenire, a una feconda espansione commerciale italiana; ma tra quelle due colonie s'incuneano territorî appartenenti ad altre potenze. Le isole dell'Egeo hanno veramente la funzione di avamposto verso i paesi del Levante nei quali l'Italia ha da gran tempo tanti interessi.
Ma nel complesso le condizioni d'inferiorità dell'Italia rispetto alle altre grandi potenze risultano evidenti, nonostante i grandi progressi fatti nell'attività coloniale e il crescente bisogno di espandersi della stirpe.
PREISTORIA E STORIA.
Sommario. Preistoria (p. 791); L'Italia fino alla caduta dell'Impero romano (p. 797); Regni barbarici in Italia (p. 800); La rinnovazione dell'Impero (p. 805); Regno di Germania, Regno d'Italia, Impero (p. 810); Nuove forze rivoluzionarie e costruttive fra il X e il XII secolo (p. 814); L'inizio dell'età comunale (p. 820); L'età sveva: papi e comuni contro l'unità regia (p. 825); Vita e cultura di borghesia italiana: secoli XIII e XIV (p. 832); Luci e crepuscolo del papato e dell'impero nel Medioevo (p. 835); Signorie e principati (p. 840); L'Italia e l'Europa nella seconda metà del '400 (p. 845); L'Europa alla conquista dell'Italia (p. 851); Primato intellettuale e servitù politica (p. 857); Ricostruzione cattolica e ricostruzione statale (p. 862); La dominazione spagnola (p. 867); Decadenza e progresso della vita italiana nel '600 (p. 872); L'Italia dal 1713 al 1789 (p. 880); l'Italia durante la Rivoluzione e l'Impero (p. 881); L'Italia dal 1815 al 1849 (p. 883); La formazione del Regno d'Italia (p. 886); Il Regno d'Italia (p. 888); Fonti (p. 897); Bibliografia (p. 898).
Preistoria.
Le trattazioni generali svolte sotto le voci riguardanti le varie civiltà preistoriche (paleolitica, chelléana, acheuleana, moustériana, aurignaciana, grimaldiana, miolitica, campignana, neolitica, eneolitica, villanoviana, del bronzo, del ferro, ecc.), in cui non mancano mai notizie più o meno ampie sulle vicende culturali dell'Italia, ma soprattutto le trattazioni particolari dedicate alle singole regioni italiane impongono che qui sia tracciato un quadro assolutamente sintetico, quasi sommario delle più particolareggiate trattazioni regionali. Sarà dato giusto rilievo soltanto ai problemi che, allo stato presente degli studî, si debbono ritenere più essenziali.
Paleolitico. - Contrariamente alla negazione di T. Mommsen, secondo cui l'esistenza dell'uomo in Italia non era da ritenersi più antica della coltivazione dei campi e della lavorazione dei metalli, le prove positive dell'umana presenza sulla nostra penisola fino dai primi tempi pleistocenici si ebbero ben presto a cominciare dalle selci raccolte nell'Imolese da G. Scarabelli, alla metà del secolo scorso; esse prove si accrebbero sempre più arrivando alle metodiche esplorazioni dei primi decennî del nostro secolo, con il possesso del prezioso sussidio dei dati stratigrafici e paleontologici.
Le caratteristiche industrie del Paleolitico inferiore e medio, cioè quella degli amigdaloidi (chelléana-acheuleana) e quella delle schegge ritoccate (moustériana), non solo ci sono note per mezzo di moltissimi ritrovamenti alla superficie o sporadici, ma soprattutto per scavi regolari in strati intatti e sicuri (Agro Venosino, Capri, Valle del Liri per la prima; strati inferiori delle Grotte Grimaldi, Caverna Pocala nel Triestino, ecc., per la seconda).
Ultimamente poi, le indagini in Lucania hanno arricchito ancor più il quadro della vita pleistocenica italiana, con la scoperta nella Grotta di Loretello (Venosa) di uno strato con rozze selci scheggiate comparabili a quelle dell'industria detta da A. Commont prechelléana (seconda e terza terrazza a Saint-Acheul): la posizione dello strato a quota inferiore a quello di Terranera di Venosa, con cui pure si coordina, e l'associazione con fauna fossile caratteristica del Quaternario più antico, provano che il deposito umano di Loretello, secondo Rellini e D'Erasmo, è il più antico finora della penisola, attestando un orizzonte pre-amigdaliano (v. bibl.).
Le due grandi industrie del Paleolitico inferiore e medio si trovano variamente distribuite. Quella degli amigdaloidi manca finora nell'Italia settentrionale, eccettuate le colline dell'Imolese (terrazze del Santerno, legate geograficamente al centro appenninico); è largamente rappresentata nell'Italia media appenninica e adriatica e in Lucania (a cominciare dal Forlivese, soprattutto nell'Umbria, nelle Marche, nell'Abruzzo), è presente nella Valle del Liri, a Capri, nel Beneventano, sul Gargano, nella Puglia. Finora è assente dalla Calabria, e manca nelle isole, tranne un unico e discusso manufatto raccolto presso Alcamo in Sicilia.
Ma questa industria amigdalare, che sembra patrimonio più particolare delle regioni montane e più diffusa sul versante adriatico, (non contando la posizione avanzata di Capri, il solo esemplare, di diaspro, più occidentale, raccolto a Montepulciano, si può ritenere di provenienza umbra, come un'amigdala fluitata raccolta a Ponte Molle in Roma), si trova quasi dappertutto associata o mescolata con le schegge di tipo moustériano. Quest'associazione appare quasi regolare nell'Imolese, nell'Umbria e nelle Marche, nella valle della Vibrata, sul Gargano, e anche nell'Agro Materano (dove peraltro è stata osservata diversa la quota di giacimento); ma si hanno anche strati con puro e solo materiale amigdaloide, a Capri e a Terranera di Venosa e Sansanello (Lucania). Il bacino di Venosa dapprima, con gli scavi del 1914, e recentemente anche la valle del Liri con nuovi reperti a Pignataro Interamna, hanno dimostrato positivamente la coesistenza dei nostri manufatti chelléani-acheuleani con la grande fauna estinta di clima caldo (elefante antico, ippopotamo, bue primigenio, cervo, ecc.), confermando l'appartenenza dei depositi, e quindi dell'umanità da essi documentata, alla fase interglaciale riss-wurmiana.
L'industria delle schegge ritoccate, o moustériana, è ancor più diffusa: oltre alle zone già indicate, dove si mescola con l'amigdalare, è presente nel Carso Triestino (Grotta Pocala) e nel Veneto (Asolo), nell'Emilia occidentale (Traversetolo e Lesignano de' Bagni, nel Parmense; Val d'Enza), in Liguria (strati inferiori della 1ª-4ª, 6ª, 9ª caverna di Grimaldi; grotte del Finalese-Loanese come la Tana del Colombo), nelle Alpi Apuane, in Toscana (Valdarno superiore, Val di Chiana), nel Lazio (specialmente bassa Valle del Tevere e Aniene), e in una grotta a Torre di Scalea (Cosenza). Controversa è la questione della presenza di autentici manufatti moustériani in qualche grotta siciliana (es., Carburànceli presso Palermo, S. Teodoro in provincia di Messina) dove abbondante si sovrappone la successiva industria miolitica.
Meno uniforme della precedente, questa industria moustériana si presenta con varietà di aspetti. I manufatti delle Grotte Grimaldi (es., Caverna del Principe) sono tipici e comparabili col classico moustériano francese (secondo alcuni il superiore); e per forma e per la tecnica di lavorazione a essi si collegano più o meno anche i reperti di molte grotte peninsulari (Liguria, Alpi Apuane, Valle del Liri, Pocala, ecc.). Ma assai diverso, invece, è l'aspetto delle selci provenienti dalle terrazze emiliane, notevoli per le più grandi dimensioni, tanto da legittimare la denominazione di Moustériano "macrolitico" (Parma, Reggio E.), e inoltre per la rozza fattura (Imolese). Così pure, qualche forma speciale, a es. peduncolata, offre l'abbondante materiale del Materano.
Anche qui si hanno strati puri, ove senza mescolanza con amigdaloidi, le schegge appaiono esclusive (Liguria, Emilia occidentale, Lazio, Sicilia). Ma fatto più importante è l'associazione dei manufatti moustériani, nelle Grotte Grimaldi e nei depositi meridionali, con fauna di clima caldo, la stessa che accompagna gli amigdaloidi: è un argomento per sostenere la contemporaneità, almeno parziale, delle due industrie che, variamente distribuite, pur se mescolate nella maggior parte della penisola, specie nelle zone montuose, si presentano anche esclusive in taluni strati, si da indurre il Pigorini a supporle produzioni di due distinte correnti etniche.
I tentativi fatti per stabilire un'esatta posizione stratigrafica e cronologica non hanno avuto risultato; e anche impossibile è determinare la via d'ingresso nella penisola delle due culture.
Nessun resto umano relativo alla prima; ma per la moustériana si hanno i primi fossili umani, col cranio scoperto da I. Cocchi, nel 1867, nelle argille plioceniche dell'Olmo (Arezzo), oggetto peraltro di discussione, e soprattutto col cranio "neanderthaloide" recentemente raccolto alle porte di Roma, sulla sinistra dell'Aniene.
Lungamente e vivacemente discussa è stata la questione dell'esistenza in Italia di un Paleolitico superiore, soprattutto sostenuta da A. Mochi, che pur tentò di inquadrare rigidamente nel classico sistema del De Mortillet le industrie pleistoceniche italiane, eccedendo; ma la documentazione della terza fondamentale industria, quella delle lame (o lame strette e svelte, la Klingenkultur dei Tedeschi), associata con fauna fossile mutata, di clima freddo, è ormai imponente. Gli strati superiori delle celebri Grotte Grimaldi, la Grotta Romanelli sul Canale d'Otranto, intensamente esplorata da G.A. Blanc e che offre una serie stratigrafica fondamentale, le cavernette dell'Agro Falisco scavate da U. Rellini, alcune grotte siciliane del Trapanese illustrate da R. Vaufrey, offrono i dati più sicuri; ma numerosi sono altri giacimenti consimili, sparsi per la penisola, soprattutto sul versante tirrenico, in Liguria e in Toscana, nell'Umbria e nelle Marche, nel Lazio e in Sicilia. Anche da questo quadro rimangono assenti la Sardegna e, tranne l'Elba, le altre isole.
Ma, in Italia, non si verifica la successione Aurignaciano-Solutréano-Magdaléniano, così sicura nell'occidente europeo; né vi compare l'animale più caratteristico, la renna, che si presenta soltanto nelle Grotte Grimaldi senza superarle. Scarsissime sono le manifestazioni artistiche (statuette femminili delle Grotte Grimaldi, veneretta steatopigica di Savignano sul Panaro, rozzi graffiti animaleschi a Grotta Romanelli), manifestazioni che invece costituiscono la nota dominante della cultura franco-cantabrica, dall'Aurignaciano al Magdaléniano; finalmente povera e senza significato è l'industria ossea.
Nell'armamentario siliceo nulla richiama al Solutréano e al Magdaléniano, da ritenersi quindi del tutto assenti, mentre moltissime sono le forme analoghe a quelle dell'Aurignaciano francese, specie il medio. Ma le affinità stringenti si constatano anche con la particolare cultura willendorfiana dei paesi danubiani e ancor più con la capsiana dell'Africa che sale nell'Iberia; così che, dati i particolari aspetti, è conveniente distinguere questo Paleolitico superiore, o finale, dell'Italia col nome più proprio di Grimaldiano, secondo le conclusioni di U. Rellini che vi distingue due facies, l'una settentrionale più affine al vero Aurignaciano, l'altra meridionale più impregnata di elementi capsiani. Con siffatta industria, chiaramente sovrapposta nelle Grotte Grimaldi al Moustériano, diffusa per tutta la penisola e in Sicilia, si chiude l'era pleistocenica e s'inizia l'attuale, in cui essa sfuma (v. miolitica, civiltà).
Più numerosi sono i resti scheletrici umani di questo lungo periodo: sedici inumati nelle Grotte Grimaldi, appartenenti a due razze ben distinte (Negroide e di Cro-Magnon), documentano non solo la presenza di uomini con civiltà superiore a quella dei neanderthaloidi, ma anche per l'Italia il primo rito funebre, compiuto nelle stesse grotte abitate; a essi si aggiunge lo scheletro ritrovato a Lama dei Peligni (v. abruzzo) sotto uno strato neolitico antico e presentante i caratteri della razza detta mediterranea.
Neolitico. - Con il clima mitigato, con la scomparsa della fauna pleistocenica, estinta o trasmigrata per dar posto alle specie attuali, si afferma in tutta Italia la civiltà neolitica, caratterizzata dalla fissità della dimora, anche costruita appositamente, dalla levigatura delle pietre, verdi soprattutto (giadeite, nefrite, cloromelanite, diorite, serpentino, porfirite, ecc.), dalla regolare pratica del rito funebre inumatorio, dal largo impiego dell'osso lavorato, dallo sviluppo dell'arte ceramica, dell'agricoltura accanto alla caccia e alla pastorizia, della prima industria tessile. Contro le supposizioni del passato, ora non si crede più che questa civiltà sia il prodotto di una grande immigrazione di famiglie venute dall'Oriente, ma il risultato di una lenta e graduale evoluzione. Nell'Europa occidentale-centrale lo iato che prima si ammetteva tra Paleolitico e Neolitico, è riempito dalle culture di transizione (aziliana, tardenoisiana, campignana, ecc.): queste successioni mancano in Italia, ma i primi germi della nuova civiltà possono scorgersi nell'ambiente stesso grimaldiano. Ad es., i primi tentativi di ceramica (Caverna di Equi, nelle Alpi Apuane), riscontrati da altre prove raccolte nel Paleolitico superiore europeo (Belgio, Francia), si armonizzano con la presenza di capanne figurate nell'arte franco-cantabrica del Solutréano-Magdaléniano, con la prima levigatura di pietre nell'ambiente willendorfiano, con la stessa costituzione paleolitica del rito funebre accompagnato da corredo e col cadavere in posizione rannicchiata; infine con la constatazione dei giacimenti di pietre verdi nelle nostre Alpi occidentali e nell'Appennino, per cui si dovette ripudiare l'idea dell'importazione assoluta degli strumenti levigati. Oltre a ciò, altri legami con la cultura pleistocenica sono: la continuazione dell'uso di selci scheggiate, con il largo impiego di punte e di lamelle e di nuclei negli ambienti neolitici, e oltre, tanto da rendere talvolta incerta la distinzione dai veri tipi moustériani e grimaldiani, e soprattutto il fenomeno delle persistenze culturali paleolitiche, quali si verificano ampiamente negli strati neolitici di Sicilia, e in particolar modo sui Monti Lessini, sul Gargano, in talune località delle Marche (Arceviese) e dell'Umbria, e nella Valle della Vibrata. In questi luoghi si raccolsero strumenti scheggiati analoghi a quelli dei køkkenmødding danesi e del Campignien francese (picchi, tranchets), sì da indurre nella definizione di una speciale civiltà campignana. che R. Battaglia ha cercato d'individuare nel tempo e nello spazio, mentre, secondo la vecchia idea del Pigorini, essa sarebbe la trasformazione dell'industria amigdalare, prodotta dalle più primitive tribù viventi, appartate, accantonate, a contatto con le nuove civiltà.
Seriamente avversata, specie per la mancanza di appoggi stratigrafici, l'idea della continuazione, non solo industriale, innegabile, ma etnica, è tutt'altro che ripudiabile, pur se grave è il problema dimostrativo.
Anzitutto, gli ambienti naturali, geografici, favoriscono l'idea, che trova conferma nelle vicende di tempi storici (basti ricordare i Liguri cavernicoli combattuti da Roma); nelle stazioni dei Lessini, mantenutesi conservatrici fino agli ultimi tempi repubblicani di Roma, gli strumenti di tipo campignano sono associati con rozze fogge amigdalari e solutréane, e con le pietre levigate e la ceramica. Similmente si verifica nell'Arceviese, nella Valle della Vibrata, e sul Gargano, dove le recentissime esplorazioni di U. Rellini, F. Baumgaertel, R. Battaglia, confermano l'appartenenza dei manufatti in questione (per i quali il Vaufrey proponeva una indefinibile facies "garganiana") perfino alla piena età dei metalli, così come era stato provato nell'Arceviese. Indagini future potranno dimostrare se questa industria campignana (o questo "Garganiano"), sia stata o no preceduta da prodotti più direttamente collegati con gli amigdaloidi, ovvero, se riempiendosi una lacuna, debba considerarsi in parte quasi uno strato di transizione, nostrano.
La civiltà neolitica, con le sue molteplici industrie, con i suoi modi d'abitazione (in capanne, in grotte naturali, sotto ripari rocciosi), con i suoi sepolcri terragni, nei quali anche spicca la posizione rannicchiata del cadavere, è diffusa dalla cerchia alpina per tutta la penisola e nelle isole: in essa si vedono già affluire elementi estranei, prova dei primi commerci terrestri e marittimi, e anche primo attestato della funzione attrattiva che l'Italia eserciterà soprattutto nelle età seguenti. Ma, pur così diffusa, il suo aspetto non è uniforme, e difficoltosa riesce la distinzione della sua fase più antica da quella più recente, soprattutto per l'abbondante sovrapposizione degli strati appartenenti alla prima età dei metalli, cioè gli eneolitici. Un Neolitico antico, o fu di breve durata o sfugge alle ricerche; un criterio distintivo dalla fase finale, più riccamente rappresentata, fu adottato da G. Chierici, L. Pigorini e P. Orsi, tratto dalla mancanza o dalla scarsezza di manufatti litici fini o perfezionati, quali le accette levigate tipiche, le pietre perforate, le punte di freccia silicee. A un gruppo abbastanza omogeneo di giacimenti piuttosto arcaici sì possono assegnare: i cosiddetti fondi di capanna del Reggiano (Albinea, Rivaltella, Calerno, Campeggine) scavati dal Chierici, altri consimili del Modenese e del Bresciano e del Mantovano, quelli di S. Biagio presso Fano, di Camerata sul Lago di Lèsina, alcuni della Valle della Vibrata (v. abruzzo) e della Puglia, qualche stazione del Trentino e qualche deposito delle grotte liguri, la Grotta Cicchetti nel Materano e la Grotta del Diavolo all'estremo della penisola salentina. A una fase più recente, forse finale, appartengono gli abitati sulla roccia di Rumiano a Vayes (Val di Susa) e di Dos Trento (Trentino), la stazione all'aperto di Alba (Piemonte), fornitrice di una ricca serie di pietre levigate, le caverne liguri del Finalese (Arene Candide, Pollera, ecc.) e quelle del Carso, gli abitati delle Isole Tremiti e forse di Pantelleria, la maggior parte dei villaggi capannicoli della Valle della Vibrata, dove per la prima volta si scoprirono i fondi di capanna per opera di Concezio Rosa, e dove il sistema d'abitazione perdurò a lungo. Il Neolitico della Sicilia, rappresentato da un gruppo omogeneo di stazioni, fra cui primeggia Stentinello nel Siracusano (si aggiungano: Matrensa, Tre Fontane, Poggio Rosso, Fontana di Pepe nel Catanese, Piano Notaro e S. Cono di Licodia Eubea), appare più recente del peninsulare, specie dell'Adriatico, ma va distinto dal gruppo successivo sicuramente eneolitico (cultura occidentale di Isnello, a sé; e nell'orientale il tipo Castelluccio) in cui l'Orsi riconobbe il primo periodo "siculo" (v. sicilia).
Eneolitico. - L'introduzione dei primi oggetti metallici (asce piatte e pugnali triangolari di rame, e qualche ornamento d'argento) non turba l'aspetto sostanziale della civiltà, nel cui seno grandemente si perfezionano l'industria ceramica e quella litica, e che anzitutto mantiene immutato il rito funebre inumatorio e il sistema di abitazione. Continuano le grotte naturali, come a S. Canziano (Trieste) e nel Veneto, in Liguria e in Toscana; e le capanne straminee, circolari o ellittiche, talvolta rettangolari come in Sicilia (Sette Farine a Terranova), e anche rinforzate da muretti a secco (Veronese, Sicilia), per lo più si raggruppano in folti villaggi. Alle fosse terragne col cadavere per lo più rannicchiato, costituenti vere necropoli come la più celebre di Remedello Sotto nel Bresciano (altre tombe importanti a Ripoli nel Teramano, a Villafranca Veronese, nel Bresciano, Mantovano, Cremonese, in Toscana e nell'Umbria, nel Viterbese, nel Beneventano, ecc.), si accompagnano rare le sepolture in ciste (Val d'Aosta, Liguria), e più diffusamente quelle in grotte naturali (Trentino, Liguria, Toscana, ecc.). Ma un nuovo tipo si presenta, quello della cameretta artificialmente scavata nella roccia (tomba a forno, a calatoia), caratteristico soprattutto della Sicilia in vere necropoli (Castelluccio nel Siracusano, Monte Sara presso Agrigento, Capaci presso Palermo); esso si ritrova anche in una importante necropoli di Sardegna (Anghelu Ruju presso Alghero), e, isolatamente, nell'isola di Pianosa, nel Lazio (Cantalupo-Mandela, Sgurgola), nel Materano, dove il tipo perdura nell'età enea. Si hanno poi sicuri esempî di capanne mutate in sepolcro (nel Beneventano, a Ripoli, a Serra d'Alto nel Materano), e prove irrefutabili della scarnitura del cadavere con colorimento delle ossa in rosso (Sgurgola), nonché della trapanazione cranica (Casamari presso Frosinone).
Quanto all'abitazione in capanne, i cui più grandi e complessi esemplari sono forniti dai villaggi di Ripoli e di Serra d'Alto, importante è il sistema di recinzione difensiva con grandi trincee, ben studiate nel Materano (Serra d'Alto, Murgecchia, Tirlecchia) e presenti anche in Sicilia (Stentinello), dove anche appare la cinta con muro di pietre (Branco Grande presso Camarina). In questi tempi eneolitici, dunque, si ha il vero principio dell'architettura soprattutto funeraria.
Il perfezionamento dell'industria litica raggiunge gradi elevati nella perforazione (martelli, teste di mazza, anelli) e nella scheggiatura minuziosa della selce (pugnali, cuspidi di lancia, frecce); quello dell'arte ceramica non solo nella migliore cottura e nelle forme dei vasi, ma specialmente nell'ornamentazione (incisioni a cotto, ben congegnate, come nelle stazioni di Molfetta e del Siracusano), e infine nella produzione della prima ceramica dipinta su superficie lustrata, che, pur se di origine straniera, orientale, raggiunge nell'Italia meridionale (Molfetta, Matera, Capri) e in Sicilia (Megara Iblea) notevoli effetti (v. eneolitica, civiltà). E in questo periodo ebbe anche inizio l'attività mineraria (es., le miniere di selce a Monte Tabuto nel Siracusano); s'intensificò quella commerciale, sia fra le stesse regioni italiane per lo scambio del rame, del cinabro, delle pietre verdi, dell'ossidiana specialmente, che ebbe come centro primario l'isola di Lipari, sia con paesi stranieri. Dalla Penisola Iberica, grande focolare di cultura eneolitica, si diffuse forse il "bicchiere a campana" raccolto in tombe del nord (Cremonese) come del sud (Villafrati in Sicilia), s'importarono gli oggetti d'argento (spillone di Remedello, pettorale di Villafranca Veronese) e la cosiddetta alabarda; dall'Oriente egeo pervennero in Sicilia i celebri ossi lavorati di Castelluccio, simili a quelli di Troia, e in Sardegna gl'idoletti di marmo di tipo cicladico, trovati ad Anghelu Ruju, e imitati. Altri saggi di plastica infantile sono state raccolte in Liguria (Arene Candide, Pollera) e nella Puglia; mentre a Malta si sviluppò una vera attività scultoria: vi si scolpirono strane figure accosciate destinate al culto, praticato in templi sotterranei (vedi malta: Preistoria).
Ma, fatto singolare, nell'Italia settentrionale, è l'impianto e il primo sviluppo delle abitazioni lacustri su palafitta, che diverranno più caratteristiche nell'età successiva. Nella Lombardia centrale-occidentale le palafitte più antiche risalgono a questo periodo, se non già alla fine dello stesso neolitico puro; e benché lo studio dei materiali palafitticoli, dato l'inevitabile naturale rimescolamento, sia difficile, alcune stazioni di breve durata meglio servono alla determinazione di arcaicità (Polada presso Desenzano, Ca' de Cioss e Lagazzi nel Cremonese, Cataragna nel Bresciano, ecc.).
Anche più antiche, rispetto a quelle dell'età enea, devono considerarsi le palafitte venete (Arquà, Fimon), che L. Pigorini includeva nel suo gruppo "orientale" non oltrepassante la linea del Mella-Oglio, considerandolo più legato alle terramare; oggi la distinzione dei due gruppi sotto il punto di vista cronologico, non è più ammessa dagli studiosi.
In sostanza uniforme, la civiltà eneolitica presenta anche notevoli differenze regionali, che saranno il fondamento di quelle più sensibili delle successive età. La Sicilia ha caratteri proprî, e così la Sardegna, e diversi dalla cultura peninsulare, già variata, pur se debolmente. G. A. Colini riconobbe tre aspetti o gruppi: 1. delle palafitte più antiche di Lombardia; 2. delle sepolture in fossa terragna o in grotta dell'Italia settentrionale e centrale; 3. del litorale toscano e del Lazio (cui può aggiungersi il mezzogiorno), avente per caratteristica più saliente l'uso delle grotticelle artificiali funerarie. Prematuro forse è ogni sforzo per stabilire una successione cronologica sicura, all'infuori del riconoscimento di depositi iniziali, che si collegano ai villaggi siciliani tipo Stentinello (prima attribuiti all'Eneolitico, poi nuovamente giudicati del Neolitico puro), e di qualche strato che, come la tomba di Battifolle (Cortona), segna il passaggio all'età enea.
Se nelle prime palafitte si può supporre, con il Pigorini, la discesa di genti dalla Svizzera, paese "classico" al riguardo, in generale gli archeologi, per tutto il complesso delle stazioni peninsulari, non pensano a mutamento di razza (a differenza di qualche storico che già vede l'ingresso di elementi italici); la qual razza, che secondo alcuni sarebbe da chiamare ibero-ligure, è in sostanza la mediterranea.
Età del bronzo. - Non ugualmente può dirsi per la successiva età enea, in cui realmente si avverte un fatto nuovo, con la conseguenza dell'impostazione di gravi e discussi problemi da parte dei paleoetnologi, e nella quale si deve riconoscere la base formativa di quella civiltà che poi sarà l'italica dell'alba storica.
Il fatto nuovo è rappresentato dall'impianto e dallo sviluppo delle cosiddette terramare lombardo-emiliane, palafitte in terra asciutta, rigidamente organizzate nel loro tipo più evoluto (Castellazzo di Fontanellato, Castione de' Marchesi, ecc.) con norme attestanti un grado superiore di convivenza sociale, sulla base di un principio di collettivismo, che è in assoluto contrasto con la sostanzialità della precedente civiltà neo-eneolitica. Il contrasto è aumentato dalla prima presenza del rito funebre a incinerazione, praticato con fitte necropoli caratterizzate da una straordinaria semplicità, o rudezza, e dalla mancanza di personali distinzioni. Così l'Italia settentrionale viene in certo modo a corrispondere al quadro offerto dall'Europa centrale-danubiana con i suoi "campi di urne" (v. inumazione e incinerazione).
La civiltà delle terramare, giustamente attribuita a un popolo di agricoltori e di combattenti (accanto alle falci di bronzo, spiccano le lance e le spade), per quanto sia collegabile a quella delle palafitte lacustri dal punto di vista del generico sistema d'abitazione, presenta un aspetto intimo e complessivo del tutto particolare. Limitata nello spazio e nel tempo, essa si distende nella Lombardia bassa-orientale (Mantovano, Cremonese, Bresciano) e nell'Emilia, dal Piacentino al Bolognese: ci è nota per un seguito di accurate e intense esplorazioni, e con un numero di più sicure stazioni sommante a settanta o poco più. Presenta due fasi di vita, come le palafitte del Garda (Peschiera) più affini: una più antica, in cui ancora abbondano gli oggetti di pietra (stazioni sulla sinistra del Po), l'altra più recente, in cui la sostituzione con armi e strumenti di bronzo è quasi completa (stazioni emiliane soprattutto). Questa seconda fase rappresenta il pieno dell'età e la fine; e però le terramare emiliane, realmente produttrici di bronzi con intensa attività e con forme tipiche, come nessun'altra regione d'Italia del tempo, vennero considerate l'epicentro della civiltà enea peninsulare. Circa sull'inizio del primo millennio a. C., la vita delle terramare quasi d'improvviso cessa; e mentre più tardi a est del Panàro si sviluppa la civiltà villanoviana, a ovest di quella linea scarsi documenti si hanno di una cultura terramaricola attardantesi (necropoli di Bismantova nel Reggiano, e di Fontanella Mantovana), e sugli strati archeologici veramente terramaricoli si sovrappongono solo tracce dell'epoca detta etrusca. Della scomparsa dei terramaricoli, attribuita alla loro migrazione oltre Appennino dalla classica teoria pigoriniana, non si spiegavano se non vagamente le vere cause determinanti; oggi si vogliono pensare dovute a mutamenti climatici, in armonia con i fenomeni studiati nella Germania meridionale dal Gams e dal Nordhagen, e con i quali anche sarebbe in relazione l'innalzamento del livello nei laghi svizzeri.
L'uniformità della civiltà del bronzo in Italia, affermata da qualche studioso, è solo apparente; può limitarsi ai soli oggetti metallici. Ma, la produzione ceramica, in primo luogo, e il sistema di vita risultante dalle forme d'abitazione e anche dal rito funebre, impongono alla riflessione una sostanziale differenza.
Anzitutto, staccata dalle terramare resta la cultura delle palafitte occidentali, o lombarde, non ricca e meno variata, la quale alla fine dell'età si distende fino in Piemonte (torbiere d' Ivrea, di Trana, ecc); completamente diversa è poi la sostanza della civiltà, non solo della Sicilia e della Sardegna, ma di tutto un foltissimo gruppo di stazioni peninsulari in cui si continua il vecchio sistema (villaggi di capanne semisotterranee, grotte naturali).
Si distendono esse dal Veneto alla Lucania, soprattutto affollandosi nella regione montuosa digradante verso l'Adriatico; e, un poco diverse, sono presenti anche nella Lombardia centrale e occidentale attorno alla concentrazione terramaricola (Cella Dati, S. Pietro in Mendicate, Vho di Piadena, Calvatone, Gottolengo bresciano, ecc.). Distinte in piccolo numero dallo stesso Pigorini, e spiegate come sedi delle famiglie neoeneolitiche persistenti, furono poi messe in rilievo da G. A. Colini (le più importanti: Marendole nel Padovano, Toscanella Imolese, Monte Castellaccio Imolese, Bertarina di Vecchiazzano forlivese, Villa Bosi e Cassarini a Bologna) che le collego alle stazioni allora note delle Marche (Arceviese, Grotta di Frasassi) e alle persistenze neo-eneolitiche della Valle della Vibrata, e ai depositi più meridionali (Grotta delle Felci a Capri, Grotta Nicolucci presso Sorrento, Grotta Pertosa nel Salernitano): i quali ultimi sono stati oggetto di studio più proficuo da parte di G. Patroni e di U. Rellini, specie dopo l'esplorazione della Grotta di Latronico (Potenza). Ma il numero di queste stazioni è andato sempre aumentando, specie per merito delle indagini del Rellini, il quale per meglio individuarle ha proposto il nome comprensivo di extra-terramaricole. Purtroppo, scarsi sono i sepolcri che a esse o si riferiscono o si possono collegare; ma i pochi (es., Povegliano Veronese, Toscanella Imolese, Parco de' Monaci nel Materano) confermano il contrasto con le terramare, per il rito inumatorio praticatovi.
Anche per le stazioni extra-terramaricole (v. bibl.) si devono riconoscere due fasi: l'una più antica, in cui quasi del tutto assente è il bronzo (tipiche le stazioni dell'Arceviese, Le Conelle, e altre marchigiane), mentre impressionante è l'abbondanza e la varietà della litotecnica; l'altra più recente e meglio documentata nell'Emilia, nelle Marche (Filottrano, Spineto, Pievetorina, ecc.), nello Abruzzo, nella Puglia e in Lucania, in Campania e più recentemente nel Senese (Montagna di Cetona). In questa fase seriore non tanto valgono gli oggetti di bronzo, sempre scarsissimi, o non mai abbondanti come nelle terramare, ma è la produzione ceramica che assume uno speciale valore significativo. Accanto allo sviluppo dell'impasto nero-lucido, o pseudo-bucchero, accanto alle forme più ricche e variate, la nota dominante consiste nella decorazione incisa con motivi meandriformi e spiralici, non dissimili dagli schemi della ceramica eneolitica di Butmir (Bosnia), apparentata nella manifestazione più semplice con riempitura biancastra ai cocci neo-eneolitici siciliani (Stentinello, ecc.), e in limitata parte anche analoga alla cosiddetta Bandkeramik germanica. Straordinario è anche lo sviluppo delle anse, compresa quella cornuta o lunata, finora ritenuta peculiarmente caratteristica delle terramare, ma che il Patroni per le stazioni lombarde e il Battaglia per le palafitte venete, e ora anche il Rellini per le Marche, vedono sorgere ed evolversi negli ambienti extra-terramaricoli.
Altro fatto importante è il culto professato alle acque, sorgive come nella Grotta Pertosa, medicamentose come a La Panighina (Forlì), o culto vago come nella Grotta di Frasassi, e forse anche in quella di S. Michele a Monte Sant'Angelo (Gargano).
Nonostante la scoperta di Cetona (Belverde), quasi nel cuore d'Italia, non contando la Liguria dove permane conservatrice l'antica vita trogloditica, sul versante tirrenico tosco-laziale la civiltà del bronzo rimane sempre singolare, attestata da un buon numero di ripostigli e da scarsi ritrovamenti sporadici di oggetti metallici. E, in realtà, mentre nei villaggi emiliani, più a contatto delle terramare, si sono trovate anche le matrici per fusione, al contrario le stazioni adriatiche, marchigiane e abruzzesi spiccano per la loro povertà di bronzi; i quali infine, se presenti a Belverde di Cetona, ma non abbondantemente, appartengono alla fine dell'età e all'alba della civiltà del ferro.
Al confronto, la Sicilia, che certo influisce sull'Italia meridionale, sviluppa la sua propria civiltà del 2° periodo siculo (tipo Matrensa-TapsoCassibile-Pantalica, per le necropoli, e tipo Caldare-Cannatello, per gli abitati) più fornita di bronzi; inoltre più ricca di contenuto metallico è la Sardegna dove fiorisce la particolare civiltà dei nuraghi, con la singolare produzione dei bronzetti figurati votivi (v. bronzo: Civiltà del bronzo; nuraghi; sardegna; sicilia).
Riassumendo, per l'età del bronzo, l'Italia presenta questi distinti gruppi culturali: 1. palafitte del settentrione (Veneto, Lombardia orientale: queste più confrontabili con le svizzere); 2. terramare lombardo-emiliane, costituenti un gruppo omogeneo con caratteri tipici; 3. stazioni extra-terramaricole della Val Padana, con maggiori contatti con la cultura terramaricola; 4. stazioni extra-terramaricole appenniniche (da Toscanella Imolese, attraverso le Marche e Cetona, alla Campania-Lucania) caratterizzate dallo stile ceramico "Pertosa-Latronico"; 5. territorio pugliese, dove si innalzano dolmen e menhir, ancora non chiaro nel suo preciso significato; 6. Sicilia, più aperta, specie nella parte orientale, agli influssi egei; 7. Sardegna nuragica, dove convergono influssi orientali, egei, e occidentali, balearico-iberici.
Per i gruppi extra-terramaricoli non si sollevano problemi; la fondamentale unità può essere addotta come prima prova della persistenza etnica neo-eneolitica; oltre agl'influssi provenienti dal nord, dalla civiltà terramaricola che propaga fino allo Ionio i suoi prodotti metallici, si deve tener conto di quelli siciliani più appariscenti nel mezzogiorno (in primo luogo il sistema funerario delle grotticelle nel Materano); non definibili ancora sono i supposti influssi d'oltre-Adriatico.
Discussa invece è l'origine e la vita delle terramare. Contro la prevalente teoria formulata da G. Chierici, W. Helbig, L. Pigorini, che le ritiene fondate da una potente immigrazione di genti arie, i primi Italici, sta l'opposizione del Brizio che le attribuiva alle medesime genti neolitiche, da lui chiamate liguri. Ma la civiltà terramaricola, con la sua rigida organizzazione sociale, con la più sviluppata capacità metallurgica, non accompagnata da vero spirito d'arte, e infine col rito funebre dell'incinerazione, assoluta novità, è troppo discordante dall'essenza culturale delle genti neoeneolitiche, più atte fra l'altro all'esercizio di virtù plastiche e decorative, estetiche. Si deve pertanto riconoscere la sua prepotente individualità, e quindi la sua origine estranea. Oscuri invece rimangono il luogo originario e la via d'accesso: se ancora qualche paleoetnologo guarda all'oriente danubiano, come D. Randall MacIver, peraltro la via d'accesso non può ritenersi più la Val d'Adige, dove la cultura terramaricola sale, ma non discende. Restano, la grande via di tutte le invasioni storiche, attraverso le Alpi Giulie, o, come ha accennato il Leopold, dimostrando l'infondatezza delle analogie finora addotte col materiale ungherese, quella stessa tenuta dai primi palafitticoli, attraverso l'Alpe lacustre.
Prima età del ferro. - Con la scomparsa della vita terramaricola e con le prime necropoli a incinerazione dell'Italia centrale, si entra in tempi ormai protostorici.
La ragione fondamentale della varietà che la ricca civiltà del ferro italiana presenta (per le dettagliate notizie si rimanda a: ferro, civiltà del) sta negli aspetti differenziati della precedente cultura enea. I rapporti molteplici, commerciali e culturali in genere, attivi nell'interno fra gruppo e gruppo, e vigenti con l'estero per vie terrestri e per mare, dànno all'insieme un superficiale aspetto di uniformità, tanto più appariscente nelle regioni dove il rito incineratore si afferma nelle necropoli con generale prevalenza sul principio. Così si spiegano le analogie formali del materiale specie ceramico deposto nelle tombe a inumazione calabresi di Torre Galli e di Canale-Janchina (v. calabria: Preistoria: ferro, civiltà del) con le stoviglie villanoviane dei gruppi incineratori emiliano-tosco-laziali.
Dei nove gruppi in cui si distingue la nostra prima civiltà del ferro peninsulare in base ai materiali dei sepolcreti (1°: di Golasecca o Ticinese; 2°: Veneto-Istriano; 3°: Villanoviano bolognese; 4°: Villanoviano tosco-umbro; 5°: Laziale; 6°: Piceno; 7°: Sannita-Campano; 8°: Bruzio-Lucano; 9°: Apulo-Messapico), gli ultimi quattro, adriatico-meridionali, spiccano singolarmente per la costante praticazione del rito inumante, eccettuato l'isolato fenomeno di Monte Timmari in Lucania.
Così l'Italia peninsulare adriatica e meridionale, come già nell'età enea, ancora mantiene un'indistruttibile indipendenza.
Il rito incineratore, che si afferma, preponderando, nel Villanoviano arcaico del Bolognese, si diffonde nel centro d'Italia soprattutto sul versante tirrenico; preponderante anche qui nelle più arcaiche necropoli della bassa Etruria, quasi esclusivo sui Monti Albani (ma mescolato e in minoranza sul suolo romano, alle origini della città) e non sorpassa le Paludi Pontine, come non varca la catena appenninica verso l'Adriatico. Man mano che si propaga e si mescola, perde il suo carattere primitivo di rude semplicità, arricchendosi le tombe di corredo; e nel corso dell'età, sempre più mescolandosi alle fosse inumatorie (salvo pochi casi isolati di tenace persistenza), finisce per esser debellato, allorché tra il sec. VIII e il VII a. C., con i potenti influssi d'oltremare, orientali, la primitiva civiltà del ferro si trasforma.
Purtroppo, alle vicende studiate nelle numerosissime necropoli non possono accompagnarsi quelle degli abitati, data la straordinaria penuria delle reliquie rintracciate: tanto che legittimo può sorgere il dubbio se qualche stazione attribuita all'età enea finale non debba passarsi addirittura alla fase successiva. Al contrario, nel nord, nella Venezia Giulia, e anche nella Tridentina, abbondanti sono le vestigia degli abitati preistorici (castellieri). La complicata e avvicendata storia delle necropoli, oltre ai caratteri intrinseci del materiale, servì di base agli archeologi per la risoluzione del problema etnologico, cioè la formazione della nazionalità italica, risolto altrimenti e con altri mezzi da antropologi, storici e glottologi.
La teoria pigoriniana, non senza opposizioni parziali e totali, ammetteva la reale discesa delle genti terramaricole per quasi tutta la penisola, dal Villanoviano arcaico bolognese, direttamente provenuto, alle antichità prisco-laziali, più affini alla rude semplicità terramaricola, e fino allo Ionio; in virtù di questa concreta propagazione si sarebbe intonata in un tutto più armonico la varietà culturale della penisola. A conforto della tesi si citava: la serie delle necropoli dette di transizione (Bismantova, Fontanella, Pianello, Timmari) collegate alle più arcaiche del periodo successivo (Boschetto di Grottaferrata, Allumiere, Palombara Sabina, S. Vitale bolognese, ecc.), e specialmente la cosiddetta terramara della Punta del Tonno a Taranto. Ma questa, non definitivamente divulgata, è stata sempre causa di serî dubbî, sì da persuadere che il carattere terramaricolo poggi su pure esteriorità del materiale; infine scavi recentissimi al Pianello di Genga e nella gola del Sentino, con i loro risultati, se non spiegano altrimenti la presenza del rito funebre incineratore, per lo meno distruggono il valore di caposaldo che questa necropoli, ora giudicata più tarda, finora aveva. Gli stessi seguaci della teoria pigoriniana hanno riconosciuto che la funzione dominatrice della civiltà terramaricola debba contenersi in più giusti limiti; mentre altri studiosi ingiustamente la negano senz'altro.
Con la preoccupazione di accordare i risultati archeologici di scavo, non solo con le tradizioni storiografiche, ma soprattutto con le definizioni nominali delle varie popolazioni italiche, quali si desumono dalla storia, si sono proposte molteplici soluzioni, escogitando successive immigrazioni (proto-italiche e italiche), per spiegare etnologicamente le varietà della prima civiltà del ferro, in relazione al più dibattuto problema delle origini etrusche (vedi etruschi).
Di qui le varie vedute di E. Brizio, G. Ghirardini, G. De Sanctis, B. Modestov, L. A. Milani, A. Grenier, D. Randall MacIver, F. von Duhn, L. Pareti, G. Patroni, G. Devoto, ecc.
Più generalmente l'italicità viene riconosciuta nelle genti incineranti, né si può disconoscere la giustezza del riconoscimento; ma d'altra parte, se diamo al termine italico il suo più giusto e puro significato e valore, quale la glottologia e anche la storia consigliano, non può non recare disagio il constatare che la vera italicità, storicamente concreta con le stirpi osco-umbre e sabelliche, si basa archeologicamente su quei gruppi adriatico-meridionali caratterizzati dalla persistente cultura neo-eneolitica e dalla costante pratica del rito inumante: razza antropologicamente mediterranea.
Quasi a togliere il disagio, ma partendo dalle arcaiche inumazioni di Terni, F. von Duhn ha suddiviso gl'Italici in incineratori e inumanti, ritenendo questi ultimi discesi nella penisola circa un millennio dopo i primi (terramaricoli e proto-villanoviani); ma giustamente si è osservato da molti l'impossibilità di siffatta tardiva discesa nel cuore d'italia, discesa che non lascia tracce del passaggio. Da ultimo, nel campo archeologico, U. Rellini ha assegnato senz'altro il nome di Italici ai gruppi appenninici e meridionali della cultura enea, in realtà anacronisticamente rispetto alle definizioni finora adottate dai varî paleoetnologi. Ma la difficile risoluzione, anzitutto, non può farsi senza inquadrare nell'esame totalitario la civiltà terramaricola, nonché quelle successive più affini a essa; secondariamente, alla risoluzione stessa nuoce ogni criterio di rigidezza fondata sulle definizioni nominali, formazioni di tempi maturi e non originarî, alla pari dei linguaggi italici stessi che servono di base a storici e glottologi. Dal puro punto di vista archeologico può dirsi: non si può disconoscere l'esistenza di un grande fondo sostanziale, culturale ed etnico, quale l'Italia dell'età enea mostra già ricco di vitalità che posteriormente si rivela; ma è anche evidente la penetrazione nel nord di gente diversa, quale la terramaricola. I rapporti reciproci e molteplici, commerciali e culturali, innegabili, e anche la propagazione di elementi umani, non catastrofica e limitata, almeno nelle regioni dove il rito incineratore dapprincipio predomina, pongono in felice contatto le civiltà e le vite umane diverse; ne consegue una complicata vicenda di commistioni e di assorbimenti, che la storia dei riti funebri è la prima a illuminare, ponendo fors'anche in evidenza, con la vittoria finale dell'inumazione, qual'è l'elemento spiritualmente più forte. È dal risultato della fusione, avvenuta non semplicemente ma variamente, secondo la prevalenza di numero e di cultura, secondo la natura fisica dei luoghi e le speciali condizioni di vita, che si forma quella compagine etnica, non uniforme in senso assoluto, ma in gran parte cementata da tradizioni originarie, lingua, costumi, idee religiose, ecc., alla quale soltanto Roma, dopo aspra lotta quasi fratricida, è destinata a dare una vittoriosa unità.
Bibl.: La vasta bibliografia relativa alla preistoria italiana è stata raccolta con ordine esemplare, fino al 1927, nell'opera di A. Della Seta, Italia Antica, 2ª ed., Bergamo 1928 (pp. 439-447). A essa si rimanda; solo qui si aggiungono alcune pubblicazioni posteriori non citate, più utili alla consultazione.
Per la storia della paleoetnologia: U. Antonielli, Il posto dell'Italia negli studi di preist., in Historia, II (1928), pp. 196-216.
In generale: U. Rellini, Le origini della civ. italica, Roma 1929; id., Rapporto prelim., in Bullett. di Paletnol. ital., L-LI (1930-1931), pp. 43-133 (ricerche sul Gargano).
Per il Paleolitico: G. A. Blanc, Grotta Romanelli, in Archivio per l'antrop. e l'etnol., LVIII (1928), pp. 365-411; R. Vaufrey, Le Paléolithique italien, Parigi 1928; Archivio p. l'Antrop. e l'Etnol., LVIII (1928), pp. 77, 88, 276, 341 (per il Paleolitico superiore e le continuazioni); R. Battaglia, Il Paleol. sup. in Italia, in Bullett. di Paletnol. ital., XLVII (1927), pp. 11-34; S. Sergi, Il primo cranio del tipo di Neanderthal, ecc., in Atti Soc. Progresso Scienze, XIX riun. (1930), p. 471 (cfr. L'Anthropologie, XLI, 1931, p. 241, ecc.); U. Rellini, in Bullett. di Paletnol. ital., L-LI (1930-31), pp. 1-11, e ibid., LII (1932), pp. 1-4 (Loretello); G. De Lorenzo e G. D'Erasmo, L'uomo paleolit. e l'Elephas antiq. nell'Italia merid., in Atti R. Accad. Scienze fis. matem. Napoli, XIX, s. 2ª, n. 5 (1932), e cfr. in Bullett. di Paletnol. it., LII (1932), pp. 5-8.
Per l'età dei metalli: U. Antonielli, Due gravi problemi paletnol., in Studi Etruschi, I (1927), pp. 11-61; G. E. Genna, La trapan. del cranio, ecc., in Riv. di Antropol., XXIX (1929-1930), pp. 139-161 (cranio di Casamari); D. Randall-MacIver, The Iron age in Italy, ecc., Oxford 1927; H. M. R. Leopold, La sede originaria dei terramaricoli, in Bullett. di Paletn. ital., XLIX (1929), pp. 19-31 e ibid., L-LI (1930-31), pp. 168-174; LII (1932), pp. 22-37 (età del bronzo in Italia); N. Åberg, Bronzezeitliche u. Früheisenzeitl. Chronologie, I: Italien, Stoccolma 1930; G. Devoto, Gli antichi Italici, Firenze [1931]; U. Rellini, Le stazioni enee delle Marche di fase seriore e la civ. italica, in Monum. Lincei XXXIV (1932).
L'Italia fino alla caduta dell'Impero romano.
Etnografia antica. - I popoli sui quali si estese la dominazione romana in Italia furono principalmente i seguenti: a) i Latini, dimoranti nel Lazio, al cui novero appartenevano i Romani medesimi, e i Falisci nell'Etruria meridionale intorno a Civita Castellana, b) a est e a sud-est del Lazio: gli Equi, lungo il corso superiore dell'Aniene, i Volsci in parte delle valli del Sacco e del Liri, e su un tratto della costa Tirrena a nord di Terracina; gli Ernici, tra gli Equi e i Volsci; c) i Sabini nel territorio di Terni e di Rieti, gli Umbri lungo il corso superiore del Tevere e sul prossimo Appennino sino alla valle del Nera: i Marsi, i Peligni, nelle alte valli del cuore dell'Appennino, i primi nel bacino del lago di Fucino, e i secondi a O. di questo lago, i Picenti e i Pretuzi sulla costa Adriatica tra Ancona e Adria, i Vestini e i Marrucini a mezzogiorno dei Picenti, divisi tra loro dal Pescara; d) i Campani nella Terra di Lavoro; i Sanniti nel paese montuoso fiancheggiante il Lazio e la Campania, dalle alte valli del Sangro e del Volturno fino al Silaro dall'una parte, a Lucera e Venosa dall'altra, divisi in Caraceni e Pentri al nord, Irpini e Caudini al sud: i Frentani sul versante Adriatico del Molise sino al Fortore; i Lucani, a sud della Campania fra il Tirreno e il golfo di Taranto; i Bruzî nell'odierna Calabria; e) gli Iapigi nelle regioni costiere adriatiche e ionie dell'odierna Puglia, distinti in Apuli, Dauni e Peucezî al nord; Messapî, Sallentini e Calabri al sud; f) gli Etruschi, tra l'Appennino e il Tirreno, stretti dal corso del Tevere, dalle sorgenti alla foce; g) i Greci della Magna Grecia e della Sicilia; h) i Liguri nella parte occidentale dell'Italia settentrionale, e precisamente in tutta la regione costiera a nord della foce dell'Arno, e nell'interno sino al Po, verso la confluenza del Ticino; i) i Veneti nel versante orientale dell'Italia settentrionale, tra l'Adige, o meglio il Tagliamento, le Alpi, il Po e l'Adriatico; l) i Galli, incuneati tra i Liguri e i Veneti, distinti in molte tribù, di cui le principali erano gli Insubri, a sud del lago Maggiore e del lago di Como, i Cenomani tra i laghi d'Iseo e di Garda e il Po; i Lingoni, lungo il corso inferiore del Po, i Boi fra questi e gli Appennini, i Senoni a sud di Rimini; m) i Siculi e i Sicani nella Sicilia, a prescindere dall'estrema punta occidentale, occupata dagli Elimi; n) i Corsi nella Corsica e nella parte settentrionale della Sardegna: o) i Sardi nel resto della Sardegna.
Di queste popolazioni quelle raggruppate sotto le lettere a-d appartenevano alla stirpe degl'Italici propriamente detti, che l'indagine linguistica dimostra non soltanto risalire al ceppo indoeuropeo, ma costituire in esso una particolare unità, differenziata dalle altre maggiori della stessa famiglia indo-europea: Celti, Germani, ecc. In questa unità, peraltro, la medesima indagine linguistica impone si distinguano due gruppi: il gruppo Latino-falisco e il gruppo Umbro-sabellico o Osco-umbro, per notevoli differenze fonetiche, morfologiche, sintattiche e, soprattutto, lessicali., Al primo gruppo appartengono Latini e Falisci: al secondo tutte le popolazioni elencate sotto la lettera c) parlanti l'umbro e idiomi affini e quelle sotto la lettera d) parlanti le diverse varietà dell'osco. Tra le popolazioni elencate alla lettera b) i Volsci pare avessero affinità con gli Umbri, mentre per gli Equi e per gli Ernici che furono presto latinizzati, resta incerto a quale dei due gruppi appartenessero.
Alla famiglia indoeuropea, oltre i Greci, appartenevano con certezza anche i Galli, di stirpe celtica, i Siculi e i Sicani, che dovevano sostanzialmente costituire un'unità etnica, e con probabilità anche i Veneti e gli Iapigi, a giudicare dalle poche conclusioni che possono trarsi dai difficili testi epigrafici veneti e messapici; anzi i più convengono che vi abbiano particolari affinità tra le lingue degli uni e degli altri e l'antico Illirico. Anche dei Liguri è stata da alcuni sostenuta l'origine indoeuropea, ma sembra da escludersi, come pare debba escludersi per gli Etruschi: ché anzi, nella tanto vessata e tormentata questione sulla nazionalità degli Etruschi, questo pare l'unico dato sicuro. Sull'origine dei Sardi e dei Corsi, finalmente, nulla, per mancanza di documenti, l'indagine linguistica può accertare.
L'assetto etnografico che noi abbiamo descritto è quello delle diverse regioni italiane, quando vi giunsero le armi romane, e sostanzialmente corrisponde a quello della confederazione italica; ma questo assetto fu, a sua volta, la risultante di tutto un complesso di precedenti invasioni, sovrapposizioni e spostamenti etnici, che si effettuarono dai tempi più antichi ai giorni della dominazione romana.
Di questi spostamenti e di queste fluttuazioni quelli che possiamo cogliere in età storica sono i seguenti: la discesa delle stirpi celtiche nell'Italia settentrionale, effettuatasi, probabilmente, già nel sec. V a. C., non sappiamo se con unica invasione o, come par più probabile, a ondate successive, e l'avanzarsi delle stirpi sabelliche nella Campania, nella Lucania e nel Bruzio, nella seconda metà del sec. V e nel principio del IV. Nell'Italia settentrionale i Celti ebbero a combattere con gli Etruschi, ed è certo che, se non le sedi, la dominazione di questo popolo si estese, verso la seconda metà del periodo della monarchia romana, oltreché nell'Etruria, Emilia e Italia settentrionale, nel Lazio e in parte della Campania. D'altro canto sappiamo che le stirpi sabelliche, discendendo nell'Italia meridionale, si sovrapposero a stirpi preesistenti, che son poi quelle con le quali erano venuti a contatto i Greci nei primi tempi della loro colonizzazione, e cioè, gli Ausonî della Campania e gli Enotrî del resto dell'Italia meridionale, dei quali facevano parte gl'Itali dell'estrema punta dello stivale e dai quali si dipartirono i Siculi e i Sicani sfociando nella Sicilia. Ausonî, Siculi e Sicani e quindi, in genere, gli Enotrî appartenevano con la massima probabilità al gruppo latino (basti ricordare che sono nomi di stampo prettamente latino quelli di Volturnus, Nola, ager Falernus, come anche gli etnici Siculi e Sicani). Quindi è lecito concludere che prima del sec. V a. C. l'Italia settentrionale era divisa tra Liguri, Etruschi e Veneti, la centrale tra Umbri, Etruschi e Latino-Falisci, la meridionale e la Sicilia tra questi ultimi e le colonie greche.
Altre illazioni sono lecite per il tempo precedente all'invasione etrusca, che, cioè, gli Etruschi, così nell'Italia settentrionale come in quella centrale, si fossero sovrapposti a stirpi umbre. Infatti anche qui basti ricordare che sono di origine italica nomi quali Umbro per il fiume Ombrone, Camers per la città di Clusium Hatria, Spina, e origini umbre erano attribuite dalla tradizione a Cortona, Perugia, Ravenna, Rimini, ecc.; si aggiunga che, secondo Erodoto, i due affluenti del Danubio, Karpis e Alpis, avevano le loro sorgenti in terra 'Ομβρικῶν, e l'importanza degli Umbri nella più remota antichità è confermata da non pochi indizî. E allora noi possiamo riconquistare nella carta etnografica dell'Italia antica il momento nel quale l'Italia centrale e la settentrionale erano per la massima parte occupate da stirpi umbre, cioè italiche.
E siamo tutti a domandarci: quali furono le stirpi, cui alla lor volta si sovrapposero gli Umbri? e può rispondersi con la massima probabilità che nell'Italia settentrionale essi trovarono i Liguri, i quali certamente un tempo ebbero sedi assai più estese di quelle del tempo storico: e allora ecco la successione che ci si profila: substrato ligure, diffusione delle stirpi italiche, arrivo ed espansione delle stirpi etrusche, colonizzazione greca, invasioni celtiche, confinamento degli Etruschi nell'Etruria, avanzata delle stirpi osco-umbre nell'Italia centrale e meridionale.
Per le più antiche di queste diverse fasi è possibile soltanto una cronologia relativa, ché una assoluta, e sempre di carattere approssimativo, è consentita soltanto a partire dalla colonizzazione greca, che risale alla metà circa del sec. VIII a. C., e si prosegue nei decennî successivi, mentre le invasioni celtiche sono, come già dicemmo, del sec. V e l'avanzata delle stirpi osco-umbre giunge sino al principio del quarto. Circa l'arrivo degl'Italici, d'altronde, dalla loro pertinenza alle stirpi indoeuropee si può desumere che essi siano discesi dal Nord attraverso i valichi delle Alpi centrali od orientali, e poiché può ritenersi accertato che le stirpi indoeuropee conoscessero il rame prima di pervenire nelle sedi europee, sembra parimenti certo che essi non possano essere giunti in Italia prima dell'alba dell'età dei metalli, cioé del periodo eneolitico. E altrettanto allora deve valere per l'arrivo dei Veneti e dei Messapî che abbiamo visto appartenere pur loro al ceppo indoeuropeo; ma saranno essi venuti prima o dopo gl'Italici? È una domanda alla quale non si può rispondere nemmeno per via di presunzione sulla base di elementi linguistici o tradizionali; ed è necessario chiedere eventuali lumi ai materiali dell'archeologia preistorica.
Più difficile assai e complicato è il problema del quando, donde e come sopraggiunsero e si espansero nell'Italia le stirpi etrusche. Qui non mancano notizie tradizionali, ma sono contraddittorie e hanno fondamento congetturale, non storico; qui non mancano migliaia di testi epigrafici, ma essi non hanno finora purtroppo consentito l'inserzione, non solo certa ma nemmeno probabile, dell'etrusco nell'uno o nell'altro gruppo linguistico; onde anche qui è necessario volgersi al sussidio dell'archeologia preistorica. Ma, purtroppo, questa, se è preziosissima fonte d'informazione per quanto concerne la successione delle diverse civiltà nel mondo è generalmente insufficiente alle individuazioni etnografiche, e di rado avviene che, riavvicinando i dati linguistici e tradizionali con quelli archeologici, si possa uscire dal campo della congettura. Il che purtroppo si verifica in particolar modo nella preistoria italiana e specialmente nella questione etrusca, e di fatto quanto mai diversi e contraddittorî sono i numerosi sistemi proposti da storici, e da archeologi, circa il riporto dei singoli strati preistorici delle diverse regioni italiane alle diverse popolazioni, e soprattutto circa l'individuazione etnografica degli strati che si succedono dal periodo della prima età dei metalli alla prima età del ferro. Vi è chi identifica i palafitticoli-terramaricoli con gl'Italici, e chi li identifica con gli Etruschi, chi fa venire quest'ultimi dal Nord, chi dall'Oriente, chi considera gl'Italici come eneolitici precedenti ai palafitticoli, e chi li vuole Villanoviani, chi considera gli Iapigi preitalici, e chi li fa giungere in età quasi storica. In tanta varietà di opinioni noi ci limitiamo a propendere, senza poterne qui specificare le ragioni, per coloro che considerano gl'Italici come eneolitici, fanno giungere gli Etruschi dal Nord nel corso dello stesso periodo eneolitico: i Veneti e gli Iapigi dall'Illiria nella prima età del ferro. Resta per noi invece incerto se i palafitticoli-terramaricoli siano gl'Italici o gli Etruschi, e se debbano considerarsi come discendenti di paleolitici i Liguri, di paleolitici o di neolitici i Corsi e i Sardi.
Quanto mai variopinta, dunque, è la carta etnografica dell'Italia preromana: vi si riscontrano quattro nazionalità indoeuropee: Italici, Greci, Celti, Illiri; una certamente non indoeuropea: gli Etruschi; parecchie d'incerta origine: Liguri, Sardi, Corsi, Elimi. E nelle varie età preistoriche si delinea il travaglio millenario del succedersi e trasformarsi di varie civiltà, spesso oscure e anonime, finché Roma con la forza delle armi e col genio della politica dà all'Italia unità ordine, e una superiore forma di vita civile.
Conquista romana dell'Italia peninsulare e sua organizzazione. - Fra tanta varietà di stirpi, al principio dell'età storica, Roma città occupava appena una ventina di ettari di terreno, e il suo territorio un centinaio di chilometri quadrati. Tutto attorno, fino ai monti Albani, sorgevano le città della confederazione latina.
Il soggiogamento e l'unificazione di tutti quei popoli fu per Roma opera assai ardua, irta di fatiche e di travagli (v. romani: Storia) e della quale le tappe principali furono: la conquista del primato sul Lazio, durante il periodo monarchico, le lotte contro Equi, Volsci ed Etruschi del Sud nel sec. V a. C., la distruzione di Veio al principio del IV e, subito dopo, il superamento della catastrofe gallica, il fronteggiamento dei primi moti insurrezionali latini, la prosecuzione delle lotte contro Volsci ed Etruschi, con un'espansione sempre più rapida, di guisa che verso la metà di quel secolo il dominio romano aveva già un' estensione di circa 8000 chilometri quadrati, dal Monte Cimino a Terracina. Vengono poi la prima guerra sannitica, con l'allargamento del dominio romano fino al golfo di Napoli e verso gli avamposti dell'Appennino per circa 12.000 kmq., e la guerra latina, col consecutivo scioglimento della lega. Appena una sessantina di anni dopo, attraverso le altre guerre sannitiche e la guerra pirrica, con le operazioni immediatamente successive, tutta l'Italia peninsulare da Rimini e da Pisa sino allo stretto di Messina, per circa 130.000 kmq., è stretta sotto il dominio di Roma.
Soltanto nelle prime fasi delle loro conquiste i Romani non fecero che distruggere le città sconfitte e trasportarne in Roma parte degli abitanti, ma dopo la distruzione di Alba, lasciarono generalmente sussistere le comunità vinte. Al principio del sec. V a.C. strinsero coi Latini il cosiddetto foedus Cassianum sulla base di un'eguaglianza, almeno teorica, politica e giuridica, e coi Latini divisero i frutti delle comuni vittorie, evitando, generalmente, ulteriori ingrandimenti esclusivi del proprio territorio, e contentandosi di fondare nelle terre conquistate colonie di diritto latino, alle quali partecipavano, alla pari, Romani e Latini. Distrutta Veio, tornarono alla politica delle annessioni dirette con la fondazione di nuove tribù e con la deduzione di colonie romane, ma nei decennî successivi essi perfezionarono in forme sempre più ingegnose gli schemi della loro espansione, escogitando un duplice sistema di annessioni delle comunità vinte: annessioni con conferimento della piena cittadinanza, e annessioni con conferimento della civitas sine suffragio, sfornita, cioè, di diritti politici, e di tal cittadinanza minore, a sua volta, articolarono due tipi diversi; quella con autonomia comunale e quella senza di essa. Le comunità, cui non fu data l'una o l'altra forma di cittadinanza, Roma lasciò sussistere come federate, sulla base di trattati, che ne determinarono rigorosamente le condizioni e i rapporti, alcuni pochi basati su una parità di diritti che naturalmente non poteva essere se non formale; i più su disuguaglianza di diritti; trattati notevolmente divergenti tra loro pur nell'ambito della stessa categoria (per i particolari v. città, X, p. 483 segg.). Mercé questo sistema Roma poté tenere saldamente in pugno una popolazione che era circa il doppio di quella romana, apparteneva a quattro nazionalità diverse, Italici, Greci, Iapigi, Etruschi, ed era sparsa per un territorio quattro volte superiore al proprio.
Romanizzazione dell'Italia. - Di queste popolazioni i Romani non si proposero in genere un'assimilazione violenta, né tentarono d'imporre la loro lingua, ché anzi l'uso del latino come lingua ufficiale considerarono quale massimo onore e quale oggetto di graziosa concessione. E tanto meno i Romani ostacolarono i diversi idiomi dei federati italici, ché anzi, difendendo le nazionalità minori contro gli appetiti delle maggiori, assicurarono alle loro lingue una durata maggiore di quella che forse, abbandonate a sé, avrebbero avuto. Comunque il latino stentò per secoli prima di diventare popolare nelle città della Magna Grecia, e tarda fu la sua avanzata nell'Etruria centrale e settentrionale.
La latinizzazione della penisola fu preceduta dalla creazione di una coscienza solidale e unitaria tra i federati, che i Romani affrettarono con mezzi di grande efficacia. Con straordinaria abilità, con accortissima politica monetaria, essi dominarono il traffico e il commercio della penisola italiana; ai federati riconobbero eguaglianza economica assoluta sui mercati aperti dalle armi comuni, ed elargirono loro privilegi giuridici nelle provincie, sì da far sparire all'estero ogni sensibile differenza tra un cittadino romano e un federato, onde Romani e Italici vennero a costituire fuori d'Italia quelle collettività legalmente chiuse e privilegiate, di cui è così frequente traccia nelle epigrafi. Gl'istituti romani penetrarono nei comuni italici in lente tappe, non per coazione, ma per la forza di espansione che derivava dalla loro superiorità, fino a sboccare nell'ordinamento municipale uniforme del periodo imperiale. E massimo crogiolo di fusione nazionale furono gli eserciti comuni, nei quali uno era il comando supremo, una l'organizzazione, uno l'ordinamento.
Per tal guisa i Romani unificarono attorno a sé, materialmente, economicamente e militarmente gli abitanti della penisola prima di unificarli nazionalmente che è quanto dire linguisticamente, e per un periodo abbastanza lungo sembrò che il sistema federale potesse bastare ai compiti storici dell'Italia romana. Soltanto quando negli sviluppi del sec. II a. C., il governo di Roma tralignò verso un'oligarchia sempre più gretta ed egoista, e i federati si sentirono ogni giorno più indifesi contro gli abusi e le prepotenze del governo centrale, essi desiderarono, per rimediare alla loro inferiorità, l'acquisto della cittadinanza romana e, dopo lunghi travagli, la ottennero con le armi alla mano, durante quella guerra sociale nella quale parve che alla formazione di una nazionalità italiana, convenisse la soppressione di Roma. Ma questa, continuando ad alternare le arti della politica con la forza militare superò la tempesta, e ne approfittò per procedere alla romanizzazione definitiva dell'Italia, e conferirle così unità di lingua e di nazione. Concessa in breve tempo la cittadinanza romana a tutti gl'Italici federati, la lingua latina si diffuse per ogni dove, e, con la lingua, l'onomastica, il calendario, i costumi romani; cadde ogni privilegio locale, scomparvero gli istituti di diritto privato divergenti dal diritto romano, si uniformarono gli ordinamenti municipali.
La guerra sociale ebbe notevoli conseguenze anche rispetto alla latinizzazione della Gallia Cisalpina, nella quale l'egemonia romana gravemente compromessa durante la II guerra punica, era stata, nei primi decenni del sec. II a. C., riaffermata, approfondita e allargata, ma questa regione era rimasta sempre nettamente distinta dall'Italia peninsulare. Con la guerra sociale la zona Cispadana, già prima in gran parte romanizzata, perveniva al diritto di città, mentre i Traspadani, in forza della lex Pompeia Strabonis ottenevano la latinità, ma poi, nel 49 a. C., Cesare concesse loro la piena cittadinanza, e dopo la battaglia di Filippi, Ottaviano, soppressa l'organizzazione provinciale, che, a quanto pare, Silla aveva introdotto nella Cisalpina, l'incorporò pienamente nell'Italia. Allora il confine d'Italia, che a NE. già dallo stesso Silla sembra fosse stato spostato dall'Aesis al Rubicone, a NO. dalla Magra al Varo, fu al NE. spinto al Formio, piccolo fiume che si getta nell'Adriatico a sud di Trieste, e a nord giunse alle Alpi in una linea che quasi combaciava col confine delle future provincie delle Alpi marittime e delle Alpi Cozie, lasciava fuori la Val d'Aosta, proseguiva lungo i laghi, rasentava a sud la Valtellina, comprendeva l'alta valle del Chiese e la Val di Non e toccava le creste delle Alpi Venete.
Confini augustei. - Fu Augusto che fece domare definitivamente i Salassi della Val d'Aosta, nel 25 a. C., a opera di A. Terenzio Varrone Murena; i Reti e i Vindelici nel 15 a. C., a opera di Druso e di Tiberio, e tutti gli altri popoli alpini, che, sebbene prima vinti più volte, avevano ciononostante continuato a dare molto filo da torcere ai Romani. La sottomissione completa non ebbe termine se non nel 6 a. C., e allora l'Italia eresse ad Augusto, sulle falde meridionali delle Alpi, sopra Monaco, un grande monumento che spaziava sul Tirreno, e glorificava la pacificazione di 46 popoli soggiogati definitivamente. A tale epoca il confine augusteo dell'Italia va tracciato così da Occidente a Oriente: Varo, Monviso, Piccolo e Gran S. Bernardo, S. Gottardo, Alpi Retiche, Alpi Carniche e Giulie, fiume Arsia.
La posizione dell'Italia nella compagine dell'Impero romano. - Come per l'epoca repubblicana, così per quella imperiale la storia politica d'Italia è quella dello sviluppo, dell'apogeo e della decadenza dello stato romano (per una trattazione analitica, v. romani: Storia). Ma non si può trascurare il fatto saliente di tale storia, dal punto di vista italiano. Ed è questo: che, per un complesso di circostanze diversissime - in primo luogo la vastità stessa dell'impero, la sua complessa organizzazione, le esigenze imprescindibili della sua difesa e organizzazione - l'Italia, che pure lo aveva creato, finì per vedere assai diminuita la sua iniziale posizione di preminenza nella compagine dell'impero: talché - per quanto ciò possa a prima vista apparire paradossale - soltanto con la dissoluzione di quella compagine l'Italia si avviò a una nuova sua storia. La quale continua bensì e non dimentica quella di Roma e del suo impero, anzi, con la Chiesa, che continua l'universalità dell'Impero, mantiene la sua funzione di primato spirituale; ma solo dalla caduta dell'impero la storia italiana si svolge autonoma e con proprî destini: la faticosa conquista d'una forma politica per l'unità nazionale del popolo italiano.
Il periodo repubblicano aveva fatto l'Italia signora del mondo: i legionarî italici costituivano il nerbo degli eserciti romani e ai mercanti italici erano assicurati i massimi privilegi in tutti i mercati. Ma il trapasso dalla repubblica all'impero era in minor parte conseguenza, in maggior parte esso stesso causa della trasformazione di queste condizioni di privilegio. Se le necessità politiche imponevano ormai di ricercare la collaborazione dei provinciali, il fattore economico sospingeva anch'esso gl'imperatori alla parificazione tra l'Italia e le provincie. Passato il periodo dei torbidi sociali e delle guerre, le provincie riprendevano naturalmente l'importanza economica che loro spettava per la ricchezza del suolo e del sottosuolo, per la loro situazione geografica. Soprattutto Gallia, Spagna, Egitto e Asia diventavano centri economici di prim'ordine. In un primo momento, sotto la dinastia giulio-claudia, parve che dal rifiorire economico di tutto l'impero dovesse guadagnare anche l'Italia. Ma l'accrescimento della prosperità non durò: l'emancipazione delle provincie portava alla decadenza dell'Italia. La grande esportazione dell'olio e del vino, fonte di prosperità, diminuisce e perciò si accresce di nuovo la produzione del grano, che tuttavia non basterà mai ai bisogni degl'Italici, al che occorre sopperire con importazioni, in ispecie dall'Egitto. Ma soprattutto decadono i piccoli proprietarî, e quindi si costituisce un latifondo che peggiora le condizioni preesistenti e quindi contribuisce a una ulteriore decadenza dell'economia italiana, già visibile nel periodo dei Flavî e degli Antonini. Alla quale decadenza economica si accompagna quella politica. Gl'Italici non hanno gran volontà di servire nelle legioni, e in genere gl'imperatori accondiscendono volentieri a questa loro tendenza, perché si sentono più sicuri con legionarî tratti fuori d'Italia. Perciò, da Vespasiano in poi, le leve d'Italici diventano un'eccezione. Con ciò, in un impero in cui l'esercito dice le parole decisive, l'Italia è privata della possibilità di far udire la sua voce. L'autonomia amministrativa è di molto diminuita dall'autorità imperiale. Ai tempi di Traiano erano introdotti i curatores, che dal controllo della contabilità delle singole città passavano facilmente alla loro sopraintendenza generica; e Adriano aggravava la limitazione dell'autonomia con l'introduzione dei quattro consulares per un nuovo regime giudiziario, consulares che, aboliti per le proteste degl'Italici da Antonino Pio, furono di fatto ricostituiti, forse con maggiori attribuzioni, da Marco Aurelio sotto il nome di iuridici. Anche la partecipazione degl'Italici alla classe dirigente dell'impero diminuiva: i senatori e i governatori delle provincie, poi gli stessi imperatori, erano sempre più spesso scelti tra i provinciali. Nello stesso tempo i vecchi centri culturali delle provincie (Grecia, Egitto, Asia Minore) riprendevano vigore, dando luogo a un'abbondante produzione in lingua greca (non è caso che Adriano fosse filelleno, e Marco Aurelio scrivesse in greco), mentre centri nuovi si formavano in Gallia, Spagna, Africa, che reggevano il confronto con quelli italiani.
La decadenza economica diventata generale in tutto l'impero man mano aumenta, né valevano provvedimenti come quelli di Traiano per obbligare i senatori a impegnare i loro capitali in Italia e per soccorrere con prestiti i contadini. E alla decadenza seguiva ora anche lo spopolamento, nonostante il quale l'ltalia soffrì sempre di più per l'insufficiente approvvigionamento, via via che il disordine impedì sempre più spesso le regolari comunicazioni tra le regioni dell'impero. L'editto di Caracalla (212 a. C.) col fare tutti i provinciali cittadini romani non sanzionerà che la parificazione ormai raggiunta tra Italia e provincie. Già sottoposta nel sec. III a un regime di correctores, le cui differenze dai correctores provinciali sparirono presto, l'Italia diventerà una delle dodici diocesi dell'Impero con Diocleziano, perderà la sua posizione di capitale con Costantino, perderà subito dopo anche la sua fisionomia amministrativa con l'essere aggregata in una sola prefettura con l'Africa (e in certo periodo con l'Illirico).
Tuttavia, non solo per il suo passato, ma anche per la sua permanente vita spirituale e culturale, a cui conferiva nuova dignità e nuovo vigore il papato, l'Italia resterà sempre uno dei centri della vita dell'impero, né mai si oblitererà del tutto la coscienza della funzione fecondatrice e civilizzatrice che da essa si era irraggiata per il mondo romano. Quanto più si approfondirà il distacco tra l'Oriente rimasto fondamentalmente ellenistico e l'Occidente romanizzato, altrettanto più netta apparirà la funzione dell'ltalia come centro dell'Occidente. Ciò si vide soprattutto dalla morte di Teodosio (395 d. C.) in poi, e tale funzione non venne meno neppure quando tutto l'Occidente fu preda dei barbari, perché all'impero si sostituì entro certi limiti la Chiesa.
Bibl.: Per la trattazione dal punto di vista storico generale v., oltre le maggiori storie di Roma (specialmente quelle di Th. Mommsen, I, 10ª ed., Berlino 1907, pp. 3 segg., 111 segg.; G. De Sanctis, I, Torino 1907, pp. 50-223; E. Pais Roma 1926, I p. 346 segg.; II, p. 440 segg. ed il vol. II della Geschichte des Altertums di E. Meyer, 1ª ed., Stoccarda 1893, p. 488), E. Brizio, Epoca preistorica nella Storia politica d'Italia, ed. dal Vallardi; W. Helbig, Die Italiker in der Peobene, Lipsia 1879; J. Beloch, Der Italische Bund, Lipsia 1880; D'Arbois de Jubainville, Les premiers habitants de l'Europe, 2ª ed., Parigi 1889-1894; B. Modestov, Introduction à l'histoire romaine, Parigi 1907 (dal russo); H. Nissen, Italische Landeskunde, Berlino 1883-1902; Sophus Müller, L'Europe préhistorique, Parigi 1908 (dal danese); L. Pigorini, Preištoria (pp. 1-71 del vol. II dei Cinquanta anni di storia italiana per cura della R. Accademia dei Lincei), Roma 1911; N. Toscanelli, Le origini italiche, Pisa 1914; G. Dottin, Les anciens peuples de l'Europe, Parigi 1916; G. Sergi, Italia, le origini, Torino 1919; Lackeit, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., vol. III di suppl., 1918, col. 1268 segg.; E. Pais, Italia antica, 2ª ed., Bologna 1923, I, p. 31 segg.: G. Pinza, Storia delle civiltà antiche d'Italia, Milano 1923; F. L. Pullé, Italia, I Torino 1927, p. 156 segg.; II, p. 1 segg.; A. Della Seta, Italia antica, 2ª ed. Per la trattazione archeologico-preistorica v. la bibliografia del paragrafo relativo. Per gl'Italici in particolare, v. Th. Mommsen, Unteritalische Dialekte, Lipsia 1850; Th. Aufrecht e A. Kirchhoff, Die umbrischen Sprachdenkmäler, Berlino 1845-1851; F. Bücheler, Umbrica, Bonn 1883; R. von Planta, Grammatik der oskisch-umbrischen Dialekte, Strasburgo 1892-97; R. S. Conway, The Italic Dialects, Cambridge 1897; e in Atti del Congresso inter. di scienze storiche, Roma 1903, II, p. 9 segg.; C. D. Buck, A grammar of Oscan and Umbrian, Boston 1904; e Elementarbuch der oskisch-umbrischen Dialekte, traduzione tedesca di E. Prokosch, Heidelberg 1905; B. Terracini, in Rivista di filologia classica, XLVIII (1920), pp. 1 segg., LIII (1925), p. 43 segg. e in Studi etruschi, III (1929), p. 209 segg.; F. Ribezzo, Questioni italiche di storia e preistoria, in Neapolis, I, p. 319 segg.; e in Rivista Indo-greco-italica, XIV (1930), p. 59 segg.; G. Devoto, Gli antichi Italici, Firenze 1931; P. G. Goidanich, Varietà etniche e varietà idiomatiche in Roma antica, in Atti del primo congresso di studi romani, Roma 1929, II p. 396 segg.; id., I rapporti culturali e linguistici fra Roma e gli Italici, in Rendiconti della R. Accademia di Bologna, s. 3ª, IV (1930-31); e in Historia, V (1931); A. von Blumenthal, Die Iguvinischen Tafeln, 1931; e la bibl. della voce italici. Per le altre popolazioni v. le voci relative, specialmente etruschi, riguardo ai quali basti qui citare quelle opere recenti che ne trattano in connessione con l'etnografia generale dell'Italia antica: R. A. L. Fell, Etruria and Rome, 1924; P. Ducati, Etruria antica, Torino 1925; L. Pareti, Le origini etrusche, Firenze 1926. Circa la conquista e la romanizzazione, v. bibl. della voce romani, e per uno sguardo sintetico, G. Cardinali, in Historia, 1932. - Per le ragioni augustee e per l'amministrazione dell'Italia nel periodo imperiale v. J. Marquardt, R mische Staatsverwaltung, Lipsia 1881, pp. 1 segg., 216 segg., 231 segg.; Desjardins, in Revue Hist., I (1876), p. 184 segg.; C. Jullian, Les Transformations politiques de l'Italie, Parigi 1881; Th. Mommsen, Die Italischen Regionen, in Gesammelte Schriften, V, Berlino 1908, p. 268 segg.; cfr. 179 segg., VI (1910), p. 284 segg.; H. Nissen, op. cit., I, Berlino 1883, p. 57 segg.; Cuntz, De Augusto Plinii geogr. auctore, Bonn 1887, p. 27; Klotz, in Göttinger Gelehrte Anzeigen, 1910, p. 477 segg.; O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, 2ª ed., Berlino 1905, pp. 101, 127 segg., 212 segg., Thédenat, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., IV, p. 817 segg.; L. Cantarelli, La diocesi Italiciana, Roma 1903; Jung, in Mitteilungen des Instituts für Österr. Geschichtsforsh., vol. V di suppl. (1896-1903), p. 1 segg. - In generale v. K. J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, p. 488 segg.; V. Chapot, Le monde romain, Parigi 1927, p. 135 segg.; Lackeit-Philipp, in Pauly-Wissowa, Real-Encykl., vol. III di suppl., coll. 1246 segg.; G. Cardinali, in Dizionario epigrafico di antichità romane, IV, p. 92 segg.
Regni barbarici in Italia.
Le prime formazioni romano-germaniche nella penisola. - Occupata la penisola iberica e la Gallia meridionale dai Visigoti, dai Franchi Salî la Gallia settentrionale, dai Franchi Ripuarî la valle della Mosella, dai Burgundî la valle del Rodano e della Saona, dagli Alamanni la regione attorno alle sorgenti del Reno, dagli Angli e Sassoni la Britannia; insomma risoltosi gran parte del territorio dell'impero d'occidente in regni romano-germanici, sia pure confederati nominalmente dall'impero, non rimaneva sotto il diretto ed effettivo dominio dell'impero d'occidente, a metà del sec. V, se non l'Italia, anch'essa mutilata di regioni insulari per opera dei Vandali d'Africa, e qualche zona della Gallia meridionale e della regione oltre le Alpi del nord-est. L'impero d'occidente (v. romani: Storia) sopravviveva solo dove era nato. Ma nel corso del sec. V più volte la penisola intera è stata battuta dai barbari, fino alla Calabria; più volte Roma stessa ha visto nelle sue mura i barbari, ha subìto saccheggi e devastazioni. Più d'uno degl'imperatori del sec. V è salito al trono per volontà e sotto la protezione di re barbari. Barbari sono Stilicone, capo della cavalleria e fanteria, Ricimero che vince per mare la flotta dei Vandali, reduci dal saccheggio di Roma nel 455, e governa anche senza imperatori, Gundobaldo capo della guardia imperiale e padrone efettivo della città, Oreste che caccia il legittimo sovrano e vi mette il proprio figlio Romolo, un fanciullo. Rappresentano essi quell'infiltrazione e immigrazione barbarica che da un pezzo è in atto e dà soldati e capi all'esercito e membri al senato, sino a provocare la formazione di un movimento o partito antigermanico nell'aristocrazia e alta borghesia romana. Non hanno ancora un vero e proprio territorio, questi barbari d'Italia, come altri altrove. Solo stanno accampati nel centro dell'impero. Ma piccoli stanziamenti non ne mancano. Barbari sconfitti, fatti prigionieri oltralpe, sono portati in Italia su terre a loro concesse. Nel Modenese, Reggiano e Parmense, Graziano dissemina i Goti Unni e Taifali sconfitti nel 377. Sul Po Teodosio colloca Alamanni prigionieri. Al principio del sec. V, si parla di Sarmatae gentiles, stanziati a Cremona, Padova, Torino, Bologna, Forlì, Oderzo, Vercelli e in altre città del nord. Si voleva con ciò, fra l'altro, ripopolare vaste regioni spopolate, specie nella zona che più era necessario tener difesa da possibili invasioni.
Fino a che, anche questa superstite oasi venne assorbita. E fu nel 476, quando le milizie barbariciie che erano in Italia vi chiesero ad Oreste un regolare stanziamento. Oreste negò e allora Odoacre, uno dei loro capi, già venuto per conto suo in Italia attraverso le Alpi nordorientali, promise terre e fu levato sugli scudi, prese Pavia e Ravenna mandando via Romolo Augustolo, ultimo imperatore d' Occidente in Italia, distribuì ai suoi Eruli, Rugi, ecc., le terre che chiedevano, governò i suoi barbari in nome proprio, come re, e gl'Italiani in nome dell'altro imperatore, come suo patrizio, cioè investito della direzione militare e amministrativa: sebbene il titolo non gli fosse mai dato ufficialmente dall'imperatore. Poiché l'imperatore, in cui era sempre vivo il senso dell'unità dell'Impero, si considerò esso successore in Occidente, e vide in Odoacre un usurpatore, da tollerare finché non fosse possibile trarlo giù di seggio. Acquiescenza scambievole per alcuni anni, resa possibile dal contegno di Odoacre nei rapporti con l'Impero, con la Chiesa, con i Romani, dei quali poco toccò l'organizzazione civile, cioè il senato, le curie, le provincie, la gerarchia; fra i quali anzi trovò molti collaboratori. Essi dovettero vedere in lui presso a poco uno dei tanti patrizî barbarici, più o meno romanizzati, nel sec. V, investiti di funzione specialmente militare e capaci di fronteggiare i barbari d'oltralpe. Tutto sommato, il 476 rappresentò nulla più che qualche passo avanti sulla via della prevalenza politica dei barbari in Italia: anche perché poche erano le genti di Odoacre e, in un modo o in un altro, già stanziate nella penisola a costituire guarnigioni, specialmente rade nel centro e sud. Il maggiore stanziamento fu certo attorno a Ravenna; tuttavia l'esercito si saturò vieppiù di elementi germanici, l'Italia si staccò ancora un poco dall'Oriente e, pur assimilandosi anche in questo ai paesi occidentali dell'impero, guadagnò in personalità politica, s'individuò in mezzo al mondo romano. Con Odoacre, si ha il restringersi alla sola penisola del senso politico della parola Italia, laddove, nella ripartizione imperiale degli ultimi secoli, la prefettura d'Italia comprendeva le diocesi di Africa, quella d'Italia vera e propria, quella dell'Illirico, particolarmente legata all'Italia perché il vicario dell'Illiria risiedeva a Milano. Ora l'Italia è la penisola; e Odoacre è, di fatto, re di questa Italia. Fuori della penisola, ma pur legatissima ad essa anche geograficamente, Odoacre ha, oltre la Sicilia, la Dalmazia, invasa nel 480 e tutta da lui signoreggiata.
Più profondamente incisero sul vecchio ordine politico-sociale della penisola Teodorico e i suoi Ostrogoti. Vera invasione barbarica questa, sebbene Teodorico, semplice magister militum, fosse venuto in Italia in nome dell'imperatore, che voleva allontanare da sé quei barbari e abbassare o cacciare i barbari di Odoacre.
La battaglia sull'Adda (agosto 490), vittoriosa per Teodorico, fu decisiva e Odoacre, assediato in Ravenna, dovette, dopo tre anni, capitolare. Né vi fu più altrove resistenza alcuna, salvo un poco in Sicilia. Teodorico sottentrava a Odoacre; gli Ostrogoti, cioè un popolo-esercito, a quell'accozzaglia di antichi mercenarî di varia stirpe che costituiva le forze di Odoacre: sebbene anche gli Ostrogoti, già incorporati nel regno degli Unni entro i confini dell'impero, non avessero più la loro vecchia organizzazione e compattezza morale e poi accogliessero nelle loro file anche Rugi, anche gruppi di Alamanni, cacciati verso il sud dai Franchi e provvisti da Teodorico di terre ai confini. Si calcola fra duecento e trecentomila il numero degli Ostrogoti.
L'Italia si abbandonò senza resistenza al nuovo signore. Elevato a re dai suoi Goti, dopo la morte di Zenone, fu poi riconosciuto re dall'imperatore, re dei Goti, mentre sui Romani esercitava autorità solo come magister militum: anche se, di fatto, li governò indipendentemente da Bisanzio. Anch'egli, come Odoacre, divise fra gli hospites un terzo delle terre dei possessores; ma certamente, non di tutti i possessores e non di tutta Italia. Forse anche, chi cedette il terzo, non lo cedette di tutto il suo patrimonio, ma solo di quei possessi situati vicino o in mezzo a stanziamenti goti. I quali, anche ora, ebbero particolare ampiezza attorno a Ravenna; poi, nel Veneto, ai piedi delle Alpi, a Trento, nel Piceno, nel Sannio, in Tuscia; altrove, più che altro guarnigioni. Le terre date ai Goti dovettero essere quelle stesse già date a Eruli e Rugi: più, altre, in rispondenza al maggior numero dei nuovi occupatori. Anche i Goti, sebbene fossero un popolo, funzionarono più che altro come un esercito. Essi tennero le armi e solamente le armi, rimanendo ai Romani uffici e attività civili. Si accentuava cosi quella specie di passività delle popolazioni indigene di fronte al compito della difesa e quella netta distinzione di funzioni, che da un pezzo si stava attuando. Processo graduale e spontaneo. Ma i Goti se ne fecero un proposito, quasi un programma di governo. Il regno doveva poggiare su questa duplice base. Così era già balenato ad Ataulfo visigoto; così, più chiaramente, a Teodorico ostrogoto. Incapaci a fare da soli, invocavano la collaborazione dei vinti; ma collaborazione tutta estrinseca. Si trattava di popoli separati ancora da un abisso morale, consapevoli gli uni della propria forza, gli altri della propria debolezza, ma gli uni e gli altri persuasi della propria superiorità. A non contare la differenza religiosa. Anche in Teodorico, pur sollecito del bene di tutti, il re dei Goti prevalse sopra il magister militum e funzionario imperiale. Fece una politica estera più volta verso i regni romano barbarici dell'Occidente, specialmente i Visigoti di Spagna e Gallia meridionale, che verso l'impero. Verso l'impero si destreggiò, anche per impedire che da quella parte gli venissero suscitati contro altri barbari. Il suo pensiero andava a un raggruppamento di popoli germanici, capace di fronteggiare l'impero. S'imparentò, così, con Visigoti, Turingi, Vandali, Franchi, e cercò anche di conciliare Visigoti e Franchi suoi confinanti. Né gli mancò qualche desiderio di aggraziarsi i vinti; qualche pensiero di grandezza che, trovando appagamento solo nella tradizione imperiale romana, si risolveva in manifestazioni bene accette ai vinti. Tutto questo e certa superiorità che conseguì sui vicini regni barbarici, poté dare l'impressione d'una ripresa di vita nella penisola. Ma, viceversa, Teodorico stesso non voleva accostarsi troppo ai Romani. In lui era più ostentazione, più ricerca di letterati adulatori che apprezzamento vero della civiltà dei vinti. Peggio ancora i suoi Goti. Non che qualcosa non penetrasse anche in essi dal contatto coi Romani. Ma considerarono questa penetrazione un pericolo: si direbbe che la coscienza della loro pochezza numerica e, pur con tutte le loro armi, debolezza politica, li spingesse a chiudersi in sé, per timore di essere sopraffatti dal lento ma irresistibile moto della grande massa circostante. Perciò il regno goto e i Goti si trovarono isolati, quando sopraggiunse la guerra di riconquista dell'impero, intrapresa da Giustiniano nel 535. Nel 553, sconfitti e uccisi Totila e Teia, il regno gotico cadde distrutto.
Si erano messe in movimento, durante questa guerra, anche orde di Alamanni e di Franchi. Ma ora, gli Alamanni furono annientati; i Franchi ricacciati; i Goti vinti si dispersero e il loro stesso nome scomparve. Non si sa neppure se e quanti ripresero la via delle Alpi, se e quanti si confusero nella massa della popolazione o si mescolarono confusamente coi successivi invasori: proprio come un esercito in paese stranieto, ove la sconfitta militare vuol dire la fine. Di solidarietà dei Romani con i Goti non si ebbero tracce se non, un poco, nelle campagne del Mezzogiorno, dove i contadini furono guadagnati da Totila, per poterli contrapporre ai Greci che godevano invece qualche favore di grandi proprietarî.
Così l'Italia divenne una provincia dell'impero d'Oriente, con i confini sulle Alpi e sul mare. A Roma, il senato cessò di esistere. E fu, più ancora che non per la sostituzione di Odoacre a Romolo Augustolo, la fine dell'Italia come centro dell'impero d'Occidente, e di Roma come capitale dell'impero. Poté contribuire a ciò anche la crescente decadenza economica di Roma e dell'Italia, che riprendeva il suo corso, anzi lo accelerava, dopo venti anni di guerra che, in molte regioni, fu veramente sterminatrice. Si accentuò anche l'isolamento di Roma nei rapporti col resto della penisola e dell'Italia di fronte al resto dell'Europa, non essendovi più né il nesso creato già dall'impero né quello creato dalla politica di Teodorico e anche solo dalla comune origine germanica delle stirpi dominatrici.
E tuttavia, pur mentre certi vincoli si spezzano, altri il corso delle cose comincia a crearne, d'altra natura. Si moltiplicano chiese e diocesi nell'Italia meridionale a sud di Roma e Roma esercita su esse i diritti metropolitici. Sorgono poi (v. appresso: Il cristianesimo in Italia) quelle della media e alta Italia. Si costituiscono le provincie ecclesiastiche di Milano, di Aquileia e di Ravenna. Sulla chiesa di Ravenna si riflette la cresciuta importanza della città, sede della corte. Presto si rivela e si fa sentire anche nel nord l'azione disciplinatrice della Chiesa di Roma. La quale intanto lavora per conseguire il primato sulla Chiesa cattolica e per sottrarsi alle tendenze cesaropapistiche dell'impero d'Oriente. Con Giustiniano, si hanno atti di benevolenza verso il papa, riconoscimento di attribuzioni civili ai vescovi italiani. Ma queste largizioni volevano dire anche dipendenza. In realtà, benevoli o gravosi che fossero gli atti dell'imperatore verso la sede romana e i vescovi italiani, il risultato era di alienare dall'Oriente l'Italia ortodossa. Il legame, rafforzato dopo il 535 nel campo politico, s'indeboliva in quello morale. Anche perché la nuova vita religiosa cresceva di vigore in Italia e sempre più acquistava caratteri suoi di fronte a quella di Oriente. Proprio negli ultimi anni del dominio goto, Benedetto da Norcia iniziò il suo movimento di riforma monastica che irraggiò dall'Italia e dettò legge al monachesimo d'Occidente, lo adattò ai bisogni spirituali e pratici dell'Occidente latino. In Calabria, Cassiodoro dava intanto vita a un altro importante movimento, con carattere più intellettuale, destinato anch'esso a svilupparsi e a operare in Italia e in Europa. È da riconoscere al monachesimo in genere, a questo monachesimo occidentale e italiano in ispecie, nel quale si espressero alcuni caratteri dello spirito italiano e occidentale, di avere non poco accentuato questo distacco. Esso, col suo anelito alla libertà della vita religiosa e chiesastica, portò nella Chiesa d'Occidente, anche dei paesi soggetti politicamente a Bisanzio, un fermento di opposizione al cesaropapismo orientale, ancora più energico che non fosse già quello della gerarchia ecclesiastica e dei vescovi di Roma. Esso accentuò la tendenza occidentale e italiana di stringersi attorno a Roma, di vedere nella chiesa di Roma il centro e capo della Chiesa. Lo sviluppo successivo della storia italiana marcerà su questa duplice direttiva di differenziazione dall'Oriente e d'individuazione sua nell'ambito della vita politico-religiosa dell'Occidente.
La conquista longobarda. - Questo staccarsi dall'Oriente e avvicinarsi all'Occidente, questo individuarsi della penisola entro lo stesso mondo romano-barbarico si accentua dopo il 568 (v. alboino), quando i Longobardi, già stanziatisi nell'odierna Ungheria sotto il dominio degli Eruli, alleati poi di Teodorico nel distruggere quel regno, stanziatisi nel Norico per concessione di Giustiniano, cioè alle porte dell'Italia, irruppero dai valichi delle Alpi Giulie (v. longobardi). Con essi, il germanesimo scompariva dall'Oriente e si afforzava in Occidente. Occupata Forum Iulii e subito dopo Milano, iniziarono per le genti della penisola una nuova fase di vita. A differenza degli altri barbari, venivano, non come federati e amici dell'impero e sospinti a tergo da esso, ma come nemici e conquistatori. Più barbari dei Goti, e più fermi nei quadri della loro vecchia costituzione germanica, procedettero senza riguardo, né per l'impero, né per le popolazioni italiane, né per le chiese.
Giudizî diversi e opposti sono stati pronunciati sulla condotta dei Longobardi nei primi tempi. Ma si può ammettere ormai che i nuovi invasori, a differenza degli Ostrogoti, trattarono i Romani come cosa di conquista. Certo i relatori chiesastici del tempo esagerarono. A Pavia, Alboino entrò nulli laesionem ferens, e il popolo, dopo tante miserie, si sentì il cuore sollevato a nuova speranza. Certo, anche, i più dei vescovi rimasero nelle loro sedi e qualcuno ebbe benigno trattamento. Probabile che, come sempre in queste invasioni, plebe, contadini, servi della gleba fossero indifferenti e magari attendessero beneficio. Anche, qua e là, possessores. E Gregorio Magno lamenta che dalla Corsica e dalla Campania taluni di essi fuggissero presso i Longobardi di Tuscia e di Benevento, per odio ai Bizantini. Ma è vero anche che, specialmente con Clefi successore di Alboino e durante l'interregno che seguì a Clefi, vi fu vera strage di potentes, cioè di gente ricca e altolocata: che fu altro colpo dato alla vecchia aristocrazia, già battuta dalla reazione militare e contadinesca del sec. III-IV e dal dispotismo burocratico dell'impero, e sostituzione di un'aristocrazia quasi del tutto germanica alla vecchia di origine romana. Vero anche che, di fronte ai Longobardi predatori e ariani e fautori di scismatici, vi fu largo esodo verso i luoghi meno battvti dall'invasione. Paolo che reggeva la chiesa di Aquileia fuggì a Grado. Non pochi Milanesi presero stanza a Genova. Altra gente cercò a Roma e a Ravenna la protezione di quel vescovo e del duca greco. Le coste e le isole di Toscana, le coste pugliesi e napoletane dovettero egualmente accogliere fuggiaschi. Lo stesso era avvenuto e avveniva lungo le coste della Dalmazia, dove sorse Spalato. Si ebbe certamente ora la prima ondata migratoria verso le isole dell'Estuario veneto. Insomma, come un deflusso verso i paesi periferici, più facili a tener collegati con l'impero e difesi: deflusso che o diede la prima origine a nuove città o rinsanguò e avvivò città preesistenti, mentre altre decadevano o scomparivano per sempre. Nello stesso tempo, là dove, specialmente lungo il confine fra Greci e Longobardi, furono trasferiti per difesa corpi di truppa coi loro duchi e magistri militum, sorsero nuovi castelli, alcuni dei quali divennero poi città. Così Ferrara. E rappresentò, tutto questo, un primo e tenue spostamento nella vecchia e solida ossatura urbana della penisola.
Nei primi tempi, rapida fu la conquista, fino a Benevento e oltre. Ma intanto si organizzava la resistenza dei Bizantini. Ravenna, Roma, Napoli si consolidavano nelle loro mani. Poca coesione e forza, tra i duchi longobardi; e qualcuno entrò al servizio dell'impero, gli altri cercarono di sistemarsi nell'ambito dei territorî a essi partitamente assegnati. Si aggiunsero gli urti coi Franchi, che tendevano a straripare sull'Italia. Da Bisanzio, giungevano sollecitazioni e stimoli: e vi fu anche un'alleanza tra i Franchi e l'imperatore Maurizio. Così minacciati nella loro interna compagine e dalle forze circostanti - Greci, Franchi, Chiesa -; pochi e isolati in mezzo a una popolazione numerosa e ostile, se pur non disposta a guerra, i Longobardi tornarono a nominare un capo unico. Che fu il figlio di Clefi, Autari.
In questo tempo sono già costituite le circoscrizioni longobarde, i ducati: i più, nell'alta e media Italia, ove essi si raggruppano in nuclei maggiori, come Austria, Neustria, Tuscia, che sono quelli ricordati con maggiore frequenza, pur essendo essi, a quel che pare, non grandi ripartizioni amministrative e politiche, ma distinte regioni geografiche. Solo molto grossolanamente i ducati o iudiciariae paiono rispondere a precedenti ripartizioni civili o religiose. Hanno, sì, a centro, una civitas: ma non ogni civitas è centro di un ducato. Si può pensare che i Longobardi, da principio, presero le città a base del loro ordinamento, a mano a mano che vi si stanziarono: ma poi molti spostamenti avvennero nelle vecchie circoscrizioni, sia civili sia ecclesiastiche. È poi certo che il ricordo delle vecchie circoscrizioni, legate a interessi di ogni genere, non si spense: ché anzi si manifestò subito la tendenza a riportare le nuove circoscrizioni sulla linea delle antiche. In tale vicenda mutò non poco la gerarchia delle città. Alcune guadagnarono, altre persero d'importanza: anche in rapporto all'ampiezza degli stanziamenti longobardi, che furono numerosi in alcune regioni (Friuli, Brescia, Pavia, Lucca, Pistoia), scarsi altrove. Alcune città ebbero una lunga eclissi, come Padova; qualche altra mutò sede. Cadde Milano, già capitale dell'impero d'Occidente; crebbe invece Pavia (Ticinum), già centro gotico di notevole importanza, diventato nel 540 capitale del regno dopo la caduta di Ravenna, luogo dell'estrema difesa gotica contro i Bizantini. I quali pur essi misero lì, a quel che sembra, il vicario d'Italia e vi resistettero tre anni ad Alboino: ciò che spiega la durevole impressione che la caduta di quella città lasciò nei Longobardi. E ora, dopo la morte di Alboino (572), Pavia è scelta a stabile capitale del nuovo regno.
Salito al trono, Autari assunse il nome romano di Flavio, e cercò d'accrescere la sua autorità tanto sui Romani quanto sui Longobardi. Così poté fare qualche accordo con l'esarca, respingere le incursioni dei Franchi combinate spesso con gli attacchi dei Greci, trovare anch' egli amicizie oltralpe, fra quelli che si sentivano minacciati dai Franchi: e precisamente nel duca di Baviera Garibaldo, di cui sposò la figlia Teodolinda, cattolica, fatto significativo per un principe ariano. Iniziò poi trattative per un accordo durevole coi Franchi, conchiuso dal successore suo Agilulfo. Il quale, meno premuto da strette nemiche, riprese la conquista. Espugnò Padova, prese Monselice decimando le popolazioni. L'esodo verso le isolette della laguna dové, allora, accentuarsi; mentre, nell'interno, Altino, Concordia, Aquileia, Monselice, Padova, declinavano o scomparivano. Alleato poi con gli Avari, Agilulfo ne ebbe aiuti per occupare altre città padane, come Cremona, che andò distrutta; con la cooperazione dei duchi di Spoleto e Benevento, progredì nel sud contro i Bizantini e ampliò i possessi dell'Italia centrale, rendendo difficili o impossibili, con l'occupazione dei castelli lungo la Via Flaminia, le comunicazioni fra Ravenna e Roma. Isolata Roma, tentò d'avere anch'essa nelle sue mani. L'impresa non riuscì, e Agilulfo conchiuse col papa e con l'esarca una tregua che durò parecchi anni e favorì il primo aprirsi dei Longobardi alle influenze civilizzatrici dei Romani: sorgente per essi di forza e, insieme, di debolezza.
Come potevano sottrarsi a quelle influenze, una volta fermatisi sopra stabili sedi, datosi un ordinamento territoriale più o meno ricalcato sul precedente, accostatisi al possesso della terra, messisi a convivere coi Romani? Vi era una salda costituzione agraria: e dentro di essa i nuovi proprietarî rimasero come avviluppati. Vi era una tradizione statale: ed essa dovette subito operare nel senso di sollecitare la monarchia restaurata farsi valere sui duchi e iniziare con essi la durissima battaglia. Vi era una ormai salda organizzazione chiesastica: e presto i Longobardi cominciarono a sentirsi attirati, malgrado il favore mostrato dapprima agli scismatici. Fra i Longobardi, come si determinò presto una corrente disposta a intendersi con l'impero e servirlo, così anche una corrente ben disposta verso i cattolici e il cattolicismo. La promosse Gregorio I, che, spettatore dell'impotenza dei Greci a fronteggiare i barbari, non persuaso che un rafforzamento eccessivo dell'impero in Italia fosse un vantaggio per la Chiesa e le popolazioni, si volse a promuovere accordi e tregue tra Longobardi e Greci e un'intesa fra Longobardi e Chiesa. Intermediaria efficace la regina Teodolinda. Con essa certamente ebbe inizio la conversione dei nuovi barbari: donde nuovi e più stretti contatti di ogni genere che promoveranno la mescolanza e, poi, non so se la fusione dei due popoli o l'assorbimento degl'invasori in mezzo ai vinti. Agilulfo non si convertì, ma lasciò battezzare cattolicamente il figlio Adaloaldo (7 aprile 603). Accolse poi benevolmente il monaco Colombano, venuto fra il 610 e 612 a posarsi fra Milano e Pavia. Sua prima intenzione era combattere gli ariani. Ma si trovò anche in mezzo al turbamento prodotto dallo scisma. Vide allora nella conversione dei primi un mezzo per porre fine anche al secondo. E pare che Agilulfo stesso lo incoraggiasse. Tra il 613 e 614, egli donò a Colombano un ampio territorio lungo la strada Pavia-Genova e presso l'altra che da Luni conduceva verso la bassa valle padana. E lì, presso Bobbio, sorse un monastero, poi grande e famoso. Si trattava tanto di aprire la via verso Genova, quanto di consolidare nel possesso dei Longobardi quel territorio, da poco, come sembra, strappato ai Greci per opera del duca Sundrarit. Dunque, fini politici: ma anche religiosi, se, per raggiungere il suo fine, Agilulfo si servì di un ferventissimo campione di cattolicismo e ortodossia contro ariani e scismatici.
È probabile che la politica filocattolica di Agilulfo, determinata anche dal bisogno di vincere le difficoltà interne e agevolare la conquista, sortisse l'effetto contrario. Ciò spiega come si avesse, negli ultimi anni di Agilulfo, un nuovo arresto nell'espansione longobarda; e come ricomparisse poi con Rotari, insieme, spirito longobardo e ariano e volontà di conquista. Ed ecco l'invasione della Tuscia lunense e della Liguria marittima, fino ai confini franchi: che volle dire punti d'appoggio tolti ai Bizantini per tentare imprese contro i Longobardi e punti d'appoggio dati ai Longobardi per tentare sbarchi e acquisti nelle isole del Tirreno. Ecco anche qualche progresso a nord-est, dove Oderzo, punto d'incontro dei tre ducati longobardi del Friuli, di Ceneda e di Treviso, e sede ultima del governo ducale in terraferma, fu presa e distrutta: ciò che costrinse quel governo a trasferirsi nell'isola di Cittanuova, sempre nelle dipendenze dell'esarca, avendo sotto di sé i tribuni delle isole. Nel tempo stesso, Grimoaldo di Benevento avanzava a sud, distruggeva Crotone, faceva larghe razzie di uomini, messi poi al lavoro servile o venduti schiavi. Fu questo il maggiore e più duraturo progresso territoriale compiuto dal regno dopo la prima invasione. In seguito, non ve ne furono altri di qualche entità. Con le imprese di guerra, l'attività legislativa, che ebbe il suo grande monumento nell'editto di Rotari (v.); il quale, mentre è un segno dell'energica personalità del nascente regno longobardo, in un momento in cui la nazione sembra voglia riaffermare sé stessa e rituffarsi nelle sue tradizioni, tradisce anche un crescente compenetrarsi e fondersi di due società e civiltà e stirpi, implicitamente riconosciuto nell'atto stesso che si reagiva ad esso.
L'avvicinamento si accentuò negli anni successivi, quando salì al trono Ariperto, cattolico; e il regno fu di nuovo sconvolto da fazioni e ambizioni di duchi, gareggianti nel guadagnarsi seguaci anche fra i Romani. E intanto i pontefici seguitavano nella politica iniziata da Gregorio Magno. Si compié allora, per quel tanto che era stata turbata, la gerarchia cattolica. Si ha ragione di credere che il 680, come segnò l'inizio di una fase tranquilla assai nei rapporti fra Greci e pontificato romano e, più ancora, fra pontificato e regno longobardo, così anche una più larga e profonda infiltrazione di cristianesimo e cattolicismo fra i Longobardi.
Divisione dell'Italia, distacco crescente da Bisanzio, avvaloramento di forze locali. - Con l'arresto della conquista territoriale, la penisola si è venuta dividendo in due parti, quasi in due Italie: quella dei Longobardi, cioè la Longobardia, che occupava tutta la regione subalpina e padana (salvo l'esarcato e il ducato di Venezia), la Tuscia, il ducato di Spoleto e il ducato beneventano, variamente esteso ma specchiantesi sui tre mari, Adriatico, Tirreno, Ionio; quella dell'impero, cioè la "Romania". Le distingueva e divideva anche una maggiore persistenza di antiche istituzioni municipali e di antico diritto, di economia di scambio e di attività artigiane, una maggiore autonomia di vita locale di fronte allo stato. Ché se nella Longobardia si veniva da per tutto, con moto sia pur lento e non regolare, affermando l'autorità del re, e quasi tutti i duchi si riducevano a funzionarî, il numero dei gastaldi regi cresceva, i vescovi venivano contenuti entro i limiti della loro attività religiosa e chiesastica; nella Romania, invece, si ebbe una crescente importanza di poteri locali, civili o religiosi.
Gli sconvolgimenti delle invasioni e la guerra greco-gotica avevano da per tutto elevato la posizione dei vescovi e fatto di essi quasi il fulcro della vita cittadina. Giustiniano poi regolò la nuova situazione con una serie di leggi di cui la Prammatica Sanzione, emanata nel 554 a richiesta di papa Vigilio, è forse un riassunto. Queste leggi facevano dei vescovi quasi altrettanti organi di governo, per il controllo di tutte le attività amministrative dei municipî, per la tutela dei minori e degli assenti, per la sorveglianza dell'amministrazione provinciale, ecc. Insomma quasi sostituzione, in molti compiti, della gerarchia ecclesiastica alla gerarchia civile, screditata e abbassata. Quale lo scopo di questa sostituzione, che in parte era riconoscimento di uno stato di fatto? Rafforzare l'autorità imperiale. I vescovi, soggetti già al principe come tali, ora dovevano esserlo ancor più come depositarî di autorità civile e politica. In realtà la logica delle cose portava a risultati diversi. Anche perché l'impero procedeva attraverso crisi frequenti di autorità. Perciò i vescovi erano portati ad attaccarsi a quelle attribuzioni civili come a cosa propria. L'autonomia a cui essi aspiravano come vescovi fu desiderata e si cercò d'attuarla anche nell'esercizio delle attività loro affidate dallo stato.
Questa situazione maturò solo nell'Italia bizantina: per quanto qualche passo facessero, nel medesimo senso, anche i re longobardi. Nell'Italia bizantina, anzi, come i vescovi, così le aristocrazie locali e i capi militari. Lontano l'impero e spesso in tutt' altre faccende affaccendato, questi tendono a conquistarsi una loro indipendenza. Talune cariche, come quella dei tribuni, capi dei castelli, diventano ereditarie. Insufficienti le milizie greche, vengono reclutate milizie locali, si militarizza la grande proprietà che, naturalmente, se ne avvantaggia in prestigio e autonomia. A più alta attività, come è la difesa del territorio, non può non seguire più alta autorità anche politica. Dalle file di questa aristocrazia esce spesso il vescovo che, anche come tale, è portato ad allargarsi sempre più nel campo civile e ad accentuare la sua autonomia. Vescovi e aristocrazia ora sono solidali, ora gareggiano. E di solito, prevale la seconda: ma non da per tutto; non a Roma, per esempio. Qui, il vescovo è un grande metropolita, è ormai capo di tutto l'episcopato d'Occidente, ha grandi disponibilità finanziarie, per i molti possessi suoi nell'Italia meridionale e nelle isole. Di fronte a lui, più difficile è, tanto al rappresentante dell'impero, quanto alle famiglie dell'aristocrazia militare e fondiaria, di farsi valere. La sua autorità civile si esplica nella città e nel territorio attorno, ma si fa sentire anche più lontano, nei paesi dove il vescovo di Roma ha poteri metropolitani e grandi possessi fondiarî. Anche nell'esarcato, dove è il centro dell'Italia greca e l'arcivescovo lotta per l'indipendenza ecclesiastica da Roma, come vescovo di una città già capitale dell'impero.
Fosse l'azione di operose forze locali, fosse la lontananza di Bisanzio, i vincoli di dipendenza che tenevano stretta l'Italia all'impero si vengono sempre più rilassando. E se la Sicilia, a cui è unita amministrativamente la Calabria, è fortemente tenuta dal governo centrale, la Sardegna e la Corsica vedono lentamente allontanarsi l'insegna di Bisanzio; e Venezia e Napoli e Roma si avviano a costituire altrettanti ducati a sé, con alla testa il capo militare, cioè il duca, o il vescovo. E le popolazioni dell'esarcato e della pentapoli, sottoposte al maggior funzionario greco in Italia, l'esarca, manifestano uno spirito d'indipendenza che erompe in frequenti rivolte. Si fa vivo il sentimento d'interessi proprî di fronte all'impero: interessi che tutti vedevano rappresentati e tutelati dal vescovo di Roma. Fortemente operavano in questo duplice movimento le discordie frequenti fra la Chiesa di Roma e gl'imperatori, tutte le volte - ed era assai spesso - che questi ultimi intendevano fare una politica autoritaria ed esercitare a pieno l'antico imperium sulla Chiesa. Messi al bivio fra Roma, la nuova Roma papale, e Bisanzio, le popolazioni parteggiavano per la prima. E poteva accadere che anche qualche esarca volgesse le spalle all'imperatore e si accordasse col papa.
La condotta di Giustiniano II, che mandò a Roma un suo funzionario per imporre al papa le decisioni del sinodo Quinisesto, provocò allora (fine del sec. VII) un movimento insurrezionale in Ravenna e nella regione vicina, l'umiliazione in Roma dell'inviato imperiale che dovette solo alla protezione del pontefice Sergio I la sua salvezza. Poiché in questi papi, all'evidente insofferenza della gravosa tutela greca si accompagnava una non meno evidente mutela nei rapporti con quella corte. La presenza dei Longobardi, spesso irrequieti, consigliava di non bruciare tutti i ponti con Bisanzio. Ai primissimi del 700, quando comparve a Roma l'esarca Teofilatto, nuovamente si commosse tutta l'Italia bizantina e gente armata accorse da ogni parte a Roma: ma anche questa volta papa Giovanni VI (701-05) si adoperò per calmare l'agitazione. La quale ha sempre in Ravenna e fra le popolazioni dell'esarcato il suo maggior focolare. Fra il 711 e il 712, il nuovo esarca Giovanni Rizocopo, mandato a governar l'Italia, giunto lì dopo aver commesso gravi violenze a Roma, è affrontato dalla milizia ravennate, sconfitto e ucciso. La città possiede ora un proprio ed energico capo, Giorgio, figlio di un Gioannicio che nel 695, partecipe forse a quella congiura che costò a Giustiniano II la detronizzazione, fu dieci anni dopo, risalito Giustiniano al trono, vittima della sua vendetta. Giorgio organizza la difesa della città, chiama alle armi tutti i cittadini anche del territorio, li raggruppa in reparti o numeri, comandati da un tribuno. La stessa organizzazione si compie, o si perfeziona, nelle altre città della Romagna, da Bologna a Cesena, a Sarsina. Anche a Roma, tumulti violenti contro il nuovo imperatore Filippico, che vuole rimettere in onore il monotelismo. Il popolo prende le armi contro il duca mandato da lui e si acquieta solo per l'intervento del pontefice e per la deposizione di Filippico nel 713. Fatti gravi e significativi tutti questi, che dovettero fortemente commuovere le popolazioni italiane, specialmente della regione che faceva capo a Ravenna, e dar materia a leggende e a componimenti poetici.
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Dato questo avvaloramento delle forze locali in molta parte dell'Italia greca, questo allentarsi dei rapporti di dipendenza verso l'oriente, ne consegue anche un crescente indebolirsi dei legami fra le varie parti dell'Italia greca: anche perché essa non era un blocco territoriale coerente e omogeneo. Si stendeva quasi tutta nella zona marittima e delle isole. Ma questa fascia eta continuamente rotta da terre longobarde che si affacciavano sul mare. I collegamenti fra esarcato e pentapoli da una parte, e Roma dall'altra, sono quanto mai precarî. La Sicilia poi sta a sé; ancor più la Sardegna e la Corsica. Quindì non solo una Longobardia e una Romania, nella penisola italiana, ma molte Romanie, e sempre più distinte l'una dall'altra, sempre più staccate ognuna da quella che è la principale e ha in Ravenna il suo centro e che perciò finisce col conservare, essa sola, il nome di Romania: Romagna. Così l'Italia, individuatasi prima entro il declinante impero romano d'Occidente, fattasi in parte indipendente dall'impero d'Oriente con la formazione del regno longobardo, vede ora non solo affievolirsi l'autorità di Bisanzio sopra le provincie che ancora possedeva nella penisola, ma queste provincie bizantine e poi via via tutte cominciar a costruire una lor propria vita.
Sì giunse così al 726, quando la politica fiscale di Leone Isaurico e il suo decreto contro le immagini provocarono più grave insurrezione. Gregorio II diede l'esempio, rifiutando di sottomettersi alle imposizioni e incoraggiando il moto rivoluzionario. Seguirono analoghi rifiuti dei rettori dei patrimoni ecclesiastici, urti tra funzionarî e milizie greche e popolo romano e ravennate. Non tutti concordi gl'Italiani nei rapporti coi Greci. Questi avevano messo non poche radici, contavano su interessi solidali di ceti superiori, sui legami che lingua e cultura greca, largamente diffuse, avevano creati fra essi. E accanto alla contesa fra Greci e Italiani, divampò quella fra Italiani e Italiani, tra fazione imperiale e fazione antimperiale. Ma le opposizioni di gran lunga prevalevano. A Ravenna, l'esarca fu ucciso. Presso Roma, il duca bizantino fu accecato e sostituito da un altro duca, Stefano, che pare creatura della rivoluzione. In quasi tutta l'Italia bizantina, gli ufficiali greci furono espulsi e i duchi locali sottentrarono. Anche i Longobardi si mossero. Liutprando invase l'esarcato fin oltre Ancona, e occupò castelli fin presso Roma. Si può facilmente ammettere che un sentimento di religiosa ortodossia animasse quel re e i suoi Longobardi, già da tempo convertiti. Ma la spedizione di Liutprando era innanzi tutto una ripresa della politica di Alboino, di Agilulfo, di Rotari.
Esigenze d'ordirie interno spingevano. Un regno sorto dalla conquista non poteva, senza pericolo d'intima corrosione, fermarsi sulle precarie posizioni raggiunte. Solo nuove conquiste potevano tener a freno i duchi, soddisfare la richiesta di terre da parte degli arimanni, esaurito come era o fortemente intaccato il patrimonio del re. D'altra parte, il regno, dopo decennî di disordini interni, di discordie fra i duchi, di ribellioni al re, si presentava, come dopo una crisi di crescenza, più forte che non fosse mai stato, quanto ad autorità regia, a organi di governo proprî della monarchia, a subordinazione di gran parte dei duchi. Anche assai più vicini, ormai conciliati, in qualche strato sociale probabilmente fusi, Longobardi e Romani, pur ammettendo che la monarchia di Alboino non abbia mai fatto, come quella di Teodorico, una vera e propria politica di avvicinamento. Tutto questo aveva creato vincoli molteplici d'ogni natura fra i soggetti, anche se le leggi seguitano a distinguere Longobardi e non Longobardi; li aveva tutti collocati, di fronte al re, sopra un piano non molto diverso. L'esercizio di un'autorità piena sui vinti lo ha aiutato a rafforzare anche l'autorità sopra i Longobardi, a vincere le tradizionali limitazioni germaniche del potere regio, ad ascendere al concetto di una regalità piena. Egli è, sì, prevalentemente, il Rex Langobardorum. Ma è difficile pensare che, a mezzo il sec. VIII, quei Langobardi siano solo Longobardi. È già apparso, alla fine del sec. VII, con Cuniperto e successori, il Rex Italiae. Anche Ariperto, padre di Liutprando, è Rex in Italia... feliciter. Qualunque sia l'estensione territoriale che si attribuisce a questa Italia, certo l'espressione denota un crescente e più organico nesso fra il re e il paese e gli uomini su cui il re regna.
Circostanze favorevoli, tutte queste, al nuovo sforzo di guerra della monarchia longobarda contro i Greci: in un momento in cui contro i Greci si levavano anche la Chiesa romana e le popolazioni di mezza Italia. Ma c'era in Roma, avversa circostanza, il capo della Chiesa. Egli non voleva essere un vescovo di Bisanzio, ma neanche dipendere da Pavia. Veniva logorando l'autorità dell'impero nel ducato romano, ma non per sostituire ad essa quella del vicino re. A difesa dell'imperatore, essa contava sulle popolazioni italiane, su qualche esarca bizantino in lotta col suo sovrano o vagheggiante un proprio dominio in Italia, magari sui duchi longobardi di Spoleto e Benevento, ma non sull'esercito del re.
Perciò, ora, Gregorio II, turbato della rapida avanzata di re Liutprando, da una parte cercò di fermare l'ondata di ribellione all'imperatore, dall'altra invitò il re a ritirarsi. E il re sgombrò alcune delle terre occupate, ma rimise a Gregorio II - la fonte romana dice restituit - la città di Sutri (728). Poi, visto che i duchi di Benevento e Spoleto e il pontefice si legavano sempre più, e questa volta non contro i Greci ma contro il re, prima assalì e vinse quelli, poi invase il ducato romano, si accampò sotto Roma. Ma più forte delle sue ambizioni e del suo sentimento di re fu la riverenza per le somme chiavi. Vinto dalle parole del papa, andò a far penitenza nella basilica di San Pietro, depose qui le insegne regie, si ritirò con l'esercito verso il nord. Successive imprese di re Liutprando non ebbero più durevole successo. Gli toccò anche di vedere il papa intendersela, oltre che con i duchi, con l'esarca di Ravenna, e ambedue aiutare il lontano imperatore contro tentativi di usurpazione della dignità imperiale compiuti vicino a Roma. Anche sull'esarcato il papa vigilava come sopra un interesse proprio, presente o futuro.
Storia longobarda e storia d'Italia. - Insomma, Liutprando fallì di fronte all'opposizione delle forze varie e anche discordi, ma pure, contro una conquista longobarda, solidali: impero greco o alti e mezzani dignitarî italiani, operanti spesso con molta autonomia da Bisanzio e tendenti a trovar sul luogo la loro base; ducati di Benevento e Spoleto, cioè grossi nuclei di Longobardi stanziatisi lontani dal centro; popolazioni italiane, avviate a un assetto politico proprio, come gli abitatori delle lagune, oppure adagiatesi sotto il suave iugum dei vescovi, fra i quali emerge quello di Roma, che di tutti gl'Italiani soggetti a Bisanzio è come capo spirituale, forte della sua religione ma anche delle armi della milizia romana e ravennate, delle navi veneziane, degli aiuti militari dei duchi ribelli. Si può ammettere che il re avesse un altro nemico anche in quel suo spirito di cristiano e quasi di romano che lo guidava nella riforma delle leggi "empie o inumane" della sua nazione. Ma assai più lo rese esitante e arrendevole di fronte al papa la visione o coscienza della difficoltà grande, anche militare, di vincere la resistenza di quelle forze avverse che si accentravano nel papa, di poter inquadrare nel regno elementi così diversi e resistenti. Visione giusta, in fondo: e lo dimostrerà il fallimento eguale e maggiore dei successori di Liutprando.
E pur tuttavia pericolosi alleati o fiancheggiatori, per la Chiesa romana, quei duchi beneventani e spoletini che appetivano le terre della Chiesa non meno del re longobardo, quegli esarchi bizantini che ogni tanto mettevano a subbuglio Roma e l'Italia con le loro eresie e le loro ingerenze nel campo della Chiesa, quelle milizie romane che traevano vigore specialmente dall'aristocrazia secolare, gareggiante con quella ecclesiastica! Doverono ben sentirlo i due pontefici che si trovarono in mezzo a così varia mischia, Gregorio II e Gregorio III. Nei quali perciò maturò l'idea di trovare altri appoggi, più sicuri e meno compromettenti. Dover vi era, confinante col regno longobardo, il regno franco, primissimo fra i varî regni barbarici ad accettare il cattolicismo, sollecito a promuovere la evangelizzazione degli Anglosassoni e dei Germani, baluardo ora contro gli Arabi della Spagna. Più d'una volta, Franchi e impero si erano intesi a danno dell'interposto regno longobardo. Ad essi perciò si volge la Chiesa romana, certo consenziente l'imperatore. Gregorio III scrisse una prima volta a Carlo Martello nel 739; una seconda l'anno appresso. Per il momento, furono vani gli appelli. Ma quando, morto Liutprando, rovesciato Rachi per opera del partito che voleva riprendere la conquista e cacciare i Greci dall'Italia, re Astolfo avanzò su l'esarcato, occupò Comacchio e Ravenna, e strinse, da presso Spoleto e il ducato romano; allora il papa, Stefano II, da poco eletto, si recò in Francia, e il re Pipino, assunto l'anno prima al trono col consenso, anzi incoraggiamento di papa Zaccaria, gli promise di ottenere da Astolfo la restituzione delle terre. Stefano aveva passato le Alpi d'intesa con l'imperatore. Ma certo egli pensava più al Beato Pietro che non ai diritti di Bisanzio; e certo la restituzione fu concordata a beneficio del Beato Pietro, nuovo sovrano. Difatti il papa, ora, incoronato re Pipino, conferì a lui e successori il titolo di patrizio dei Romani: un titolo che fino allora solo l'imperatore aveva conferito. Con esso, le terre della Chiesa venivano messe sotto la protezione di Pipino. Seguì la prima spedizione franca del 754, con relativo assedio di Astolfo in Pavia e la sua promessa di rendere le terre occupate. Poi, la seconda spedizione del 756, dopo che Astolfo, non che rendere le terre, marciò ostilmente contro Roma. E questa volta esarcato e ducato romano furono resi, cioè dati al papa. Con l'esarcato e il ducato romano, passò al papa anche il ducato di Perugia, recente istituzione bizantina. Questa è la donazione famosa di Pipino, più ristretta che non suoni il documento interpolato e contraffatto che ce ne ha tramandato la notizia, ma sempre assai importante nella formazione dello stato della Chiesa.
I pontefici si sono ora giovati dei Greci contro i Longobardi, ora dei Longobardi contro i Greci, ora delle popolazioni italiane contro Greci e Longobardi. In ultimo hanno fatto ricorso ai Franchi d'accordo con l'imperatore, sotto la cui alta autorità essi pur sempre rimangono, per le terre ricevute. Ma comincia subito in curia il lavorio per togliere ogni fondamento giuridico a questa autorità di Bisanzio. Subito dopo la donazione vera di Pipino, ecco una falsa donazione di Costantino, Constitutum Constantini, che è manipolata negli anni immediatamente seguenti alla prima e con tutta probabilità in Roma stessa; certo, a Roma, subito nota e adoperata. Essa doveva servire a dimostrare che il pontefice nulla riconosceva dall'impero che già non avesse per diritto proprio e in estensione ancora maggiore. Con l'indipendenza del papa da Bisanzio, si cerca anche la dipendenza dell'aristocrazia romana dal papa, negandole ogni diritto sulle cariche civili, quasi come compartecipe, col papa, in Roma e nel ducato, dell'eredità bizantina.
In mezzo ai contrasti che questa politica papale e di curia sollevò, si venne formando a Roma un partito longobardo. E la corte di Pavia cercò un ravvicinamento coi Franchi, per staccarli dalla Santa Sede. Ma le nozze di due figlie di re Desiderio con Carlo di Neustria e Carlomanno di Austrasia, succeduti a Pipino nel 768, non interruppero quello che ormai pareva il corso naturale delle cose. Carlo, rimasto solo nel 772, e Desiderio vennero a rottura. E quando Desiderio invase esarcato, pentapoli, ducato romano, Carlo, sollecitato dal pontefice, riprese la via delle Alpi, sboccò nella pianura padana, assediò Pavia e Verona, entrò in Roma, rinnovò la donazione. Intanto, Pavia e Verona capitolavano, i Longobardi si sottomettevano quasi tutti, il regno veniva riunito a quello franco.
Le fonti parlano solo di Langobardi alla difesa: che poi non dovettero essere neppure tutti i Longobardi. E se ne è desunto che la nazione longobarda era sempre distinta e staccata dai Romani. Alessandro Manzoni vide, ancora nel sec. VIII, aperto dualismo. Ma se ne potrebbe desumere anche un'altra conclusione: cioè che i Longobardi non conservavano più la loro compattezza, quasi assorbiti dal terreno italiano, su cui poggiavano i piedi; e i Romani, cioè la massa della popolazione, non erano e non si sentivano ancora bene inquadrati, giuridicamente e moralmente, in un regno che portava ancora tanti segni della sua origine barbarica e aveva un'ancor imperfetta organizzazione territoriale. Comunque, finiva così, dopo due secoli, l'indipendenza e la personalità politica del popolo longobardo, fiaccato dall'urto della nazione e della monarchia franca, ma già indebolito e corroso dal vano sforzo di allargare le sue conquiste, dalla tenace opposizione dei Greci padroni del mare, dal crescente prestigio della Santa Sede che diventava essa punto di attrazione anche di elementi longobardi, dalla superiore civiltà dei vinti e dallo stesso suo accostarsi a questa civiltà. E tuttavia, anche gl'invasori longobardi avevano arricchito di elementi proprî la vita delle genti italiane, vi avevano immesso un piccolo ma robusto fiotto di elementi demografici, un po' stanziatisi a sé in nuovi villaggi, un po' mescolatisi coi Romani nelle vecchie sedi e ora in parte assorbiti dalla massa indigena, un po' ancora distinti perché mutatisi in alta e mezzana aristocrazia, socialmente e politicamente assai importante. Notevoli elementi di diritto e influenze non piccole, anche se da non valutar troppo, sul diritto romano pubblico e privato. Come questo aveva agito sulle rozze consuetudini e sulla vita giuridica dei barbari, così queste su quello, anche per effetto del relativo rimbarbarimento che la società italiana nel suo complesso subì, cioè decadenza di economia di scambio, rafforzamento del vincolo familiare, ecc.: tanto è vero che influenze longobarde si ebbero anche là dove Longobardi non dominarono. Qualche nuova abilità tecnica e capacità artistica, un certo corredo di consuetudini di vita familiare e pubblica, un piccolo patrimonio di leggende entrate in Italia con gli invasori o formatesi sul terreno della loro vicenda italiana, minime influenze linguistiche, rappresentate da qualche centinaio di parole germaniche entrate nella lingua del paese, poiché, nella gara con quella lingua, il longobardo soccombé. Nel sec. X, esso si può considerare affatto morto. Che fu poi, a lungo andare, il destino di molti elementi longobardi, uomini, diritto, istituzioni, consuetudini varie. Che cosa è, nel '200 e '300, l'estinguersi di gran parte della vecchia aristocrazia feudale, il nuovo vigore del diritto romano, la nuova e originale civiltà, se non il graduale decadere e scomparire di elementi di vita trapiantatisi sul suolo italiano coi Germani o dai Germani segnati della loro impronta.
Ma l'importanza del dominio longobardo è data specialmente da quegli eventi che esso crea o determina, da quel complesso di problemi politici e politico-morali che al suo tempo e anche per opera sua cominciano a costituire la trama su cui sarà tessuta la storia italiana. Per cui quei due secoli che vanno dal 568 al 774 segnano, per quella storia, quasi un inizio. Temprano il loro vigore, consolidano la loro vittoria, nell'attrito con gl'invasori, cattolicismo e Chiesa romana e papato; e in Roma nasce, come organizzazione di difesa, il potere politico dei papi, quello che sarà poi il vero e proprio stato della Chiesa. Cià appare visibile un interesse della Santa Sede, che diverrà cosa permanente, avverso a ogni formazione politica italiana che appaia pregiudicevole alla sua piena libertà di movimento: cioè già si accampa nel centro della penisola una forza politica che segnerà in non piccola parte il destino suo, all'interno e nei rapporti internazionali. Questo contrasto fra papato e regno, sebbene puramente politico, avrà suoi riflessi grandi nell'intimo delle coscienze. E già s'indovina, nella condotta dei re longobardi stessi, nei contrasti interni del regno, che precedono e un po' preparano la tragedia del 774, quel turbamento interiore, quel dissidio fra dovere civico e dovere religioso che poi diverrà cosa specificamente italiana e renderà in Italia più difficile e tormentata la soluzione di tanti problemi di vita nazionale. Appaiono già chiare davanti ai nostri occhi, dal sec. V all'VIII, le tendenze centrifughe della vita italiana, troppo forti perché sia possibile ricondurle alle vicende dell'economia. Si direbbe che riaffiorino le forze regionali e locali preromane, nel crollo dell'impalcatuta giuridica e politica creata da Roma. Più ancora, operano le forze e gl'interessi piantatisi in Italia con la riconquista imperiale che ha, in parte, carattere di affermazione bizantina e greca, cioè straniera; più ancora quelle venute coi Longobardi. I quali infransero l'unità instaurata dai Greci, senza esser capaci d'instaurarne una propria; e anche nell'ambito del regno che riuscirono a costruire in Italia, presto riluttarono all'unità regia che faceva capo a Pavia (Spoleto e Benevento). Ed ecco quel nuovo sgretolarsi della penisola, que] l'emergere di gelosie e particolarismi cittadini che, già visibili e operosi nell'età longobarda e bizantina, toccheranno il culmine nell'età successiva, quando la penisola sembra ritorni a essere quella delle cento e cento tribù galliche, etrusche, umbre, greche, sannite, sabine, latine, ecc. Con questa differenza: che ci è stata di mezzo Roma, potentissima a livellare e unificare e sempre spiritualmente presente in questa sua funzione, anche ora che essa è caduta. E c'è stato di mezzo, anche, con più modeste funzioni, il regno longobardo, che egualmente tessé una sua trama e fondò in Italia una tradizione politica di unità.
La rinnovazione dell'Impero.
I Franchi in Italia e il ritorno di Roma. - Col 774, con la dinastia franca a capo del regno longobardo, altri fatti maturarono. Quel distacco, politico e morale, dall'Oriente, che la conquista longobarda, l'emergere della Chiesa romana a potenza e gli interessi proprî delle popolazioni soggette venivano da tempo attuando, ora si accentuò, sebbene non si spezzassero i legami tra il mondo greco e l'Italia, rappresentati, oltre che dall'effettivo dominio nelle provincie del sud e dalla presenza nella Puglia, in Calabria, in Sicilia, di nuclei greci o grecizzati e di un clero obbediente più all'imperatore che al papa, anche dalla cultura greca che ancora nel sec. X sopravviveva nel centro e a nord della penisola, e dalla persistenza in Bisanzio della coscienza di un diritto su quanto era stato territorio dell'impero e dall'intenzione di farlo valere, quanto meno in Italia. In rispondenza a questo maggiore distacco dall'Oriente, che coronava, nel campo religioso, i lunghi sforzi del papato, maggiore collegamento con l'Occidente romano-germanico e cattolico-romano. Vi è non solo una dinastia franca sul trono del regno longobardo e un'unione personale dei due regni, ma anche una nuova, sia pur tenue, infiltrazione di elementi etnici franchi e d'altre stirpi germaniche (Alamanni, Burgundî, Baiuvari, ecc.) che daranno ulteriore alimento alla preesistente aristocrazia; e la penisola aperta ai molteplici influssi della vicina nazione e, per il suo tramite, collegata anche con la Germania, con i paesi anglosassoni. Insomma, un nuovo e più vasto orizzonte occidentale, davanti agli occhi degl'Italiani. Si ebbe anche qualche altro evento: il potente affermarsi del regno franco, dopo la vittoria sui Longobardi, attraverso una serie di vittoriose spedizioni, in mezzo ai Germani del nord e dell'est e anche in mezzo alle avanguardie slave, Avari, Carantani, Croati, fino a instaurare un grande impero, come quello di Roma. Alta posizione del re Carlo davanti alla Chiesa cattolica, per tanto impulso dato alla lotta contro gl'infedeli e alla conversione dei pagani; e crescente solidarietà fra Carlo e il papato, crescente interesse e occasione di Carlo a vigilare sulle cose di Roma, dove, scomparso il pericolo longobardo, incombeva sui pontefici e sulla curia il pericolo dell'aristocrazia secolare che ascendeva a potenza e ambiva di padroneggiare la città e il ducato. Rifiorire di cultura non solo religiosa e chiesastica, ma anche secolare. Insomma, il rinascimento carolingio, sebbene già avviato prima di Carlo e germogliante su da sue proprie radici, per il risollevarsi dei vinti a nuova dignità, per certo interesse vivo e fresco che portano nella cultura i neofiti, cioè i barbari civilizzati. Naturalmente, gli uomini colti si orientano verso il nuovo astro, ruotano attorno a lui, concorrono a elevarne il prestigio, a rafforzare coi vincoli della cultura quell'unità politica che le armi venivano creando: Pietro da Pisa, Paolino di Aquileia, Alcuino, monaco anglosassone, Paolo Diacono longobardo di Cividale, uomo rappresentativo di quella evoluzione che i Longobardi, pur col senso della loro nazionale personalità, vivo negli uomini di qualche cultura e di alto rango sociale, avevano compiuta e forse affrettarono in questi decennî di tempesta, verso la cultura tradizionale del paese. Paolo, storico della sua gente, si accosta intimamente alla storia dei Romani. Proclama il suo affetto alla loro letteratura. È felice di essersi nutrito di quello spirituale cibo. Il regno di cui Desiderio è re si colora, davanti allo scrittore, di colori antichi. Roma ormai riemergeva dal gorgo, anche per gl'invasori. Scomparsa come organizzazione politica e giuridica, essa tornava a operare come esempio e come ispirazione; e non solo per i bisogni della vita pratica - il diritto, l'ordinamento fondiario, ecc. - ma anche per i più alti e delicati bisogni dello spirito. Per il contrasto con questa grande visione, sempre più l'età successiva, l'età delle invasioni e del disordine barbarico, si configurava come età di decadenza: decadenza anche religiosa, oltre che civile e letteraria. Si cominciava a vagheggiare una restaurazione: delle lettere e arti liberali e, insieme, della religione; restaurazione che si presentava come un ritorno all'antico, come una renovatio. Anche il ricordo dell'impero risorgeva, purificato dei suoi peccati; dell'impero fattosi cristiano, protettore della fede, largitore di benefici alle chiese. E la curia romana, con il suo Constitutum Constantini, non concorreva anch'essa a riportare il pensiero a Roma imperiale, a determinare questa rinascita?
A Roma, intanto, venuta ormai a mancare l'antica autorità e non ancora ben salda la nuova, si erano aggravate le interne agitazioni, che andavano di pari passo con l'emergere di un'aristocrazia terriera, con il passaggio dei poteri di governo nelle mani della gerarchia romana, con le rivalità fra quell'aristocrazia e questa gerarchia. E nel 799 vi fu, per opera di nobili avversi alla politica troppo francofila di Leone III, una congiura che costrinse il papa a fuggire. Ma tornò subito, accompagnato da armi franche. In Oriente l'impero in quegli anni vacava. Nel 795 lo stesso papa Leone aveva rotto l'ultimo segno di dipendenza da esso, datando le sue bolle dagli anni di regno di Carlo. Ed ecco, la notte di Natale dell'800, Carlo re incoronato dal papa, davanti all'altare di S. Pietro, "grande e piissimo imperatore" e adorato more antiquorum principum, cioè come un imperatore romano.
Quali siano stati gli accordi che precedettero l'incoronazione, pare innegabile che, se anche Carlo desiderò un rinnovamento così fatto dell'impero; se egli se ne attese un aiuto grande e una specie di riconoscimento delle conquiste fatte; certo non lui, ma il papa determinò, dell'incoronazione, forme modi titoli. Egli volle così affermare la sua autorità sul maggior principe della terra ed esercitare i diritti che gli venivano dalla "Donazione di Costantino". Nel rinnovato imperatore egli vedeva un protettore in Roma, in Italia e da per tutto; il braccio armato per l'attuazione di quei compiti che gli scrittori ecclesiastici ormai attribuivano allo Stato e alla Chiesa insieme. La nuova unità politica di tanti paesi sotto Carlo a lui appariva naturale conseguenza e quasi riflesso della unità religiosa cristiana e cattolica, mezzo per conservarla e consolidarla. E Carlo non poteva poi affermarsi anche in Oriente, dove il trono ora vacava, e far risorgere integralmente l'unità antica, nei suoi più ampî confini? O almeno aiutare il pontefice nei suoi sforzi di sottomettere a Roma la chiesa orientale, ostinata a far da sé, tenuta in stretta dipendenza dallo stato, esposta alle velleità dogmatiche dell'imperatore? Certo, Carlo, una volta impugnato lo scettro, mostrò subito di volerlo tenere con ogni sua forza, ebbe l'occhio aperto sull'Occidente ma anche sull'Oriente, si considerò successore degli antichi imperatori e, proprio come un antico imperatore, regolò le cose della Chiesa e della religione accanto a quelle civili, accentuando, per influsso della tradizione romana, un sistema già invalso in Francia, specialmente da Pipino in poi, esaltato da cronisti e poeti della corte come rex et sacerdos.
Questa restaurazione o instaurazione imperiale, se per un verso trascende la storia d'Italia, non è estranea ad essa, anzi ne è parte viva. Basta pensare, a parte il luogo del suo primo nascimento, come l'impero fu nel Medioevo visto e considerato dagl'Italiani; pensare quanto esso incise, per secoli, sulle vicende storiche dell'Italia; come fu messo a centro di ogni costruzione di pensiero politico dagl'Italiani. Né solo da chi contemplava nostalgicamente il passato, ma anche da chi sognava un più alto avvenire per il mondo e per l'Italia. Ciò più tardi: ma l'ascesa di Roma è già cominciata; essa sta rimettendosi al centro dell'Occidente. Centro religioso già era diventata; e sempre più vede ampliarsi attorno a sé la sua sfera con la conversione dei Germani e degli Slavi. Ora, anche centro politico. L'Occidente ormai guarda tutto ad essa; e anche l'impero d'Oriente, che non ha ancora rinunciato all'Italia. Insomma, molti e varî interessi del vasto mondo tornano a convergere su Roma; molte leve, maneggiate da quel centro, mettono in movimento le cose del vasto mondo. Di qui, la rinnovata importanza anche della storia della città di Roma, con i suoi partiti, le sue gare fra aristocrazia secolare e gerarchia, le sue agitazioni attorno al papato e attorno all'impero. Il "popolo romano" diventa anch'esso, in tal modo, fattore d' importanza mondiale, con certo consapevole e orgoglioso ricollegamento al "popolo romano" antico e persuasione di esserne l'erede; d'essere quindi, come esso, fonte prima della potestà suprema.
Attorno all'814, anno della morte di Carlo Magno, la penisola si presenta, politicamente, come regno longobardo sotto la nuova dinastia franca; come dominio greco, ridotto alle regioni costiere meridionali, alla Sicilia e, quasi svanendo nella lontananza, alla Sardegna e Corsica; come respublica romana o terre di dominio della Chiesa, appartenenti già all'impero e, in piccola misura, al regno longobardo. E poi, ducato e principato beneventano; ducato di Venezia, che è una federazione d'isole con centro a Rialto; ducato di Napoli, ridotto ormai a piccola estensione: tutti avviati, non ostante qualche dipendenza, più o meno effettiva, dal regno d'Italia o dall'impero bizantino, verso un regime proprio. La vita della penisola, fallito lo sforzo dei Longobardi di raccoglierla tutta sotto di sé, sconvolto poi quel regno dalla conquista franca, si viene dunque svolgendo nel senso di una crescente moltiplicazione di organismi politici indipendenti. Anzi, con i Franchi, la tendenza s'accentua. Anche il ducato longobardo di Benevento si spezza.
La compagine del ducato longobardo di Benevento perde il suo vigore, via via che esso si distacca dal regno. Quelle poche migliaia di Longobardi, qui mantenutisi assai distinti dal resto della popolazione, che nel passato son riusciti a governare un vasto e vario terrirorio, ora non ci riescono più. Cause o manifestazioni di debolezza sono: le tendenze autocratiche dei principi; lo spirito di ribellione nell'aristocrazia dei conti e gastaldi preposti alle città e provincie; il carattere elettivo del principato; l'incapacità di assoggettare le regioni che costituivano lo sbocco naturale sul mare, specialmente Napoli, per mancanza di forze navali e per l'accorta tenacia di quelle città rivierasche; l'opera di disgregamento compiuta dall'impero greco che preme da tre parti il principato; la rivalità fra i centri urbani. Salerno, posta sul mare, divenuta sede di traffici marittimi e di scambî con l'interno, divenuta quasi la capitale effettiva del principato, nell'840 si ribella a Benevento, dandosi un proprio duca. Dopo un poco, il gastaldo di Capua si la prima vassallo del duca di Salerno contro Benevento, poi finisce con l'essere del tutto indipendente, diventa pur esso duca, infine principe. È il tempo questo in cui anche lungo il litorale fra Salerno e Capua si delineano, distinti e indipendenti, tre piccoli stati: Napoli, Gaeta, Amalfi. Insomma, polverizzazione politica in questa regione di Longobardi e Greci. Le città campane rappresentano, insieme con Venezia e, fra un secolo o due, Bari e Genova e Pisa, l'Italia marinara che precede nell'innovare socialmente e politicamente.
Peggio, quel che accade in Sicilia, dove è ribellione a Bisanzio. E la ribellione sollecita, con o senza invito di Siciliani ribelli, gli Arabi e Berberi, fattisi da oltre un secolo padroni dell'esarcato d'Africa. Da un pezzo, essi erano comparsi minacciosi nei mari Ionio e Tirreno: prima quelli di Spagna, poi quelli d'Africa. Ponza, Ischia, il litorale calabrese, la Sardegna e Corsica avevano avvertito la minaccia. E si era dovuto, da re Carlo e da chi lo rappresentava in Italia, provvedere alla difesa. Ma ora, nell'827, 80.000 Berberi sbarcano in Sicilia e cominciano a conquistarla, a mettervi radici, ad annodare accordi con signori e città dell'Italia meridionale.
Nella vicina terraferma il principe di Benevento, Sicardo, è in guerra con Napoli. Una flotta musulmana assale Sicardo e lo costringe a togliere l'assedio da Napoli. Vi era stata una sollecitazione dei Napoletani? Certo, queste città marinare avevano bisogno di navigare in pace e, non potendo acquistar pace con la forza, se la procuravano con gli accordi. Certo, anche, si ebbe dopo d'allora una vera alleanza fra Sergio duca di Napoli e i Saraceni di Sicilia, che durò molto tempo. Appena i Napoletani si sentivano minacciati da Benevento, i Saraceni entravano in azione, un po' per gli alleati, più ancora per sé. E nell'837-8, essi assaltarono la costa longobarda di Puglia, occuparono Brindisi, poi Taranto, di cui fecero una forte base e centro di scorrerie all'intorno. Anche Radelchi di Benevento, in guerra con Siconolfo di Salerno, ne chiama o, almeno, ne assolda. E così altre bande, forse d'Africa, prendono Bari nell'840, procedendo prima fra stragi e saccheggi, poi con certo ordine: accordi col vescovo, promessa di tolleranza religiosa e di rispetto delle persone, ecc. Certo, hanno in vista una stabile dominazione, come già in Spagna. Allora, anche Siconolfo si dà ad ingaggiare infedeli. I quali così sono richiamati sempre più verso l'interno del paese. Quelli di Bari fan sentire la loro presenza su tutta la Puglia; quelli di Taranto su tutta la Calabria longobarda. Circa l'840, un nuovo nido saraceno, a Capo Miseno: e di qui, la campagna romana è corsa e saccheggiata fin quasi alle porte della città; Fondi e Formia bruciate e distrutte. Insomma, nuove "invasioni barbariche", in regioni che già avevano subito le prime invasioni o dalle prime erano state risparmiate. Intanto, quelli di Sicilia avevano nell'831 preso Palermo, forse nell'843 Messina. Poi, via via, quasi tutto il resto.
Dal "regnum Langobardiae" al "regnum italicum" e suo vano sforzo di unità nella penisola. - Così un'altra civiltà, che dominava ormai il grande arco di cerchio dalla Spagna alla Siria, spinge i suoi tentacoli verso l'Italia meridionale. La penisola, già punto d'incontro e di attrito di due imperi, ora ne vede ancora un altro, fra asiatico e africano, entrar nella gara, anche esso forte sul mare. E ne è come avviluppata, subisce altre fratture. Anche la Sardegna e la Corsica, perduta per l'impero la Sicilia, ora rimangono abbandonate a sé stesse e vedono ridotti a poco o nulla, per qualche secolo, anche i rapporti col vicino litorale toscano e ligure, dove l'organizzazione navale del regno langue.
Ma su questo regno longobardo-franco è specialmente necessario portare la nostra attenzione. Nel sistema di stati o quasi stati italianì di quel tempo, esso occupa il primo posto, per ampiezza, importanza politica, nessi con il papato e l'Europa romano-cristiana-germanica, capacità di poter direttamente o indirettamente agire sopra gran parte della penisola. Il regno ha sua capitale, sua corte, sue leggi, sua assemblea. Ma esso è legato per vincoli dinastici, anzi, da principio, per unione personale, col regno franco e fa parte della grande monarchia creata da Carlomagno, sotto la duplice egida della Chiesa e di Roma antica. Poi, quando si viene a una ripartizione del nuovo impero tra i figli dell'imperatore, il regno longobardo ha un suo re: Pipino, dall'806 all'810, e Bernardo, suo figlio, dall'814 all'817. Ma debole è la personalità politica di questo regno longobardo-franco. Chi lo regge è più un governatore o vicario che non un vero re. Accennò a crescere questa dipendenza negli anni appresso, via via che in Francia prevaleva la concezione dell'impero come effettiva unità politico-amministrativa. Maturò allora il disegno del re Bernardo di scuotere questa tutela. Attorno a lui si stringevano molti grandi longobardi e franchi e anche vescovi dell'Italia settentrionale e lo stesso arcivescovo milanese Anselmo. Era, questa, una manifestazione delle forze centrifughe e, in certo senso, antimperiali o antimperialistiche che tendevano, con maggiore o minore coscienza, a più rìstrette organizzazioni locali o nazionali: le singole stirpi, le aristocrazie, l'alto clero, alcuni maggiori centri urbani, Sopraffatti un momento dal costituirsi del rinnovato impero d'Occidente, ora risorgevano per virtù della stessa unità imperiale, capace di promuovere, con i contatti, la coscienza di quelle stirpi, di avvalorare, chiamandole a collaborare, quell'aristocrazia, di creare più favorevoli condizioni allo sviluppo delle cittadinanze. Ma il tentativo finì in tragedia. Alla prima minaccia di guerra da parte di Ludovico, Bernardo si rimise nelle mani dell'imperatore e ne ebbe crudelissimo supplizio. L'Italia fu allora data, qualche anno dopo, a Lotario, uno dei figli di Ludovico; e a Lotario fu riconosciuta qualche maggiore autorità, al regno maggiore autonomia amministrativa. E questo fu consigliato forse anche dalla situazione della penisola, dal bisogno per l'imperatore di consolidare lì il suo prestigio. In Italia risiedeva il pontefice, poco sofferente anche esso di tutela. L'obbligo di attendere la conferma imperiale prima della consacrazione, non era osservato più, nei rapporti con Bisanzio, dal principio del 700. Rimesso in vigore da Carlomagno, ora stava di nuovo cadendo in dissuetudine per opera di Stefano IV, successo nell'816 a papa Leone, e, l'anno appresso, di Pasquale I. Col quale Ludovico aveva conchiuso, nell'817, un famoso patto, in virtù del quale l'imperatore, mentre confermava al pontefice il suo dominio temporale, rinunciava anche al controllo sull'elezione pontificia. Viceversa, sempre più si faceva valere l'incoronazione papale e romana dell'imperatore, non come mera formalità, ma come atto necessario all'esercizio pieno dell'autorità imperiale. Nell'813, Ludovico era stato associato all'impero da Carlomagno con apposita incoronazione in Aquisgrana; ma nell'816, Stefano recatosi in Francia rinnova egli l'incoronazione; e nella Pasqua dell'823 Lotario, re d'Italia, va a Roma a ricevere la corona imperiale. Qui, abusi, agitazioni, disordini. Si delineava la vicenda medievale di Roma: gare fra potenti famiglie, contrasti fra laicato e gerarchia, usurpazioni di terre pubbliche, rapine di beni ecclesiastici, varietà e incertezza di poteri. Ma, fatto centrale, l'esistenza di forti interessi dell'aristocrazia militare e fondiaria, che, offesi dalla crescente potenza del chiericato, reagivano con violenza. Ora, qui in mezzo, il re e imperatore franco aveva partigiani. Contro il vicino principe, essi confidavano nel principe lontano. E certo, appoggiandosi su questo partito, Lotario portò in alto, con la costituzione dell'824, quell'autorità imperiale in Roma che già, dopo Carlomagno, accennava a declinare. Abbandonato il diritto di conferma dell'eletto, il sovrano esigeva tuttavia il ripristino del diritto di laici di aver parte insieme col clero nelle elezioni pontificie, otteneva che un messo imperiale lo rappresentasse stabilmente in Roma e che davanti a lui e davanti al popolo l'eletto prestasse giuramento prima della consacrazione, si riservava d'intervenire a tutela dell'ordine pubblico e nei processi criminali. Mai forse, come in questo momento, la restaurata dignità imperiale affermò e fece riconoscere così esplicitamente il suo alto diritto su Roma, accanto a quello del pontefice: sebbene incerti i limiti fra l'una e l'altra; difficile, all'autorità pubblicamente più alta ma lontana, di farsi valere di fronte all'altra vicina se pur minore, mal tollerabile una condizione di semi-sudditanza temporale in chi - il papa - aveva pienezza spirituale di poteri e si considerava ormai quasi la sorgente dell'autorità dell'altro, l'imperatore. Di qui i futuri conflitti fra papi e imperatori.
Tutto questo sta a dimostrare quale importanza il regno longobardo aveva nel sistema imperiale creato da Carlomagno: importanza quasi di centro, pur essendo debole militarmente, dominato da un crescente disordine civile, spesso trascurato dal suo principe, coinvolto nelle gravi contese dinastiche di cui la Francia era sanguinoso teatro. Visibile anche, nelle successive divisioni dell'impero, il progressivo individuarsi di quel regno - come delle altre parti dell'impero stesso - con proprio re, fornito di larghe attribuzioni e alti compiti; e il suo andare congiunto con l'impero nella stessa persona. Quello a cui tocca di governare l'Italia tendeva anche a prendere in Roma corona imperiale. Anche il patto di Verdun (843) assegnava a Lotario, già incoronato imperatore, l'Italia, insieme con altre terre transalpine, sulla destra del Reno. Poi Lotario assegnò al figlio Ludovico il compito di curare l'Italia: e Ludovico, venuto in Italia e a Roma nell'844, vi fu solennemente incoronato re; poi, nell'850, associato all'impero e coronato a Roma da Leone IV papa. Da allora egli attese quasi solo alle cose della penisola.
In lui noi possiamo vedere quasi un redivivo re dei Longobardi; sebbene non più tanto come re di una nazione ancora male radicata nel paese e male fusa con gli altri abitatori e sudditi, quanto come re di un popolo ormai, nella grande massa, uno e inquadrato in un suo territorio. Non è senza significato che, proprio con Lotario e Ludovico, la denominazione di Regnum Langobardiae ceda quasi totalmente a quella di Regnum Italiae o Italicum, prima d'allora apparsa solo sporadicamente. Senpre più invale anche la parola Italici o talienser, per indicare tutti gli abitatori e sudditi del regno. La nuova parola "regno d'Italia" è probabile tradisca l'intenzione di troncare ogni segreto desiderio di restaurazione longobarda da parte delle grandi famiglie ducali. Ma forse esprime anche la maggiore fusione determinata, almeno nei ceti medî e inferiori, dalla conquista franca, col susseguente rinvigorirsi dei più numerosi e civili elementi originarî del paese (uomini, idee, cultura, parole, ecc.); esprime anche il proposito del principe di estendere l'autorità effettiva del regno su tutta quella penisola a cui la tradizione letteraria estendeva il nome di Italia. E difatti, Ludovico non solo è presente a Roma col suo missus ed è molto legato all'arcivescovo di Ravenna, del quale favorisce le tendenze autonomistiche di fronte al papa, ma svolge anche tenace azione nel sud, fra Longobardi e Greci.
Nel sud, ogni giorno più dilagava il pericolo musulmano. Insufficiente la difesa bizantina. I Longobardi di Benevento, con le loro discordie, piuttosto chiamavano che non allontanassero le bande saracene. I Napoletani forse mandarono loro ausiliarî all'esercito degl'infedeli che nell'843 assediò ed espugnò Messina. E caduta Messina, fu più facile moltiplicare gli assalti e le scorrerie lungo le coste ioniche e tirrene. Si avvertì allora, veramente, la gravità del pericolo. Reazione di Napoli, Gaeta e Amalfi, che unirono le proprie forze. Comincia con queste imprese di guerra, con queste iniziative politico-militari, la nuova storia delle città italiane. Ecco, poi, sollecitato da queste città, dall'impero greco, da Salerno, dal papa, che vedeva Roma stessa minacciata; ecco anche Ludovico II. La sua prima impresa è dell'849, quando Franchi e Longobardi respinsero gl'infedeli fino alle coste pugliesi, e le navi della lega campana, comandate da Cesario figlio di Sergio, distrussero una grossa flotta di Musulmani che venivano all'assalto di Roma. Poi nuove spedizioni di Ludovico, nell'852, nel'60, nel'66-71; ora per combattere vassalli ribelli, ora per compiere lo sforzo decisivo contro i Saraceni. E il 2 febbraio 871, cadeva finalmente Bari, e poco più rimaneva ai Saraceni. In tutti questi anni, Ludovico ridiede certo vigore all'autorità regia e trasse città e piccoli dinasti nella propria orbita; confermò la sua protezione sui monasteri di S. Vincenzo al Volturno e su Montecassino. Con Bisanzio trattò per una sistemazione definitiva che doveva metter nelle mani del re e imperatore tutta l'Italia meridionale. Ma era un edificio friabile, tenuto in piedi da motivi negativi ed estrinseci, soprattutto dal pericolo saraceno. Per cui, debellati ora i Saraceni, venne a mancar la ragione prima di questa precaria sottomissione e concordia. Laggiù, non si volevano i Saraceni; ma neanche un re che volesse essere vero re. Covava fra l'aristocrazia locale quello stesso invincibile spirito d'indipendenza, che già aveva animato i duchi contro il re di Pavia; e quel non meno invincibile sentimento di avversione ai re franchi, che era quello di tutta la gente longobarda dopo il 774. Può dirsi che nel sud si prosegue la lotta decisa quell'anno nella valle del Po. E si sa quanto brigasse e quanta solidarietà trovasse nel sud Adelchi, figlio di Desiderio, nei tentativi di restaurazione fra l'VIII e il sec. IX. Ed ecco che ora, nel viaggio di ritorno da Bari, Ludovico fu assalito nel suo palazzo di Benevento, costretto ad arrendersi e fatto prigioniero dal principe, Adelchi anch'esso. Lodovico poté tuttavia liberarsi, tornare nuovamente nel sud; attese, sì, a combattere Adelchi e i ribelli duchi di Spoleto e Camerino, ma anche a combattere i Saraceni che erano tornati alla riscossa e avevano posto l'assedio a Salerno. Bene capì Ludovico che la ragione prima d'essere del regno, nel Mezzogiorno, la sorgente prima del suo credito, era la lotta contro gl'infedeli. Ma Adelchi resisté. Ebbe aiuto dai Napoletani e dal loro duca e forse dagli altri duchi. Sollecitò il concorso di Bisanzio e una flotta greca giunse a Otranto, prese Bari. E da Bari, i Bizantini, tenaci, metodici, cominciarono lentamente la riconquista. L'edificio di Ludovico e della dinastia franca crollava. Il disegno, ereditato dalla dinastia longobarda, di una conquista che giungesse allo Ionio e facesse di ogni duca di città campana, di ogni duca o principe longobardo non più di un vassallo o di un funzionario imperiale, rimase inattuato. Ludovico morì nell'875, senza tornare più nel Mezzogiorno. Il successore, Carlo il Calvo, vide solo al Garigliano e al Sangro i confini del suo regno. Al di là di questi confini, ripresero a martellare i Saraceni, da Taranto. Le città della costa trovarono subito modo d'intendersi con gl'infedeli, sia per aver pace sia per partecipare a saccheggi e prede. E si ebbe una vera e propria alleanza loro con Napoli, Amalfi, Gaeta, a cui dové aderire anche Adelchi, incapace di resistere ai Saraceni.
E allora, un po' di sua iniziativa, un po' per incitamento della corona franca, si fece innanzi, al posto del re d'Italia, il pontefice. Fino a quel tempo, tutela imperiale e regia sul papa. Ma ora, l'impero si sta smembrando, la sua autorità si esaurisce nell'ambito del particolare regno il cui sovrano è anche imperatore. Per giunta, discordia fra i Carolingi, gara per la corona imperiale. In tali condizioni, la curia può riconquistare la sua indipendenza, dettare legge o imporre patti ad aspiranti e coronati. Così da Carlo il Calvo, venuto nell'876 per l'incoronazione a Pavia, ottiene la rinuncia al missus in Roma. Si sostituisce poi al re nel Mezzogiorno d'Italia. Egli deve qui difendere un ricco patrimonio e ostacolare i duchi di Spoleto, che miravano ad allargarvisi, rinserrando da ogni parte le ambite terre del ducato romano; deve staccare le città campane dall'empia lega coi Saraceni, difendere la religione.
Cade in questo tempo un famoso patto, conchiuso non è ben chiaro se a Roma o in Francia, per cui Carlo il Calvo avrebbe ceduto Sannio, Calabria, Salerno, Benevento, Capua, Spoleto e altro al papa. Controverso il contenuto di questo patto; incerto, che cosa il re effettivamente diede e che cosa promise; incerto che cosa, nel documento originale, fu interpolato per far più grande quel dono, come è avvenuto di altri famosi documenti del genere. Certo, un nocciolo storico c'è.
Il pontefice svolse un'intensa azione nel Mezzogiorno d'Italia, quasi sostituendosi al re o imperatore. A Traetto, Giovanni VIII imbastì una lega contro i Saraceni. Ma anche quest'azione pontificia destò diffidenze e sospetti e, anziché procurar concordia e collaborazione, aggiunse nuovi motivi di divisione a quelli preesistenti. I Saraceni, anziché freno, ebbero altri incitamenti, altri alleati. Si formarono, al posto degli antichi, nuovi punti di concentramento saraceno, fra Salerno e Amalfi, ai confini dello spoletano, vicino al Vesuvio, sul Garigliano. Falliva così anche l'iniziativa papale nel sud. Viceversa, sgombro ormai il terreno da re e papi, si rifaceva innanzi da Bari lo stratego di Bisanzio: nell'880, caduta Taranto, solo in Calabria rimaneva agli Arabi qualche luogo. L'impero greco tornava a essere un fattore politico importante nelle cose del sud, rifaceva sentire qualche sua influenza sulle città campane e sui duchi longobardi. Guido II di Spoleto, voltate le spalle al vicino re e imperatore d'Occidente, s'intese con l'imperatore d'Oriente, promettendo di tenere per esso le terre che avrebbe conquistate. Fece cosi più spedizioni o scorrerie nel sud, ora per combattere i Saraceni, ora per mescolarsi nelle contese locali e trarne frutto; poté avere nelle mani anche Capua, su cuì Giovanni VIII era riuscito ad affermare la sua alta signoria; poté avere anche Benevento. E per qualche tempo, governò le due città, prima di esserne cacciato. Si delinea a chiare note quella che sarà poi la storia del Mezzogiorno coi Normanni; si prepara la futura unificazione, possibile forse solo dopo il totale sgretolamento di tutte le forze locali, per effetto delle divisioni patrimoniali, dei contrasti d'interessi fra l'aristocrazia longobarda, dell'incessante martellare dei Saraceni, dei molti interventi estranei, regi, bizantini, papali, spoletani.
Per ora è il momento buono per Niceforo Foca, imperatore d'Oriente. Gli fallì il piano di riconquista della Sicilia; ma poté togliere ai Saraceni le terre della Calabria e ai Longobardi di Benevento e Salerno la regione ionica; assicurò certo ordine e riconciliò un poco le popolazioni all'impero; risalì la costiera tirrenica e attrasse Guaimaro principe salernitano nella sua orbita; ai signori beneventani tolse terre pugliesi e lo stesso santuario nazionale dei Longobardi, San Michele al Gargano; assediò e costrinse alla resa nell'891 Benevento, mentre Guido di Spoleto era impegnato a nord contro Berengario per la corona regia e imperiale. Fino a che, ricostituitasi attorno a Guaimaro la tenace opposizione longobarda, divampò una vasta ribellione e Benevento fu liberata, anche col concorso di Guido di Spoleto, il quale tuttavia si tenne esso, a dispetto del legittimo signore, il principato, e quando glielo rese, lo mantenne sotto l'alta sovranità della casa spoletana. Pareva così risorgesse il pensiero di Ludovico. Ma presto gli Spoletani caddero e salì in alto la casa ducale di Capua con Atenolfo, che compose le guerre civili, tenne a freno Napoli, escluse le ingerenze bizantine dal suo stato, divenne principe anche di Benevento, parve instaurare per i Longobardi meridionali un'era nuova, mentre Puglia e Calabria si consolidavano nelle mani dei Greci e ne risentivano nuove influenze di cultura. Capuani e Greci fronteggiarono anche i Saraceni, sempre vinti e mai vinti: tanto che, ai primi del secolo appresso, erano nuovamente padroni di Reggio, nuovamente minacciavano Bari.
Crisi di regno e afforzamento di vita locale. - Tutto sommato, crisi di poteri centrali, crescente sgretolamento politico-territoriale, nell'Italia meridionale. Ma gli stessi fenomeni ci presenta ora il regno d'Italia: e, potremmo dire, tutto l'impero d'Occidente.
Si pensi alle grandi casate ducali, già riottose di fronte al loro re longobardo: specialmente quella di Spoleto, che dominava sin quasi alle porte di Roma. Si era cercato di sciogliere le circoscrizioni ducali, mettendo in ogni ducato longobardo più conti, direttamente dipendenti dal re. Ma si era dovuto anche raccogliere in unità amministrative e militari le contee di confine: così la marca del Friuli, che fronteggiava gli Slavi. Al conte di Lucca si era egualmente riconosciuta autorità sui conti di Tuscia, mme del resto già era accaduto ai duchi longobardi di quella città. Compito suo, organizzare contro pirati saraceni e normanni la difesa navale delle coste e delle due grandi isole tirreniche, che in tal modo vennero a stringere ancor più, con la Toscana, quei legami che già i Longobardi, mediante qualche impresa di guerra, e le chiese e i monasteri pisani e lucchesi coi loro possessi fondiarî di Sardegna e Corsica, avevano cominciato ad annodare. Anche i semplici conti tendevano ad accentuare la loro autonomia di fronte al potere regio e imperiale, a farsi riconoscere investiti ereditariamente degli uffici e benefici: come ottennero da Carlo il Calvo. Aggiungi i vescovi, che stavano rapidamente compiendo la loro evoluzione in senso temporale. Il sec. IX è secolo di formazione tanto del grande possesso fondiario, secolare ed ecclesiastico, quanto della forza politica dell'aristocrazia e dell'alta gerarchia. Donazioni regie, usurpazioni di funzionarî, dedizione di terre e di persone a più potente signore per esserne protette, offerte per l'anima, ecc., tutto concorre a questo concentramento terriero. In Italia, meno che altrove. Serve da remora la stessa natura montuosa del paese, il gran numero di centri urbani, la relativa fittezza di popolazione. In Italia certa persistenza di piccolo possesso e di liberi homines; certa prevalenza di terra sistemata a famiglie coloniche, cioè a piccole aziende autonome entro la grande azienda; certa determinatezza di rapporti giuridici fra coltivatori e proprietarî e regolarità di censi in natura, denaro e opere, già attuata fra il sec. VIII e il IX per il formarsi di una conditio dell'agricoltore, anche di valore legale, della quale si fanno forti i dipendenti ogni volta che qualcuno commette atti arbitrarî. Tutto questo in Italia e nei possessi ecclesiastici italiani più che altrove: e spiega il più sollecito e generale affrancamento servile da noi, dopo il sec. XI, in confronto degli altri paesi. Tuttavia, egualmente, conti e marchesi che si atteggiano a signori in proprio, grandi proprietarî, che hanno largo seguito di "vassi", aumentano i loro diritti immunitarî e le giurisdizioni attive nell'ambito delle loro terre, ogni giorno s'impinguano - in special modo i vescovi - di aree pubbliche, di diritti di mercato, di stationes nelle città; egualmente, formazione di una numerosa classe di militi e vassalli di vario grado, anche di origine servile ma tendenti a elevarsi in virtù degli uffici curtensi, dell'uso delle armi, del conferimento della milizia.
Nelle mani di questa aristocrazia è la corona regia. L'episcopato lombardo nella seconda metà del sec. IX ha importanza decisiva nelle diete: e si vede durante l'elezione di Carlo il Calvo nell'875. E accade allora che il nuovo re si deve obbligare in Italia alle stesse ampie concessioni verso quei signori, che già aveva fatte ai signori franchi: ciò che tuttavia non lo salva, il dì che un altro aspirante alla corona si fa innanzi. Ormai, col crescere numerico dei discendenti di Carlomagno, le ambizioni si moltiplicano, specialmente in Italia, ove la corona regia apre la via alla corona imperiale. Perciò Carlo il Calvo deve battere in ritirata per il sopraggiungere in Italia di Carlomanno, figlio di Ludovico il Germanico, che ha l'appoggio di Berengario marchese del Friuli. Morto Carlomagno, il fratello Carlo III, detto il Grosso, eletto dai signori italiani, è incoronato in Roma dal pontefice nell'881. Gran bisogno di protezione aveva il pontefice. Era attorniato da potenti famiglie romane che trovavano appoggi nel duca di Spoleto e non di rado lo costringevano a cercare scampo nella fuga, come fu alla morte di Carlomanno. Dal sud sentiva giungere nuovamente la minaccia dei Saraceni a cui il papa dovette persino pagar tributo. Ma ormai debole era il braccio dell'imperatore, scarso il suo credito, anche se Carlo III riuscì, per l'ultima volta, a riunire tutto lo stato franco sotto di sé. Da tutte le parti premevano le aristocrazie, i grandi casati, i lontani rampolli del ceppo carolingio: tutti esponenti anche di particolari interessi o tendenze nazionali. Perciò, nell'887, Carlo III fu deposto e da per tutto apparvero re proprî, in Provenza, in Francia, in Germania, in Italia.
Qui, in Italia, erano in gara Guido di Spoleto, che aveva grande base nell'Italia centrale e, un po' nella meridionale, e Berengario del Friuli, prevalente fra i signori dell'Italia settentrionale. Alla fine prevalse Guido, che ebbe la corona, dopo guadagnatisi i vescovi e il papa con promessa di protezione (889), e fece nominare prima re, poi incoronare imperatore da papa Formoso il figlio Lamberto. Ma Formoso, che si sentiva gravare addosso, in casa propria, il peso della casa spoletana, alleata con i marchesi di Toscana, simpatizzava per i Carolingi di Germania e si volse ad Arnolfo, che già aveva nell'888 affermato il suo diritto alla corona imperiale come figlio di Carlomanno. Dopo un primo tentativo, frustrato dall'opposizione dei grandi, Arnolfo poté giungere a Roma e prendere la corona imperiale. Ma la morte lo colse subito dopo, e il regno ebbe due re, Berengario e Lamberto, con prevalenza di quest'ultimo, per la forte sua posizione nello spoletano e nel sud fino a Benevento, mentre, come imperatore, si faceva valere anche in Roma, dove i suoi partigiani facevano l'empio processo al già morto papa Formoso. La morte di Lamberto diede nuovamente tutto il comando a Berengario. Comando effimero, tuttavia: ché egli non riuscì a imporsi nell'Italia centrale, mentre anche nel nord grosse masnade di Ungari entravano in Italia, vincevano in battaglia Berengario, correvano la valle del Po fin quasi ai piedi delle Alpi occidentali, finivano di togliergli ogni autorità e credito. È il tempo che i Saraceni riprendevano vigore nel sud e loro bande, sbarcate sulle coste tra Provenza e Italia, penetravano nel Piemonte, distruggevano villaggi e monasteri. Contro Berengario, i grandi chiamarono Ludovico di Provenza che a Pavia fu re e a Roma imperatore, nel 901. Riuscì a Berengario di cacciarlo una prima volta; una seconda volta, prenderlo e, accecatolo, rimandarlo oltralpe.
Ma sempre autorità precaria la sua, sempre vigilato dai potenti signori del regno: il marchese Adalberto d'Ivrea ed Ermengarda; Adalberto marchese di Toscana e la moglie Berta; a Roma e nella regione attorno, la nobiltà terriera appoggiata al duca di Spoleto e giunta, dopo la morte di papa Formoso, a impadronirsi delle cariche civili e dell'amministrazione ecclesiastica. Alla sua testa, Teofilatto, magister militum e console, e la moglie Teodora, mentre la figlia Marozia aveva sposato in seconde nozze Guido, marchese di Toscana. Chiesa e Stato sono, in Roma, nelle mani di Teofilatto e di Teodora. Emancipatisi i papi da Bisanzio; riusciti ad allontanare da Roma il rappresentante e ministro dell'imperatore d'Occidente, sono ora come assorbiti dalle potenti forze sociali che la terra dell'urbe alimenta. E quanto al sud, nessuna possibilità per il re di tentarvi qualche impresa, tutta in balia come è, anche quella regione, delle forze locali, oltre che dell'impero d Oriente e dei Saraceni. Su esse giungono a farsi sentire, se mai, il papa, l'aristocrazia romana, il duca di Spoleto. I quali, nel 915, aderirono a un'alleanza promossa da Atenolfo di Capua e costituita dai Napoletani, da Amalfi, dall'imperatore d'Oriente, contro i Saraceni del Garigliano. Le milizie coalizzate marciarono contro quel nido d'infedeli che di lì correvano e depredavano fino ai confini della Toscana, e lo distrussero. Poté tuttavia Berengario, quell'anno stesso, cingere in Roma la corona imperiale. Ma la nuova e più alta corona poco gli valse: ché vi fu un'altra trama dei grandi con Rodolfo di Borgogna; un'altra e più rovinosa incursione di Ungari che, chiamati da lui per castigare i grandi, si spinsero sino al Mezzogiorno, quasi dando la mano ai Saraceni; infine, discesa di Rodolfo, sconfitta di Berengario a Fiorenzuola, nel 923, morte violenta sua nel 924, mentre gli Ungari nuovamente battevano la valle del Po e davano alle fiamme la capitale del regno, Pavia. Vana vittoria anche questa di Rodolfo. Aveva appena assunto titolo regio, che papa Giovanni, Berta, Ermengarda chiamano Ugo di Provenza, che è incoronato nel 926 a Pavia, e si associa qualche anno dopo il figlio Lotario.
Fatica di Sisifo, quella a cui erano condannati questi re d'Italia. Non popolo, fornito di certa compattezza e forza propria, interessato a stringersi attorno al principe e dargli forza. Elemento instabile, fluttuante, infido, i grandi, facile a coalizzarsi per contrapporre nuovo re a re già in carica, ma facile anche a disciogliersi quando si tratti di appoggiare il nuovo re. Nessuna durevole solidarietà fra loro, nessun sentimento dello stato, il re ritenuto nulla più che un primo fra gli eguali. Due re, meglio di uno, per potere, come scrive Liutprando di Cremona a mezzo il sec. X, non obbedire a nessuno. Quale dei nuovi regni barbarici ebbe tanta debolezza di fondamenti come questo? Seguitavano ad agire quei medesimi fattori negativi che già avevano portato a rovina il regno longobardo. E altri in più: il nuovo turbamento prodotto dalla conquista franca; il potere territoriale dei pontefici; i nuovi elementi di aristocrazia venuti con la dinastia carolingia, che riportarono lo spirito predatore e accaparratore dei tempi delle invasioni e non si sentirono mai uniti con il regno dei Longobardi; la restaurata elettività regia con relativi frequentissimi mutamenti dinastici, che resero impossibile il consolidarsi di sentimenti e interessi attorno a una di esse. Lo spirito monarchico dei ceti superiori finì di estinguersi, per far posto a quella pratica intolleranza della monarchia, a quell'accettarla di nome ma respingerla di fatto, che caratterizzerà poi l'Italia comunale, più che ogni altro paese di Europa.
Per oltre venti anni re Ugo si tenne bene in sella. Aveva energia e astuzia e ambizione grandi. Fronteggiò bravamente le insidie dei magnati del regno; anzi contrappose a essi una folla di parenti e conterranei suoi ai quali affidò vescovati, abbazie, uffici importanti del regno: ciò che, se li metteva in mala vista degl'Italiani, li costringeva, isolati com'erano in un paese straniero, ad essere fedeli al re. Accennò anche a un orientamento verso i liberi alloderi e i ceti minori del mondo feudale, fra i quali già fermentavano vive animosità contro i grandi e aspirazioni di ereditarietà di uffici e benefici. Anche sulla Toscana, terra poco accessibile ai re d'Italia, egli poté esercitare certa effettiva autorità. A Roma, sollecitò o accettò la mano di Marozia, per la terza volta moglie e ora quasi padrona della città, essa e il figlio papa Giovanni XI (932), col loro dominio di Castel S. Angelo, vero centro strategico di Roma. Spinse l'occhio anche verso il sud, vuoi che volesse riprendere la politica di Ludovico, vuoi parare di laggiù le incursioni dei Saraceni. Ma se tutta Italia era terreno infido, ancor più era Roma, città di pontefici, città di aristocrazia che si era impossessata del papato e se ne faceva forte contro altrui velleità di dominio, citta di grandi memorie, d'intolleranza verso ogni straniero signore, di superstiti, anzi ravvivati spiriti di romanità contro i barbari. Il papato stesso aveva concorso a mantenere qui un po' dell'antico sentimento di superiorità verso tutti. Aiutavano a ciò anche la tradizione letteraria e gli studî di diritto romano che venivano riprendendo da per tutto e che trovarono anche in Roma una loro sede. Di qui, lo stesso anno 932, la ribellione dei Romani a re Ugo, guidati dal figlio stesso di Marozia, Alberico. Vedutasi sfuggir dalle mani, per quest'ultimo matrimonio della madre con Ugo, quella che era quasi sua eredità materna, Alberico sollevò il popolo romano contro la madre e Giovanni XI, che furono incarcerati, costrinse Ugo e i "barbari" di Provenza e Borgogna a fuggire, frustrò poi ogni tentativo suo di ritorno, in vista della corona imperiale, e solo nel 946 si riconciliò con lui, dietro sua rinuncia a Roma. Da allora, Alberico tenne fermamente questa città, come principe e senatore di Roma, padrone delle cose civili e, insieme, delle ecclesiastiche: sebbene al papa, con la sfera delle attività spirituali, fosse riconosciuta la nominale sovranità dello Stato della chiesa. Fu, questo di Alberico, un po' regime personale, un po' di classe, un po' monarchia, un po' repubblica oligarchica. Certo, egli si appoggiò sul popolo romano e, più specialmente, sulla nobiltà, lusingandone l'orgoglio e rievocando le antiche glorie della città, come spesso dopo d'allora i laici che hanno operato e parlato in Roma da un alto seggio o dall'Italia hanno mirato a Roma. Roma accennava a voler riavere una propria storia, imperniata su quell'aristocrazia che, qualunque fosse la sua origine, affondava in suolo romano le sue radici. E ora, con Alberico, Roma rivendicava praticamente a sé, di fronte ai re d'Italia e anche al pontefice, il diritto di assegnare o no la corona imperiale. Avveniva tutto questo in un'epoca di grave crisi per la Roma papale o chiesastica. Essa si dibatteva nelle spire di quegl'interessi secolareschi che lo sviluppo sociale del ducato creava e il dominio temporale dei pontefici muoveva a reazione. Per oltre un secolo, dopo Niccolò I e Giovanni VIII il pontificato romano scese dall'alto seggio già conquistato e parve smarrire la coscienza di sé e dei suoi compiti e della sua posizione di fronte allo stato. L'opera di propaganda lontana cessò. L'Oriente si distaccò definitivamente da Roma e dal papato, per cui non ebbe che disprezzo. Anche questo ci spiega la rivoluzione romana e la dittatura di Alberico.
Più s lungo si sostenne re Ugo nell'Italia settentrionale. Ma anche qui, a un certo punto, il terreno gli cominciò a franare sotto. Veniva meno il sostegno dei grandi. Uno di essi, Berengario d'Ivrea, nipote del primo Berengario, fuggì presso Ottone re di Germania, allacciò rapporti coi signori del regno, sempre ben disposti a mutamenti, scese in Italia per la valle dell'Adige nel 945, fece larga distribuzione di terre, uffici, privilegi a vassalli di Ugo e Lotario e per alcuni anni ebbe governo di fatto specialmente nella regione di nord-est, dove Verona fu quasi sua capitale, mentre Ugo volse le sue cure specialmente a nord-ovest, per parare ogni minaccia dei Saraceni di Frassineto. Morti poi Ugo e Lotario, Berengario si fece incoronare col figlio Adalberto a Pavia (950). Egli rappresentava l'estendersi anche al nord, dopo che a Roma, di una corrente che potremmo chiamare nazionale. Ma era più apparenza che sostanza il suo potere. Una parte del regno sfuggiva a Berengario. A Roma padroneggiava sempre Alberico, arbitro anche della corona imperiale: e Roma condizionava il possesso di tutta l'Italia del centro. La vacanza imperiale dava occasione o pretesto d'intervento a re stranieri. Insomma Roma era, se non sufficiente, certo necessario compimento e appoggio della dignità regia; era un po' la chiave di vòlta dell'edificio politico italiano. Di questa situazione di cose si avvantaggiavano i vescovi, sempre più potenti dalla fine del sec. IX.
Era cominciato allora o da allora era diventato cosa quasi normale il passaggio dalle semplici immunità negative a quelle positive, cioè alle giurisdizioni patrimoniali prima e poi alle giurisdizioni pubbliche, limitate inizialmente alla città, ma presto allargatesi fino ad abbracciare, per taluni vescovi, tutto il contado. Cominciò nell'840 tale trasformazioni, o qualche decennio più tardi: certo, con Carlomanno, Carlo il Grosso, Berengario I, ecc.; con i diplomi alle chiese di Piacenza, Ravenna, Reggio, Verona, Cremona, Arezzo, ecc., siamo in piena fase innovatrice. Più le forze dello stato - regno e impero - s' illanguidivano, più altri crescevano, vescovi e grandi secolari, i vescovi, nell'insieme, più dei grandi, alcune volte in sostituzione di famiglie comitali che si estinguevano. Escono spesso i vescovi dagli stessi ceppi da cui uscivano i conti: e tuttavia, certo antagonismo fra le due aristocrazie, gravitanti verso centri diversi, diverse come organizzazione patrimoniale, diverse per posizione morale nei rapporti con le cittadinanze. Molta solidarietà, quasi sempre, fra queste e i vescovi, in questa prima fase. Le cittadinanze, abbandonate a sé stesse, non ben disposte verso i conti carolingi e pur bisognose di protezione, legate per cento vincoli alla chiesa urbana, si stringono attorno al loro pastore ecclesiastico e con esso sollecitano da Guido e Lamberto, da Ludovico e Rodolfo, il diritto di levar mura e torri, di scavare fossati. Nella vita di tante città italiane, fra il sec. IX e X, non compaiono se non vescovi e cittadinanze: quelli, intercessori e concessionarî, a vantaggio di tutti. E così, dopo la preminenza morale, dopo la forza patrimoniale e feudale, anche un'alta posizione politica e di diritto pubblico che fa dei vescovi l'elemento decisivo nelle diete del regno e dell'impero. Sempre più screditati, invece, i conti, specialmente nelle città. Anche le nuove famiglie comitali, nate fra il sec. IX e il X, da condottieri di Provenza e Borgogna, da cavalieri italiani saliti a fortuna, da antichi gastaldi regi e ducali di Toscana e Spoleto, solo in parte sottentrarono alle antiche. Alcune, sì, sono destinate a salire molto in alto: Aleramici, Anscarici, Arduinici, Obertenghi, Canossa, che nel sec. X sono in possesso di vaste marche. Ma non in tutti i comitati essi occupano il posto dei vecchi conti; e, dove lo occupano, solo nel territorio, poiché nelle città molti vescovi erano intanto sottentrati. Va eccettuata la Toscana, dove i marchesi, sebbene fiancheggiati dalle due maggiori signorie ecclesiastiche d'Italia, cioè Roma e Ravenna, pure si sostennero di fronte ai vescovi.
Questa ascensione di vescovi, che nelle regioni renana e danubiana fu in gran parte opera dei re, si compì in Italia più liberamente e assai per tempo cioè durante il IX e X secolo, nelle città dell'Italia longobarda, dopo che già prima si era compiuta nelle città soggette all'impero greco. La storia del nostro paese è, specialmente nei secoli che vanno dall'VIII al sec. XV, la storia dello sviluppo spontaneo delle forze paesane. In nessun altro paese come qui, il fatto precede il diritto. E tuttavia anche in Italia una politica dei re, sempre più definita dal sec. IX in poi, per valorizzare ai fini proprî questi vescovi che coprono della loro ombra le città e quasi ne rappresentano la nuova vita, per sostituirli o contrapporli ai conti dove i conti vengono meno o son fomite di ribellione e di disordine, per trovare in essi quella base che i signori laici non forniscono più e nessun'altra classe ancora fornisce. Grande e duplice l'importanza dei vescovi in quest'epoca: nei rapporti interni delle città e nei rapporti dello stato, come esponenti di forze paesane ancora acerbe, come mezzo di politica regia contro i signori secolari.
Regno di Germania, Regno d'Italia, Impero.
Solidarietà fra papato e impero. - Questa politica dei re giunge a piena maturità nel secondo 900, per opera di stranieri, vuoi che la sostituzione di fatto dei vescovi ai conti sia ora più avanzata, vuoi che le ragioni e i vantaggi di preferire vescovi a conti laici nel governo della città e dei comitati italiani, siano, per lontani re, maggiori che non per re aventi a Pavia la loro sede.
Ed ecco Ottone I, re di Germania, invocato contro Berengario da Adelaide, vedova di Lotario re d'Italia e profuga presso il vescovo di Reggio. Ottone scese in Italia (951), entrò in Pavia quasi senza combattere, prese il titolo di re dei Longobardi, sposò nella stessa Pavia la vedova Adelaide e, tornato in Germania, investì del regno Berengario e il figlio Adalberto, mutilandolo tuttavia della marca di Verona e di quella di Aquileia che passarono al duca di Baviera (e di Carinzia), Enrico, fratello di Ottone. Cioè spostò ancora più al sud il confine Italia-Germania. Re d'Italia, Ottone adocchiò subito la corona imperiale. A Roma c'era Alberico: e il papa si oppose al nuovo re. Ma quando Berengario volle fare da sé, come sovrano di pieno diritto, i suoi nemici ricorsero nuovamente a Ottone. Papa Giovanni XII, che pure era figlio di Alberico, morto suo padre, lo sollecitò anch'esso. Lo sollecitarono anche vescovi e abati che da Berengario avevano avuto favore. E allora Ottone rivalicò le Alpi. Voleva essere erede e continuatore di Carlo re dei Franchi. Certo, come lui era portato all'impero dalla raggiunta forza del suo regno di Germania, dalla riunificazione di più regni e paesi (Germania, Italia, Lorena, parte della Borgogna), dalle vittorie su infedeli e dall'espansione su terre d'infedeli a servizio della religione, oltre che dello stato, dalla necessità di aver controllo su vescovi e abati divenuti funzionarî dello stato, dallo stesso accentuato carattere spirituale del suo ufficio, dalla speranza specialmente dei chierici che impero significasse più efficace protezione e quasi restaurazione delle fortupe della Chiesa. Così, mentre Berengario si ritirava e si chiudeva nelle fortezze, Ottone marciò senza opposizione alcuna su Pavia, andò a Roma e prese con la moglie la corona imperiale, promise al papa protezione, onore, mantenimento del suo temporale dominio, e a sé ed erede assicurò la sovranità sulla Chiesa. Si ritornava a Carlomagno e a Lotario. E poiché presto gli umori mutarono, sorsero in Roma stessa opposizioni all'imperatore, il papa partecipò a segrete trame contro di esso e dové fuggire, così Ottone si fece prestare dai Romani il giuramento di fedeltà, riunì e presiedette un sinodo, cui intervennero alto clero e nobiltà romana e molti vescovi del regno, fece eleggere un suo papa. Nuova ribellione dei Romani, repressa nel sangue; ritorno e morte del deposto Giovanni XII; elezione di un nuovo papa senza che nessuno chiedesse consenso all'imperatore, assedio di Roma e sua resa all'esercito tedesco-italico raccolto da Ottone; nuovo intervento imperiale nelle elezioni papali. Ormai il papato è nuovamente in mano sua. Si compiva così la nuova traslazione dell'impero dai Franchi ai Tedeschi. Il regno di Germania, schiettamente tedesco, se pur avviato e fecondato da germi culturali dei paesi latini circostanti, aveva tolto il primato a quello franco. Si era spostato verso est, cioè verso i popoli che solo da poco erano entrati nell'orbita della vita romano-cristiana, il centro dell'Europa. Ciò aveva voluto dire più frequenti rapporti fra Germania e Italia, più viva tendenza dei Tedeschi verso l'Italia. Ora, la corona regia e quella imperiale, a Pavia e a Roma, suggellano questa nuova situazione. La storia della Germania e dei Tedeschi quasi confluisce con quella dell'Italia.
Sforzo massimo del nuovo imperatore, mettere e tener fermo piede in Roma. Non doveva avere molto riguardo per i Romani, che egli trovò lacerati dalle interne discordie, politicamente e religiosamente depressi. Quando Liutprando, ambasciatore dell'imperatore a Bisanzio, diceva che Longobardi, Sassoni, Franchi, Lorenesi, Bavari, Burgundî dispregiavano tanto i Romani da non trovar altra parola di spregio per i loro nemici se non questa, romano; certo diceva cosa che anche il suo signore pensava e diceva. Per Ottone I la città del cuore era Aquisgrana, la più cospicua città dell'impero oltre Alpi, ove Carlo aveva sepoltura. E la rinnovazione dell'impero nel 962, in persona di Ottone I, è rinnovazione non dell'antico impero, ma di quello di Carlomagno. Ridar vigore alla dignità di Carlomagno, ecco il pensiero politico dei Sassoni. Ma Roma è pur sempre, per lo stesso Ottone, caput mundi. E poi, Roma voleva dire possibilità di dominare o controllare il papato: come realmente Ottone fece, con un'energia quale da un pezzo mancava nell'imperatore, sia pure largheggiando in concessioni di diplomi ai vescovi, oramai padroni di due terzi delle città italiane, procurando il ricupero di terre perdute, aiutando il papa a rendere effettivo il contenuto delle donazioni carolingie. Si riconfermava che potere temporale del papa voleva dire dipendenza sua dall'imperatore.
Insomma, Italia regia e Italia pontificia, ravvicinate nell'unità del comando. Rimane quell'altra Italia che Longobardi, Greci, Islam, città libere si contendono con alterna vicenda. Vi era stato qui, fra sec. IX e X, un promettente inizio di restaurazione bizantina. Importanza crescente del monachesimo basiliano, specie su l'Aspromonte. Poi, col terzo e quarto decennio del secolo, nuova crisi del potere imperiale in seguito a insurrezioni pugliesi e calabresi, ad altre scorrerie saracene e slave. In ultimo, una rinnovata preminenza longobarda, con Landolfo principe di Benevento e Capua e, più ancora, con Pandolfo Testa di ferro. Contro di esso, aveva mosso in armi, con l'aiuto dei marchesi di Toscana e Spoleto e Camerino, Giovanni XII, in virtù di diritti che i papi accampavano su quei principati. Infatti il Privilegium Othonis confermava al pontefice, fra l'altro, città campane, Capua, Gaeta, Fondi, ecc., i patrimonî della chiesa nel Beneventano e Napoletano, cunctum ducatum beneventanum. Interpolazioni anche qui? È probabile. Fatto certo è che le mire dei pontefici si volgevano da quelle parti. Ma dopo il 962, anche Ottone I. Tornavano l'impero e il regno a farsi vivi nell'Italia meridionale, col programma stesso dei re longobardi e dei successori, specialmente di Ludovico II. Solo che ora si ebbe conciliazione e solidale azione politica di Ottone I e Pandolfo Testa di ferro, divenuto centro e base dell'azione politico-militare dei Sassoni nel sud. Nominato marchese di Spoleto e Camerino; impadronitosi del principato salernitano dopo vicende di sconfitte e vittorie, egli si fece capo di una nuova unita longobarda, comprendente Spoleto, Camerino, Salerno, Benevento, Capua.
Intanto, era morto Ottone I. E Ottone II, suo figlio, sposato con una principessa greca, ebbe pensieri ancora più vasti: contro i Saraceni del sud e, nel suo segreto, contro i Greci. Per sua disgrazia, morì proprio allora Pandolfo e l'unità longobarda si frantumò nuovamente. E chi ebbe Benevento e Capua, chi Salerno, chi Capua, chi altro. Ricominciarono le discordie, le insidie, le usurpazioni fra i varî principi e signori, le gelosie di Benevento contro Capua. E fu grave colpo anche per Ottone. Tuttavia, messe in ordine le cose di Roma, disfatta l'opposizione dell'aristocrazia capeggiata dai Crescenzî che in Roma avevano, dopo la morte di Alberico II, preso il posto della famiglia di Teofilatto e ora contrapponevano papi proprî a papi imperiali, Ottone II mosse verso il sud, quasi a guerra santa. Anche i ribelli pugliesi lo invocavano. Pacificò alla meglio le cose dei principati longobardi, si fece riconoscere da signori e città, entrò ostilmente in Puglia, territorio bizantino, e prese Bari e Taranto, vinse gli Arabi a Crotone. Ma a Stilo, nel luglio 982, fu vinto dai Saraceni. Salvo per miracolo, tornò a Roma. Ma da ogni lato, i suoi partigiani soccombevano o si allontanavano; la sua autorità era vilipesa e i suoi vescovi scacciati: Venezia e Amalfi, che vivevano di relazioni con l'Oriente, contrariavano quella politica antigreca. L'opera fino allora compiuta cadde disfatta. Anche Ottone II morì nel 983. I Bizantini erano di nuovo risollevati in alto. Grande orgoglio, in essi: orgoglio di "Romani" di fronte a "barbari", fossero questi Longobardi o Tedeschi o altri Germani; per quanto essi rigettassero Roma come cultura e lingua e l'accettassero e rivendicassero solo come impero. Comunque, i ribelli pugliesi piegarono a loro, Bari e Trani e Ascoli e Lucera e Siponto furono rioccupate, Bari divenne centro e capitale dell'Italia bizantina. Lì prese stanza il catapano, apparso la prima volta nel 975 e ora diventato la più alta autorità dell'impero in quelle provincie. Anche i Saraceni riapparvero con nuova forza e nuova audacia, e poiché Bisanzio si trovò impegnata in Siria e nei Balcani, così la difesa contro gl'infedeli rimase in Italia affidata alle popolazioni soggette, che, quasi abbandonate a sé stesse, fecero qualche resistenza, si raccolsero attorno ai nuclei delle aristocrazie urbane contro Saraceni e fisco bizantino, diedero impulso a un principio di organizzazione a sé delle città. Ma per il momento, Gerace e Cosenza e Matera e Oria caddero e i sobborghi di Bari vennero devastati e Taranto fu assalita (990). Anche questa volta, l'Italia meridionale, se poteva essere relativamente facile acquistarla, difficile era mantenerla. Essa mancava di ogni coesione. Difficile organizzarvi un comando unitario.
Nel nord e centro d'Italia, invece, cioè nel regno, l'autorità di questi re e imperatori tedeschi si sostenne: e Ottone III poté, divenuto maggiorenne, passare le Alpi, ricevere a Pavia il consueto omaggio, avere favorevoli o non contrarî i signori laici, specialmente il potentissimo Ugo di Toscana, Ugo il "grande" e più ancora i Signori ecclesiastici, vescovi o abati, che anche in Germania erano il principale sostegno suo e della sua dinastia. A Ravenna, gli si presentarono i rappresentanti della nobiltà romana che trattarono con lui per l'elezione del nuovo papa. Ed egli riuscì a far eleggere suo cugino Brunone di Carinzia, Gregorio V: il primo tedesco che occupò il soglio pontificio, in un momento in cui la Germania accentuava il suo orientamento verso l'Italia, spostava verso l'Italia il suo centro. E da lui, poco dopo, Ottone ebbe in Roma la corona imperiale; insieme con lui cercò di dare alla città un'amministrazione che assicurasse il rispetto ai diritti del papa e dell'imperatore. Poiché a Roma v'era, più o meno subordinato al pontefice, un organismo cittadino che veniva prendendo vigore. Ed era anch'esso una manifestazione della tendenza a ravvivare antichi titoli e uffici. Tornò a Roma, Ottone, al principio del 998, invocato, ancora una volta, dal pontefice, dopo che Crescenzio, nuovamente insorto, aveva preso possesso del governo di Roma, confiscato beni e redditi della chiesa, messo un altro papa, originario dell'Italia greca, al posto di Gregorio V. Questa volta, il giovane imperatore procedé con spietata energia. Ebbe dalla sua, in questa repressione, anche parte della cittadinanza, che, come sempre, era divisa e discorde. Da allora, parve uno stretto legame si ristabilisse fra l'imperatore e il popolo romano, oltre che fra essi e l'imperiale pontefice. Ottone non abbandonò Roma, come aveva fatto nel 996. Il pensiero o proposito di ristabilire a Roma la sede dell'imperatore, già più volte balenato dopo Carlomagno, ora parve prossimo all'attuazione. Il pontefice dovette vedere nella vicinanza del principe più sicura garanzia per sé e per la Chiesa; i Romani, il principio della rinascita della città
Figlio di madre greca, iniziato alla cultura classica e bizantina, egli aveva alimentato in sé sentimenti di grande ammirazione per l'idea romana e carolingia di un impero che non fosse solo un nome, una corona, ma un organismo di per sé stante, fornito di un proprio contenuto. Renovatio Imperii Romanorum porta inscritta la bolla di piombo del diploma 22 aprile 998 al monastero pavese di S. Pietro in Ciel d'Oro: impero che, nelle intenzioni di Ottone o, per lui, del suo precettore Gerberto di Aurillac, doveva o poteva comprendere anche l'Oriente, sempre con l'Italia e Roma al centro e alla testa. In tal modo, mondo romano e mondo germanico si avvicinavano ancora di più, dopo l'aspro contrasto dei primi tempi. E si avvicinavano mondo romano e mondo cristiano. Poiché Ottone non solo era preso e abbagliato da questi fantasmi dell'antichità, in cui era tuttavia come il preannuncio di un' epoca nuova, ma anche da una viva passione religiosa. A fianco di Gerberto, divenuto papa Silvestro II, egli sognava una stretta solidarietà fra papato e impero, per il miglior compimento dei destini morali del genere umano; anzi collaborava con esso, come esso con lui, al governo, insieme, della Chiesa e dello Stato. E tuttavia chi, in questa specie di diarchia, sovrasta, ha l'iniziativa, impronta di sé il tutto è l'imperatore. Il pontefice assume quasi la veste di suo ministro nelle cose spirituali. Ottone vuole sicurezza e prosperità per la Chiesa: ma anche, e specialmente, perché "prosperi il nostro impero e si propaghi la potenza del popolo romano".
Questo mettersi dell'imperatore quasi alla testa della Chiesa è da considerare un p0' come il coronamento di quel processo storico che ha portato i vescovi ad alte funzioni civili e politiche e ne ha fatto, in certo senso, funzionarî del principe, non ostante l'inevitabile tendenza, già visibile nei vescovi di Roma, a considerar quelle funzioni come cosa propria. E si risolve in ulteriore ascesa dei vescovi, nel campo civile e politico. Si risolve in un assiduo sforzo del principe di tutelare beni e diritti delle chiese dagli assalti della feudalità, ormai anche della piccola feudalità, che cerca di rendere ereditarî e proprî gli uffici e benefici e le terre enfiteutiche. Gerberto, già abate di Bobbio e poi arcivescovo di Ravenna prima che papa, aveva avuto molto a che fare con gli usurpatori. E certo per suo suggerimento, Ottone III emana da Pavia nel 998 una costituzione che limitava la concessione di terre ecclesiastiche alla vita del concessionario, libero o no il vescovo di rinnovarla al successore. Una volta che i vescovi governano, per l'imperatore, città e comitati, è necessario che essi non perdano, con le terre e i redditi, anche la capacità di assolvere i compiti statali, fornire i contributi militari, restaurare le mura cittadine, curare i ponti. Ciò urtava sempre più grandi e piccoli signori. E nella società feudale fra il sec. X e il XVI covava un sordo spirito di opposizione a cosiffatta politica di favoreggiamento dei vescovi, portata al culmine dalla casa sassone. Si vide chiaramente nel Piemonte, dove Arduino marchese d'Ivrea, Arduino l'"episcopicida", gran nemico e martellatore di vescovi, fu scomunicato dal papa e messo dall'imperatore al bando e i suoi beni e i beni dei suoi seguaci confiscati e dati ai vescovi: fra i quali seguaci, molti militi, molti ministeriali delle chiese.
Crescfnte decomposizione politica della penisola. - Anche attorno a Roma, nuovi disordini: e alla testa, sempre l'aristocrazia secolare. Insorse Tivoli; insorse la città di Roma, con Gregorio dei conti di Tuscolo. Imperatore e papa dovettero fuggire, nel febbraio 1001. Insurrezioni anche in Toscana, morto Ugo marchese, il fedele sostenitore e amico di Ottone III. Tutto si sfaldava attorno al giovane signore, dopo il breve sogno. Nel 1002, anche l'imperatore morì. Che meraviglia se l'opposizione politica prese allora certa colorazione nazionale, come di "Romani", di "Italiani" contro stranieri e Tedeschi? Poté così risorgere Arduino, eletto a Pavia da una dieta di grandi e incoronato re d'Italia, sebbene la sua autorità non si affermasse mai fuori delle regioni nord-occidentali d'Italia. Ma ecco dalla Germania Enrico II, della stessa famiglia di Sassonia, incline alla stessa politica nei rapporti con i vescovi, tanto in Italia quanto in Germania. Ebbe riconoscimento dai signori dell'Italia nord-orientale; molti vescovi gli fecero buona accoglienza. Poté così prendere a Pavia, dall'arcivescovo di Milano, la corona regia (1004). La notte si accese battaglia tra cittadini e Tedeschi. E il re dovette fuggire. Poi, finalmente, il moto cittadino fu soffocato. Ritenta Arduino la prova, alcuni anni dopo: e di nuovo Enrico scende in Italia, rafforza i suoi partigiani, specialmente i vescovi, li aiuta nella rivendicazione dei loro beni, li mette in grado di potersi sostenere, dopo la sua partenza, di fronte a un ritorno di Arduino, e di rendere vano, anche scomparso definitivamente Arduino, il proposito dei suoi seguaci di contrapporre a Enrico un nuovo re. Dopo d'allora, più nessun re di origine italiana, fino al sec. XIX. Corona d'Italia e corona imperiale, ormai già unite nella stessa persona:, quasi come un annesso questa di quella, si fissano l'una e l'altra sul capo dei re di Germania, i più forti in questo momento fra i varî re del restaurato impero.
Fatto importante, per secoli, questa unione quasi definitiva di regno italico e regno germanico per effetto del comune re e dello stretto rapporto politico creato dall'impero. La Germania fu tratta a operare fuori dei suoi confini, e a trovare quasi fuori di sé il suo centro, a logorare molte sue forze per fini non intrinsecamente proprî. Nell'assenza poi degli imperatori e re, nella necessità loro di patteggiare e transigere coi principi tedeschi per averne concorso di uomini e denari alle spedizioni italiane, questi principi si rafforzarono, i particolarismi locali, dinastici e di stirpe si consolidarono, lo sforzo unitario dei re fu reso vano, la Germania si venne ordinando in gran numero di piccoli e mezzani stati territoriali. Di qui il rammarico di moderni storici e politici tedeschi, come se la Germania abbia barattato, con l'effimera gloria dell'impero, la forza del regno. I quali storici e politici tuttavia non debbono dimenticare quanto la vita spirituale e la cultura tedesca siano state sollecitate da questi più stretti legami con l'Occidente e con l'Italia; non dimenticare neppure quanto il possesso dell'impero e del regno d'Italia poterono dare di prestigio e di forza interna a molti di quei re di Germania; quanto concorsero, ponendo scopi comuni davanti agli occhi di tutti, a dare unità a quel regno minato dalla molteplicità e dal contrasto di tante stirpi e dinastie; quanto alimentarono il nascente sentimento nazionale tedesco, in virtù dei rapporti e degli urti molteplici con un mondo così diverso e ostile come era quello italiano. Ma assai più si risentì, di tale unione di regni, l'Italia. Giuridicamente, nessuna dipendenza del regno d'Italia dal regno di Germania. I due regni conservarono ognuno le proprie leggi e istituzioni, nell'ambito dell'impero che ambedue, a egual titolo, li comprendeva. Ma poiché tedesco era il re d'Italia e imperatore, quella unione si risolveva praticamente, in vassallaggio del regno d'Italia verso il regno di Germania. Comunque la penisola si aprì anch'essa a influenze d'oltre Alpe. Vescovi tedeschi vennero a insediarsi nelle chiese italiane; nobili cavalieri sassoni o svevi o bavaresi, discesi al seguito di re e imperatori, presero stanza in Italia, largamente dotati di benefici e uffici, e portarono nuove linfe alla vecchia aristocrazia italiana. Le marche di Verona e di Aquileia, cioè Trentino e Friuli e Istria, furono aggregate a organismi politici di là dai monti, a maggiore garanzia delle strade d'accesso verso l'Italia. Anzi, queste regioni nord-orientali, dove assai per tempo si fece sentire l'azione dei Sassoni, dove Enrico II trovò subito riconoscimento e Aquileia divenne centro d'irradiazione d'influenze tedesche; queste regioni subirono certo processo di germanizzazione, più o meno superficiale o profondo. Contadini e piccola nobiltà tedesca s'insinuarono giù per le valli alpine e dominarono i castelli del Friuli. Più ancora: re straniero voleva dire potere regio sempre più nominale, per la lontananza e discontinuità sua. Sì, certo, qualche re d'Italia fra il X e il XII secolo, forte di forze tedesche, pare che riporti vigore al regno. Ma intanto egli deve più che mai, se vuol contare, appoggiarsi su vescovi e poi su feudatarî secolari e poi, un poco, su città, tutti aspiranti a vivere autonomo: cioè scavarsi il terreno sotto i piedi e quasi negare sé stesso. Ma intanto, coll'avvivarsi del sentimento nazionale, crescerà negl'Italiani l'insofferenza verso un sovrano che è straniero e si circonda di stranieri; e questa insofferenza si risolverà in discredito di autorità regia. Quindi, più debole regno, per insanabíle debolezza, anche quando altrove tornano condizioni favorevoli al suo ricostituirsi; distacco dal centro e autonomia e vita a sé di forze particolari; qualche pallido albore di coscienza nazionale, che si colora fra i contrasti politici. Da una parte, ulteriore dissolvimento di vita politica italiana; dall'altra, più vivo senso della propria individualità etnica, certa ideale unità che accenna a costituirsi o ricostituirsi. Fatti complessi: ma da ricondurre un poco alla dinastia straniera e legata a stranieri.
Nonostante i propositi spesso grandiosi, la cura assidua delle cose italiane, i nuovi o più ampî titoli assunti, nulla di solido e duraturo costruiscono gli Ottoni in Italia. I tentativi nel sud fallirono; Roma era sempre un condominio in cui l'imperatore valeva solo fino a che durava la sua presenza materiale in Roma; il regno era sempre inquieto, per la perenne insofferenza dei grandi, dietro i quali ora cominciavano a vedersi forze organiche nuove che avrebbero, sì, portato altra esca al fuoco ma anche dato alla lotta più chiarezza, più contenuto, più vigore costruttivo.
Anche fuori del regno e oltre Roma, tutti i vecchi dominatori apparivano corrosi dalle fondamenta. Un piccolo mondo sempre più lacerato da interni contrasti appariva, nel sud della penisola, quello dei principati longobardi, pur dopo la breve riunione di tutti quei territorî al tempo del primo Ottone. Nessun sentimento di comuni interessi. La natura del paese, rotto e accidentato e vario; le divisioni e suddivisioni fra gli eredi; le usurpazioni dei gastaldi, le molteplici ambizioni dinastiche e discordie familiari, le varie e opposte azioni e suggestioni che si esercitavano da papi, Bizantini, Saraceni, città costiere; tutto operava come forza dissolvente. Più di tutti era scosso il principato di Benevento, culla della Longobardia meridionale, impoverito delle terre periferiche, che non era riuscito mai a rompere la barriera napoletana. Anche il dominio greco, scomparso da tempo a Ravenna, nell'esarcato e pentapoli; scomparso a Roma e attorno, dove nuove gerarchie sociali e politiche si vengono formando e si organizza il feudalismo come nel resto d'Italia; è ridotto poco più che vano nome o patina superficiale nelle città marinare dell'Adriatico e della Campania, ad Amalfi, a Napoli, a Gaeta, che pure si erano largamente colorate di bizantino e mantenevano strette relazioni di commercio, di vita intellettuale, di famiglia con l'Oriente. Anche il duca o doge di Venezia non è più, fra il sec. X e XI, un alto dignitario dell'impero d'Oriente. E i Veneziani di classe elevata non vivono più a modo bizantino; non si presentano più, in Oriente, come soggetti. Si vengono moltiplicando i loro rapporti commerciali e anche politici col regno d'Italia e la loro presenza comincia a farsi sentire sui paesi bagnati dall'Adriatico, donde pure i Bizantini arretravano. Così nell'Istria, così nei paesi del Quarnaro, così anche, salvo. un breve ritorno bizantino nel sec. XII, in Dalmazia, dove la vita si veniva rinnovando, la cultura e il linguaggio si svolgevano ormai non diversi da quelli della vicina penisola italiana, data la comunanza delle radici. Nel tempo stesso, sull'altro mare italiano, dopo che già l'isola di Corsica era stata dalla conquista franca unita alla Toscana e dalle donazioni messa nella sfera delle ambizioni temporali dei papi, anche la Sardegna veniva rompendo i ponti con Bisanzio. La perdita della Sicilia aveva reso difficili e radi i rapporti dell'impero con la grande isola tirrenica. Era così entrata in una fase di sostanziale autonomia, si era divisa in provincie a sé. Si potrà ancora discutere se tutto questo avvenisse un po' prima o un po' dopo: certo, nel sec. XI è un fatto compiuto. Forti e distese radici, invece, hanno ancora i Bizantini, nonostante le crisi, nell'estremo sud: meno in Puglia, assai più in Terra d'Otranto e in Calabria, tenacemente conservate, più volte perdute, altrettante ricuperate e rinforzate di forze morali e demografiche oltre che politiche e militari. La Calabria ha dato rifugio a monaci basiliani, cacciati da Costantinopoli al tempo di Leone Isaurico. Molti greci vi sono fuggiti dalla Sicilia, dopo la conquista araba. Colonie greche, specie di servi affrancati, vi hanno mandato più di una volta gl'imperatori. Monasteri basiliani numerosi vengono su da per tutto, specie nel Reggiano e nell'Aspromonte, organizzati, riformati, animati di una nuova vita per opera di Nilo da Rossano fra il sec. X e l'XI, fatti capaci di propagarsi attorno largamente, di far sentire influenze loro sul mondo bizantino e su quello romano. Ma i paesi al nord della Calabria, della Terra d'Otranto, della Puglia si venivan facendo terreno sempre più avverso a queste influenze greche. In opposizione alla corrente monastica dal sud al nord, ve ne era stata e seguitava ad esservene una dal nord verso il sud, da Montecassino, da S. Vincenzo al Volturno, poi da Conversano e da Cava, favorita dai principi longobardi e dalla chiesa di Roma, nemici in politica ma alleati in questa resistenza al mondo greco. E poi, di fronte al governo bizantino e ai suoi funzionarî, quasi permanente stato di ribellione, ora latente ora aperta, da parte delle popolazioni. La perenne minaccia saracena a volte li univa. Ma non meno li distaccava: poiché l'azione difensiva dei Bizantini troppo spesso era deficiente o addirittura mancava. E gli altri dovevano provvedere da sé. Se anche quella azione c'era, essa aveva bisogno del concorso degli abitanti. I quali acquistavano qualche coscienza di sé, si allenavano ad agire autonomamente. E allora, tanto più gravoso il fiscalismo, più intollerabili le prepotenze del governo e dei funzionarî greci. Da lontano, i Longobardi, Montecassino, il clero latino, soffiavano su quei malumori, alimentavano il sentimento di un contrasto profondo.
Infine, i Musulmani sono, al principio del sec. XI, già tutti estirpati dall'estremo della penisola. Si può dire che laggiù tutte le genti italiane e, pel tramite dei papi e imperatori, tutta la cristianità si son trovate unite nello sforzo contro gl'infedeli. Fu destino di quelle regioni, dominate da imperi mediterranei, Bisanzio e Arabi e un po' anche Chiesa romana (più tardi Angioini, Svevi, Spagnoli, che erano o dinastie o governi aventi fuori d'Italia i loro centri), di essere quasi sempre trascinate nel vortice di una storia più grande di loro, di dover quasi sempre servire interessi che le trascendevano. Solo in Sicilia i Musulmani avevano ancora fermo piede: e di lì bande di predoni e navi corsare saettavano verso le coste della penisola e le grandi isole tirreniche. Ma ogni giorno che passava, perdevano compattezza; e spezzavano qualche legame coi loro confratelli d'Africa. Nell'isola, poi, la vecchia popolazione indigena e cristiana ha ripreso animo: specie nella parte orientale. L'emigrazione in Calabria e i vincoli da essa creati fra le genti di là e di qua dello Stretto, avevano ricollegato questa parte della Sicilia al mondo cristiano.
Insomma, quanto mai rotto, incoerente, malfermo l'ordine politico fondato nella penisola, sia pure con materiali in gran parte paesani, dai Greci di Bisanzio, dagli emiri arabi, dai conquistatori germanici, cioè da forze estranee, e, talune, repugnanti. È che in un paese come l'Italia, fra genti fortemente segnate da Roma e talune anche fornite di più antica e propria civiltà, il compito degl'invasori era più difficile che altrove. Come nessuno era stato capace di prendersi tutta la penisola, pur aspirando al possesso totale di essa, quasi per suggestione di natura; così nessuno era stato così forte e spiritualmente ricco da improntare di sé, durevolmente, quelle genti su cui ebbe dominio. Esse conservavano una propria vita, una propria intelaiatura, relativamente robusta, che gli altri non potevano distruggere, per sostituirvi la propria. Potevano solo inquadrarvisi, rinvigorendola e arricchendola. E questo era avvenuto. Perché ormai il gran travaglio delle stirpi diverse e contrapposte, se pur conviventi, è vicino a finire. Si sta esaurendo, per lo meno nell'Italia longobarda e franca, la storia dei conquistatori, come storia a sé; essa si sta fondendo in una storia più vasta e organica che sarà storia italiana, nutrita dei succhi profondi di questa terra. Già lo abbiamo detto: il Regnum Langobardorum si chiama regno d'Italia o Italico, e la parola Langobardia da principio sinonimo di regno, si viene restringendo alla valle padana, anzi alla parte centrale di essa. Le fonti letterarie e i documenti del tempo distinguono ancora, talvolta, Langobardi e Romani: ma gli uni e gli altri sono unificati di fronte a Teutisci o Teutones, a Franchi, a Sassoni, ecc., e ormai compresi nella più larga denominazione di "Italici", Itali, Italienses. Certo l'alta aristocrazia deriva quasi tutta da Longobardi e Franchi, immigrati. L'aristocrazia mezzana e piccola, cittadina e campagnola, ha nelle sue file molti elementi longobardi. Ma questa aristocrazia non è più una stirpe fra altre stirpi: è diventata un insieme di gruppi sociali e come tale agisce o reagisce, prima di decadere e, in gran parte, scomparire anche come gruppi sociali. Ci sono voluti varî secoli perché questo processo di assestamento organico si compisse. E le popolazioni di gran parte della penisola ne sono uscite, dal più al meno, rinnovate: più nel nord e nel centro, meno nel sud. Comunque, maggiore o minore, questo rinnovamento non è tanto etnico (ricordare il piccolo numero degl'invasori; ricordare che essi, in quanto diventano un'aristocrazia, si estinguono su larga scala fra il sec. XI e il XIV), quanto sociale e spirituale: nuovi strati di popolo, venuti su dopo scadute o soppresse le vecchie gerarchie dell'età imperiale romana; nuovi modi di vivere, nelle condizioni in cui la decadenza politica ed economica e le invasioni barbariche avevano costretto tutti quanti; nuova libertà dei nuclei locali e familiari; nuova capacità d'iniziative, e vigore creativo, in tanta pochezza dello stato barbarico.
Progressi di vita sociale in Italia. - Se deboli e malfermi, anzi in via di corrosione e decomposizione, erano gli organismi politici sorti nella penisola con le invasioni germaniche e arabe e con la riconquista greca; progrediva invece e si faceva più varia e complessa e operosa nei suoi varî elementi la società italiana in molta parte della penisola. Non era fatto solamente italiano, questo: ma in Italia, più sollecito e visibile che altrove. Più che altrove si era qui conservato di cultura, di costume civile, di vita economica, anche dopo lo straripamento arabo nel Mediterraneo. Altrove, assoluta prevalenza di grande possesso fondiario e di ordinamento curtense. Da noi, molta terra libera e molti liberi alloderi. Anche nei grandi possessi fondiarî, alta proporzione di uomini liberi in rapporto ai servi. Quei possessi, raramente organizzati come unità chiusa: donde la conseguenza che raramente costituivano la cellula di nuove città, come accadeva oltralpe. Ciò presupponeva lavoro libero, certa economia di scambio, più numeroso artigianato, fisso o mobile, capace di fornire quantità e varietà maggiore di lavoro al confronto del lavoro fornito dall'industria domestica e curtense, presupponeva gran numero di città, decadute, sì, ma sempre città, cioè con una specifica economia cittadina, e molte e varie interferenze fra mondo rurale e mondo urbano.
Perciò, prima che altrove la ripresa, in Italia, coi secoli IX e X, sul fondamento antico e nuovo creato da Roma, dal cristianesimo, dalla conquista barbarica, dalla stessa occupazione della Sicilia per opera degli Arabi, che alimentò qualche commercio e attività marinaresca, specialmente nelle città nostre del sud. Sul finire del sec. IX, Napoli appariva a Ludovico II come città d'infedeli, accorrenti lì a scopo di commercio e alle fiere di Salerno venivano Greci, Arabi, Catalani, Provenzali. È il tempo che Amalfi, città nuova, comincia a fiorire, come intermediaria fra Greci, Arabi, popolazioni italiane. Essa non solo provvedeva, con Napoli e Salerno, ai bisogni del vasto retroterra longobardo, ma spingeva i suoi traffici fino alla valle del Po, che era il campo più propriamente riservato prima a Comacchio, e poi a Venezia, che v'importava sale e merci d'Oriente. Venezia, che di questi scambi viveva, gettava le prime fondamenta della sua fortuna. Né le città marittime erano sole a muoversi. Sappiamo delle città padane, quale Cremona, come prima fossero rifornite dai Comacchiesi, poi si mettessero esse a navigare su le navi di Comacchio, infine, a mezzo il sec. IX, già possedessero navi proprie. Sappiamo di Pavia, buon centro commerciale, col suo transito di soldati e pellegrini verso Roma, la sua corte regia e le molte piccole corti di grandi e di vescovi italiani, la sua rete di canali e vie d'acqua che la congiungevano a Venezia, a Ravenna, a Milano. Sappiamo delle molte stazioni doganali disposte lungo la linea delle Alpi, ai confini del regno d'Italia, a Susa, a Bard, a Bellinzona, a Chiavenna, a Bolzano, presso Castelfranco, ad Aquileia. Per esse si svolgeva il movimento dei pellegrini e dei traffici che dai paesi del nord facevano capo a Roma e alle città del regno. Questa linea doganale rispondeva presso a poco al confine d'Italia fissato da Augusto, conservatosi abbastanza fermo, non ostante qualche spezzatura del tempo delle invasioni e, poi, l'aggregazione di territorî del regno italico al regno di Germania nel sec. X.
Queste non mai scomparse o presto risorte attività civili, questa specifica funzione economica che le città conservano e, più ancora riprendono dopo il sec. IX e X, ci aiutano a capire anche il permanere di certa personalità giuridica delle città stesse, indipendentemente dal potere politico che in esse aveva la sua sede principale.
Tale personalità non era certo scomparsa neanche nell'età longobarda. Coi Carolingi, si accentuò: o almeno, cominciò a lasciare qualche maggiore traccia di sé. L'ascesa del vescovo come autorità civile fu anche ascesa dei cittadini, entro quella zona, città e distretto, in cui il potere dei vescovi cominciò ad affermarsi: ed è difficile dire quanto i privilegi regi e imperiali ai vescovi fossero implicito riconoscimento di un fatto compiuto, cioè una vita urbana fornita di certa sua consistenza e di suoi rudimentali organi; e quanto la promovessero. Che cosa è, nell'837, quella contesa fra i cives et urbis iudices di Verona e la pars ecclesiae di quella città, per il restauro delle mura? Pare si trattasse di una tripartizione dell'onere, che prima era tutto e solo del potere pubblico. E quei Rotecario, Dodilone, Gudiberto che, a metà del sec. IX, compaiono con i ceteri habitatores de civitate Cremona a Pavia, dove Ludovico teneva placito, per richiamarsi contro il vescovo che voleva costringerli al pagamento del ripatico, saranno andati lì uti singuli? E quei cives ianuenses che nel 950 hanno da re Berengario II la conferma delle loro consuetudini? E i Veronesi, che nel 968 son in lite col vescovo Rateno per un prato? Si tratta certo di una di quelle terre pascue, che ogni città aveva a integrazione della sua economia ed erano communia, terre comunali: elemento, questo, che serviva a unire e individuare gli abitanti di una città, come gli abitanti dei vici e dei luoghi minori. Ma altri elementi vi erano, a dare unità e individualità: vi era il mercato settimanale; vi era il collegio degli scabini, forniti di attribuzioni giudiziarie, che, a norma dei capitolari carolingi, venivano eletti dal conte, totius populi consensu. Vi era la dipendenza religiosa dalla pieve urbana, cioè la partecipazione alla vita di una comunità chiesastica che imponeva anch'essa oneri, come la decima, il restauro della chiesa, ecc., e conferiva diritti, come l'elezione del rettore a clero e popolo, il concorso all'amministrazione dei beni della chiesa, ecc.: quindi, comunità non puramente religiosa ma coincidente con quella civile, che ha in godimento terre comuni, paga il tributo al fisco, concorre a formare l'esercito, ha l'obbligo delle exentiae alle mura, concorre alla costruzione di opere pubbliche.
Siffatte attività fanno pensare anche a organi proprî di deliberazione ed esecuzione: il conventus ante ecclesiam dell'editto, che ha una speciale pace, cioè è protetto dai perturbatori con pene assai più gravi; o l'asamblatorium, come una carta milanese dell'879 chiama il foro pubblico, davanti alla cattedrale. Si tratta di rudimentali assemblee cittadine, organo dell'amministrazione interna della universitas urbana, che hanno autorità di emanare praecepta, come li emanavano il conte e il vescovo, dispongono di un proprio notaio distinto dal notarius domini regis e dal notarius ecclesiae o episcopi, di cui si parla in fonti del sec. IX, conservano in atti scritti le proprie decisioni. Fra l'altro, esse si pronunciano sull'accoglimento di estranei nella cittadinanza.
Tutto questo, nel sec. X, non cade ma si perfeziona, via via che le varie funzioni della vita cittadina si unificano sotto il vescovo, e la città cresce di popolazione, di attività, di libere iniziative, e diventano numerose le riunioni, i conventus, i colloquia (Pisa 1084), i commune consilium civitatis (Milano 1098), i consulatus, parola che qua e là comincia a indicare le riunioni e il luogo delle medesime (Milano 1097), e che è affine all'altra che poi indicò gli uomini delegati dall'assemblea, i consules. E ciò, in una forma o in un'altra, nel nord come nel sud, dove non solo l'aristocrazia militare e fondiaria accenna a soppiantare nelle funzioni di governo il duce bizantino e poi anche il duca indigeno, ma si fanno innanzi tutti i ceti, omnes homines de civitate, maiores mediani et minores o cunctus populus assistendo ad atti importanti di governo, obbligandosi per la collettività cittadina presente e futura, ecc. Il tutto, con qualche precedenza in ordine di tempo, specie nelle provincie bizantine. Insomma, la città possiede una più o meno rudimentale ma propria organizzazione, dentro il quadro sempre più debole ed evanescente del potere pubblico e a sussidio del potere stesso, specialmente delle sue funzioni fiscali: un' organizzazione che ha anche le sue membrature topografiche, cioè i quartieri, ognuno in rispondenza con una porta, ognuno con un determinato settore di mura da difendere e mantenere, una determinata quota ideale di terra comune da godere, determinati compiti e responsabilità. Che potrebbe anche essere, come è stato sostenuto, la membratura stessa dell'antichissima città italiana, Roma compresa, scaduta d'importanza col fiorire dei municipî, riemersa col loro decadere e col venir meno del vigore dal centro, lasciata intatta dagl'invasori che vi si adagiarono, viva ancora nell'età comunale, quando altre ripartizioni s'intersecheranno con essa, si sovrapporranno a essa.
Nel sec. X, i mutamenti e i progressi nella struttura sociale delle popolazioni italiane si fecero più celeri. L'oscuro lavorio interno cominciò a venire allo scoperto. Gli stessi sconvolgimenti politici, le confische e l'assegnazione di patrimonî e benefici dall'uno all'altro signore, le usurpazioni dei secolari a danno degli ecclesiastici, le scorrerie di Ungari e Saraceni, la rovina di tanti monasteri, si risolvevano in alimento a nuove forze sociali, in ascensione di ceti minori. Molti affrancamenti di servi, per la crescente difficoltà di tenerli legati alla gleba. Molta ascesa di piccola gente di condizione servile, attraverso il servizio a cavallo, il chiericato, i bassi uffici curtensi, il matrimonio con donne di condizione libera (donde figliuoli liberi, poiché filius matrem sequitur), le rapine dei beni padronali in tempo di vacanza vescovile, di disordini monastici, di rovina delle famiglie signorili. Molte terre messe a coltura, specialmente da parte delle chiese. Grande preferenza data ai semplici coltivatori e uomini liberi, da parte delle chiese stesse, nella concessione di terre. Vasta costruzione di castelli che servivano a proteggere la terra e i coloni dagli assalti degli Ungari o dalla guerriglia feudale, ma che rappresentavano anche il moltiplicarsi dei rami delle famiglie signorili, l'ascesa dei ceti feudali minori di fronte ai maggiori, lo sforzo di organizzazione e di avvaloramento degli uomini e della terra. E agivano poi fortemente sulla vita sociale ed economica. I castelli volevano dire una minuscola aristocrazia di castellani; contadini assunti a difesa delle mura e all'uso delle armi, insomma organizzazione militare del popolo; rapporti contrattuali e scritti fra nuclei organici di uomini liberi e il signore, e impulso dato alla nuova vita associativa; concentrazione e aumento assoluto di popolo entro e presso i luoghi murati, per la maggiore tutela che gli si offriva e per le nuove attività che si sviluppavano, mentre scadevano le piccole industrie famigliari e curtensi. Frequentissima la concessione regia del mercato ai castelli: spesso accompagnata alla concessione di levare torri e mura. E ne risultavano tante minuscole città nuove, con la stessa struttura sociale un po' complessa. La popolazione rurale rompeva o allentava il ferreo legame col grande possesso fondiario e qua e là lentamente lo dissolveva, si metteva per mezzo del castello e del mercato locale in qualche contatto con la città. Non si possono disgiungere, attorno al 1000, il movimento economico-sociale delle campagne italiane e il rinascere delle vecchie città. Anche esse ora crescono di abitanti: e ne sono prova il sorgere delle parrocchie tra il sec. IX e il X, ognuna col suo ministro e i suoi servizî religiosi, laddove prima solo la pieve o chiesa cattedrale li compiva; la costruzione di una cinta murata più solida e vasta, che molte città già nel sec. X intraprendono e altre di più nell'XI. Le città ricominciavano a fare sentire qualche vivace richiamo alle popolazioni circostanti; diventavano la sede o il centro morale, il luogo di raduno della minore nobiltà, fatta in gran parte di vassalli ed enfiteuti del vescovo e degli enti ecclesiastici, di funzionarî loro per il temporale, vicecomiti, vicedomini, avvocati, gonfalonieri, ecc. Taluni, originarî della città, altri del contado, ma sempre più orientati anch'essi verso la città, di cui venivano diventando la forza propulsiva maggiore. Dietro loro, ma già con una propria fisionomia, i cittadini veri e proprî, i cives, la borghesia, egualmente legata al possesso fondiario, ma volta già a nuove attività, fondamento più tardi di tutta la sua vita materiale e spirituale.
Nuove forze rivoluzionarie e costruttive fra il X e il XII secolo.
Azione di città e movimenti sociali. - Nessuna meraviglia se tra il sec. X e il XI le città facevano più spesso ed energicamente atto di presenza sulla scena politica italiana: né solo le città dell'Italia già bizantina e Roma, ma anche altre del regno, più tarde a svilupparsi a sé, sebbene destinate a maggiore avvenire. Pavia insorge contro i Tedeschi, nel 1004. Navi pisane operano già al tempo di Ottone I nel mare di Calabria. Comincia poi, con le prime imprese (inizî del sec. XI) di Genova e di Pisa, quella penetrazione militare e mercantile dalla Toscana e Liguria che legherà strettamente la Sardegna e la Corsica alle vicende della penisola italiana, da cui il dominio bizantino le aveva distaccate: inizio anche della secolare rivalità fra le due repubbliche marinare. Intanto, sull'Adriatico, allarga il raggio della sua attività e si afferma protettrice e quasi signora, Venezia. È dell'anno mille l'impresa di Orseolo II in Istria e Dalmazia e, poco dopo, il soccorso navale portato a Bari bizantina, assediata dai Saraceni. Procedevano spesso solidalmente, Venezia e l'impero d'Oriente; ma a questo tempo ogni supremazia di questo su quella era cessata.
È poi la volta delle città pugliesi. Nel 1009, Bari è in nuova e maggiore ribellione, per il gran fermento che covava fra quella borghesia o patriziato dedito al commercio e giunto a un'organizzazione quasi di comune: e il barese Melo ne è il capo. Da Bari il movimento si estende: Trani, Canosa, Ascoli, altre città dell'interno. Non debbono mancare neppure simpatie e aiuti dell'elemento chiesastico latino. Melo che è, pare, un longobardo, conta anche sull'elemento longobardo: e realmente da Capua pare che vengano aiuti. Accanto al suo nome, ricorre il nome di un Arduino "lombardo", forse venuto dall'Italia settentrionale, alla ventura, come vengono Saraceni e Tedeschi. Sono comparsi, proprio in questi anni, manipoli d'ignoti guerrieri: i Normanni. Pellegrini, diretti in Terrasanta o a San Michele del Gargano? Predoni, come quelli che avevano corso il Mediterraneo e devastato le coste toscane nel sec. IX? Tener presente che di Normanni se ne trovavano già da tempo nelle file degli eserciti di Bisanzio; ve ne dovevano essere anche fra i Bizantini che combattevano nel Mezzogiorno d'Italia. Melo, che aveva assunto il titolo di duca di Puglia, è vinto e fugge a Benevento in cerca di aiuto. Invoca anche Arrigo II che nel 1014 è a Roma e che a Melo conferma quel titolo. La rivolta di Puglia divampa ancora. Proprio in quegli anni, anche a Benevento, facta est prima communitas. Beneventani, Melo, pontefice paiono d'accordo. Ai primates di Benevento Benedetto VIII nel 1016 invia un gruppo di altri Normanni calati proprio allora, che Melo si condusse con sé in Puglia, insieme con gente longobarda. Ma le cose andarono di nuovo male per i Pugliesi e Melo e i suoi alleati. I Bizantini ripresero la Puglia, che ebbe anche un nuovo ordinamento politico ed ecclesiastico; avanzarono verso i principati, costringendo quelli di Capua e Salerno a patteggiare e fare atti di ossequio; cercarono d'impedire contatti e collaborazioni fra questi loro nemici di Puglia e Langobardia. E a tale scopo, certo, doveva servire la città di Troia che essi fondarono circa il 1019 sulla strada di Benevento, popolandola di Greci, di Longobardi, di gruppi di Normanni. Alla sua testa un rettore, nominato dai cittadini e confermato dal catapano, e un consilium civitatis. Insomma, albori di autonomie municipali da per tutto.
Di fronte a nuovi appelli di Melo, di papa Benedetto VIII, di Normanni, scese in Italia Enrico, a riprendere nel sud l'antica opera dei re italici e degli Ottoni. Ma trovò resistenze da ogni lato. Le porte di Puglia gli rimasero chiuse e lo scopo primo della spedizione fallì anche ora. Mancò la capacità o abilità tanto di raccogliere in uno le forze varie e discordi o malamente concordi del paese, quanto di costringerle con la forza. Messi fra i due imperi, d'Oriente e d'Occidente, o, meglio, fra i Greci e i Tedeschi, molti ancora preferivano i Greci. Anche la politica di solidarietà coi principi longobardi, iniziata da Ottone I e ora ripresa, non raccoglieva frutto. Ma qualche legame si strinse fra l'imperatore e i Normanni, che gli avevano prestato aiuto e che ebbero terre. Nacquero allora, per concorde azione di Enrico II e di Guaimaro V principe di Salerno, i primi stanziamenti di Normanni nell'alta valle del Liri, in posizioni avanzate contro i Bizantini di Puglia; sorse allora la contea di Aversa, con Rainolfo primo conte e vassallo dei Longobardi salernitani. Pare che Enrico contasse molto su di essi, come sostegno dei suoi diritti nel sud. Neppure raccoglieva molto frutto la politica svolta fino allora nel regno. L'anno 1024 era appena morto Enrico, ultimo dei re Sassoni, e i grandi signori secolari dell'alta Italia si volgevano a Roberto re di Francia e poi a Guglielmo di Aquitania, per offrirgli la corona regia e l'aiuto per conquistare l'impero, in odio ai vescovi che, memori dei favori dei re tedeschi, subito si dichiararono per Corrado di Franconia, nuovo re di Germania; e i Pavesi, che avevano inaugurato con una sommossa il regno di Enrico nel 1004, ora assaltarono il palazzo regio e lo distrussero. Esplodeva il risentimento del 1004; reagivano gl'interessi cittadini offesi dall'amministrazione sperperatrice dei re sassoni. Al tempo degli Ottoni, Ravenna era diventata quasi la capitale del regno, mentre Pavia non aveva più i vantaggi ma solo l'onere di una capitale. Anche quei militi, che già Arduino aveva raccolti sotto di sé contro i vescovi e contro il loro re tedesco, dovevano soffiare sul fuoco. Certo, la nuova rivolta fu un altro colpo inferto a un organismo già corroso dentro da tanti interessi avversi. L'amministrazione dovette farsi più confusa e incerta. Molte fila si spezzarono. Certo organi amministrativi cessarono di funzionare. Vi dovette essere grande distruzione di titoli di diritto. Il regno, come organismo giuridico e politico avente propria personalità, si fece più evanescente, fu più di prima conglobato nell'impero, si legò di più a dinastie tedesche, cioè si estraniò di più dall'Italia. Pavia cessò di essere, nel fatto, la capitale. Caddero molte istituzioni del regno, si eclissò per molto tempo il conte pavese o conte palatino: e il posto suo lo presero missi dominici, investiti volta per volta, in via straordinaria, di quelle che erano le funzioni ordinarie del conte palatino. Riemerge, alla testa delle città lombarde e di tutto il regno, Milano. Arcivescovo e città molto si avvantaggiarono di quella crisi. L'uno raccolse non pochi beni regi, fra cui la corte di Monza; l'altra fu promossa nei suoi ordinamenti cittadini. E nessun dubbio che, fra gl'impulsi alla rivolta di Pavia, c'era anche questo. Siamo nel tempo in cui quella che era aspirazione dei minori ceti feudali di tenere con tutta sicurezza e autonomia gli uffici e i benefici a loro conferiti, diventa un po' aspirazione di cittadinanze - di cui quei ceti sono anch'essi parte sempre più importante - a vivere autonomamente, farsi la propria legge, tener lontani i funzionarî del re, anzi, salvo la dovuta riverenza, la stessa persone del re. A Costanza, dove Corrado ricevé i delegati delle città lombarde e i vescovi capeggiati da Ariberto, andati a fargli omaggio e offrirgli la corona reale (Roberto di Francia e Guglielmo di Aquitania avevano rifiutato), si trovarono anche i Pavesi: ma il re non volle riceverli e li mise al bando. L'anno appresso, scese in Italia. Prese la corona a Milano e cinse d'assedio la capitale del regno. I Pavesi finirono col cedere: ricostruirono il palazzo: ma fuori le mura, iuxta civitatem, come faranno poi parecchie città.
Due anni rimase in Italia Corrado. Prese a Roma la corona imperiale, si occupò delle cose del regno; si occupò delle cose del Mezzogiorno. Qui una matassa sempre arruffata, sia per l'intervento sulla scena, dei Normanni, sia per lo slancio che pareva animasse i due più giovani principati longobardi, Capua e Salerno. In quel momento, accennava a prendere una posizione prevalente nel sud il turbolento Pandolfo IV di Capua. L'imperatore lo tenne a freno. Meglio disposto invece si mostrò verso i Normanni, li ricevette in vassallaggio, li considerò quasi sua milizia nel Mezzogiorno. Non più tranquillo del sud, il regno, fresco ancora delle lotte fra Enrico e Arduino, cioè fra signori secolari e signori ecclesiastici, fra grandi feudatarî e vassalli minori, fra partigiani del re italiano e partigiani del re tedesco, reclutati in ogni ceto o gruppo sociale. Il movimento dei vassalli minori covava ancora. Non tutti amici i grandi signori. I vescovi non più sufficiente sostegno dell'impero neppure essi. L'imperatore attese a consolidare i fondamenti di questo malfermo edificio. Dalla marca di Verona, già riunita al regno di Italia, staccò il vescovato di Trento, unendolo alla Germania, per assicurarsi la strada verso la valle del Po. Più tardi, con la conquista della Borgogna, stringerà il regno anche da nord-est e si assicurerà togliendole ai feudatarî franchi, altre importanti porte d'accesso verso l'Italia. Cercò poi di riguadagnarsi i grandi signori del nord e della Tuscia. Conferì a Bonifacio, della casa degli Attoni, assai ligia ai Tedeschi, l'importante marca di Toscana tolta al marchese Ranieri. Quella marca era quasi un regno a sé, entro il regno d'Italia. E la casa degli Attoni, che già padroneggiava la bassa valle padana, dall'Adige all'Appennino su fino alla montagna modenese e reggiana, assurse ora al culmine della potenza: due grandi marche nelle sue mani; innumerevoli possessi allodiali da per tutto, specialmente nel mantovano, nel basso Po, nel bolognese, sull'Appennino; tutte le strade d'accesso verso l'Italia centrale e Roma controllate da Bonifacio, il "gran marchese". Per stringerlo maggiormente a sé, l'imperatore ricorse anche ad altri mezzi. Vedovo di Richilda, Bonifacio sposò nel 1036 Beatrice di Lorena, nipote dell'imperatrice e legatissima al gran mondo principesco e feudale d'oltralpe. Nessun dubbio che l'imperatore mirava ad affrancarsi dalla quasi dipendenza verso i vescovi italiani. Politica non diversa aveva adottata in Germania. Allo stesso scopo, mise in parecchi vescovati e abbazie prelati tedeschi. Non è difficile che egli pensasse, con ciò, anche a una riforma chiesastica. Ma, pure con intenzioni riformatrici, accentuava quell'ingerenza del principe nella vita ecclesiastica, quel suo arbitrio nel disporre dei beni delle chiese ai fini dello stato, che aggraverà anziché sanare i mali della Chiesa, farà sentire più che mai necessaria la libertà della Chiesa, metterà contro l'impero i rifor natori, darà un nuovo e rivoluzionario carattere al moto della riforma, gia politicamente ortodosso.
Intanto s'inaspriva la questione dei secondi militi. E a Milano essa esplose in rivolta, che mise in movimento e urto quasi ogni elemento sociale di Lombardia e che prese di mira specialmente l'arcivescovo Ariberto. Valvassori e arcivescovo finirono con ricorrere a Corrado. Al quale, altri appelli venivano dal Mezzogiorno, dove, dieci anni prima, appena allontanatosi l'imperatore dall'Italia, Pandolfo IV di Capua aveva occupato Napoli e se ne era intitolato duca al posto di Sergio IV. Riuscì a Sergio, aiutato dai Gaetani e dai Normanni di Rainolfo Drengot, di rientrare in Napoli. E rientrato, donò a Rainolfo, divenuto suo genero, la borgata di Aversa, con terre e casali attorno, presto munita di torri e fossati e mura. I Normanni, coi matrimonî e col possesso di luoghi murati e di fertili terre, cominciavano a mettere radici nella nuova patria. Aversa che, posta fra Napoli e Capua, doveva servire di baluardo alla prima, divenne il gran richiamo dei Normanni d'oltralpe, il gran centro dei Normanni italiani per parecchi anni. Ma Pandolfo tornò alla riscossa, si fece padrone del ducato di Gaeta, costrinse i vassalli di Montecassino a giurargli fedeltà, guadagnò a sé i Normanni di Aversa, altri ne arruolò da poco arrivati, tentò di avere anche Benevento, fece piani sopra Salerno. Capua grandeggiava, afferrava essa il primato fra i principati longobardi. Fu allora che Benedetto IX, Montecassino, Guaimaro di Salerno si volsero all'imperatore.
E l'imperatore, sollecitato da nord a sud, riprese nel 1037 la via dell'Italia. Ebbe non buona accoglienza dal popolo milanese. Anche Ariberto non si presentò alla dieta di Pavia. E allora Corrado lo bandì e gli tolse l'arcivescovato, assediò Milano, sebbene inutilmente, pubblicò la Constitutio de feudis che assicurava ai valvassori l'ereditarietà dei feudi in linea maschile e li garantiva contro ogni minaccia, mettendoli sotto la sua diretta autorità. Gran fermento fra i vescovi! E invitarono, contro Corrado, Oddone di Champagne. Ma i grandi secolari rimasero fedeli. Parecchi vescovi furono esiliati in Germania. Parma fu saccheggiata. Il papa dovette scomunicare Ariberto. Recatosi poi nel sud, Corrado metteva un monaco tedesco, Richerio, a Montecassino; entrava in Capua donde Pandolfo era fuggito a Costantinopoli; entrava a Benevento; procurò di legare a sé il principe di Salerno Guaimaro e i Normanni di Aversa, adottando quello per figlio e investendolo del principato di Capua, riconoscendo a Rainolfo la contea di Aversa, pur nelle dipendenze di Capua. Poi se ne tornò in Lombardia e di li in Germania, lasciando i grandi del regno all'assedio di Milano. Ma Ariberto e il popolo milanese gli tennero testa: comparve il carroccio. Alla notizia della morte di Corrado, l'esercito assediante si sciolse, Ariberto andò in Germania a riconciliarsi col successore: ma i cives, che ormai appaiono nel primo piano della vita milanese, lo cacciarono insieme con la nobiltà tutta. Si ebbe allora un primo saggio di ciò che saranno le future lotte fra popolo e nobiltà, nei Comuni; il popolo è forte dentro le mura, e ha ragione dei suoi avversarî; ma è debole in campo aperto. Padroni della campagna, i nobili possono affamare e taglieggiare la città. Vennero pacieri dell'imperatore. I nobili rientrarono in Milano. Vi sarà poi un compromesso fra le classi: il Comune. Così, in meno di mezzo secolo, si è fatta innanzi sulla scena nobiltà minore e popolo: quella, creazione del regime feudale; questo, forza antica, ora rinnovata, delle città; quella e questo, forza costruttiva del nuovo ordine politico. Laddove, nel sud, la forza costruttiva di più decisivo valore sarà un'altra.
Qui, tramontato Pandolfo e l'astro del principato longobardo di Capua, come già quello di Benevento, si ebbe una rapida ascesa di Guaimaro e del principato di Salerno. Quasi tutta la costiera campana, ricca e portuosa, al sud di Gaeta riconobbe Guaimaro signore. Guaimaro aveva assoldato altre bande di Normanni venuti coi fratelli Altavilla, le quali, unitesi ben presto ai Normanni di Drengot, si volsero verso la Puglia, ove era nuova ribellione contro Bisanzio. La prima impresa, d'importanza risolutiva, fu la presa di Melfi. E da Melfi, come già i Saraceni, i Normanni, guidati da Atenolfo di Benevento e da Guglielmo d'Altavilla, Braccio di ferro, occuparono città pugliesi, vinsero battaglie campali sui Greci a Canne e Montepeloso (1041). Il miraggio della Puglia serviva a dare qualche unità e disciplina alle scomposte brame di quegli avventurieri. I quali tutti si raccolsero ora sotto Guaimaro di Salerno, mentre anche i ribelli pugliesi gli sì dichiararono fedeli. E Guaimaro assunse il titolo di duca di Puglia e Calabria, mentre Braccio di ferro e altri capi normanni si spartivano le città e da alleati dei Pugliesi si mutavano in signori. Sorgeva, così, di fatto, la contea di Puglia, con Guaimaro alto signore, i Normanni nominalmente in sottordine.
I Normanni nell'Italia meridionale e nel quadro della politica italiana. - Nel 1046 Enrico III scese in Italia. Problemi gravi erano in discussione, specialmente di natura politico-ecclesiastica. Accanto e di fronte alle buone intenzioni riformatrici del principe, una crescente volontà di riformare entro la Chiesa, fra clero regolare e secolare. Presa a Roma la corona imperiale, Enrico III proseguì per il sud. E qui, prima tolse Capua al principe di Salerno, rendendola per denaro al principe spodestato; poi sistemò secondo gl'interessi dell'impero Montecassino e mise un abate tedesco a S. Vincenzo al Volturno; poi investì normanni, pugliesi e campani delle terre che possedevano e li mise nella diretta dipendenza sua. Anche Benevento, che a Enrico chiuse le porte in faccia, l'imperatore lasciò in balia dei Normanni. Era per i Normanni un grande passo avanti. Dopo esser cresciuti all'ombra dei ribelli pugliesi e dei principi longobardi, ora procedono oltre, nella protezione dei re e imperatori, ma con crescente autonomia e senso di padronanza. Gli Altavilla capeggiano. Morto Guglielmo e Umfredo, ecco Roberto il Guiscardo e Ruggiero, uomini diversi e pur ben dotati l'uno e l'altro, quello più politico, questo più guerriero, quello più intento ad annodare e sciogliere trame, a manovrare sul difficile terreno di Puglia, questo a conquistare Calabria e Sicilia. In mezzo a tante forze screditate o logore dopo un violento attrito di secoli, essi, gente nuova, non legati moralmente a nessuno, non subordinati se non al proprio, disposti a servire tutti per servire solo sé stessi, capaci anche, come tutti i conquistatori e sovvertitori, di destare qualche speranzosa attesa, nelle plebi cittadine e rurali, malcontente dei vecchi governi e dei proprietarî; essi cominciano a rappresentare la nuova ricostruzione, la nuova forza unitaria.
Nuovi eventi promossero l'ascesa di questi minori ceti sociali, delle cittadinanze, dei Normanni: eventi che appartengono alla storia dell'Europa cristiana e sembrano trascendere la vicenda politico-sociale della penisola. E tuttavia hanno in questa vicenda qualche loro scaturigine e, in ogni modo, fanno con questa, per alcuni decennî, una storia unica. Ci riferiamo al movimento riformista che ora si accentua e mette capo alla grande lotta per le investiture: l'uno e l'altra particolarmente vivi e agitati in Italia. Quel movimento già si preannunciava, nel sec. X, quando vescovi come Raterio di Verona e Attone di Vercelli, monaci come Romualdo di Ravenna, eremiti come San Nilo di Calabria, nutrivano in sé e diffondevano attorno a sé l'aspirazione a un più severo costume monastico e chiesastico, a un chiericato e a una chiesa più liberi da beghe terrene e più volti a religione. Intanto, nei monasteri di Lorena e di Borgogna si cominciava ad attuare una regola di vita che poi si diffuse anche fuori del mondo monastico. Riforma di monaci e monasteri decaduti e corrotti, innanzi tutto; in seguito, dalla fine del sec. X in poi, riforma ecclesiastica in senso largo.
I mali che si lamentavano, derivavano in gran parte dall'essere la chiesa sommersa nella mondanità, soffocata ormai nelle spire della società feudale. L'evoluzione storica, mettendo nelle mani di vescovi e abati enormi patrimonî fondiarî, facendo di essi altrettanti signori e capeggiatori di vassalli, affidando a loro giurisdizioni patrimoniali e pubbliche, aveva anche, via via, corrotto la Chiesa, sollecitato i laici a impadronirsi di queste leve di comando, permeare di sé l'organismo chiesastico, soffocarlo sotto mille incrostazioni. Era insieme rovina economica e rovina morale. La politica dei re e imperatori aveva la sua parte di responsahilità nei mali lamentati. E pure, si credé in principio, dai riformatori, che la salute potesse venire dai re e imperatori stessi. Si può anzi pensare che qualche raggio dell'aureola che sembrò cingere il capo dei rinnovati imperatori fra il sec. X e XI venisse da questa fiducia nella lor capacità riformatrice, da qualche loro preoccupazione o tentativo di riforma. Così, in particolare maniera, Enrico II, presente col papa al concilio di Pavia del 1022. Ma ciò voleva dire ingerenza sempre maggiore nelle cose della Chiesa, più complicato groviglio di secolare ed ecclesiastico. E realmente, nella prima metà di quel secolo, sempre più i vescovi furono creature dell'imperatore, i papi furono scelti o tollerati in rapporto alla garanzia di fedeltà che essi fornivano, i beni delle chiese furono distolti a favore del principe, si fece commercio di uffici ecclesiastici, cioè si commise simonia, complici attivi o passivi i vescovi italiani. Enrico III di Franconia, che, assai più del padre Corrado, riprese la tradizione dell'ultimo Sassone, si propose di astenersi da atti simoniaci, si fece dai vescovi prestar promessa solenne di astenersene per conto loro.
Si giunse all'elezione, prima da parte di Enrico III, su richiesta dei Romani, poi, in Roma, da parte del clero e del popolo, come i canoni e l'antica tradizione della chiesa prescrivevano, di Brunone di Toul (Leone IX), che usciva dalle file dei patrocinatori di riforma in Lorena. Leone IX mutò, rimosse cardinali simoniaci, riformò abitudini e sistemi di curia, provvide contro il concubinato e il matrimonio dei preti. Al suo fianco era Ildebrando da Soana, il futuro Gregorio VII. Il papato parve tutto rianimato dall'antica coscienza chiesastica, dal concetto dell'assoluto primato romano su tutta la Chiesa e della superiorità del potere religioso sul potere politico. Così l'iniziativa della riforma passava dalle mani dell'imperatore a quelle del papa, sia pure senza opposizione dell'imperatore, ma certo, contro quella situazione politico-giuridica che l'imperatore aveva concorso a creare. E la penisola ancor più diventava essa il centro propulsore della riforma, ancora più vedeva intrecciarsi e fondersì i nuovi problemi politico-sociali e i problemi chiesastici o religiosi.
Leone IX attese anche a far valere diritti o pretese territoriali: specialmente nel Mezzogiorno. Cominciavano a far paura i Normanni, che non raccogliessero essi quell'eredità di Longobardi e Bizantini a cui i pontefici evidentemente aspiravano, tutta o parte. Poiché già vi erano donazioni imperiali, vere o fittizie, di città alla Santa Sede: Capua, per esempio. Già gli occhi della curia si sono posati su Benevento, in specie da quando la città aveva fatto e poi rinnovato il comune. Ora i Beneventani, insorti contro il loro principe, hanno acclamato signore Leone IX. Tutti quelli che han paura dei Normanni, si rivolgono ora piuttosto al papa che all'imperatore. E il papa va a combattere i Normanni, li affronta in battaglia presso Civita. Ma è vinto e fatto prigioniero, largheggia in concessioni e promesse al vincitore durante la prigionia, rafforza nei Normanni vittoriosi la volontà di procedere oltre. E nel 1056, Roberto il Guiscardo, coi suoi compagni di Puglia, conquistò la terra d'Otranto circondando e isolando Bari. E Riccardo di Aversa espugna Capua. Era, con la presa di Capua, la morte di quel principato, che pochi decenni prima sembrava dovesse riuscire a dominare il Mezzogiorno; mentre anche quello di Benevento era ormai ridotto a poco; e quello di Salerno, minato all'interno dal feudalismo, non resisteva più alla forza dei Normanni, a cui è passata l'iniziativa politica del sud.
L'impero non si fece vivo, in questi avvenimenti. Se mai, consentì e diede qualche aiuto al pontefice. Al nuovo papa Vittore II, un tedesco anche lui, Enrico III garantì la piena reintegrazione del patrimonio della Chiesa romana; e, nel 1055, in un sinodo tenuto a Firenze, non solo rinnovò il divieto di ogni alienazione di beni ecclesiastici, ma fece cessione delle marche di Spoleto e Fermo alla Santa Sede. Pare evidente che si cercasse la solidarietà dei papi, molti dei quali tedeschi, e dei vescovi. Come altrimenti tener testa ai Normanni e ai grandi signori, malcontenti prima per i troppi favori ai vescovi, ora per la protezione accordata ai vassalli minori? Anche i marchesi di Canossa, sempre fedeli e investiti perciò della marca di Toscana, vacillavano. Ma ormai riusciva sempre più difficile tenersi amico e ligio il papato. Il partito della riforma cresceva ogni giorno di forze in curia e in Italia, specie in Toscana e Lombardia. Le dottrine curialiste che mettevano il papato al centro della Chiesa, si facevano strada come non mai. Potenti personalità, quasi adeguate ai tempi nuovi, come Ildebrando, consigliere e ispiratore della politica papale in questi anni, sono sulla scena e portano elementi nuovi, imponderabili, di dissidio. Con i papi di origine lorenese si aggiunsero altri motivi di contrasto, più propriamente tedeschi e dinastici, nei rapporti di Roma con l'imperatore. Così avvenne che papa Stefano IX, eletto dai Romani dietro ispirazione d'Ildelbrando, fu consacrato senza che nessuno chiedesse il consenso in Germania, ove allora, morto Enrico III, reggeva il regno per i figli la vedova Agnese. Successe Niccolò II, vescovo di Firenze, nel cui nome si trovarono concordi, contro un tentativo dell'aristocrazia romana, capeggiata dai Tuscolo, di avere un proprio papa, vescovi del partito riformista e del partito imperiale, riuniti a Siena. Vivo era in curia il desiderio di emanciparsi da ogni tutela tedesca. E mezzo adatto parve un ravvicinamento coi Normanni. Così in un concilio tenuto a Melfi l'agosto 1059 ai fini della riforma, Nicolò II liberò i Normanni dalla scomunica, investì del principato di Capua Riccardo di Aversa (Drengot) e del ducato di Puglia e Calabria e del principato di Benevento, la città esclusa, Roberto il Guiscardo; diede a quest'ultimo autorizzazione di togliere agl'infedeli la Sicilia; ricevé promessa che avrebbero difeso terre e diritti di San Pietro e dato tributo per quanto essi possedevano della Chiesa. Non è ben chiara la natura di questa concessione, né il fondamento sul quale il pontefice la poggiava. In ogni modo era sempre un suo sostituirsi all'imperatore. Essendo in secolare dissidio con l'Oriente cercò e parve trovasse nei Normanni un valido ausiliario; non sicuro dei futuri rapporti con l'impero d'Occidente, staccò i Normanni dal suo vassallaggio, troncò il legame che si era stretto fra impero e regno da una parte, Mezzogiorno d'Italia dall'altra. I Normanni dal canto loro, dopo aver acquistato rinomanza e credito combattendo vittoriosamente Leone IX, altro maggiore ne acquistarono procurandosi il riconoscimento e, per il momento, l'amicizia del successore, migliorando i loro rapporti coi vescovi e col potentissimo Montecassino. Essi potevano ormai presentarsi come investiti d'una missione religiosa contro gl'infedeli. Cominciava il fatto a mutarsi in diritto e il diritto a penetrare nella coscienza dei popoli. In quegli stessi anni, anche i Normanni di Normandia, inalberando stendardo papale, conquistavano l'Inghilterra. E anche questo accrebbe negli Altavilla e loro compagni la fiducia, negli Italiani del Mezzogiorno il sentimento quasi di una fatalità o divino volere, a servizio di quel popolo.
Ma erano, questi rapporti fra la S. Sede e i Normanni, soggetti a oscillazioni continue, per il misto di fiducia e di sospetto che ispirava la Santa Sede nei rapporti con i conquistatori. Oggi transazioni e accordi, più o meno di buona o mala voglia; ma se domani Normanni Drengot e Normanni Altavilla erano discordi, o i minori capi investiti delle città pugliesi e le altre città che pure avevano giurato fedeltà al Guiscardo insorgevano contro di lui, la curia era tentata di approfittare di quella discordia, di parteggiare per quei ribelli. Non si trattava solo, per la S. Sede, di conservare e ottenere possessi e diritti nel sud, di fronte agl'invadenti Normanni, ma anche di difendersi dai Normanni stessi che cominciavano dal sud a premere verso il nord. Investiti dei ducati di Spoleto e Fermo, essi erano penetrati anche nell'Abruzzo e ormai quasi circuivano il ducato romano. Non bene chiari i disegni di Riccardo di Capua; forse grandi le sue ambizioni. Giungere a Roma? All'impero? Certo, il nuovo papa Alessandro II ebbe con lui querele, gli spinse contro Goffredo di Toscana, lo costrinse a chieder pace rinnovando l'omaggio e la fedeltà. E tuttavia le ragioni della solidarietà permanevano sempre, accanto alle altre e opposte. Nel 1071, Roberto il Guiscardo aveva conchiuso la lunga guerra con Bisanzio, espugnando Bari, ultima città rimasta ai Bizantini. Era una vittoria delle armi normanne, ma anche della Chiesa romana, che per secoli aveva, con Montecassino, ispirato, spesso capeggiato, l'opposizione a Bisanzio. Da allora in poi fu un continuo progresso del cattolicesimo e del clero latino e dell'influenza romana nel sud, un continuo regresso del cattolicesimo e del clero greco e dell'influenza bizantina. Avvenimento memorabile nella storia dell'Italia e dell'Europa, nel secolo stesso in cui la riforma metteva il papato contro gl'imperatori tedeschi, e le città del regno e i Normanni stessi cominciavano a operare come forza antitedesca. Il confine fra mondo greco e mondo latino era diventato quanto mai incerto e oscillante nell'Italia meridionale. La vittoria dei Normanni e di Roma lo fissa stabilmente, portandolo all'Adriatico e allo Ionio. Né tutto si limitò all'espulsione dei Bizantini. Nel 1061 si era iniziata la conquista della Sicilia. In dieci anni, essa era quasi compiuta. Negli stessi mesi che Roberto il Guiscardo prendeva Bari, il fratello Ruggiero prendeva Palermo. Anche qui fu ricuperato un territorio perduto e la cristianità e l'Europa creavano una più salda frontiera verso il mondo islamico. Ma intanto il Mezzogiorno si veniva unificando politicamente, per la prevalenza di una delle tante forze che vi tenevano il campo: prima Greci e Longobardi; poi anche Saraceni; poi anche impero franco e impero germanico e papi, da Giovanni VIII in poi, in base a titoli varî di diritto, falsi e genuini; e anche città, viventi fra principato e repubblica aristocratica; in ultimo, i Normanni, specialmente quelli che si raccoglievano attorno agli Altavilla. E allora, i motivi di contrasto tra la Santa Sede e i Normanni cominciarono a prevalere. Non passò molto tempo dopo la presa di Bari, e gli Altavilla si trovarono di fronte a una vasta coalizione: conti normanni di Puglia, Gisulfo principe longobardo di Salerno, Riccardo signore normanno di Capua, città pugliesi che rodevano il freno e ormai vedevano i Normanni prendere il posto dei Bizantini e mettere in pericolo ancor maggiore le loro autonomie. La Puglia andò nuovamente in fiamme. Ascese allora al pontificato Ildebrando: Gregorio VII, anno 1073. Ed egli prese la direzione della lega, proprio mentre s' intorbidavano sempre più i rapporti col giovane Enrico IV di Germania. Perciò Gregorio fece nel sud una politica di accorgimenti, di astuzie: per quanto a taluni sia apparsa non del tutto chiara. Trattò con Roberto e trattò coi suoi nemici; ebbe riconoscimento di vassallaggio dal principe di Benevento, e prese in protezione, contro di lui, la comunità beneventana, dando inizio al dominio della Santa Sede su Benevento. Abboccatosi col Guiscardo, si urtarono ancora di più. Si ravvivò la coalizione, e il papa stesso si recò al campo: ma l'esercito si sbandò.
Lotta per le investiture e organizzazione delle nuove forze italiane. - Gregorio si trovò presto a dover fronteggiare con maggiore impegno le cose del nord, quelle per le quali i monaci e il partito della riforma da decennî battagliavano, il popolo ormai si appassionava andando anche oltre il segno, la cristianità tutta variamente si risentiva. Il vasto problema, che da principio era stato sentito specialmente come problema morale, si veniva concretando in una serie di problemi giuridico-politici e patrimoniali che, pur avendo a centro imperatore e papa, interessavano, per il loro contenuto ideale e pratico, tutti: laici e chierici, signori e popolo, contadini e cittadini, gente di ogni paese. Ma in modo speciale Germania e Italia, che erano i regni dove più era avvenuto il trapasso di beni e funzioni temporali a vescovi e chierici, dove la promiscuità del sacro e del profano era maggiore; l'Italia più ancora che la Germania, perché in Italia quel trapasso era stato massimo e lì più grande era l'azione del pontificato, più vivo, nel tempo stesso era il fermento religioso e più ricca d'impulsi di rinnovamento la vita civile. Gregorio portò nella lotta insieme l'ideale dei monaci e quello politico-chiesastico che rispondeva alla tradizione, variamente viva ma non mai spenta, della Chiesa romana, da Gregorio I in poi. Voleva distrigare e liberare persone e beni della Chiesa dal groviglio in cui si erano coinvolti e quasi smarriti, dare al clero una disciplina, un costume, una cultura veramente chiericale, rivendicare la piena indipendenza della S. Sede dall'Impero, subordinare a sé tutta la gerarchia e dare unità piena, organica, morale e gerarchica alla Chiesa. Questo programma non era solo separazione, ma coinvolgeva il concetto d'una superiorità assoluta delle cose sacre sulle profane, del chiericato sul laicato, della Chiesa sullo Stato, del papa sull'imperatore: concetto più volte enunciato; ora, affermato con nuovo vigore e nuova coerenza, in vista di una sua pratica attuazione. Appena asceso al pontificato, Gregorio prese provvedimenti, enunciò pensieri e propositi che rivelavano chiaramente come ormai il papato non solo avesse preso in mano esso, togliendola all'impero, l'iniziativa della riforma, ma come l'avesse rivolta contro l'impero. E poiché Enrico IV si oppose energicamente a Gregorio, Gregorio minacciò la scomunica se l'altro non sottostava alle sue volontà. Fu il principio dell'aperta lotta.
In essa si trovarono impegnate le alte gerarchie secolari o ecclesiastiche e anche il popolo, la grande folla anonima, prima non mai vista, dei piccoli vassalli, dei borghesi, dei minuti lavoratori, dei contadini. La vita intellettuale e la cultura ebbero un potente stimolo: discussioni, polemiche, passione di chiarire e approfondire questioni di ogni genere. Sfavillò più vivo il sentimento religioso, che veniva da tempo approfondendosi e diventando operoso nella vita civile. E volle dire, anche, più viva coscienza nei fedeli di essere parte attiva della Chiesa, di avervi diritti oltre che doveri. I laici presunsero anche farsi giudici dei chierici. E in quanto i chierici non assolvevano i loro doveri, non si adeguavano alle nuove prescrizioni, vivevano nel secolo ecc., i laici li rinnegavano e rinnegavano i sacramenti da essi amministrati, rivendicavano a sé persino l'esercizio di certe attività sacerdotali. Eresia e ortodossia romana per un momento si confusero: e il patarinismo delle città lombarde, specie di Milano, fu il massimo dell'adesione a monaci e papi riformatori e il massimo di quella insurrezione contro monaci e preti concubinarî simoniaci dissipatori che, già allora collegata a qualche vena di vecchia eresia circolante sotterra, sfocierà poi nelle eresie dei secoli XII e XIII.
Con tutto ciò, il movimento riformatore e la lotta per le investiture s'inserivano a pieno nella storia politico-sociale dei ceti minori in via di ascesa. In quanto quel movimento tendeva a ristabilire la disciplina chiesastica, le prescrizioni canoniche circa la designazione del clero e l'amministrazione dei beni ecclesiastici, in quanto voleva liberare persone e sostanze delle chiese dallo sfruttamento dei principi e dell'aristocrazia, andava incontro ad aspirazioni non solo religiose ma civili ed economiche di cittadinanze e di popolazioni rurali. La lunga lotta, in quanto scosse la gerarchia ecclesiastica, scosse anche la gerarchia politica, coincidente spesso con quella. Il contrasto fra i due partiti, pro e contra la riforma, si risolse in incoraggiamento a vassalli e contadini contro signori e padroni: furono sciolti i sudditi dal giuramento di fedeltà al sovrano. Gli scrittori curialisti videro nel regno e impero un ufficio, con doveri oltre che diritti; non dissimularono le loro simpatie per l'elettività al posto della ereditarietà; proclamarono che nel rapporto fra sudditi e sovrani era un contratto, un patto; e riconobbero al popolo il diritto d'insorgere contro il principe violatore di quel patto e privarlo del trono; affermarono il pieno diritto di reagire alle leggi ingiuste. La società italiana era in quel momento calda, recettiva, plasmabile quanto mai. Era già di per sé agitata da fermenti rivoluzionarî; altri ne aggiunsero gli avvenimenti chiesastico-religiosi del tempo. In particolar modo agì rivoluzionariamente il partito della riforma.
Comunque, fitto intreccio di avvenimenti varî, singolari coincidenze cronologiche, che fanno della lotta delle investiture, della definitiva conquista del sud da parte dei Normanni, del rapido emergere delle autonomie cittadine, quasi una sola storia. Nel 1075, l'anno del divieto sinodale ai laici di fare investiture, l'anno della minaccia di scomunica a Enrico IV, Amalfi, per sfuggire a Gisulfo di Salerno che l'assediava, si dà al Guiscardo. Non passa molto e il Guiscardo, conciliatosi coi Normanni di Capua, aiutato da navi napoletane e amalfitane, moralmente sostenuto dal re di Germania, assedia Salerno (maggio '76) e prima costringe alla resa la città, poi la rocca, dove Gisulfo II si è rifugiato. Altro principato longobardo che cade, dopo qualche decennio di effimera luce che era di tramonto, dopo acerrima resistenza a cui anche la popolazione partecipò. Nello stesso anno 1076, scomunica papale a Enrico e, durante l'inverno, Canossa. Fortune del Guiscardo e umiliazioni dell'impero procedono insieme, anche se, in quel momento, certa solidarietà li stringe di fronte a papa Gregorio. Ma nessun dubbio che il Normanno si giovava di questo volgersi del papa alle cose del nord. Nel novembre 1077, muore senza figli Landolfo VI di Benevento. E subito il Guiscardo è sotto Benevento. Mirabile la resistenza. Gregorio VII promosse allora una lega antinormanna, che ebbe qualehe successo iniziale, anche perché il Guiscardo dové attendere alle cose di Calabria. Ma i suoi vassalli proseguirono a corrodere il territorio beneventano. Fino a che, nel 1080, nuova rottura del papa con l'imperatore e nuova scomunica; insurrezione dei vescovi tedeschi contro Gregorio per amore d'indipendenza; concilio di Brescia con la presenza del re e scomunica e deposizione di Gregorio ed elezione dell'antipapa Giberto arcivescovo di Ravenna. E allora Gregorio VII e signore normanno si conciliarono e si allearono col trattato di Ceprano, per cui questi rinnovava gl'impegni precedenti verso la Chiesa, quegli riconosceva al Guiscardo le terre che già aveva e il principato beneventano, tenendo per sé la città. Fine della Longobardia meridionale. Altro colpo a quel che di longobardo rimaneva nel diritto, nelle consuetudini, nelle tradizioni, nella forza di certi gruppi sociali: sebbene nel sud questi elementi di vita longobarda avessero ancora molta forza di resistenza. Negli stessi anni si compiva la conquista della Sicilia; il 1091 cadeva, ultimo baluardo, Noto. Ormai l'isola è sicuro possesso nelle mani di Ruggiero e discendenti suoi: più forse che non Puglia e Calabria, nelle mani del Guiscardo e suoi discendenti. Terra d'infedeli, la Sicilia, era stata anche terra di conquista, nel vero senso della parola. Non si doveva fare i conti o transigere con nessuno. La religione era arma potente, a sussidio delle altre armi, nelle mani dei conquistatori. Laddove in terraferma, i Normanni avevano avuto e ancora avevano a che fare con gli antichi compagni divenuti conti e feudatarî potenti; non erano sicuri né dei Bizantini, che avevano ancora qualche radice nel sud, né dei pontefici, ondeggianti fra solidarietà e contrasto; né delle città stesse, longobarde, pugliesi, calabresi, campane, dipendenti direttamente dal Guiscardo o concesse ad altri. Esse hanno giurato tutte obbedienza e fedeltà; ma hanno tutte, anche, un loro grado di autonomia, che il signore ha, da parte sua, giurato: esse tenute a lui, lui ad esse. In questi primi tempi, ogni momento, uno strattone: e le città rompono la cavezza. Nel 1073 Trani, nel 1079 Bari, nel 1083 Troia e Canne: tutte riassoggettate. La sospirata espulsione dei Bizantini le ha isolate di fronte al nuovo signore. Morto Roberto nel 1085, altre insurrezioni di città e di signori locali: quasi un principio di dissolvimento del ducato di Puglia. Di fronte a una situazione locale come questa, accade che la S. Sede sia tentata spesso di parteggiare per i ribelli: come farà in seguito. Ma la situazione generale consigliava ad essa, dopo la pace del 1080, di mantenersi in buone relazioni coi Normanni. Erano la forza più salda del sud. Erano, sulla scena del Mezzogiorno, i protagonisti. E ciò permise ai Normanni di svolgere liberamente il loro giuoco, di badare alle cose del sud, e insieme dare aiuto ai pontefici, nell'interesse proprio oltre che loro, contro Enrico IV ed Enrico V e contro i loro antipapi. Né erano aiuti gratuiti. Pasquale II investì Guglielmo normanno, figlio di Roberto, della Puglia, Calabria, Sicilia. Callisto II confermò. Gran beneficio fu pure, per i Normanni, che l'impero fosse così gravemente impegnato con i suoi Tedeschi, col papa, con le città italiane. Si ebbe la fine degl'interventi imperiali nel sud, dopo Enrico III. Scompariva dal sud l'impero di Oriente, e, per oltre un secolo, quello d'Occidente.
Invece questa stessa situazione fu, nel nord e nel centro, favorevole alle città. Qui, sono esse le protagoniste o, quanto meno, importanti comprimarie: come nella Tuscia. La lotta per le investiture le trovò parte in causa, ed esse s'inserirono nel vivo della lotta, furono anch'esse, e, spesso, più di altri, il partito della riforma o il partito imperiale, e oggi l'uno domani l'altro partito. Le città videro i loro vescovi ora colpiti dal papa ora dall'imperatore, ciò che significava lacerazione di legami anche tra vescovi e città, stimolo e occasione di cittadinanze a far da sé. Motivi locali e contingenti determinavano questo vario parteggiare delle città per papi e imperatori: come poteva essere il prevalere in esse dell'uno o dell'altro partito, oppure l'atteggiamento di altra e non amica città. Ma questi motivi già accennavano a consolidarsi, in rispondenza di vecchi e latenti antagonismi, di nuove rivalità mercantili. Non pochi diplomi, a riconoscimento di diritti e privilegi, diedero in questi anni gl'imperatori alle città. Ma anche dai papi vennero alle città atti di favore. Così, per citare un esempio, Pisa, il cui vescovo ebbe dal pontefice dignità di legato papale e poi diritti metropolitani sui vescovi sardi e corsi, in piena rispondenza con gl'interessi politici della città. Ciò che non tolse a Pisa di accattare o accettar favori anche da Enrico IV. Nella lotta esterna e interna la personalità della città come tale emerse, si sviluppò lo spirito associativo, si fecero frequentissime le occasioni di agire come corpo costituito, si consolidarono le nuove gerarchie o le vecchie mutarono un po' natura, allentarono la dipendenza dai vecchi signori, presero più il carattere di emanazione della cittadinanza. Si ebbero le prime guerre fra città e città. E le prime alleanze fra città: anche contro l'imperatore. E dentro le città, lotte armate di partiti e anche aggruppamenti di famiglie e gruppi sociali, "patti", "concordie", "compagnie", coniurationes, che possono essere considerate principio di un ordine politico sostanzialmente nuovo, pur essendo esso innestato su altro precedente e mancando nei contemporanei la coscienza di un distacco dal passato. Si accentuò, nella pratica notarile, l'uso, già invalso verso la metà del sec. XI di non datare più le carte dagli anni di regno dell'imperatore. Crebbe il numero delle città che battevano moneta o intitolavano da sé la moneta. Alcune di esse iniziarono proprio ora la costruzione di nuove mura; oppure di una nuova e più grande e adorna cattedrale, centro di vita non solo religiosa ma anche civile.
A questo punto, fine del sec. XI e principio del XII, possiamo considerare già costituiti, nel quadro delle antiche città e sul fondamento di ordini forse non mai caduti, i comuni.
Sono essi momento conclusivo di una lunga evoluzione politico-sociale ed economica, assai intensa negli ultimi due secoli, che ha dato vita a nuovi elementi sociali cittadini e tratto verso la città forze del mezzano mondo campagnolo e feudale; ha messo i vescovi al governo delle città o in alta posizione politica, oltre che economica e feudale, nelle città stesse; ha con ciò promosso la formazione di nuovi gruppi dirigenti e più libero moto di cittadinanze; ha creato nuove consuetudini di diritto privato e pubblico, nuovi vincoli di solidarietà entro determinati gruppi e nuove e più varie forme associative; ha individuato la città nel mondo feudale circostante e, nel tempo stesso, l'ha più strettamente e organicamente collegata con esso, rendendone possibile l'ulteriore sviluppo. Molta incertezza regna ancora sui modi come il comune si costituì, sui rapporti che ebbe col vecchio ordinamento e su quel che è fatto, specificamente nuovo, sulla natura della giurisdizione che i suoi capi da principio esercitarono, sull'ampiezza sua e sui ceti o gruppi che entrarono originariamete a costituirlo: ceto feudale, assai legato al vescovo; nuova borghesia di mercatores; artigianato. Pur con questa incertezza, il comune ci si presenta da principio come un'associazione essenzialmente volontaria, temporanea, determinato o no che ne fosse il termine di durata nell'atto del suo costituirsi; associazione assai ristretta, il cui nucleo centrale è costituito dalle molte famiglie dei vicedomini, dei vicecomiti, degli avvocati, di quanti hanno avuto unci e benefici dai vescovi e conti e chiese e monasteri e si sono appropriati, attraverso l'ereditarietà, gli uffici e benefici stessi e li gestiscono e sfruttano in comune. Essi reggono l'Opera del duomo, amministrano il vescovato in sede vacante, addestrano sulla cattedra il nuovo vescovo e gli son vicini in una quantità di atti giudiziarî e politici e amministrativi che riguardano vescovato e città. Strettissimo il rapporto fra chiesa e comune: e molti atti sono compiuti dall'ecclesia et comune civitatis, molte donazioni fatte alla chiesa e al comune insieme. Strettissimo, per conseguenza, anche il rapporto fra vescovi e consoli: i quali ultimi, inizialmente consules episcopi, quasi consiglieri del vescovo ed emananti dal vescovo più che dai cittadini, poi sempre più rappresentano il vero e proprio potere esecutivo del comune, operante più o meno a fianco del vescovo. Qualunque sia il significato e l'origine della parola, il consolato appare anch'esso costituito fra il sec. XI e il XII, e certo in stretta connessione col costituirsi dell'associazione giurata che si chiama comune. Nello stesso tempo, il piccolo organismo iniziale del comune si dilatava, accoglieva elementi sociali nuovi, liberamente aderenti all'associazione o costretti, accentuava il suo carattere pubblico e moltiplicava le sue iniziative d'interesse generale o destinate a ripercuotersi su tutta la compagine della città e del suo immediato territorio. Si costituiva una finanza comunale che aveva il suo nocciolo nella preesistente organizzazione finanziaria cittadina, fondata sull'obbligo del contributo alle spese e alle opere d'interesse della città; una giustizia del comune, sempre più estesa al campo penale; un territorio del comune, che presto va oltre l'originario piccolo distretto, rimasto collegato con la città. Permaneva certo ricordo, tenuto desto dalla diocesi e dal comitato, di un antico più grande territorio municipale, e certa coscienza di un diritto della città su di esso. Ora, questo ricordo e questa coscienza, insieme con i nuovi interessi unitarî creati dallo spostarsi di tanti signori e vassalli del contado verso la città, sollecitano lo sforzo dei comuni di dettare legge sul contado. Era il contado, già unità di diritto pubblico, ridotto in frammenti. Se lo dividevano vescovato e chiese cittadine, monasteri, famiglie comitali cresciute sul ceppo dell'originario conte, una miriade di piccole consorterie nobilesche,. milites o "cattani" o "lombardi", ecc., annidati nei loro castelli: tutti, con esenzioni fiscali e giudiziarie; con diritti di pedaggio, ripatico, mercato, ecc., con giurisdizioni varie. E ora, sempre più, anche comunità rurali e comunità di castelli, quelle fatte solo di contadini, queste di castellani e contadini, distintamente organizzati ma formanti poi unità, gli uni e gli altri rappresentati all'assemblea dei "vicini" da proprî consoli. Fatto nuovo, anche questa organizzazione comunale delle campagne. Nuovo e fondamentalmente spontaneo: sebbene anch'esso germogli sopra tradizioni e consuetudini antiche, romane o preromane, cristiane e chiesastiche, germaniche e feudali. Entro questo mondo contadinesco in frantumi si gettano ora le città, dopo assorbito il suburbio. Comincia così a ricostituirsi quel legame antico fra centro urbano e territorio, che dal secolo IX al XI, col progressivo loro differenziarsi giuridico e sociale, si era spezzato. Le città, contrattesi nel periodo barbarico entro le mura, prendevano un nuovo slancio che le riportava ai limiti dell'antica provincia romana e faceva di tutto il contado un loro districtus. Di qui anche lotte fra città o comuni, oltre e dopo che fra città e signori.
Questo nuovo ordine politico delle città, si verificava pure mentre il regno, in persona dei re e imperatori di Franconia, faceva grandi sforzi per sostenersi di fronte ai papi e alle tendenze centrifughe dell'episcopato, rese più gagliarde dalla riforma. E si sa che, in quegli anni agitatissimi, Enrico IV, o che si sentisse malsicuro nella Valle Padana o volesse dare maggior prestigio al regno, tentò, dopo presa Roma, di costituire anche lì una sede regia, con una cassa centrale, amministratori, cura di chiese e strade e ponti. Dopo andata in frantumi l'Italia greca, anzi proprio quando parte di essa cominciava a ricomporsi in nuova unità, ecco è la volta dell'Italia longobarda, dell'Italia regia. Le forze di dissoluzione ora non sono più i grandi organismi feudali, ma le città: le quali, come minano alle fondamenta il regno, così le marche. Si dissolvono la marca di Verona, quella di Liguria, quella d'Ivrea, quella di Torino; ancora più e prima di tutte, quella di Toscana, ove concorsero non solo il potente slancio autonomistico di città come Pisa e Lucca e poi Firenze e Siena, ma anche l'estinzione dei Canossa, in un momento in cui ormai non era più possibile sostituire a un casato un altro. E fu, pur mentre la questione delle investiture era sempre aperta, l'inizio di nuove complicazioni, per la ricchissima eredità matildina, fatta di beni allodiali e di beni feudali, disseminati dal Mincio all'Ombrone, rivendicata tanto dall'imperatore, come imperatore e parente dei Canossa, quanto dai papi, in virtù di un'altra di quelle donazioni d'incerta genuinità ed estensione che venivano riempiendo gli archivî della S. Sede.
Il corso delle cose volgeva dunque in modo assai diverso per il nord e centro d'Italia e per il Mezzogiorno. Vi fu veramente qualche decennio in cui anche nel Mezzogiorno, scomparse le vecchie forze politiche - dominio greco e principati longobardi -, ancora malferma la nuova forza dei Normanni, le città, che laggiù erano egualmente in sul crescere, e i feudatarî, costituitisi un po' per spontanea evoluzione del possesso fondiario indigeno, un po' per influsso normanno, tennero il campo con certa energia e misero in pericolo il potere ducale. Qualche incoraggiamento veniva a loro anche da Roma, non ostante la dipendenza feudale dei Normanni dalla Santa Sede. Con Onorio II (1124-30), anzi, il papato, che ora si sentiva più sicuro dalla parte del nord, parve ritornare ai tempi di Leone IX. Era morto nel 1127 il giovane duca Guglielmo II, ultimo discendente diretto di Roberto. Incerta era la successione; non chiari i diritti del conte Ruggiero di Sicilia, figlio del primo Ruggiero conquistatore dell'isola; città e baroni in subbuglio. Su questo fuoco, soffiò Onorio. Che l'edificio normanno dovesse crollare? Che il sud dovesse prendere il volto del nord, essere anche esso Italia comunale e Italia feudale? Ciò non fu; e forse non poteva essere, per ragioni intrinseche alla vita del Mezzogiorno. Ma non fu, e questo è certo, perché i principi normanni deviarono ancor più la storia del Mezzogiorno da quella strada su cui tutta la vita italiana, con decisione maggiore o minore, si veniva mettendo coi secoli X e XI. Ecco Ruggiero conquistatore della Sicilia. Ecco, con una sua funzione di protagonista, la Sicilia. Essa, tolta con la forza agl'infedeli, era veramente in pieno dominio dei Normanni, ne costituiva la solida base. Per cui, quando il sud d'Italia è conteso fra città, signori, pontefice, Ruggiero può intraprendere una serie di campagne per raccogliere l'eredità del morto congiunto. Dura impresa, questa di Ruggiero. Egli chiede al papa l'investitura ma ne ha la scomunica. Il papa, anzi, prende in sua protezione qualcuna di quelle città (Otranto). Ormai è chiara questa spiegata politica papale a favore delle autonomie cittadine del sud, destinata a culminare durante le lotte contro Federico II: che era poi politica contro qualunque forte potere centrale. Di fronte allo stato, la chiesa, come rivendicava le sue "libertà", così anche esaltava le "libertà e municipali. Questa politica ebbe la sua efficacia in qualche paese, come l'Inghilterra, nell'aiutare il nascimento dei parlamenti e del regime costituzionale; in altri, come nel sud, l'ebbe nel rendere inquieta e malferma la vita del regno, pur senza impedire che il regno si costituisse. Poiché Ruggiero, dopo i primi insuccessi, rifornitosi in Sicilia di armi e di uomini, trionfò. Con gli accordi conchiusi il 22 agosto 1128, Ruggiero ottenne da Onorio l'investitura anche del ducato di Puglia e Calabria. Dopo di che, le città e i signori cedettero. E nel settembre 1129, curia generale a Melfi.
Come si viene tessendo l'unità morale della penisola. - Tuttavia, pur mentre l'Italia regia si risolveva nei municipî, e il sud prendeva un suo proprio volto monarchico, e assai s'indeboliva quella forza di unità rappresentata nel nord e un po' anche nel sud dal regno, che era creazione degl'invasori germanici; si avvertivano segni crescenti di unità morale, rigermogliante sopra il comune fondo romano, cristiano e germanico.
Non solo si era ricostituita l'unità religiosa, dopo espulsi o convertiti i Saraceni di Sicilia, dopo cessato il dominio dei Bizantini e arrestato il progresso del loro rito e del loro clero e ravvicinate a Roma la Calabria e la Terra d'Otranto; ma affioravano anche elementi comuni di cultura, più veramente proprî e caratteristici delle genti della penisola. Si veniva formando una lingua romanica o volgare, che era la lingua parlata in generale già nel sec. X e ora cominciava a sprizzare visibilmente dal sottile involucro del latino dei documenti, non più capace di contenerla. Non meno visibile e significativa, dall'undecimo secolo in poi, una fioritura architettonica che si esprime in forme affini, in ogni regione, della Lombardia alla Puglia. È l'arte romanica. E insieme, diritto romano che potentemente ritorna, nelle cose stesse prima e più ancora che negli studî. E non è solo inconscio rinascere del diritto romano, immedesimato nella vita: ma anche studio di esso. Non era stato mai interrotto, anche nei centri di diritto longobardo, Pavia o Benevento, utile essendo esso all'elaborazione dello stesso diritto longobardo oltre che a quella del diritto della chiesa. Ora, dopo Pavia, dopo Benevento, dopo Ravenna e Roma e Pisa, si avanza Bologna con Irnerio, quasi fondatore di quello studio. Insomma, il nome, l'immagine di Roma si fanno ogni giorno più grandi: Roma libertà, Roma grandezza, Roma impero, Roma diritto e ordine. Essa aveva preparato la renovatio imperii dei secoli X e XI; ora accompagna gli ulteriori progressi della società italiana e il nuovo ordine politico. Di fronte al partito papale che tendeva a svalutare la Roma profana, la Roma imperiale, contrapponendo ad essa la Roma dei martiri e confessori, abbeverata e fecondata dal loro sangue, ora il nascente laicato, le città, specie le maggiori, si richiamano anche alla Roma profana, alla città di Roma. Si hanno, a Roma e fuori, notizie di un interesse grande per gli antichi monumenti e anche per la storia dell'urbe, soprattutto dalle origini.
È un fatto quasi generale, nell'Europa romano-germanica e anche oltre, questo riemergere di Roma, passata la fase delle invasioni, della sovrapposizione delle genti germaniche a quelle romane o romanizzate, del mescolamento delle stirpi: come che Roma potesse fornire il modello e l'esempio al più consapevole sforzo creativo di una nuova civiltà, che ora comincia. Ma è fatto specialmente italiano. Esso si spiega anche, in Italia, come reazione all'attività dei Tedeschi, da Ottone I in poi: attività politico-militare di re e imperatori; politico-chiesastica di vescovi tedeschi messi sulle cattedre italiane. La lotta per le investiture rese più frequente e intensa tale attività; mise ancor più le cittadinanze aderenti al partito della riforma contro quei vescovi, imposti dall'alto e non eletti canonicamente a clero e popolo. Quindi, un frequente urto che eccitò anche, dalle due parti, lo spirito nazionale, diede qualche impulso alla nascente coscienza nazionale, cioè mise di fronte Tedeschi e Italiani come tali. I Tedeschi cominciano, durante quelle lotte chiesastico-politiche, a stringersi all'impero come a cosa propria e a vedere nel papato una istituzione di Latini, d'Italiani. Roma, da parte sua, per bocca di Gregorio e, poi del successore, identifica, nei momenti di lotta, impero e Tedeschi, rievoca di fronte a questi il ricordo dei Germani antichi e delle antiche offese, alimenta negl'Italiani il senso della loro individualità nazionale e dei comuni interessi di fronte agli altri.
Sono da segnalare anche, in questo tempo, un movimento, uno scambio d'influenze varie, una vita di relazione che si fanno sempre più intensi dentro la penisola. Dalla Romagna qualcosa passa alla Toscana. in fatto d'istituti giuridici e di magistrature. Il Mezzogiorno bizantino dà al nord testi di diritto ed elementi varî di cultura: e la leggenda delle Pandette ritrovate ad Amalfi e portate a Pisa, donde sarebbe risorto lo studio del diritto romano, deve pur avere un significato. I consoli, che una lettera di Gregorio VII constata in Corsica, potrebbero essere una importazione pisana, come poi le belle chiese policrome che nel sec. XII cominciano a sorgere nelle due isole. Se da Bologna la nuova scuola del diritto irraggia di già a mezzo il sec. XII la sua azione su buona parte d'Italia, anche dalla corte dei re normanni, a Palermo, si spandono influenze letterarie e scientifiche. Non meno visibile la circolazione delle attività pratiche entro la penisola: si tratti di cavalieri lombardi che si mescolano nella guerriglia meridionale del sec. XI; si tratti di Pisani e Genovesi che costituiscono i primi loro stanziamenti nelle città marittime della Sicilia, punto d'appoggio importante per i traffici con l'Oriente e l'Africa settentrionale o che promuovono il sorgere di nuovi castelli e centri abitati in Sardegna. Certo, la rivoluzione politica s'accompagna a un più libero movimento di attività e d'interessi, a un più libero moto di uomini e di attività dall'una all'altra regione della penisola.
E anche dalla penisola verso il di fuori. Nella seconda metà del secolo XI, la frequenza dei mercanti italiani in Francia doveva essere molto cresciuta. Verso la Germania, nuove strade alpine cominciano ad aprirsi nel sec. XII. Maestri costruttori e tagliapietre già sciamano verso i paesi di Francia e di Germania e più lontano ancora: come, fra il sec. X e XI, Guglielmo da Vulpiano che si mette in viaggio per la Borgogna, capeggiando una piccola spedizione di cui fanno parte uomini litteris bene ruditi e uomini diversorum operum magisterio docti. L'Oriente e l'Africa settentrionale, finora battuti solo da Veneziani, Amalfitani e altri Italiani del sud, ora si popolano anche di Toscani e di Liguri. Le loro spedizioni navali verso quei paesi nel corso del sec. XI, aggiunte alle altre compiute in Sardegna e Corsica, segnano dopo la frammentaria ma efficace e qualche volta vittoriosa resistenza dei Campani, dei Calabresi, dei Pugliesi contro gl'infedeli nei due secoli precedenti, il maggiore sforzo di reazione degl'Italiani per la riconquista del dominio del Mediterraneo, già padroneggiato dagli Arabi: sforzo che precede e prepara le crociate. Sono certamente imprese a fondo economico-mercantile. Anche fini politici e territoriali si proposero invece i Normanni, nei paesi prospicienti la Puglia e la Sicilia. Non avevano ancora gli ultimi rappresentanti del dominio greco e arabo abbandonato le terre del Mezzogiorno, e già Roberto il Guiscardo mirava ai Balcani, e oltre. Ed è del 1081 la prima spedizione in Albania. Contemporaneamente Ruggiero puntava su Malta e Gozo e le toglieva agli Arabi, preparando più lontane conquiste africane. Città del nord e Normanni, con fini più da mercanti quelle, più da conquistatori questi, parteciparono poi alla prima crociata. E le une accrebbero i loro commerci e costituirono nuovi nuclei coloniali, ordinati come la madrepatria; gli altri acquistarono terre e giurisdizioni feudali, a gara con i baroni francesi. Non passarono molti anni, e una grande spedizione pisana mosse verso le Baleari. Egualmente, Italiani di varie regioni si trovavano presenti in Spagna, nel sec. XII, durante le lotte dei cristiani contro gli Arabi: presenti come soldati, piloti, artieri, costruttori di macchine da guerra, mercanti. I Genovesi erano ormai chiaramente orientati verso quella direzione.
Insomma, la penisola ricomincia a essere centro di azione capace d'irraggiare attorno. Né solo azione papale e chiesastica, segnata non poco di romanità; ma anche economica e artistica, politica e militare; anche di cultura vera e propria (si ricordino nei secoli X e XI Gunzone, Lanfranco di Pavia, Anselmo d'Aosta, ecc., per citare solo quelli che esplicano fuori della penisola, in tutto o in parte, la loro attività): sebbene questi non siano ancora, in Italia, tempi di cultura eminente. Comunque, questa azione, come porta impressi certi segni comuni, così concorre a rafforzare gli elementi comuni della vita italiana, ad alimentare negli Italiani quel sentimento di unità morale che ad essi veniva anche dai ricordi di Roma e dall'ormai comune patrimonio della rinascente cultura.
L'inizio dell'età comunale.
Regno normanno e comuni. - Per parecchi decennî, questo vasto mutamento, quasi rivoluzione, compiutosi nella penisola dallo Ionio alle Alpi, non trovò serî ostacoli da parte del regno e dell'impero. Nessun serio tentativo d'impedire la conquista normanna, né la ormai troppo autonoma vita delle città a danno dei diritti del principe, né la vasta usurpazione che città e castelli e signorotti feudali venivano facendo della grande eredità matildina. In Germania, vi è conflitto per il regno che Lotario e Corrado si contendono. Vi è una discesa di Corrado in Italia, il quale si fa incoronare re a Monza (1128) come successore di Enrico V, cerca di rimettere le mani sui beni di Matilde, tenta una spedizione su Roma. Altro e maggiore intervento di Lotario, qualche anno dopo, anche per sollecitazione di papa Innocenzo II che rivendicava a sé il soglio pontificio, contro l'antipapa Anacleto II. Vi erano a Roma due potenti famiglie, i Frangipane e i Pierleoni; due partiti in contesa; ora, due papi (1130). Gl'italiani si divisero anch' essi, si divise l'Europa cristiana e cattolica. Tenne Lotario per Innocenzo, il quale, poi, costretto a fuggire da Roma, si recò prima, su navi pisane, in Francia, poi in Germania; tennero per Anacleto gli Svevi. Molti comuni, pure, seguirono Innocenzo; con Anacleto, invece, stette Ruggiero di Sicilia e Puglia. Il quale, inserendosi in questa contesa fra il papa e il pretendente, fra aspiranti alla corona d'Italia e all'impero, fra partigiani del papa e dell'antipapa, si fece da un inviato di Anacleto incoronare re a Palermo. Crollarono rapidamente, dopo l'incoronazione, le ultime resistenze meridionali alla monarchia.
Risorsero esse tuttavia, poco dopo, quando Lotario, chiamato da gravi interessi del regno e indotto da Innocenzo II, scese in Italia, giunse a Roma pur attraverso l'opposizione di molte città lombarde, e a Roma ebbe la corona imperiale (1133) e l'investitura dei beni matildini: che voleva significare anche un rapporto di vassallaggio dell'imperatore nei riguardi della S. Sede. Ma ritiratosi l'imperatore, il papa dové nuovamente fuggire a Pisa: donde incitò a più energica guerra contro Ruggiero. Contro Ruggiero si era formata una vasta coalizione in cui, col papa, entravano Lotario, i Pisani, le città pugliesi e campane, i baroni meridionali, persino i Greci, insomma, tutti gl'interessi italiani ed europei, vecchi e nuovi, soliti a contendersi il Mezzogiorno o, comunque, avversi al consolidarsi di quel regno. Tornò anche Lotario: e questa volta, senza troppi contrasti di città lombarde. Si spinsero insieme verso il sud. E qui investirono della Puglia Rainolfo, dei Normanni Drengot, giuocando sul non spento antagonismo fra le due casate e contrapponendo i minori ai maggiori. Nel luglio 1137, i due supremi gerarchi tennero gran corte a Melfi. Ma, interrotta l'impresa, Ruggiero ricomparve, ricuperò la Puglia, restaurò la fortuna del regno, non ostante che Innocenzo, nel concilio lateranense del 1139, lo scomunicasse ancora. In quel tempo, per di più, moriva Rainolfo. E allora il papa, rimasto senza speranze, piegò alla pace, riconobbe Ruggiero e lo investì di quanto possedeva, salvo Benevento che rimase alla S. Sede. Alle altre terre, il re aveva già aggiunto, per concessione di Anacleto, il principato di Capua, che era dei Normanni di Aversa ma si trovava ora in preda all'anarchia, e la città di Napoli che si governava con propria famiglia ducale. Ora Ruggiero assunse il suo titolo definitivo: "re di Sicilia, duca di Calabria e di Puglia". È la fine delle autonomie cittadine nel Mezzogiomo, sebbene persistano gli spiriti municipali, pronti a riprendere e scattare nelle crisi della monarchia, alla fine dei secoli XII e XIII.
L'opera iniziata dal Guiscardo e da Ruggiero è compiuta: meglio, bene avviata. Non tutto era solido in questo nuovo edificio. Quel baronato era sempre potente e infido. La Santa Sede vantava sempre diritti sul regno e, come aveva incoraggiato Benevento contro Pavia, così, ancor più, i baroni contro il re che risiedeva a Palermo. Tuttavia, si vide, per la prima volta dopo il 570, il potere politico di una vasta regione raccogliersi in una sola mano e raggiungere un grado d'indipendenza e libertà da interessi d'altri regni e paesi, quale non aveva mai avuta e neppure avrà più dopo i Normanni. Lo stato formò un corpo solo: prima avvicinamento di parti distinte, poi unità più organica. La feudalità trovò certa fermezza e un suo ordine, quale ci è indicato dal catalogo dei baroni, compilato fra il 1160 e il 1170. Gettò le sue basi, pur sopra un terreno preparato da Roma, da Bisanzio, dai Longobardi, dagli Arabi stessi, quel sentimento monarchico del Mezzogiorno che darà un suo carattere a tutta la storia della regione. Il nuovo edificio veniva sorgendo, essenzialmente, sopra le istituzioni premusulmane e prelongobarde, cioè su quelle romane modificate dal diritto bizantino. Anche il feudalesimo, i cui germi preesistevano ai Normanni (patronato, commendatio, immunità, ecc.) e a cui i Normanni diedero poi alimento di loro tradizioni e di loro uomini, fu legato e subordinato al re. Era lo stesso sforzo antifeudale con l'arma del diritto romano, che intanto nel centro e nel nord anche le città venivano compiendo: tratto comune, che avvicinava queste diverse parti d'Italia, pur così diversamente orientate quanto a istituzioni politiche.
Intanto, il movimento comunale progrediva; il nuovo ordine istituzionale si consolidava; nuovi ceti più bassi erano sollecitati a farsi innanzi e si accelerava l'affrancamento dei servi, contadini o artigiani che fossero; la campagna cominciava anch'essa a prendere un nuovo volto; comuni rurali a migliaia; valvassori e cattani e anche potenti signori, costretti a giurare il sequimentum communis; molti castelli demoliti. S'inasprivano i contrasti fra le città vicine: e già le più grandi, per nuova o per antica grandezza, ora restaurata, tendevano a circuire e assorbire ecclesiasticamente, economicamente, politicamente le più piccole. Anche le relazioni con i vescovi volgevano al peggio. All'antica solidarietà di fronte al mondo feudale extraurbano, sottentravano i dissidî, in quanto i vescovi erano concessionarî di diritti, giurisdizioni pubbliche, regalie, castelli, a cui ora pretendevano gli antichi vassalli, come singoli e come comune. Sono, a rigore, dissidî fra comuni e regno o impero, da cui i vescovi ripetevano quei diritti, e non di comuni e Chiesa, di Stato e Chiesa. Ma poiché erano in giuoco persone e beni e interessi chiesastici, che la dottrina curialista metteva sopra un alto piedestallo come cosa sacra e inviolabile, così poteva accadere che il fatto politico mettesse capo a complicazioni religiose o alimentasse preesistenti opposizioni religiose. Erano recenti le agitazioni popolaresche, ultra riformiste, che avevano accompagnato la riforma. E ancora i mistici, gl'infatuati di Chiesa primitiva e di Vangelo, gli insofferenti di ogni gerarchia, ecc., erano in attesa, seguitavano anzi a rampollare dal ricco sottosuolo della Chiesa, anzi della società medievale italiana; si facevano più folti i manipoli dei "catari" o puri, vecchia setta venuta dall'Oriente con un vario e consolidato bagaglio dogmatico, con negazione piena del mondo, con odio feroce per la Chiesa romana e per ogni sua potestà terrena. Nessun dubbio che il contatto con questi settarî potesse stimolare anche gli altri a dare una qualche elaborazione dogmatica alle proprie vaghe aspirazioni di riforma chiesastica e di più puro cristianesimo. E nessun dubbio, egualmente, che l'agitazione politica, in alcuni luoghi assai accesa e ostinata, a Cremona, a Piacenza, a Brescia, a Parma, a Reggio, a Vercelli, ecc., contro i vescovi conti, i vescovi guerrieri e giudici, i vescovi grandi signori, per rivendicare al comune indipendenza e giurisdizioni e regalie e castelli e moneta, s'incontrasse qua e là con la propaganda spicciola dei mistici e degli eretici o fosse spontaneamente pervasa e animata da certe loro esigenze; nel modo stesso che mistici ed eretici, operando in ambienti ricchi di motivi politici anticlericali, potevano assorbirli e fonderli con i proprî motivi religiosi, rinfocolando la propria passione. Tutto questo è fatto cattolico: ma più specialmente dei paesi di maggior progresso sociale e intellettuale e di più veementi contrasti e di più ricca vita cittadina, dai Paesi Bassi alla Provenza, dalla Renania alla Valle del Po, alla Toscana, all'Umbria, che sono appunto le regioni dove nel sec. XII serpeggiavano di più le nuove eresie, a fondo pratico e sentimentale da principio, poi anche dogmatico, che diventano movimento vasto e grave nella prima metà del '200. E in Italia, appunto, ci si presenta qualche singolare figura di riformatore chiesastico che inquadra la propria azione e le proprie speranze religiose entro la nuova società e cerca di promuoverla politicamente: Arnaldo da Brescia.
In Arnaldo, non si saprebbe dire se fosse più rappresentato l'ideale evangelico, che risponde anche ad esigenze della società laicale e dello stato; oppure la società laicale e lo stato che, lavorando a elevarsi, si sentono solidali con gli uomini spiritualmente religiosi e vogliono aiutare la Chiesa a liberarsi dai troppi pesi temporali. Certo, egli aveva davanti a sé la fantastica visione di una chiesa primitiva e, insieme, l'esempio di Roma antica e la nuova esperienza dello stato cittadino: per cui si mescolò alla rivoluzione cittadina di Roma, che nel 1144 creava dal nulla (secondo alcuni) o su avanzi superstiti (secondo altri) il comune, contro il pontefice e la nobiltà, e prendeva possesso del Campidoglio, volendo antiquam renovare dignitatem; proclamò la città "sede dell'impero, fonte di libertà padrona del mondo". Agitato da questa duplice passione fusa in uno, Arnaldo è uomo rappresentativo nella storia del popolo italiano, il quale ha sentito e praticato sempre la religione più come azione che come contemplazione o problema teologico, e quando ha volto il pensiero a una riforma della chiesa, l'ha concepita anche come mezzo per crescere dignità allo stato; e ha combattuto la Chiesa, non con spirito antireligioso e neppure antichiesastico, ma anticlericale. Secondando, poi, le aspirazioni dei Romani a darsi, sotto il solenne nome di repubblica romana, un ordinamento municipale proprio, Arnaldo contribuì ad avvicinare Roma alla nuova storia d'Italia, che era storia di città autonome.
Imperatori e papi di fronte ai comuni e al regno normanno. - Contro il comune di Roma e contro il re di Sicilia, Eugenio III e Adriano IV papi trovarono un alleato in Federico I di Svevia, che, incontratosi a Costanza con i legati di Eugenio III giurò aiuto contro quei nemici e prese impegno di andare a Roma per ricevere la corona imperiale. E Federico mantenne la promessa, nel 1154. Varî gli scopi: riaffermare l'autorità sua sopra il papato che si dimostrava, sì, amico, ma veniva mettendo troppo allo scoperto una sua dottrina e ambizione di primato sull'altra potestà, l'impero; riprendere l'antica impresa, nell'Italia meridionale, dove ora i re normanni facevano da padroni; rimettere in sesto le cose del regno che era pur sempre la chiave di vòlta dell'impero in Italia, ma adesso appariva come un edificio sconquassato. Non c'erano più, come uno o due secoli prima, i grandi conti e marchesi i potenti arcivescovi arbitri della corona. Ma le città ne venivano prendendo il posto. Anche Matilde era morta e scomparso il suo casato. Ma lo spirito dei Canossa ormai animava Firenze, cresciuta appunto nella protezione della grande contessa e destinata a incarnare, più forse di ogni altra città italiana, la sospettosità municipale di fronte all'impero, l'avversione degl'Italiani al dominio di genti estranee e, come essi diranno poi dei Tedeschi di Enrico VII in un documento ufficiale, "repugnanti per antichi fatti e portamenti, per linguaggio e costumi, per animo e volontà".
L'impero aveva fino allora concorso anch'esso a creare questo nuovo ordine politico-sociale, in Italia come in Germania. Lotario aveva tentato di mettere qualche riparo. Ma tutto era seguitato come prima. Fino a che le forze feudali di opposizione, l'energica personalità del nuovo imperatore, una certa coscienza della gente germanica che fosse in giuoco un interesse suo, sorsero a sbarrare il cammino alla nuova società cittadina. Federico Barbarossa si armò della sua forza e della sua legge; chiamò o accolse attorno a sé feudatarî, animati da odio contro i vassalli e i plebei, e giuristi, accorsi in folla per difesa del diritto costituito e, per il momento, del più forte; stimolò anche l'amor proprio nazionale tedesco e il sentimento di un diritto e di un onore tedeschi impegnati in Italia; si fece centro nella penisola di tutti gl'interessi offesi, di feudatarî, di vescovi, di conti, di piccole città oscurate o minacciate dalle maggiori (Pavia, Lodi, Como ecc.); lusingò le speranze di potenti città marittime che contavano sulla forza dei Tedeschi le une contro le altre e aspettavano vantaggi commerciali dalla conquista imperiale della Sicilia.
Sei spedizioni compì, cominciando dal 1154. Nell'alta Italia, Milano era la chiave di vòlta. Ma Federico non aveva forze per affrontarla. Si volse su Roma, consegnò al papa Arnaldo destinato al rogo, prese la corona, vinse i Romani: ma non poté né egli né il papa entrare nella città. Si spinse poi verso il regno, dove a Ruggiero II era successo nel 1154 Guglielmo I, e i baroni del continente erano in ribellione, la nobiltà siciliana in attesa di eventi. Papa Adriano, inglese di patria, che non aveva voluto riconoscere il nuovo re, accompagnava l'imperatore. Ma Guglielmo, come fronteggiò i nemici interni, così quelli esterni. Il Barbarossa, giunto in Campania, dové tornare indietro. Il papa allora, non contento del Barbarossa, preoccupato dal ritorno di Bisanzio che aveva occupato Ancona, città della Chiesa, e sconfitto la flotta normanna a Brindisi, conchiuse col regno la pace di Benevento (1156), impegnandosi a incoronare Guglielmo e a investirlo della Sicilia, della Puglia e di Capua, e confermandogli le prerogative ecclesiastiche. Anche fra Bisanzio e re normanni si venne alla pace. E in Roma i Romani si acconciarono col papa. Il quale così, sicuro in casa e alle spalle, assunse anche con l'imperatore un altro contegno. Il papato tornava a riaffermare il suo alto diritto sulla corona imperiale, a considerar essa come un "beneficio" da assegnare e chi ne era investito come un beneficiario e soggetto. E poteva ora farsi centro di tutte le opposizioni all'impero e ai Tedeschi, cioè i Normanni del sud, i comuni del nord e del centro. A Roma il pontefice non poteva tollerare un ordinamento municipale indipendente; ma fuori di Roma, una politica di autonomie o libertà comunali poteva ben corrispondere al suo proprio interesse. Cresciuto in Italia e nutrito di vita italiana, il papato aveva il senso della realtà italiana più che il signore tedesco.
S'inasprì allora anche la politica imperiale di rivendicazioni contro le città. Nuova e maggiore spedizione nel 1158: e Milano, assediata, dové capitolare. Si riunirono poi a Roncaglia, per volontà dell'imperatore, i dottori bolognesi e un grosso collegio di giudici delle città: e determinarono quali fossero le regalie da ricuperare. E subito i funzionarî imperiali ricominciarono a mettere le mani su questi diritti. Ma scoppiò la tempesta. Insorsero le città. E poiché quelle rivendicazioni imperiali si volgevano anche verso i beni della contessa Matilde, s'inasprirono anche i rapporti col papa. Vi fu poi rottura apertissima con Alessandro III, dopo che un antipapa, Vittore IV, confermato a Pavia in un concilio convocato dall'imperatore, proclamò scismatico Alessandro e l'imperatore lo mise al bando. Al bando imperiale Alessandro rispondeva con la scomuniea e si trasferiva in Francia, per cercarvi nemici al Cesare tedesco. Si formò una coalizione e la resistenza al Barbarossa si disciplinò attorno a varî centri, i quali furono, in vario modo, la Roma papale, il regno normanno e il comune di Milano, vera porta dell'Italia per i Tedeschi, anzi per ogni dominatore transalpino che volesse entrare durevolmente nella penisola. A Milano vibrava più fortemente che altrove l'anima della nuova Italia che si costruiva una nuova e propria legge. Era la più popolosa e ricca città della penisola e aveva ripreso su Pavia, innalzatasi a capitale con i barbari, l'indiscusso primato nel regno. Idea diffusa, allora, che Milano fosse corona regni italici, come dice il cronista Galvano Fiamma, dal cui destino poteva dipendere quello di tutta Italia. Quindi, per i partigiani dello Svevo, Milano incarnava lo spirito di rivolta alla legittima autorità, e, devastato il territorio milanese, stretta d'assedio la città dai Tedeschi e dai loro ausiliarî italiani, essa dovette arrendersi. E fu distrutta. Poté credere allora Federico di essere quasi in porto. E si mise a riordinare ai suoi fini il paese, assumendone la diretta gestione. In tutte le città mandò rappresentanti suoi, rettori o podestà, che curassero l'amministrazione delle regalie e salvaguardassero i suoi diritti. Ma fu più parvenza che sostanza di forza. O meglio, forza che egli attingeva specialmente fra gl'Italiani. Ma ora gl'Italiani gli vennero in gran parte meno: anche quelli che lo avevano aiutato a prendere e distruggere Milano.
Nella quarta spedizione sua, 1166-67, il Barbarossa poté espugnare Ancona, rivale di Venezia e terra della Chiesa, donde l'imperatore greco brigava nelle cose d'Italia. Marciò ancora su Roma, respinse i Normanni, si fece di nuovo incoronare, riconobbe questa volta il senato pur riservandosi egli d'insediarlo e di nominare un prefetto imperiale. Sopraggiunse la pestilenza, fierissima. Ed egli dové ritirarsi, quasi fuggire attraverso l'alta Italia, dove le città si erano messe in rivolta, avevano cacciato i vicarî imperiali e conchiuso a Bergamo, nel febbraio 1167, una grossa lega. Risorse, per deliberazione e con l'aiuto di essa, la distrutta Milano. Funzionarî e fautori dell'imperatote tenevano ancora abbastanza fermo in Toscana, in Romagna, in Piemonte. Ma ormai arbitra della situazione è la lega, piccolo superstato cittadino, con suoi rettori, suo consiglio, sua solidale attività. Per opera sua, fu costituito alla confluenza del Tanaro e della Bormida un forte campo trincerato che doveva fronteggiare il marchese di Monferrato, fedele all'imperatore. E quando Federico fece nel 1174 la sua quinta spedizione italiana, di fronte a questo campo, che si avviava a diventare una città, Alessandria, s'infranse il suo sforzo. Alessandria era la più concreta espressione dell'alleanza delle città col papa. L'imperatore cercò spezzare questa alleanza, patteggiò con la lega, trattò i preliminari di Montebello con cui i Lombardi si sottomisero e il sovrano riconobbe la lega, rinunciò ad attuare le determinazioni di Roncaglia. Ma quando egli chiese anche che fosse tolto di mezzo il campo trincerato di Alessandria, i Lombardi rifiutarono: e l'accordo fu rotto. La lega affidò la decisione alle armi. Sconfitto sul campo di Legnano (29 maggio 1176), l'imperatore cercò nuovamente, con le città, una pace o conciliazione separata. Non riuscì: perché le città non volevano staccarsi dal papa. Tentò allora col papa: e il papa, che poteva essere alleato delle città ma, avendo interessi tanto più larghi, non subordinare la sua politica alla politica delle città, prestò ascolto. Federico riconobbe papa Alessandro e abbandonò l'antipapa, s'impegnò di ricostituire lo stato della Chiesa e l'eredità matildina, rinunciò ad avere in Roma un suo praefectus. Condizione di questo accordo era che il papa ottenesse pace anche fra l'imperatore e le città lombarde, l'imperatore e il re di Sicilia. Pace veramente non vi fu, per allora: ma solo tregua, con le une e con l'altro, al congresso di Venezia, ove i messi delle città, pure riluttanti, piegarono al desiderio del papa. La pace venne a Costanza nel 1183. E il trattato suonò riconoscimento e legittimazione, da parte dell'imperatore, dei fatti compiuti e degli ordini esistenti.
Gravemente colpito fu l'impero da questi avvenimenti. Si può dire che esso cessò di essere il pernio o centro della vita politica italiana. E con l'impero, il regno, che con esso si era identificato, quasi annullato. L'Italia si veniva con ciò ancora più differenziando dal resto dell'Europa romano-germanica. Altrove, in quel medesimo tempo, i regni sorti dalle invasioni e dalla conquista riprendevano vigore. I re di Castiglia e i re d'Aragona, Enrico Plantageneto in Inghilterra, Filippo Augusto in Francia, si rimettevano alla testa delle varie e cozzanti forze nazionali, raccogliendole sotto di sé, disciplinandole, utilizzandole ai fini comuni, corrodendole nel loro particolarismo; rappresentavano la nazione tutta, nelle lotte coi nemici esterni, e ne promovevano la coscienza unitaria. Fino a che, nel sec. XV, si assideranno arbitri sopra tutti, saranno una sola cosa con la nazione, si lanceranno nelle competizioni internazionali, inizieranno una fase storica europea. Invece in Italia, sorgeva, sì, nel Mezzogiorno un regno vitale; ma nel nord e nel centro il regno fondato dai Germani proseguiva la parabola discendente, corroso dalle forze locali, che erano anche le forze originarie della penisola.
Comunque l'abbassamento dell'impero e del regno voleva dire via libera lasciata alle energie politiche del paese, libero svolgimento di vita cittadina e di stato di città. L'Italia, l'Italia del regno, si avviava a farsi "indomita e selvaggia". L'unità politica si allontanava, la spontanea attività creatrice della nazione italiana si rinvigoriva e fruttificava, il sentimento di nazione cominciava a sfavillare, quasi che della nuova realtà si cominciasse ad avere consapevolezza. La lunga lotta col Barbarossa e coi Tedeschi aveva affrettato il divenire di quella e stimolato questa, per opera specialmente delle città maggiori, quelle che avvertirono il maggiore contrasto fra il loro interesse politico e la politica dei re tedeschi. Si forma e si propaga, costruendo su quel che già si era cominciato a costruire nel sec. XI, il senso di un'unità che non è più solo riflesso di quella romana, ma più veramente intrinseca e propria, derivante da certa comunanza di vicende, dalla somiglianza della vita e del costume, dalla determinatezza del territorio abitato, dalla solidarietà degli interessi ora che una grave minaccia incombe. Vi fu una vera e propria cooperazione di Siciliani, di papi, di città, attorno a un grande problema non particolare o municipale. Fra i comuni, si strinse un legame costituzionale vero e proprio. La lega lombarda, col suo collegio di rettori formato dai consoli o podestà dei comuni collegati, deliberanti tuttavia come rettori della lega, collegialmente, e non come consoli o podestà delle rispettive città, rappresentò un organismo federale che limitò l'autonomia dei singoli associati e dettò una sua legge, superiore alle speciali leggi della città: un fatto che si ripeterà pochi anni dopo in Toscana, con la lega di S. Genesio, capitanata da Firenze, come l'altra da Milano, e rivolta contro Enrico VI e, più ancora, contro i grandi feudatarî suoi partigiani. Si formò un'opinione pubblica che condannava il parteggiare d'Italiani per un nemico che veniva di fuori e che appariva avverso a tutta la gente italiana' e quelle guerre fra città sentì e denunciò quasi guerre civili. La curia romana parlò il linguaggio dei collegati di Lombardia e di Toscana: segno dei tempi e dell'ambiente in mezzo a cui agiva la curia e da cui traeva alimento di varia natura per i suoi proprî fini, se essa, cercando la solidarietà di altre forze attorno a sé, parlava dell'"utile e dell'onore dell'Italia", del "comune bene della S. Sede e dell'Italia". Tutto questo ci spiega come e perché la storia dei decennî che culminarono nella lega lombarda, nella vittoria di Legnano e nel trattato di Costanza, sia stata dagl'Italiani del sec. XIX innalzata all'onore di storia nazionale, storia di precursori. Interpretazione insufficiente: ma da non rigettare in blocco. Legnano e Costanza bene entrano nell'orbita ideale della nazione italiana.
Tuttavia il 1177 e il 1183, cioè la tregua di Venezia e la pace di Costanza non segnarono affatto la fine dell'azione dei re e imperatori tedeschi in Italia. Vi erano sempre molti interessi a sostenere l'imperatore, città, giuristi e scuole di diritto con a capo Bologna, feudatarî che ormai, dopo alienatisi dall'impero a causa della sua politica vescovile, gli si erano ravvicinati e attendevano da lui salvezza contro le città. Nella regione piemontese, in Toscana e nell'Italia centrale, dove non grande era stata la partecipazione alla lotta contro di lui, il Barbarossa poté inviare e tenere vicarî e funzionarî, cominciare a organizzare una specie di burocrazia non tanto regia quanto imperiale. Le stesse città della lega Lombarda, con Milano alla testa, disarmarono un poco. Infine Guglielmo II di Sicilia, tutto impegnato nelle sue spedizioni nordafricane e orientali, volto col pensiero a una crociata, era portato anch'esso a una politica di intesa con l'imperatore d'Occidente. Si ebbe così in Milano, a dieci anni da Legnano, il fidanzamento di Costanza, figlia di Ruggiero II, con Enrico figlio del Barbarossa. Quest'ultimo fu anche incoronato re d'Italia dal patriarca di Aquileia, uno dei grantli puntelli del regno tedesco in Italia, da utilizzare, eventualmente, anche contro il papa, data la sua potenza e il suo vastissimo dominio metropolitano. Come fu questa volta. Poiché Urbano III, già in cattivi rapporti con Federico, anche per la sua azione nell'Italia centrale, ancora più s'inalberò di queste nozze che creavano la possibilità dell'unione delle due corone. Si venne, anzi, a nuova guerra. Enrico penetrò nello stato della Chiesa, proprio mentre moriva Urbano, lungi da Roma dove né egli né i successori Gregorio VIII e Clemente III poterono entrare, fino alla pace coi Romani del 1188, che riconobbe la costituzione della città e fissò entro stretti limiti - investitura del senato e regalie - i diritti del papa.
Nel 1189 morì Guglielmo di Sicilia e nel 1190 Federico imperatore: Enrico VI subito si volgeva a cogliere l'ormai maturo frutto siciliano. Vi era, laggiù, un partito antitedesco, come ve ne'era stato uno antifrancese, al tempo della reggente Margherita. Vivo era lo spirito d'indipendenza, in Siciliani e in Normanni, ormai sicilianizzati. E questo partito levò Tancredi re normanno, che veniva da un figlio naturale del grande Ruggiero II. Ma nel regno e attorno al regno, era tutto un divampare di passioni, di odî, di gelosie, tenuti a freno solo da un forte re, fornito di larghi e proprî mezzi d'azione, finanziarî e militari. Durante il regno dei due Guglielmi, più volte aveva divampato la guerra civile. Partito dei grandi e partito del re o, meglio, dei funzionarî del re: insomma, aristocrazia feudale e burocrazia, che ebbero in Falcando di Palermo e in Romualdo salernitano i loro storici. Ma, se Ruggiero ebbe partigiani, e li ebbe specialmente negli elementi cittadini in cui risorgevano aspirazioni di autonomia; altri, della nobiltà, parteggiarono per Enrico. Il quale, da principio, non ebbe gran successo, e dovette arrestarsi in Campania, dopo essere stato incoronatn imperatore, insieme con la moglie Costanza (1191). E Tancredi poté afforzarsi laggiù: s'intese coi Guelfi di Germania; si ravvicinò all'impero d'Oriente fidanzando il proprio figlio con la principessa Irene; procurò accordo con papa Celestino III. E col concordato di Gravina, il papa investiva Tancredi del regno, Tancredi rinunciava ai tradizionali diritti ecclesiastici della monarchia siciliana. Ma la morte del re, nel 1194, riaprì a Enrico la strada del sud. E questa volta, con l'aiuto delle flotte di Pisa e Genova, quella strada fu battuta fino a Palermo, entro lo stesso 1194. Ormai, l'unione dei due regni della penisola, il vecchio regno fondato dai Longobardi e ormai quasi risolto in comuni e in grandi feudi, e il nuovo regno nato coi Normanni, poteva dirsi un fatto compiuto. Ed era fatto di vastissima portata. Il regno di Sicilia, nelle mani di chi già deteneva il regno d'Italia, voleva dire nuove e maggiori e più proprie risorse militari e navali e finanziarie, voleva dire tradizioni e organizzazione statali, non feudali ma di governo accentrato; risorse e tradizioni che potevano servire per una più gagliarda affermazione anche nel nord, nell'ambito del vecchio regno: come effettivamente servirono, sia pure non durevolmente, quando siederà sul trono di Sicilia Federico Ruggiero, il figlio di Enrico e di Costanza, frutto dell'unione normanno-tedesca, nato a Iesi l'anno stesso della conquista di Sicilia, cresciuto ed educato nell'isola, tanto da poter dare alla sua azione l'impronta morale e politica di quella terra. Non solo. Ma il possesso del regno di Sicilia creava la necessità non solo di avere effettivo dominio sulla Valle Padana e la Toscana, ma anche di controllare le terre della donazione. Enrico infatti volse attenta cura all'Italia centrale - Toscana e terre della Chiesa -; vi tenne suoi vicarî e funzionarî direttamente dipendenti da lui; vi rafforzò, anche in virtù dell'esempio siciliano, quel sistema burocratico che già il padre aveva lì avviato. Vale a dire che, solo avendo una qualche ferma base in Italia, si poteva dominare tutta l'Italia; che questa ferma base poteva essere costituita dal regno di Sicilia; che il regno di Sicilia poteva diventare, per un tempo più o meno lungo, chiave di vòlta della penisola e pesare fortemente sul destino della medesima.
Per il momento, tuttavia, gli eventi non volsero propizi per gli Svevi e per questi loro propositi. Enrico morì (1197), lasciando in Sicilia, in Toscana, nelle vicine terre della donazione molti Tedeschi scesi in Italia con lui e per lui. Ma i Siciliani insorsero e li combatterono. Costanza, che secondava il partito antitedesco, rinunciò per il bambino alla corona di Germania e lo fece incoronare re di Sicilia, con l'investitura papale del regno a titolo ereditario. Per giunta, essendo vicina a morte, desiderò che il papa, Innocenzo III, da poco eletto, assumesse esso, come alto signore del regno, la tutela del fanciullo ed erede. Anche nell'Italia centrale vi fu una rivolta di città e di qualche feudatario contro Tedeschi, rappresentanti dell'impero tedesco. Si formò una lega di comuni marchigiani; una lega di comuni toscani, stretta a S. Genesio, che aveva a capo Firenze: mentre ne rimase fuori l'imperiale Pisa. Cominciava l'antagonismo fra i due comuni. Pisa, città espansiva, con interessi mediterranei che molto potevano avvantaggiarsi dell'appoggio imperiale, seguiva bandiera ghibelliria; Firenze, che già aveva fatto causa comune coi Canossa contro l'impero, e ora ascendeva a potenza, si faceva fotte dell'opposizione all'impero stesso.
Il papa, di queste leghe, come e più ancora che non di quella lombarda trent'anni prima, fu sollecito promotore e sostenitore. Divenuta realtà l'antica aspirazione d'imperatori e re d'Italia ad assorbire il Mezzogiorno, i rapporti loro col pontefice, imperniati ora per forza di cose su tale questione, tornarono a essere rapporti di guerra, latente o manifesta. Anzi, la politica papale si concentrò nello sforzo di spezzare questa unione. Nuovamente Roma vellicò quel sentimento di opposizione degl'Italiani agli stranieri che ricco ora e sempre più di nuovo contenuto, veniva elevandosi a sentimento nazionale. Non solo. Ma il papa si volse a un' opera energica e metodica di rivendicazione e organizzazione delle terre della Chiesa, come mezzo per meglio impedire intrusioni dal di fuori, creare attorno a Roma una più valida protezione, rendere più difficile l'unione delle due corone sul capo dello stesso principe.
Dal comune allo stato di città. - Acquistato di diritto e, in parte, di fatto il territorio; preso possesso, per lenta appropriazione o per rapido atto di volontà, di quasi tutti gli attributi e diritti dello stato feudale; ottenuto il riconoscimento della propria autonomia politica e delle proprie magistrature; aggiunto al riconoscimento imperiale quello, o morale o, spesso, giuridico, del pontefice; i comuni hanno ormai, sul finire del sec. XII, un posto ben definito entro la sfera del regno e dell'impero che tutti, idealmente, li comprende. Non più private associazioni, come erano in origine e come il Barbarossa voleva costringerli a tornare, ma enti di diritto pubblico, sulla base del trattato di Costanza, vera carta costituzionale della vita comunale italiana.
La legislazione comunale fa ora rapidi passi, nella seconda metà del secolo. Mentre, ancora nel 1153 e 1162, i brevi dei consoli erano poco più che sommarie formule di giuramento e di obbligazione dei consoli, di alcuni funzionarî e dei cittadini, cominciano dopo a presentarsi come assai ampî complessi di disposizioni varie intorno al funzionamento dei tribunali, all'estimo e alla riscossione dei tributi, ai lavori pubblici, alla milizia, alla polizia urbana, al governo del contado. Alcune città procedono anche alla raccolta ed elaborazione delle consuetudini che regolavano il commercio, i rapporti patrimoniali privati, la condizione dei forestieri, la materia dei patti colonici e feudali ecc. È, questa redazione di consuetudini, atto significativo anche della crescente influenza del popolo di fronte all'aristocrazia che delle consuetudini, appunto, era depositaria e interprete; oltre che affermazione del nuovo stato di città. Il quale ora è respublica, come fino adesso solo l'impero si chiamava. La parola invale nell'uso durante la seconda metà del sec. XII. Indice di questa personalità giuridica e morale, di questa consapevolezza di sé da parte del comune è il crescente orgoglio municipale delle maggiori città, il diffondersi della nozione erudita o della leggenda popolare di una discendenza da Roma, il sorgere della storiografia ufficiale.
Cessa ora quasi del tutto la partecipazione dei vescovi al governo della città. L'affrancamento del comune come tale è accompagnato e, direi, sostanziato, da un altro fatto: l'affrancamento pieno di tutti i suoi cittadini e soggetti, oltre che dal vincolo pubblico, anche da ogni vincolo di natura patrimoniale o feudale. Interesse dei singoli e interesse del comune, che intende legare a sé con vincolo esclusivo cittadini e soggetti, coincidono e si promuovono scambievolmente. Si ha così un rapido processo di allodiazione, mediante riscatto, di tutti quei beni immobili il cui possesso e godimento teneva, fino allora, gran parte della cittadinanza nella dipendenza di chiese e monasteri e famiglie feudali. E si mobilizzano, insieme col possesso fondiario, anche gli uomini. Base della condizione personale dei cittadini non è più il rapporto di vassallaggio ma la dipendenza dal comune. Anche i non cittadini sono sollecitati ad allentare o rompere il loro vincolo verso il signore, perché più facilmente possano essere attratti nell'orbita della città. Tutto questo è una più o meno esplicita abolizione di feudalismo. Ed ecco il patriottismo locale e municipale che sorge o risorge fra i rottami del rapporto feudale.
Maturano anche progressi costituzionali nei comuni: anche per effetto della più evoluta e complessa struttura sociale. Abbiamo le varie forme della vita associativa. La nobiltà cittadina, che a un certo punto non s'identifica più col comune, si organizza a sé, nella societas o commune militum. Mercanti e industriali si raccolgono nella societas mercatorum o nell'arte della lana. E i loro consoli fiancheggiano i consoli del comune, hanno parte nella stipulazione dei trattati commerciali o anche politici: a Milano, a Piacenza, a Firenze, a Pisa, altrove. Da per tutto, sempre più numerose le associazioni del vero e proprio artigianato, che hanno avuto spesso un'infanzia religiosa e chiesastica ma ora accentuano il loro carattere economico-sociale. E poi, "porte", "quartieri", o "terzieri", e "popoli" delle Chiese cittadine, che servono ai fini della vita comunale e sono in certo senso un fatto nuovo, ma poggiano su basi preesistenti. Infine, formazioni politiche, cioè partiti, maiores o milites, populus o pedites. Innegabile che la nobiltà è al centro del partito dei militi e la borghesia mercantile al centro del popolo. Cioè, coincidenza grosso modo di raggruppamenti sociali e politici. E tuttavia quei partiti raccolgono e mescolano ognuno elementi sociali diversi, concorrendo a sgretolare le organizzazioni professionali e di classe, a sminuzzarle, polverizzarle. Essi vanno assai oltre le mura cittadine e creano larghe solidarietà intercittadine, interregionali, quasi peninsulari.
Anche la storia interna delle città si complica. Alle lotte per l'acquisto del territorio o per l'autonomia dai vicarî imperiali, che avevano culminato nel sec. XII ma non sono ancora finite, si aggiungono quelle interne, a fondo economico-sociale. Quasi due storie, pur tuttavia assai collegate, perché gli acquisti territoriali, incanalando verso la città molti nuovi e turbolenti elementi, hanno agito e agiscono sullo sviluppo interno, sui ceti, sui partiti, quasi trasferendo entro le mura tanti motivi di contrasto, familiare o di ceto, che prima operavano nelle campagne; e viceversa, il contrasto cittadino fra popolo e militi spinge il comune a intensificare la sottomissione piena del contado, per strappare ai nobili questa base di operazione, questa zona di rifornimento e reclutamento e per procurarsi maggiori redditi tributarî, più numerosi servizî di ogni genere, più libertà di movimento. Si può cominciare a osservare anche qualche grande signoria feudale, non distrutta dal crescere delle città, i conti di Savoia o i patriarchi di Aquileia, iniziare in questo tempo una graduale trasformazione delle basi giuridiche del loro dominio, per giungere a un più effettivo esercizio del potere. Non diversamente procede il papa dalla fine del sec. XII in poi.
A questo punto, la costituzione a consoli, fondata sopra una ristretta e abbastanza omogenea società cittadina, entra in crisi e cede il posto, gradatamente, ad altra costituzione, impersonata nel podestà. I cittadini lombardi e anche, qua e là, toscani avevano, al tempo del Barbarossa, conosciuto un podestà o rettore, funzionario imperiale o d'incerto carattere fra imperiale e comunale. E già allora, imposto dal di fuori, esso aveva secondato nella costituzione cittadina una tendenza a svolgersi, allargare la sua base, risolvere e disgregare il nucleo comunale. Cacciato come funzionario imperiale, a furia di popolo, ricompare come magistrato cittadino. Esso è, da principio, vario e mutevole nelle varie città e nei varî momenti anche di una stessa città: vario e mutevole quanto a durata dell'ufficio, ad ampiezza di poteri (a volte, quasi dittatore), a compiti più particolarmente assegnatigli (più di guerra o più di giustizia e di pacificazione dei partiti). Proviene ora dall'aristocrazia consolare, ora da quella feudale, è cittadino o forestiero. Caso frequente che spesso assuma quel titolo e relativi poteri il vescovo stesso della città. È frutto di una transazione fra militi e popolo e rappresenta lo sforzo dell'aristocrazia consolare, alquanto screditata, di mantenersi in sella dandosi un dittatore che risponda a certe esigenze popolari; oppure emana piuttosto dal popolo che vuole al comune un capo che sia anche suo capo, come poi lo avrà, esclusivamente suo, nel capitano del popolo. Si alterna con i consoli o si accompagna con essi, come moderatore del collegio consolare, ora divenuto più ristretto.
Ma appare chiaro, pur in questa fantasmagorica varietà, che il podestà rispecchia tutti i mutamenti e progressi compiuti dalle città in un secolo: la maggiore unità territoriale; i più ampî e legalmente riconosciuti poteri del comune di fronte all'impero e al vescovo (infatti nelle comunità rurali seguitano a esserci i consoli, non il podestà; e in taluni comuni maggiori di tardo sviluppo, la lista dei podestà comincia esattamente l'anno in cui essi hanno conseguito una larga autonomia, come a Trieste, per esempio, l'anno 1295); il delinearsi più netto di un ente, lo stato che nasce, al di sopra del nucleo di famiglie che tenevano il governo. Nel podestà si rispecchia anche l'emergere, pure in regime di maggiore democrazia, anzi proprio per questo, di personalità singole, generate dal più forte attrito interno, dalle maggiori possibilità di farsi valere in mezzo ai partiti, dal seguito che dentro la città riacquistano grandi famiglie feudali; la maggiore complicatezza della macchina di governo e il bisogno di elementi tecnici, specie per la giustizia; la necessaria sostituzione di funzionarî stipendiati e controllati a quelli che esercitavano il potere come un diritto e un dovere inerente alla loro classe, o alla loro qualità di vassalli e beneficiarî del vescovo o del conte. In mezzo alle guerre intercomunali e al complicarsi dei rapporti col di fuori, il podestà deve essere un capo di guerra e un ben visibile e accreditato rappresentante; nella varietà e discordia dei gruppi sociali e politici interni, una forza coordinatrice ed equilibratrice, un magistrato pubblico vero e proprio, volto a interessi generali. Massimo suo requisito è l'imparzialità: e se essa manca, se il podestà inclina a un partito, il comune è comune "fittizio", "iniquo" o "fraudolento". Può avvenire allora che le tendenze centrifughe prendano il sopravvento, che scompaia dalla scena il podestà del comune, che i militi e il popolo abbiano distinto podestà e gli uni e gli altri rivendichino a sé il diritto di essere il comune, che al posto dello statuto le parti cerchino dare valore generale ai particolari loro brevi, che i militi col loro podestà alla testa escano dalle città che per essi è sempre un po' un accampamento. Fino a che interviene qualche mediatore, il vescovo o una città vicina o un frate paciaro, e il comune si ricostituisce nella sua unità, ritorna la communis potestas e constitutum commune. C'è, in questa evoluzione costituzionale, il principio della signoria, cioè di un regime monarchico dello stato di città. Quanto meno essa soddisfa sin d'ora alcune delle esigenze stesse a cui più tardi la signoria risponde.
Attorno al secondo o terzo decennio del '200, il podestà è cosa generale delle città italiane, dalle Alpi all'Abruzzo. Quasi nessuna differenza, in rapporto al podestà, nell'Italia già longobarda e nell'Italia già greca, pur che esse vivano in regime di libertà comunale. Sporadicamente appare il podestà anche a Roma. A Venezia c'è sempre il vecchio doge o dux. Ma la città compie anch'essa fra il sec. XII e XIII un'evoluzione che richiama quella per cui altrove si giunge al podestà, con la stessa maggiore indipendenza del potere centrale da ogni autorità esterna ed eliminazione delle ultime tracce dell'origine sua feudale e patrimoniale. Poiché l'antico dux, che esplicava la sua autorità un poco come rappresentante di Bisanzio, un poco e più ancora per diritto proprio, trasmettendo spesso ereditariamente il suo potere, ora si muta in un capo dello stato che incarna la podestà della repubblica e si riconosce pur egli soggetto alle leggi e viene nominato non più per tumultuaria acclamazione del parlamento generale, ma con ordinato procedimento di una ristretta balia di elettori designati dalla Concione. Sebastiano Ziani, attorno al 1170, inizia la serie di questi dogi. E dal 1192 è la Promissione ducale che il doge Dandolo deve giurare, impegnandosi come un qualunque podestà di far giustizia, osservare gli statuti, ecc. Dodici anni dopo, anche Venezia, con la presa di Costantinopoli e lo spodestamento della vecchia dinastia greca, rompe gli ultimi collegamenti anche solo morali che ancora la tenevano stretta all'impero di Bisanzio.
Comunque, da per tutto ormai gli statuti fanno largo posto al podestà. L'opinione pubblica lo tiene assai in alto. Qua e là esso è raffigurato nel marmo, in segno di onore. Con l'allargarsi delle fazioni cittadine e diventar esse regionali e interregionali, accade che il podestà debba essere ricercato sempre più lontano, perché meglio possa essere e mantenersi estraneo e superiore ai partiti. Migliaia di persone fanno di questo ufficio una carriera onorevole; centinaia di famiglie fanno di questa carriera una professione ereditaria, per tre o quattro generazioni. Si può considerare questa migrazione di podestà attraverso mezza Italia come un fatto di grande importanza per l'unità spirituale della penisola: unità di cultura giuridica e anche letteraria, rappresentate spesso dagli stessi uomini. Nasce per opera di giuristi e dottori, di solito per le loro esperienze personali, tutta una letteratura come di manuali del perfetto podestà, animati spesso da intuizioni e concetti generali sulla natura del potere civile, sui doveri e diritti dei governi, e inclini a richiamarsi al Corpus iuris di Giustiniano, anziché al Decretum di Graziano.
Realmente il podestà, come volle dire più forte sentimento statale, politica estera più attiva, sforzo risolutivo per organizzare a unità il contado, maggiore indipendenza personale dei dirigenti dal vescovo, così anche una politica piuttosto spregiudicata nei rapporti con la chiesa cittadina e la Chiesa in genere. E si presero di mira le giurisdizioni dei vescovi e capitoli e monasteri nel contado; si manomisero le immunità personali dei chierici e delle chiese nei rapporti fiscali, si legiferò sulla proprietà ecclesiastica, sia limitandone l'accrescimento, sia affermando su essa un superiore diritto dello stato e dei laici; s'impose ai chierici la giustizia del comune o per lo meno l'applicazione delle leggi penali del comune nei tribunali ecclesiastici; si assicurò ai laici il foro secolare, nelle cause civili, anche quando erano convenuti dai chierici; si diminuì il numero delle cause spirituali o miste assegnate al tribunale della Chiesa ecc.
Si ebbe insomma una nuova e più aspra fase nei rapporti fra Stato e Chiesa. Poiché ora si può veramente parlare, nelle città, di Stato e Chiesa, dopo che il comune ha avuto il suo riconoscimento e i vescovi hanno perso la posizione di rappresentanti del principe. E con i più aspri rapporti fra Stato e Chiesa nelle città, anche più aspra e diffusa opposizione religiosa alla Chiesa: cioè sviluppo di eresie che soffiano su quella lotta politica e insieme ne traggono alimento. Agitazioni politiche e agitazioni religiose si mescolano e si confondono già sul principio del '200 a Orvieto, a Brescia, a Firenze, a Parma ecc. Qualche regione ha una specie di primato: l'Umbria, tutta piena di contrasti civili, seminata di catari e patarini, e patria di Francesco d'Assisi; l'Emilia, col suo centro Parma e territorio, che fu tra i più caldi focolari di agitazioni d'ogni natura, vivaio di oppositori religiosi. Lì crebbero le propaggini eterodosse del grande albero francescano. Lì, anzi, s' incontrarono la corrente umbra del francescanesimo e quella gioachimita della Calabria. Visto nel complesso, il movimento religioso che, dopo le prime prove del XI, si allarga nel secolo XII, ci appare lo sforzo dei fedeli di permeare di sé la Chiesa, come il popolo veniva permeando e trasformando lo Stato. Rivoluzione politico-sociale da una parte, rivoluzione religiosa dall'altra, con forme radicali e forme blande mescolate insieme. La prima andò assai più innanzi della seconda.
L'età sveva: papi e comuni contro l'unità regia.
La politica della Chiesa nei rapporti dell'Italia. - Insediamento di una dinastia tedesca nell'Italia meridionale, quella stessa che da tre generazioni aveva, oltre il regno di Germania, anche il regno d'Italia e l'impero, con molta buona volontà di mettere le mani anche sulle terre della Chiesa; vasta violazione di libertà ecclesiastiche nelle città, come anche, ormai, nei regni d'Europa, con gli Enrico e i Filippo Augusto, tutti più o meno volti a ricostruire lo stato nella sua pienezza; eresie che si diffondono in vaste zone della cattolicità, specialmente nei paesi più vicini a Roma, e, più ancora, manifestazioni varie di religiosità non in tutto conformi al nuovo spirito del cattolicismo romano; ecco altrettanti problemi di fronte a cui si trova, fra il sec. XII e il XIII, il papato. Ed ecco Innocenzo III, prodotto, nella Chiesa, dalla stessa coscienza di pericoli incalzanti. Poiché più la regalità si ricostituisce in Europa, più le borghesie italiane ingrossano, promosse quella e queste dalla stessa azione politica del papato nella sua lotta con l'impero; più regalità e borghesie devono farsi indipendenti dalla Chiesa, anzi penetrare nella stessa amplissima sfera che la Chiesa considera sua propria e distinguere gli elementi varî che la costituiscono e appropriarsi quelli profani; e più la Chiesa reagisce, perfeziona il suo diritto, cerca mettersi più, in alto dello stato per controllarlo, considera tutto il temporale un grande annesso dello spirituale. Donde l'apparente contraddizione di una dottrina teocratica, che giunge a maturità quando già rosseggia all'orizzonte lo stato moderno e il moderno laicato. Bisogna considerare l'Italia come uno dei centri più vivi di questo processo dialettico che porta in alto l'uno e l'altro potere e principio di vita, pur opposti l'uno all'altro.
Eletto nel 1198, come esponente di un partito d'azione e di resistenza più energiche, che si era formato in curia dopo il pontificato del debole e vecchio Celestino III, Innocenzo III fu tutto preso nel vortice delle mille cure impostegli da una situazione così grave, da un concetto così alto della sua autorità, come il papato, e lui in particolar modo, avevano: esso arbitro dei governi, distributore della giustizia, depositario di ogni podestà terrena, da esercitare a volte direttamente a volte per mezzo di altri, oltre che difensore e propagatore della fede. Egli è "inghiottito tutto quanto nell'abisso delle occupazioni che gli porta il governo del mondo", scrive di sé stesso. E si sa che cosa egli fece per combattere i focolari d'eresia, per difendere da podestà e principi le prerogative ecclesiastiche, per rendere effettiva la sua autorità nelle terre della Chiesa. Un problema religioso e chiesastico è in cima ai suoi pensieri: la difesa della fede e delle libertà ecclesiastiche. Ma "in nessun luogo così bene si provvede alla libertà ecclesiastica, come dove la Chiesa romana ha tanto nel temporale quanto nello spirituale piena podestà", scrive fin dai primi giorni del suo pontificato all'arcivescovo di Ravenna. Insomma, dominio del mondo, a servizio dello spirito: dominio innanzi tutto di Roma. Il papa rivendicò a sé la nomina del senatore di Roma, pure riconoscendo alla città una certa autonomia. Nelle terre del patrimonio e della donazione, molto si adoperò per ricuperarle e per averle in effettivo dominio. Cominciava a delinearsi uno stato della chiesa: certo affrettato dalla nuova situazione del Mezzogiorno e dalla minacciata unione dei due regni della penisola. Doveva servire a premunire i possessi della S. Sede dalla parte del sud la stessa istituzione che Innocenzo fece di un principato ecclesiastico ai confini meridionali, per suo fratello Riccardo dei Conti. Ma anche il regno di Sicilia dipendeva dal pontefice. Anche Toscana, Sardegna e Corsica, affermò ripetutamente Innocenzo III, appartenevano ad ius et proprietatem beati Petri. Quasi tutta l'Italia, insomma!
Intanto manovrava per impedire troppo cumulo di corone e unione di regni attorno a sé. In Germania, dopo morto Enrico VI, era discordia per la successione: grande fortuna, questa, per l'attività politico-territoriale del pontefice. Si contendevano il regno Ottone di Brunswick, figlio di quell'Enrico il Leone che aveva concorso al fallimento della politica italiana del Barbarossa, e Filippo di Svevia, fratello di Enrico e già suo luogotenente in Toscana. Il papa favorì Ottone, scomunicando il suo avversario. E Ottone assicurò al papa il riconoscimento dello stato della Chiesa, compresa l'eredità matildina, il rispetto dei suoi diritti sulla Sicilia, la conservazione delle leghe di città, diventate per il papa, come si vede, quasi elemento costituzionale della vita italiana. Ma poiché Ottone, rimasto definitivamente padrone del campo dopo la morte di Filippo nel 1208 e ricevuta alle porte di Roma (in Roma non potè mettere piede) la corona imperiale, mostrò di pigliare alla leggiera gl'impegni contratti col pontefice e intraprese la sua campagna nel Mezzogiorno, Innocenzo lo scomunicò e gli suscitò contro, in Germania, il giovane Federico. E il giovane Federico si recò a Roma ove il papa lo proclamò re dei Romani, giurò fedeltà alla S. Sede, diede garanzia contro ogni possibile unione della corona di Sicilia e della corona tedesca, si recò in Germania coi mezzi fornitigli dal papa e vi fu eletto re, confermò a Innocenzo tutte le concessioni e i riconoscimenti fattigli da Ottone. La sconfitta di quest'ultimo a Bouvines sgombrò del tutto la strada al giovane principe e secondò i piani d'Innocenzo e del successore Onorio III.
Incoronato re in Germania, Federico scese nel 1220 in Italia. E parve facesse tutto a ispirazione della curia, per i fini che essa si proponeva. Erogò diecine di diplomi a vescovi italiani andati a sollecitarlo oltre Alpi; procedé addestrato e consigliato da una coorte numerosa di principi della Chiesa. Entrato in Roma, ecco proclama il suo dovere di difendere la Chiesa dagli arbitrî dei comuni e di perseguitare gli eretici ed emana costituzioni per la libertà ecclesiastica e l'integrità della fede, largisce altri diplomi ai vescovi italiani, in cui si fa scempio degli statuti cittadini e delle concessioni imperiali ai comuni. Intanto, già vescovi e prelati percorrevano l'Italia come vicarî imperiali, fulminavano bandi imperiali, giudicavano contese tra vescovi e comuni, trattavano negozî dell'impero, imponevano pace alle città in guerra, provvedevano alle libertà ecclesiastiche. Qualche scrittore ebbe la visione di una quasi identificazione delle due potestà, conforme all'antico ideale. Certo si ebbe, ispirato dalla Chiesa, attuato o tentato dall'imperatore, un vasto sforzo di reazione chiesastica che poteva anche compromettere lo sviluppo dello stato di città e della società cittadina, impotenti di fronte all'alleanza delle due supreme potestà.
Ma il corso delle cose era segnato dai bisogni e dalla natura delle nuove forze italiane, dalla tendenza e volontà di ricostruzione statale, nei regni e nelle città. Anche Federico II riapparve presto come re di Sicilia e di Puglia, di quelle terre ch'egli giovanissimo aveva dovuto riguadagnare contro la violenza e le insidie di musulmani e di avventurieri tedeschi. E qui, dopo il 1220, volse subito il suo sforzo, giovandosi certo del prestigio che a lui veniva dalla corona imperiale e di qualche risorsa che, allora e poi, gli cominciò a venire dalle altre terre del regno d'Italia, ma riattaccandosi essenzialmente alle tradizioni di Ruggiero II e Guglielmo I, agli elementi romani, bizantini, musulmani, che il Mezzogiorno gli forniva a dovizia. Le forze eslegi che laggiù tendevano a crescere e straripare egli contenne fortemente. Erano gli Arabi di Sicilia; erano i chierici che allargavano il campo delle loro "libertà"; erano specialmente le grandi casate che si venivano organando unitariamente, sostituendo alle norme del diritto feudale longobardo quelle del feudo franco, cioè instaurando l'indivisibilità della successione e il maggiorasco, per meglio resistere alla monarchia. Il re domò i musulmani di Sicilia e ne fece colonie militari in terraferma; contenne le libertà ecclesiastiche; richiamò la feudalità all'osservanza dei provvedimenti normanni e altri ne emanò. Nella pratica di governo e nelle costituzioni del regno, pubblicate a Melfi, dopo pacificatosi a San Germano col pontefice Gregorio IX, volle apparire davanti ai suoi sudditi unica fonte del diritto, legislatore esclusivo e supremo giudice, rivestito di un potere assoluto simile a quello che sui Quiriti aveva esercitato l'imperatore romano, dopo che all'imperatore i Quiriti lo avevano trasferito. Come nei comuni del nord e del centro i podestà erano ex iure romano, così Federico si fece forte del diritto romano.
Nel tempo stesso che svolgeva nel sud un'attività di tal genere, Federico s'interessava alle cose del regno d'Italia. Poteva egli straniarsi dalle cose d'Italia? Egli non aveva rinunciato del tutto alla Germania e i paesi dell'alta e media Italia erano come i necessarî piloni di questo ponte fra Sicilia e Germania. Nel regno d'Italia, poi, le lotte tra le città e le fazioni locali venivano sfociando in più vasti partiti a cui davano occasione, nome, alimento, da principio le due casate e i due partiti che in Germania, sull'inizio del secolo, si erano contesa la corona; poi, il papa e l'imperatore, dopo che questi tornarono a nuova discordia. Era non solo bisogno di aiuti e sanzioni dall'alto, ma quasi istintivo processo d'idealizzazione delle contese locali, tutte interessi ben definiti e quasi tangibili, di libero adattamento della vita municipale nel quadro delle due grandi istituzioni universali. Si esprimeva in tale forma anche l'unità politica della penisola: non unità istituzionale; bensì, in mezzo e sopra le minuscole fazioni paesane dal vario nome, in mezzo e sopra alla folla dei capiparte o capipopolo che cominciavano a spuntare da ogni parte, due grandi partiti, due bandiere, due capi, due miti, che son cose più particolarmente municipali, ma, in certa misura, di tutta l'Italia. Le nuove lotte tra papi e re di Sicilia, che sono anche re d'Italia e imperatori, dobbiamo vederle un poco anche a questa luce, fermentanti da questa sostanza viva del suolo italiano, alimentate da quelle forze irrequiete del popolo italiano: vederle quanto meno in funzione della nobiltà che resiste alla borghesia e della borghesia che si afferma sulla nobiltà, dello Stato che da per tutto è in contrasto con la Chiesa, dei comuni che si dissolvono e ritrovano poi in un regime signorile una più robusta e ampia unità.
Perciò, prima d'intraprendere la crociata a cui si era obbligato, Federico si volge al nord, dove partigiani e sostenitori non gli mancavano: i ghibellini. Riprese insomma la politica del Barbarossa suo avo e di Enrico suo padre. E come il Barbarossa e Enrico, di nuovo si trovò di fronte la Santa Sede: prima papa Onorio III, poi, peggio, Gregorio IX (1227-41), il vecchio Ugolino cardinale vescovo d'Ostia, energico assertore e restauratore di diritti ecclesiastici, accorto disciplinatore del movimento francescano, di così incerta natura, nei quadri della Chiesa e del papato. Di nuovo si trovò di fronte e armata la risorta lega lombarda. Riuscito vano il bando lanciato contro le città, scomunicato da Gregorio, Federico partì per la Terrasanta, riacquistò per trattative i luoghi santi, vi s'incoronò re di Gerusalemme (1228-29), tornò nel regno dove intanto il papa aveva mosso lui la crociata contro il re crociato e gli aveva messo in subbuglio il paese, lo riconquistò, cacciò i papalini, fece pace col papa (San Germano 1230), si liberò dalla scomunica, dietro qualche concessione in fatto di diritti dei chierici nel regno, compì la sua opera di ordinamento e di legislazione e le diede il suggello giuridico nelle assisi di Melfi, 1231. Poi ritornò alle cose del nord, cercando mantenersi in buoni rapporti con la curia. Prese le difese del papa che era in lite coi Romani. Perseguitò gli eretici nel suo regno e cercò che anche nel nord le costituzioni antiereticali fossero osservate. Accettò anche che il papa si facesse arbitro e pronunciasse sentenza arbitrale nella controversia fra lui e i comuni della lega. Ma quando in Germania gli si ribellò, nel 1235, il figlio Enrico, e le città si misero dalla parte del ribelle, allora Federico, domata la ribellione, mosse contro la lega e dichiarò nulli i patti di Costanza; respinse la mediazione di Gregorio, che naturalmente inclinava verso le città, e sconfisse i collegati a Cortenuova, 1237; respinse la conciliazione condizionata che i Lombardi gli offrivano; procurò al figlio Enzo, mediante il matrimonio con Adelasia di Torre, vedova di Ubaldo Visconti giudice di Gallura, il titolo di re di Sardegna.
Ma vennero anche i primi insuccessi militari nella valle del Po, in seguito a una ripresa offensiva della lega; esplose, per la questione dei chierici siciliani e poi della Sardegna su cui la S. Sede affermava il suo diritto eminente, l'ira di Gregorio; una nuova scomunica cadde su Federico nel 1239. E fu rottura piena, guerra senza quartiere da una parte e dall'altra. I due contendenti furono egualmente portati non solo a trarre a sé partigiani, ad allargare materialmente il campo del conflitto, anche fra re e signori e borghesi d'oltre Alpe, a far propaganda delle proprie ragioni per mezzo di frati mendicanti o di scritti polemici o proclami; ma anche ad assidersi sopra una più sicura e alta base teorica. Così Federico, dalla sua parte, elaborò e ordinò sempre meglio il suo diritto regio e i comuni i loro statuti, quasi lex ormai anch'essi; e i giuristi portarono il loro contributo di diritto romano alla costruzione regia e imperiale e cittadina. Il re e imperatore cercò di elevarsi anche religiosamente e presentarsi investito del diritto di riformare la Chiesa, accendendo così non poche speranze di eretici o simpatizzanti. Dall'altra parte, si rinsaldò la disciplina romana dei nuovi ordini monastici; la "parte guelfa" fu sempre più tratta verso Roma, sino a diventare la pars ecclesiae; fu inasprita la persecuzione degli eretici e perfezionati gli organi della medesima; le Decretales, volute dal battagliero Gregorio IX, presero il posto del Decretum, privata compilazione di un monaco bolognese, rispecchiando la più alta e centrale posizione che papato e curia avevano acquistata nella Chiesa. Con Innocenzo IV (1243-1254), poi, furono messi da parte i titoli esterni, umani, contingenti, ai quali già si erano richiamati i pontefici per affermare la loro potestà politica su questa o quella provincia o regno, e siffatta potestà fu affermata come propria della Chiesa, in virtù della sua divina origine. La sfera spirituale più che mai si dilatò, assorbendo e comprendendo ogni relazione di vita, assoggettata tutta al controllo del potere religioso, depositario del divino, e divenuta tutta un enorme annexus dello spirituale. Sempre più il papa si sentì autorizzato a intervenire, ratione peccati, in ogni umano accadimento.
Federico II e l'Italia ghibellina. - Vicenda intessuta per gran parte sopra una trama italiana, questa che va, genericamente, sotto il nome di papa e imperatore, di Stato e Chiesa nel sec. XIII. Ma vi fu anche un potente sforzo di organizzazione unitaria di tutta la penisola, compiuio da Federico II come re e imperatore.
Scarse erano le relazioni di Federico con la Germania: e ben se ne giovarono principi secolari e alti prelati d'oltre Alpe, che accrebbero la somma delle loro prerogative e cominciarono a organizzare il paese come un insieme di piccoli e mezzani stati indipendenti. Per cui Federico, sentendo che la casa sveva perdeva terreno in Germania, si orientò sempre più verso i paesi di qua dalle Alpi. Si giovò, sì, di qualche risorsa militare della Germania e, in certi momenti, cercò di allargare fuori della penisola la sua lotta contro il papato. Ma si appoggiò essenzialmente sopra i suoi Pugliesi e Siciliani, sopra Pisa e Siena e Modena e Pavia e Como ghibelline, sui feudatarî e vicarî suoi di Toscana, Lombardia, Marca veronese. Una fitta rete di rapporti varî si tessé, per proposito suo o per forza di cose, fra il suo regno di Sicilia e il resto d'Italia: organizzazione burocratica, innanzi tutto, mediante vicarî imperiali scelti fra gente di Puglia, sudditi del regno; podestà pugliesi mandati a reggere città lombarde e piemontesi; Manfredi, figlio di Federico, Uberto Pelavicino, gran signore Obertengo, e la famiglia da Romano, messi e rafforzati con favori e uffici in Piemonte, in Lombardia e in Lunigiana, nella regione veneta fino a Trento e oltre, anche perché tenessero per l'imperatore le vie verso la Germania. Incoraggiò poi Federico l'immigrazione di stranieri nel regno, esentandoli dalle imposte per un certo numero d'anni: ragione per cui crebbe la frequenza di Pisani, Genovesi, Fiorentini, Veneziani, prima nei porti poi nell'interno del paese. Accolse in Sicilia un bel nucleo di Lombardi guidati da Ottone di Camerana e ne formò la colonia di Corleone, nel 1237, divenuta presto una delle più popolose e prospere terre del regno. Coltivò numerose relazioni personali nelle altre contrade d'Italia ed ebbe partigiani e sostenitori in ogni angolo della penisola. Si muovevano, questi, più che altro, per impulsi locali e interessi proprî, ma inserivano la loro azione politica in quella di Federico, come questo la propria nella loro. Taluni di essi avevano un volto che ricorda quello del re: Uberto Pelavicino ed Ezzelino da Romano. Vi erano podestà cittadini che subivano l'azione morale, oltre che, in certi casi, le precise direttive, del principe. Nei manuali podestarili del tempo, gli elementi teorici ricordano quelli che il re proclamava nelle sue accese proteste contro la curia. E viceversa, Federico non rimaneva insensibile a quel che accadeva nelle città, alla loro legislazione, alle loro scuole di diritto e di rettorica. La sua concezione del principe attingeva anche dalla tradizione bolognese, oltre che da quella di Bisanzio, che erano poi, un po', la stessa cosa. E del lavoro dei glossatori egli si giovò per rendere sempre più pieni i suoi diritti sopra i sudditi e il territorio. Svolgendo una sua politica personale e assolutistica, di larghi e varî intenti, egli, mentre allontanava dalla sua corte feudatarî e prelati, si circondava di giuristi che avevano tutti studiato a Bologna: Roffredo di Benevento, Taddeo da Sessa, Andrea di Bari, i due di Tocco, Pier delle Vigne da Capua, i maggiori di quella classe di uomini di legge che sono il nocciolo della borghesia nel regno, come anche, sebbene in minore misura, nell'Italia delle città. A essi, Federico aveva affidato la redazione delle costituzioni di Melfi; e, per suggerimento di Roffredo, istituita nel 1224 l'università di Napoli, che doveva essere quasi propaggine bolognese nel sud, secondo le intenzioni del fondatore. Si deve a quegli uomini il fatto che la legislazione di Federico risentì l'influsso tanto del diritto romano e canonico, egualmente elaborato dalla scuola bolognese, quanto dell'elemento statutario italiano. È merito loro se anche l'azione letteraria del nord e la cultura letteraria e artistica dell'antichità classica si fece sentire nel sud. Tali uomini sono quasi tutti delle provincie continentali e settentrionali del regno, Puglia, Campania, Molise e Abruzzo, provincie che sono più legate a Roma e al resto d'Italia. Fatto sintomatico, da mettere in rapporto con la tendenza del regno a spostare verso il continente e il nord il suo centro: tendenza che è un po' nelle cose ed è nella volontà del re, i cui occhi tanto si volgono verso la ricca, colta, raffinata Italia delle città. Decade la normanna e araba Palermo, sebbene seguiti a essere la capitale ufficiale; cresce invece Messina, città già greca e latina e ora latina sempre più, sollecitata da ambizioni di primato siciliano; cresce Napoli, ormai la maggiore città del Mezzogiorno in terraferma, non ostante le resistenze opposte alla conquista tedesca e le menomazioni subite alla sua autonomia comunale.
Insomma la dinastia, mezzo straniera di origine, si abbarbicava sempre più al paese (nessuna traccia germanica vedeva più Dante in Federico e in Manfredi!); e dinastia e paese sempre più si avvicinavano e quasi si saldavano all'Italia, non ostante le molte differenze sociali e la diversità di certi aspetti della cultura che perdurava e, sotto certi riguardi, cresceva, fra nord e sud. La conquista sveva del sud, venutasi a inserire nel movimento già iniziato dalle genti italiane, sempre più autonome di fronte al di fuori e sempre più tendenti ad assimilarsi, accelera questo movimento. E come rompe quei legami che si erano conservati o instaurati fra il regno e Francia e Inghilterra, e riduce al nulla le influenze greche e arabe sul Mezzogiorno; così toglie il regno all'antico isolamento di fronte al resto d'Italia. È quasi il ravvicinarsi di due storie poco legate fra loro e destinate ancora a staccarsi. Ma nulla va perduto nella storia, che è tutta un fare, nel suo perpetuo disfare. Federico avvertiva l'ostacolo, sempre più resistente, dello stato della Chiesa, e vi si gettava contro, quasi presago che esso avrebbe isolato il regno e che dall'isolamento sarebbe venuta la decadenza della monarchia e la sua maggiore soggezione alla curia. Roma tagliava le ali a quelle ambizioni regie e tendenze unitarie, pur mentre contribuiva a italianizzare il paese e la dinastia, prima aiutando la cacciata dei Greci e Saraceni e promovendovi la diffusione del cattolicismo romano, poi combattendo laggiù i Tedescrii di Enrico VI, influendo sulla cultura della corte durante la minorità di Federico di cui Innocenzo III era tutore, ostacolando l'effettiva unione delle due corone di Germania e Italia, di Germania e Sicilia, impegnando definitiva lotta con la monarchia universale. Funzione, in certo senso, nazionale, questa del papato, in rapporto a tutti gli organismi statali che volevano alla fine del Medioevo svincolarsi dall'impero, e specie in rapporto all'Italia.
A tutta questa azione politica, a questa lunga lotta, il regno di Sicilia fornì la base e molti mezzi. Se ne avvantaggiò il regno stesso? È lecito credere che la forza del regno piuttosto si logorasse che non si accrescesse e temprasse. Era forza di re, fatta di elementi vari, più che forza di popolo. Attorno a lui sta ancora troppa nobiltà, sempre come su terra di conquista. Il re può riuscire a contenerla: ma guai se rallenta il freno. Quelle energie economico-sociali che altrove corrodono dalle fondamenta la nobiltà feudale, qui sono deboli. La monarchia, nata da due conquiste, venuta su in piena rispondenza al bisogno di pace e ricostituzione statale di quelle popolazioni, ebbe certo empito di vita, certo impulso iniziale che la portò a operare largamente fuori dei suoi confini. Ma rada e debole è l'intelaiatura delle città e della borghesia e sono lenti i suoì progressi. Certo la popolazione cresce anche laggiù: e si vedono città nuove che sorgono: Corleone, Augusta; l'Aquila, che vivrà, insieme con la vicina Teramo, una vita prosperosa ma agitata, quasi da comune toscano o lombardo. Ma l'iniziativa regia ha parte non piccola in queste nuove istituzioni urbane. Se ancora nei secoli X e XI il sud poteva avere qualche elemento di superiorità sul centro e sul nord di Italia, quanto a commerci e vita cittadina, ora è rimasto indietro. La concorrenza di Venezia ha avuto effetti cattivi sui traffici levantini di Bari e di altre città marittime pugliesi. Pisa ha aiutato Ruggiero II a umiliare Amalfi: e Amalfi è decaduta. Il retroterra delle città marittime meridionali, compresa Messina, centro di buon traffico e di armamento navale, è in generale più povero e meno popolato che non quello di Genova, Pisa e Venezia. Il sud poco si risente dei progressi economici che compiono Francia e Germania e Paesi Bassi e Inghilterra: certo assai meno delle città toscane, lombarde, piemontesi, alcune delle quali sono vere mediatrici fra quei paesi e i paesi mediterranei. Il sud ha un buon traffico di derrate e materie prime assai ricercate: ma ad esercitarlo vengono sul posto Liguri e Veneziani e Toscani e anche Catalani e Provenzali, i quali vi si raggruppano in colonie ben distinte dalla popolazione locale. La nuova economia, perciò, anche per quel tanto che cresce, non determina corrispondenti formazioni sociali, capaci d'improntar di sé la vita dello stato. Si guardi anche la Sicilia. Tutto sommato, una Sicilia fondiaria, per tre quarti non molto diversa da quella dei Romani e Bizantini. I Normanni, coi loro feudi, poco hanno mutato l'ambiente. Sono solo padroni nuovi. Non si avverte sensibilmente quella dissoluzione di molta parte della grande proprietà signorile e chiesastica, che si avverte, per esempio, in Toscana; non quel mutamento di ricchezza feudale in ricchezza borghese e contadinesca. Nessuna nuova aristocrazia, nata dal commercio e dall'industria, si sostituisce alla vecchia; sono scarse, insomma, quelle formazioni sociali nuove che, altrove, diventano sostegno delle monarchie, oppure si affermano per conto proprio. Federico non trattò male le città, specialmente nei suoi anni migliori. Qualche autonomia la concesse. Ammise loro rappresentanti in parlamento. Ma la poca forza della borghesia tolse che questo parlamento, sorto laggiù, come in Inghilterra, coi Normanni, divenisse un elemento vivo e benefico del paese. Il dispotismo regio crebbe. E crebbe l'avversione delle città. E l'aristocrazia riguadagnò terreno. E la curia romana poté sfruttare con successo il malcontento delle popolazioni gravate di tributi e lo spirito autonomistico delle città. Poté tagliare i nervi alla politica del re, impedendo ch'egli si allargasse a nord.
Sviluppo della società comunale e albori di signoria. - Maggiore vigore sociale, più ricca economia, nel centro e nel nord d'Italia. Progressi rapidi del popolo, cioè borghesia, fatta di strati diversi ma pure affini e organizzati nello stato di città. Il molto battagliare delle fazioni, delle città fra loro, del papa e imperatore, anziché logorare sembra che alimenti e accenda le forze di questa società che, quasi abbandonata a sé stessa, compie la sua evoluzione verso la piena libertà delle persone e dei beni, verso un ordine politico suo proprio. Vi è un progresso agricolo, che si accompagna anche a rinnovato interesse per i fatti agrarî e a studio di più redditizia agricoltura. E questo progresso non è pensabile senza un progresso sociale delle campagne. Difatti, sta scomparendo la servitù della gleba: per uno spontaneo processo di affrancamento individuale, ma anche per virtù d'iniziative politiche e di leggi del comune che intendeva con ciò trasformare i dipendenti altrui in dipendenti proprî, soggetti ai servizî e ai tributi della città. Stanno sorgendo da per tutto diecine e centinaia di borghi o castelli franchi, opera qualche volta di signori, assai più spesso di comuni, che lì raccolgono la popolazione soggetta a feudatarî o a città nemiche, per farsene baluardo militare e per aumentare la popolazione del proprio territorio. Essi sono specialmente numerosi nella Valle del Po: nel vercellese e novarese, allo sbocco della Dora, nel piacentino e bolognese. È insieme fenomeno di aumento e di concentramento di popolazione. Sono sorte e sorgono anche città nuove, generalmente per sviluppo di villaggi di una certa zona. E la penisola, specialmente dalla Toscana e dalle Marche in su, viene diventando, ancora più che non fosse, il paese per eccellenza delle città e accentuando il carattere della sua civiltà, come civiltà essenzialmente cittadina. Fra i secoli XII e XIII, nasce Sarzana, che rapidamente assume importanza e titoli giuridici di città. Nascono Cuneo, Mondovì, Fossano, Cherasco, Savigliano ecc., per il vario concorso di antiche città nel cui territorio esse sorgono, come, ad es., Alba; di feudatarî i quali consentono che loro vassalli si trasferiscano e si raccolgano altrove; di preesistenti università rurali o gentilizie. I loro antichi signori conservano per un certo tempo diritti su quegli uomini trapiantatisi altrove e nell'amministrazione della nuova terra: ma presto debbono patteggiare, transigere, farsi cittadini, sottomettere al nuovo comune quanto hanno nei castelli del suo territorio, vendergli i loro diritti giurisdizionali o, se rifiutano, subire le ribellioni dei proprî uomini, alimentate dalla nuova città. In una zona riccamente mineraria, contesa da Pisani e Senesi e, più tardi, Fiorentini, si sviluppa Massa di Maremma; mentre in Sardegna, fra una popolazione in gran parte di minatori, reclutati sul posto o venuti da Pisa e Toscana, sorgevano Villa di Chiesa, Iglesias: due città che nel '200 hanno i loro statuti e dànno largo contributo all'elaborazione del diritto minerario. Opera invece di elementi liguri sono piuttosto Alghero, Bosa, Castel Genovese, che egualmente compaiono. È il tempo che la Sardegna muta aspetto. Sorgono o crescono Terranova, Oristano, Cagliari. Alla fine del '200, Sassari, arricchitasi di elementi genovesi e, più, pisani. Le concessioni territoriali dei regoli locali a Pisa e a Genova, con diritto d'istituire mercati, esigere tributi e servizî personali, esercitare giustizia ecc., hanno dato vita ad altrettanti centri di colonizzazione, specialmente lungo la costa, dove anche si rdccoglievano i prodotti dell'interno per l'esportazione. Cagliari è, al principio del '200, uno scalo di Pisani, un comune controllato e limitato da Pisa; e il suo capo rappresenta, insieme, i Pisani di Cagliari e il comune pisano. Intanto, anche le Marche si sono popolate di castelli e piccole città, che si giovano della rovina di tante famiglie feudali e ne attirano vassalli e contadini e cominciano a rappresentare la loro parte nella vita politica della regione, intolleranti tanto del dominio dei vicarî imperiali quanto della tutela della S. Sede: Fabriano, Matelica, Osimo, Iesi, Recanati ecc.; mentre si eleva sempre più l'antichissima Ancona, cresciuta di riputazione dopo la vittoriosa resistenza al Barbarossa, gareggiante un po' con Venezia nei commerci adriatici.
Ancor più visibili sono i progressi delle vecchie e maggiori città, quanto a popolazione e lavoro. Ormai non ve n'è una che non abbia la sua industria della lana. Non si può ancora parlare di "grande industria". Ma alcuni elementi di essa già vi sono: forte massa di lavoro, distacco netto fra chi possiede capitale e chi possiede braccia, coesistenza e mutuo aiuto di molte industrie, stretti rapporti con il cambio e con il commercio del denaro. Cambio e commercio del denaro sono cose di tutte le città: ma alcune sono vere città di banchieri, già nel '200: Asti, Piacenza, Lucca, Siena, Venezia. La quale ultima è, insieme con Pisa e Genova, città di armamento marittimo e di tutte le arti connesse con l'armamento. Sia ricordato, a questo proposito, come industria mineraria e metallurgica abbiano preso molto vigore. Tutto questo, tradotto in valori sociali e politici, vuol dire "popolo" che sale, cioè borghesia nei suoi varî strati e artigianato. Ed è visibile la sua tendenza a individuarsi nel comune, a darsi un proprio ordinamento nel comune e un proprio statuto e capo, con evidente carattere militare, ad assorbire poi il comune, a identificarsi con esso. Insomma avviamento a uno schietto regime di borghesia. Visibile, tutto questo, già nel terzo e quarto decennio del '200. A Milano, anche prima.
Ma questa età di formazioni sociali molteplici e di accesi partiti che creano anche capiparte; di borghesia e di numeroso artigianato che vogliono farsi strada, e hanno bisogno di chi li guidi in campo e generano anche capipopolo; di rinnovato intervento imperiale e regio nelle cose italiane, con uno sforzo, quale mai si era visto, d'instaurare o restaurare un ordine politico da contrapporre alla curia e alle città; questa età vede anche emergere o riemergere, ma sotto veste un po' mutata, il gran signore ricco di terre, castelli, militarmente forte, abile a inquadrare uomini e comandare. Non veramente da per tutto. In Toscana, ad esempio, la feudalità è ormai spiantata o vive solo ai margini della regione, a contatto con i piccoli centri: comunque, è un mondo ben distinto e staccato da quello delle città, se ne togli i conti maremmani di Donoratico e della Gherardesca. Ma sì nella Valle Padana, tra Alpi occidentali e Alpi orientali. È questo il paese delle grandi marche, da quella d'Ivrea a quella del Friuli; il paese degli Arduinici, degli Aleramici, degli Obertenghi, immigrati qui dalla Toscana ecc.; il paese anche dei Savoia che dal sec. XI hanno cominciato a tesservi la loro storia di montanari che scendono al piano e, un poco, s'inurbano. Questa aristocrazia è ancora bene in sella; ha guadagnato in indipendenza dall'impero, senza soggiacere alle città; sta trasformando i rapporti coi vassalli, instaurando la primogenitura per conservare l'unità patrimoniale, subordinando i varî membri a un capo, come fanno i Monferrato e i Savoia. Attratti dalle città, cercano agire su di esse, acquistarvi credito e forza e diritti. I Savoia, fattisi innanzi nel Piemonte con Oddone marito di Adelaide marchesa di Torino e Ivrea; e poi, per il sorgere dei comuni, ridotti quasi solo ai possessi transalpini; i Savoia lavorano con Umberto II e Amedeo III e successori fino a Tommaso II e Pietro II, a ricostituire i dominî cisalpini, inalberando ora bandiera imperiale ora papalina, giuocando di diplomazia e di forza, puntando prima sul Piemonte settentrionale, poi su quello meridionale. Qui sono i maggiori comuni della regione: massimo, quello di Asti, che prevale sulle città antiche, Alba, Torino, Chieri, e sopra le nuove, Alessandria, Cuneo, Fossano, Dronero, Cherasco, Mondovì, e che tiene testa ai Savoia, per timore che non le taglino le strade verso la Francia, dove sono i suoi maggiori commerci. Ramo savoiardo e ramo piemontese del casato procedono insieme, pur dividendosi il compito e subordinandosi l'uno all'altro. Via via che il primo acquista terre in Piemonte, le dà in feudo all'altro. Nel 1244, Pinerolo, lentamente circuito in seguito agli acquisti sabaudi, cade da sé: ed è lo sbocco di Val Chiusone in pianura, ai fianchi di Asti.
All'altro estremo della Valle Padana gli Estensi, che intrecciano ancor più le loro vicende con vicende cittadine. Essi hanno buone radici a Ferrara, che già al principio del '200 obbedisce loro come a signori; da Innocenzo III sono investiti, in persona d'Ildebrandino, della marca di Ancona. Col concorso di Venezia, riescono (1240) ad abbattere la signoria di Salinguerra, che, appoggiandosi sui ceti mercantili e artigiani, aveva loro conteso il primato; e da Ferrara cominciano ad allargarsi intorno. Esponente pure di ceti medî, anzi dell'artigianato e della Credenza di S. Ambrogio, da cui muove il primo impulso a quel mutamento istituzionale che sarà la signoria, è a Milano Pagano della Torre, che, eletto capo nel 1240 dopo aver guidato a vittoria il popolo milanese contro Pavia, aiuta la lotta contro capitani e valvassori.
Di più schietta e alta derivazione feudale, ramo del grande albero degli Obertenghi, come gli Estensi, come i Malaspina di Lunigiana, è Uberto Pelavicino, figlio di Guglielmo che era stato amico di Ottone IV, nemico di Innocenzo III, scomunicato fra il 1198-1205, negli anni stessi che Uberto veniva al mondo. Uberto cresce in potenza ora, proprio nel bel mezzo della Valle Padana, dove la famiglia possiede, fra Piacenza e Parma, il "podere Pelavicino", ingentissima massa di beni allodiali e feudali (che noi impariamo a conoscere dal diploma imperiale di Federico II, 9 maggio 1249, a Uberto), più tardi "stato Pallavicino", che dalla pianura s'infila su per la val di Taro e domina il passo della Cisa. E nella Marca trevigiana, i Da Romano, modesti signori al principio del sec. XI, coi castelli di Romano e Bassano, e riusciti ad acquistare influenza, possedere case e vassalli e amici, a Vicenza, a Treviso, a Verona, a Cittadella, presto emergendo nella regione sopra i Da Camino, i Camposampiero, i conti di Verona, gli Estensi, tutto un discorde groviglio di parentadi e di ambizioni. Paesi fra i più agitati d'Italia, questi dei Pelavicino e Da Romano, i quali si fanno centro e capi di partiti locali, raccolti in vasti agglomerati, di fronte ad altri e opposti agglomerati; ottengono dai partigiani che sono potenti in quelle città, e in più di una contemporaneamente, ufficio di "podestà" o "rettore" o "capitano"; altri uffici, riconoscimenti, sanzioni, ottengono dall'imperatore. Molteplice e varia base giuridica all'esercizio effettivo del loro dominio. Grande carriera fa il Pelavicino ai servizî di Federico. Semplice podestà di Cremona nel 1234; "podestà imperiale" di Pavia nel 1239. Poi, quando il re assume il governo della Lunigiana che è la sua strada verso la Valle del Po e serve a dividere le forze a lui ostili di Lucca e Genova, il Pelavicino diventa "capitano in Lunigiana", poi, "vicario imperiale in Lunigiana, Versilia e Garfagnana", organizzando di lì la guerra a Genova, cooperando con la flotta pisana e siciliana alla vittoria della Meloria. Declinando l'autorità di Federico, egli si raccoglie oltre Appennino. Ha sposato una nipote di Ezzelino e opera all'unisono con lui. Cerca una base propria, indipendentemente ormai dall'imperatore. Federico era ancor vivo, ma la Lombardia ghibellina e popolare faceva capo al Pelavicino, come a capoparte e tutore di determinati interessi proprî e altrui più che a vicario dell'imperatore, lontano.
Autonomia ancora maggiore è nell'azione di Ezzelino da Romano, che prima ha Verona come podestà, alternandovisi con Salinguerra; nel 1226 occupa Vicenza e vi mette podestà suo fratello, dominando così e Val d'Adige e Valsugana, strade fra Italia e Germania, e dividendo Venezia dalla rinnovata lega lombarda. Premuti da Venezia e dalla lega, i due Da Romano si avvicinano all'imperatore, e l'imperatore va nel'37 a Verona per consolidare la loro posizione. Ed ecco, lo stesso anno, il gran colpo: Padova, città ricca e potente che serra Venezia da vicino, investita improvvisamente, si arrende all'imperatore, lì rappresentato dal conte Gebeardo di Arnsten. Ma chi comanda è Ezzelino. Dopo Padova, è la volta di Treviso. L'accerchiamento di Venezia è compiuto. Nel 1238 Ezzelino sposa Selvaggia, figlia naturale di Federico. I Padovani e tutta la Marca cominciano "ipsum quasi per excellentiam dominum nominare", tacendo in segno di reverenza il suo nome proprio: insomma, il signore. E si fa sempre più indipendente da Federico. Riceve lui in dedizione gente che si è ribellata all'imperatore; mette alla porta podestà mandati dall'imperatore e nomina lui "podestà e vicarî dall'Oglio a Trento" suoi parenti che lo chiamano "signore". Anche lui e i suoi podestà poggiano a parte popolare, e da per tutto eleva a dignità militare uomini di popolo: quasi una nuova nobiltà. Viceversa vuole "omnes maiores et potentiores de Marchia Tarvisina delere pro posse" (Annali padovani). Colpì senza risparmio quanti cittadini avevano vassalli e clienti giurati; demolì castelli e torri e case turrite. E questo avvicinò a lui, contro patriziato e ricca borghesia, che erano il nerbo delle fazioni, il minor popolo, nella speranza anche che, messi al guinzaglio o sterminati quei faziosi, si potesse ottenere pace. Gli Ezzelino e Pelavicino e gli altri eguali a loro sono insomma un momento della storia della città e del popolo, contro nobiltà, contro privilegi ecclesiastici e invadenza clericale nel governo civile. A quest'opera essi portano quell'unità di comando e quella forza militare che alle città e al popolo mancavano. Sono fortemente organizzati per la guerra, aguzzano l'ingegno a ritrovare nuove macchine di guerra, tengono a soldo mercenarî italiani e tedeschi che la voce delle parti non commuove e "né paura. di scomuniche né paura di spade", come dice il cronista, stacca da lui. Ecco perché questa milizia mercenaria compare proprio adesso in Italia.
Il tramonto svevo. - La morte di Federico II, 1250, quando già il suo edificio si teneva su a fatica, tra defezioni di partigiani, ribellioni di sudditi, sconfitte militari, contrarietà e dolori d'ogni genere, fu per questo edificio altra e maggiore scossa. Si assottigliò e, qua e là, si spezzò di colpo la vasta trama dei vicarî e funzionarî che il re aveva un po' dappertutto. Cioè si spezzò non solo il vivo nesso che, nella persona di Federico, si era stretto fra le due corone di Sicilia e d' Italia, ma anche quella grossolana unità, di fatto oltre che meramente giuridica, che l'imperatore e re d'Italia era riuscito a ricostituire nell'ambito dell'antico regno d'Italia e anche in parte delle terre della Chiesa. Si spezzò anche quell'altra più libera e spontanea unità data dall'adesione delle mille forze locali e fazioni locali a un partito unico, il ghibellino. I guelfi, organizzatisi a grande stento in ogni città, negli anni della prevalenza sveva e ghibellina, e sempre più diventati parte di Chiesa, sempre più anche messisi a favorire i movimenti di popolo, che ora erompono da per tutto, presero in molti luoghi il sopravvento, o, se esuli, poterono rientrare in patria e riguadagnare posizioni perdute. La vita municipale, aduggiata nel ventennio precedente, qua e là riprese vigore sotto la protezione di parte di Chiesa e sotto bandiera di popolo, che era intanto quasi da per tutto asceso al governo della città, col suo capitano, il suo statuto, i suoi consigli, contrapposti al podestà, allo statuto e ai consigli del comune. Alcuni di questi comuni, anzi, presero ora un potente slancio. Così, in Toscana, Firenze, dove vivissima era stata, contro il governo dei vicarî di Federico, la reazione della borghesia mercantile e bancaria, umiliata politicamente e danneggiata dagl'interdetti papali. Anche nel regno di Sicilia, si ebbe un lieve pullulare di vita di comune, dopo tolta la pressione regia. Palermo, Messina, altre città insorsero. Innocenzo IV soffiò sul fuoco di queste rivolte cittadine, contro Manfredi che aveva assunto la reggenza e contro il viceré di Sicilia, conte Pietro Ruffo di Catanzaro. E poiché il viceré fuggì in Calabria, il legato papale, frate Francesco Ruffino, nominato dal papa vicario in Sicilia, vi fece valere la sua autorità. La curia intendeva assumere direttamente il governo del regno e annetterlo allo Stato della Chiesa, vagheggiando per quello un assetto di città autonome, come già era nel patrimonio, Marche, Umbria, Romagna. Certo apparvero laggiù magistrati e ordinamenti che richiamano quelli di Lombardia e Toscana. Si formò una specie di lega siciliana di città; e il parlamento, in cui esse e baroni e clero erano rappresentati, accennò a riprendere vita. Ordinamemo stabile, capace di sviluppo, se non interveniva Manfredi? È lecito dubitarne. Questa Sicilia papale e cittadina era destinata, se altra e più alta forza fosse mancata, a cadere, pezzo per pezzo, nelle mani dei baroni. Ma ritornò il re, Manfredi, vittorioso e incoronato l'11 agosto 1258 a Palermo.
Del resto, neppure nelle regioni di più fiorente vita cittadina, la tendenza era per la conservazione delle forme dello stato di città. La tendenza era piuttosto per i poteri dittatoriali, avviamento alla signoria, rimedio alla debolezza d' istituti poggianti sopra la mobile base dei partiti, delle corporazioni, dei raggruppamenti familiari: come si vide in tutte quelle città, dove, caduto il capoparte e quasi signore ghibellino, sottentrò un capoparte e quasi signore guelfo, oppure il vescovo fu esso investito, sotto nome di podestà o rettore, di amplissimi poteri, cioè riformare leggi, procurare pace, annullare le fazioni ecc. La tendenza era per più vasti conglomerati territoriali, meglio rispondenti alla più vasta organizzazione dei partiti, a certi interessi della borghesia mercantile, alla forza regionale di alcuni grandi casati che capeggiano questo duplice moto di trasformazione istituzionale e territoriale, al prevalere di alcune città sulle altre attorno. Così si vide Firenze, restaurata nella sua libertà dopo il 1250, intraprendere, per fini essenzialmente commerciali, una serie di vittoriose spedizioni contro Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo, che le resero più agevoli le vie dell'Appennino e le vie verso il mare e fecero di essa, come dice il poeta Guittone, la "regina della Toscana". Certo, si affermò già allora il primato economico, politico e anche giuridico di Firenze su gran parte delle città circostanti. Altrove questo ingrandimento territoriale si compì in vario modo sotto l'egida di un signore e assunse forme monarchiche: coi patriarchi di Aquileia, coi Savoia, coi Pelavicino, coi Da Romano.
Nell'estremo angolo nord-est della penisola, oltre il Tagliamento, si rinforzò, dopo la vittoria su Federico, il patriarcato d'Aquileia, vasto e vario principato ecclesiastico, in mezzo a genti latine slave e tedesche, a cavaliere fra la pianura veneta e i colli istriani. Da alcuni decennî, la S. Sede era riuscita, annullando l'antico privilegio elettorale del capitolo aquileiense, reclutato fra la nobiltà quasi tutta germanica e imperiale, a nominare essa il patriarca. E il patriarca così nominato si appoggiò sempre più alla S. Sede. La storia del patriarcato ci segnala da allora uno sforzo sempre più intenso di cementazione politica di questo vasto ma incoerente principato chiesastico. Importante questa storia, nel sec. XIII, anche per un altro rapporto: affermato il diritto della S. Sede nella nomina del patriarca, prima esercitato dall'aristocrazia locale; accresciuta la forza del signore sopra quell'aristocrazia e castelli e piccole città; tutta la regione fu attratta verso l'Italia e le genti italiane, anziché verso la Germania e le genti tedesche. Insomma, il confine ideale della nazione fu portato più in là e cominciò a consolidarsi sulla linea delle Alpi. Le terre del patriarcato cessano via via di essere una delle porte d'accesso dell'impero in Italia.
Nell'altro angolo della penisola, a nord-ovest, Tommaso II di Savoia, cresciuto assai nell'era federiciana, crebbe ancora nell'era antifedericiana che seguì. Egli si avvicinò a Innocenzo IV, che lo assolse dalla censura, sposò una Fieschi nipote del papa, ottenne un diploma da Guglielmo d'Olanda, effimero imperatore e re, a conferma di quello avuto da Federico, e l'intervento diplomatico del re e del papa presso signori e vescovi e comuni, perché gli obbedissero, a difesa dei nuovi possessi, contro Chieri, Alba, Asti. Utili alleati questi Savoia, ora che la curia s'è orientata verso occidente e cerca in Fiandra, in Inghilterra, in Francia aiuti per combattere gli Svevi e nuovi re da opporre a loro. Utili anche per i re o grandi d'oltre Alpi che cominciano ad avere ambizioni in Italia. Si delinea quella storia sabauda che cresce d'importanza via via che crescono i nessi fra la penisola e le monarchie dell'Europa nord-occidentale. L'astro di Asti in Piemonte sta per tramontare: e con essa tutta la vita comunale piemontese, di cui Asti era massimo campione.
Anche Ezzelino e Pelavicino non solo si mantennero in sella, dopo il 1250, ma proseguirono per qualche tempo a crescere. Il Pelavicino, raccoltosi tutto nella valle del Po, aveva a Cremona la sua maggiore base, col titolo di podestà. Al suo fianco, ma in sottordine, un altro capo ghibellino e di popolo, Boso da Dovara, di grande famiglia locale, come potestas mercatantiae: segno che a Cremona al centro del partito del nopolo è il ceto dei mercanti, come non da per tutto, pur da per tutto essendovi corporazioni e mestieri. Compito del Pelavicino è assicurare il partito del popolo da ogni possibile ritorno del partito avverso, che è fuoruscito. E da Cremona, egli raccoglie partigiani di Pavia, Bergamo, Lodi, Parma ecc., s'intende con tutti i capi locali del partito di popolo. Poiché ormai quasi ogni città ne ha, quasi signori: a Milano, i Torriani; a Lodi, i Vastarini; a Parma, Giberto di Gente ecc. Anche a Genova, è levato sugli scudi, come "capitano del popolo", Guglielmo Boccanegra, quasi signore per molti anni. Nel 1254, il Pelavicino è eletto podestà di Piacenza. È in questa sua qualità fa distruggere 14 e più castelli della montagna: donde l'esaltazione che il popolo fa di lui. La possibilità di vivere e commerciare era, per il popolo, la vera e sostanziale libertà. Nel 1254 è podestà di Pavia e Vercelli. Signore, insomma, di una signoria fatta di diritti vicariali e di podesterie liberamente conferitegli, di territorî e di partigiani disseminati anche là dove egli non ha effettivo comando. E signoria a vita: sebbene comincino a comprendersi esplicitamente anche gli eredi, fra quelli cui tale autorità è conferita. Signore di Piacenza e Cremona, Pelavicino domina la navigazione fluviale del medio Po, il passaggio del fiume, il crocicchio delle strade che dalla Lombardia (quindi anche dalla Germania) e dal Piemonte (quindi anche dalla Francia) vanno verso Romagna e Toscana e Roma. Unità poco coerente, quel vasto e vario territorio che aveva in Cremona e Piacenza, a cavaliere del medio Po, il suo centro, dirò, politico e a Busseto il centro patrimoniale, quella che poi, crollato il dominio, rimarrà capitale dello stato Pallavicino. E si regge questa unità, innanzi tutto, per virtù di un uomo. Ma si intravvede - e ne è prova, tra l'altro, la politica monetaria del Pelavicino anche una sottile trama d'interessi comuni e di comuni sentimenti che poi s'infittirà e darà consistenza alla rinnovata unità politica.
Grosso modo, si può dire che la signoria comincia a nascere servendo, contro le fazioni, che sono anche opera prevalente della nobiltà e dei ceti più alti, contro la "politica", gl'interessi del "lavoro" o le tendenze di quei ceti mezzani e minori che attendevano essenzialmente ai loro traffici e mestieri, poco partecipando al ribollire di odî attorno e sopra a sé. Erano anche questi nuovi dirigenti o signori legati a una parte, figli di una parte. Ma rappresentavano anche la tendenza a sciogliersi dalle parti, a rendersi indipendenti dalle parti. Questa tendenza che viene dal basso, confluendo con l'interesse dei signori e di ogni reggitore di stato, contro l'imperversare delle parti, spiega la politica di quei signori, già visibilissima fin d'ora, nei rapporti delle parti stesse. Lo stato di città comincia a risolversi nei suoi elementi: da una parte il governo, la milizia, i rapporti col di fuori, dall'altra l'ordinaria amministrazione cittadina.
Il Pelavicino è strettamente collegato coi Da Romano e loro città e da essi riceve nel'54 assicurazione di aiuto per sé e sue città e suoi partigiani, contro chiunque, anche contro chi venga in nome di re o imperatori. Nel 1258, l'uno e l'altro capo corrono anche in soccorso dei ghibellini bresciani, soccombenti, occupano la città e ne assumono insieme il governo. Ma qui, diventati troppo stretti i contatti, creati punti d'attrito, cessa la solidarietà. Ezzelino, che è arrivato a Brescia, guarda anche oltre: "Dice di voler fare in Lombardia, più grandi cose che non si siano fatte da Carlo Magno in poi" (Muratori, SS. XII, c. 6). È un abbozzo di regno padano, come poi si colorirà davanti agli occhi dei signori dominanti qui, al centro della grande valle? Certo Ezzelino guardava a Milano, fulcro della regione, grande attrattiva per tutti. E anche per il Pelavicino. E quando contro Ezzelino si formò nel giugno 1259 una coalizione in cui entrarono Azzo d'Este, il conte di S. Bonifacio, Verona, Padova, Mantova, Ferrara, ecc., tutti di parte guelfa, nella coalizione entrò anche il Pelavicino. Ezzelino puntò su Milano: ma a Cassano sull'Adda fu vinto dal Pelavicino. Il quale allora entrò in Brescia, se ne fece dare la podesteria, vi mise per suo vicario un nipote. Dopo questi primi contatti coi guelfi, il Pelavicino si accordò coi Torriani, guelfi pur essi. Martino podestà del popolo, per premunirsi contro un possibile ritorno dei ghibellini e dei Visconti loro capi, fece dare al Pelavicino l'ufficio di capitano generale di Milano per 5 anni. Nel 1260 acquistò Alessandria. Nel 1263, i Parmensi che avevano cacciato, non senza il suo zampino, il loro capo ghibellino Giberto da Gente, resosi odioso per la sua fiscalità, si obbligarono a far servizio militare col Pelavicino. Parma era fortemente agognata da lui. E ora egli è al culmine dell'ascesa. In vario modo, ma specialmente per il tramite delle podesterie, gli obbediscono gran parte delle città, da Alessandria a Brescia, a Modena, al mar di Liguria. Poiché sull'Appennino ha Pontremoli, che domina il passo; e dai Malaspina si è fatto dare castelli nella Lunigiana marittima. E Val di Taro e Val di Magra, sono anche zone di reclutamento di fanterie apprezzatissime allora.
Sono gli anni che Manfredi sembra essersi messo bene in sella. E non solo nel regno ma anche, sebbene con titoli e su basi diverse che suo padre Federico, sul resto d'Italia. Ereditava da suo padre qualche cosa, come qualità personali, come tendenza politica interna, come ambizione di potenza in Italia. Anch'egli, colto e amante di cultura e desideroso di propagarla nel suo paese. Poi, egualmente, lotta al privilegio chiesastico, pur con più abile condotta verso vescovi e arcivescovi, che gli procurò un notevole prestigio su essi, nei primi anni. Concorse a rimettere Manfredi sempre più nel solco di suo padre l'eguale ostilità della S. Sede e della parte guelfa. Gelosissima della Toscana era la curia romana: e per la vicinanza e i mille nessi di partito esistenti fra Toscana e Romagna, e quindi facilità di ripercussioni da quella a questa; e per i diritti patrimoniali e feudali che la Santa Sede accampava per la Toscana. Ma anche in Toscana vi fu, sotto gli auspici del re, una riscossa ghibellina, coronata dalla vittoria di Montaperti. Si costituì allora una lega ghibellina di città, per tenere salda la Toscana nel partito di Manfredi; lega di città che stette e operò a fianco e sotto la protezione del governo provinciale toscano di Manfredi e non più nell'immediaia dipendenza del re, come era prima con Federico. Grande importanza Manfredi annetteva a questa regione e specie a Siena, posta a sud. Di lì egli contava di stringere le terre della donazione e Roma e togliere ai papi Orvieto, loro residenza attuale.
Ma intanto, a Milano, dove i Tortiani e Martino della Torre podestà del popolo facevano una politica poco ligia a Roma, il papa ha elevato arcivescovo Ottone Visconti, della parte avversa ai Torriani. E allora Filippo della Torre, successo nel 1262 al padre, cerca di avvicinarsi a Roma. Anche il Pelavicino perde terreno, di fronte a tanto lavoro di avversarî. Nel'65, Filippo della Torre licenziò il Pelavicino dal suo ufficio di capitano generale di Milano, e cominciò a operare, in Milano e attorno, fuori di ogni tutela del Pelavicino. Sulla scia di Milano si misero le altre città lombarde. Era la riscossa dei guelfi, di quel partito ch'era fatto d'interessi autonomistici ancora vivi nelle città, e, nelle maggiori come Milano, di aspirazioni a primazia; fatto di ambizioni di altre famiglie d'altro partito, finora soccombente, ma che pure ambivano a signoria. Il Pelavicino fronteggiò con vigore la situazione. Cercò la salvezza in una perfetta solidarietà con Manfredi. Tentativi di Urbano IV per guadagnarlo fallirono. Ma l'agosto 1265, suo nipote Enrico di Scipione, che guardava Tortona e Alessandria contro il marchese di Monferrato, fu sconfitto. Brescia, poco dopo, gli si ribellò. Sopraggiunsero dal di fuori altre forze ostili.
Cominciavano nuovamente a partire dall'Italia i richiami a questo o quel principe da contrapporre a quelli che già fossero in Italia. Solo che non più, ormai, a principi italiani, come ancora poteva avvenire al tempo di Arduino. Né ci sono più signori simili ai grandi marchesi del secoli X o XI; e il diritto di disporre della corona d'Italia, sfuggito ai grandi, non assunto da città, nonostante qualche velleità romana o milanese o anche pisana, in nome della "parte ghibellina", è caduto nelle mani dei papi. I quali, fierissimamente avversi agli Svevi, diffidenti anche di ognî principe tedesco, dopo le esperienze fatte, si rivolgono altrove. Così, contro Federico, si era ricorso dalla curia a Guglielmo d'Olanda, elevato a re dei Romani nel 1247. Curia e Savoia avevano poi bussato alla porta di un principe inglese, Edmondo, per combattere Manfredi col sussidio di milizie papali e con denari forniti dai banchieri italiani. Contemporaneamente, erano partiti dall'Italia richiami e sollecitazioni a un altro principe dell'Europa mediterranea, ad Alfonso di Castiglia, uno stato che era in sul crescere e a cui, ora, saggio governo di principe, amore di cultura, ospitalità verso trovatori italiani in lingua provenzale, frequenti relazioni commerciali con i mercanti italiani, avevano procurato certa rinomanza fra noi. Subito dopo morto Federico, vacante l'impero, disperati di altro soccorso i suoi partigiani in Italia; Alfonso di Castiglia si era voltato con maggiore interesse alla penisola e quelli della penisola a lui. I Pisani lo sollecitarono a venire con la speranza di una corona; Ezzelino a lui regnum italicum promittebat; a Genova si armavano navi per suo conto; Enrico suo fratello diventava senatore di Roma. Ma, affermatosi Manfredi, la curia trovò in Carlo d'Angiò l'uomo da contrapporgli, mentre i Castigliani stavano per Manfredi, ed Enrico senatore partecipava alle ultime tragiche vicende degli Svevi in Italia.
Carlo d'Angiò, conte di Provenza, aveva già delle porte aperte sulla penisola: le valli piemontesi. In questi ultimi anni egli si è avanzato dalle Alpi Marittime e dall'Appennino ligure verso la Valle Padana, insinuandosi fra Saluzzo, Savoia, Monferrato, fra le Langhe e Asti. Nel 1251 gli si erano date altre città: Cuneo, poi Alba, Mondovì, Cherasco, Savigliano. Qualche abbazia gli cedé le sue temporalità. La neutralità benevola dei Savoia, che vedevano questa attività angioina volgersi specie contro la nemica Asti, fu di aiuto; più ancora, l'alleanza che nel'65 Carlo fece, in vista della spedizione di Sicilia, col marchese di Monferrato, in urto col Pelavicino e piazzato alla soglia della Lombardia, dove pure l'Angiò lavorava a crearsi una base di partigiani. Data questa preparazione diplomatica, si spiega come Carlo giunga al Garigliano quasi senza ostacoli e a Benevento vinca, con l'aiuto dei baroni che tradirono Manfredi e della curia che fornì benedizioni e denari; e vinca ancora a Tagliacozzo, sempre mercé il forte appoggio di Urbano IV, papa francese. Il quale, forse non credendo più, come per un momento Innocenzo IV, alla possibilità di governare direttamente il regno, voleva un nuovo Carlo che, senza corona imperiale né regno d'Italia, aiutasse la S. Sede a sostenere il partito della Chiesa in Italia, mantenerle obbediente la penisola, assicurarle il pacifico possesso di Roma, dove i papi non riuscivano a dimorare tranquilli, pur mentre pareva disponessero dei troni della terra.
Così, sistemate le cose del regno, Urbano IV volle sistemare la Toscana; e in mezzo, dormire tranquillo. Paese di banchieri, d'importatori di lana ed esportatori di tessuti, qui si doveva far leva su questi interessi. E già nel 1263, essendo Firenze parte e centro della lega ghibellina, Urbano aveva minacciato i consoli e l'Arte della lana di Firenze che, se non promovevano il passaggio del comune alla parte di Chiesa, egli avrebbe ordinato ai Veneziani e agli altri fedeli di Chiesa che erano in tutta Italia, pena la scomunica, di non fare commerci con loro. Col 1266, quel passaggio a parte di Chiesa era avvenuto; ma poiché i nuovi reggitori di popolo non intendevano mettersi a servizio della S. Sede e della sua parte, quella si volse a formare lì un partito guelfo o di Chiesa imperniato sull'alta banca, tenendo bassi gli elementi democratici. E l'ottobre '67, nel campo di Carlo d'Angiò attorno a Poggibonsi, si ebbe un parlamento di rappresentanti delle città soggette al re e una lega o "taglia" guelfa, cioè accordo per il comune mantenimento di un esercito che doveva, cominciando da Pisa, compiere l'assoggettamento della Toscana. E da allora fino a Bonifacio VIII, la Toscana fu sempre più aperta o piegata all'influenza, quasi dominio politico, di Roma, nel tempo stesso che questa lavorava per rendere effettiva la sua autorità temporale sullo stato della Chiesa fino a Bologna. Le condizioni di molte provincie favorivano questo crescente affermarsi angioino e papale. L'11 agosto 1270, in Sassari, i vescovi suffraganei della Chiesa di Torres, i rappresentanti del comune di Sassari e dell'università dei fedeli di parte di Chiesa del regno di Logudoro, eleggono Filippo figlio di Carlo "re e signore di tutta l'isola per la Chiesa romana", a cui l'isola stessa di fatto e diritto appartiene. Qualche anno dopo, Gregorio XI, abboccatosi a Losanna col nuovo re di Germania Rodolfo, ottiene da lui il riconoscimento della Sardegna e anche della Corsica. La ghibellina Pisa è, così, ferita profondamente. Anche in Lombardia cade il Pelavicino. Nello stesso tempo, ai piedi delle Alpi occidentali, altre città si davano a Carlo: fra cui Alessandria, città di diritto pontificio dal tempo della sua fondazione. E poi i marchesi di Ceva e Del Carretto, Tommaso I di Saluzzo e di Busca, i conti di Biandrate diventano suoi vassalli, mettono le loro forze a disposizione sua contro i fautori dello Svevo e del comune di Asti. I valichi alpini, per la Stura, il colle di Cadibona, il Col di Tenda, sono assicurati. Nel 1270 Torino caccia il podestà e si dà a Carlo. Poco dopo, anche Ivrea. Asti è ormai circondata. Alle autonomie cittadine, che sono sul tramonto, vengono colpi da tutte le parti: anche da uomini del papa, che pure di esse si era fatto un programma contro gli Svevi. Ma molte di quelle città si dànno a lui, per sfuggire a un più vicino signore, un Monferrato o un Savoia, che ora incalzano anch'essi.
Guelfismo e parte di Chiesa. - Così una nuova unità di partito si venne a formare da un capo all'altro della penisola, ma col suggello del pontefice e del nuovo re di Sicilia suo vassallo: per quanto i giuristi del regno cercassero di tener ferme certe tradizioni e, di fronte ad affermazioni contrarie, affermassero, a similitudine degli altri regni d'Europa e specialmente della Francia, che il re di Sicilia era monarcha, princeps regni huius, e che a lui competevano gli stessi diritti che agl'imperatori romani, salvi i capitoli concordati con la Chiesa nell'atto della concessione del regno. Il nuovo re di Sicilia non era, come Federico, anche re d'Italia e imperatore. Ma tuttavia seguitava quella tendenza a costituire di tutta la penisola un dominio solo, o almeno a controllarla tutta; quella tendenza a fare del regno di Sicilia punto d'appoggio di una costruzione politica comprendente tutta o gran parte d'Italia, che era stata così viva e operosa con Federico II e anche con Manfredi. Seguitava anche il graduale spostarsi del centro del regno di Sicilia verso il nord, perché meglio quei propositi di dominio o controllo italiano potessero attuarsi. Con Carlo d'Angiò Palermo non è più capitale neanche di nome. Contro Palermo il re favorisce Messina, che nel 1266 gli aveva aperto le porte e agevolato la conquista dell'isola e poi, mantenutasi ferma al tempo di Corradino, aveva dell'isola agevolato la conservazione. E capitale effettiva e nominale divenne Napoli. Da Napoli a Roma, breve il passo; e Roma è a mezza strada fra Palermo e Asti; da Roma si poteva tenere in mano il nodo delle fila della politica italiana. Quest'epoca di vittoriosa affermazione di parte di Chiesa e di Angiò in Italia fu anche epoca d'influenze intellettuali provenzali e francesi, preparate certo da condizioni e circostanze estranee alla politica ma dalla politica promosse.
E tuttavia questa nuova costruzione guelfa, angioina, papale, è appena abbozzata e già vengono dall'esterno i primi colpi. Intanto, il regno di Sicilia, da una condizione di piena indipendenza creata da Normanni e corroborata da Federico II, anche in virtù della sua qualità di re d'Italia e di imperatore; questo regno è passato a una condizione di dipendenza, teorica e pratica. Comincia una nuova fase nella storia del Mezzogiorno, non senza ripercussioni anche su quella delle altre regioni italiane. Arresto e arretramento dalle posizioni già assunte di fronte alla Chiesa, alla nobiltà, ai municipî. Le libertà ecclesiastiche si fan valere più che non avessero mai fatto nel sud. La nobiltà riprende vigore. Le città accennano subito a sciogliersi dai troppo stretti legami col regno, sia pure col consenso del re. Insomma, sintomi di rilassamento della compagine instaurata da Normanni e Svevi, dovuto non tanto a propositi di maggior equilibrio fra monarchia e forze locali e di più feconda collaborazione, quanto piuttosto a debolezza iniziale. Era un po' riflesso della nuova condizione giuridica del re e del regno. Tale rilassamento, subito visibile e avvertito anche dal paese, non andò unito a un miglior governo, a una più sollecita cura dei sudditi, a un alleggerimento del già grave peso fiscale: piuttosto il contrario. I Francesi poi, fecero subito il vuoto attorno a sé, per la loro arroganza e prepotenza. Si avvertì subito la presenza di una nuova baronia, venuta di Francia per fare fortuna, come già, in altri tempi, nel Peloponneso e in Siria. Cominciò subito nelle terre del regno a fermentare la rivolta: la spedizione di Corradino vi diede esca, in Sicilia, in Puglia, in Terra d'Otranto. Piccoli feudatarî e borghesi presero le armi. Ma la massa contadinesca e il clero, tornato in possesso di molti dei suoi privilegi, non secondarono: si fecero anzi strumento di reazione contro gli altri. Vi furono persecuzioni, bandi, spogliazioni, eccidî popolari e regi di borghesi, grandi confische di allodî: ciò che, in un paese pieno di possesso feudale, ecclesiastico e demaniale, voleva dire mortificare la produzione e la ricchezza, risospingere indietro il possesso libero, togliere aria respirabile a quel gramo medio ceto. Invece, si arricchiva ancora più il fisco, si creavano nuovi signori, grandi o piccoli, specie di origine francese, che spadroneggiarono poi sulle minori città, vi si fecero un partito, rinfocolarono le gare locali, che ora riprendevano vigore anche in seguito alle cresciute attribuzioni delle università nei rapporti fiscali e giudiziarî e alla elettività di molti organi locali di amministrazione. Laddove la plebe rurale, schiacciata dal fisco, riprendeva a disertar borghi e casali, a vagare nomade di luogo in luogo, a rendere mal sicure le vie, a insidiare città e castelli. Si delinea la moderna storia del Mezzogiorno d'Italia.
E anche fuori del regno, l'opposizione montava. Nel 1271 fu eletto papa Gregorio X, che nel '72 rientrò solennemente in Roma, dopo che per due anni la città era quasi in balìa del re. Con l'elezione di Rodolfo, sollecitata dalla S. Sede che voleva controbilanciare l'influenza dell'Angioino in Roma, cessò anche la vacanza imperiale e quindi cadde il vicariato imperiale di Carlo. E dall'imperatore il papa si fece riconoscere e confermare Romagna, Sardegna, e Corsica. In Piemonte i Monferrato, delusi nelle loro aspirazioni sopra Ivrea allo sbocco di Val d'Aosta, i Savoia offesi per Torino, Asti circuita, serrarono le file. E da essi mosse la reazione che nel 1272 fece crollare per qualche tempo il dominio angioino in Piemonte. A Firenze, grave malcontento è fra borgnesia e artigianato, che il regime di parte guelfa, regime di nobiltà, aveva risospinto indietro, dopo il balzo in avanti del primo popolo, 1250-60. E la S. Sede si adopera qui e altrove per far cessare il contrasto dei partiti, che era anche un pretesto a interventi angioini. Certo, non mancavano segni di crisi nei partiti tradizionali. Si attenuano, negli spiriti meno inveleniti dall'odio di parte, certe posizioni antitetiche, si delineano posizioni intemmedie che non saranno più né guelfe né ghibelline.
In tali condizioni e con tali umori, s'incoraggiavano fuori d'Italia nuove ambizioni. Rifiorivano le speranze di Alfonso di Castiglia, a cui giungevano calde invocazioni di liberare il fratello Enrico, infante di quel regno, caduto prigioniero di Carlo. Ambasciatori castigliani già nel'70 trattavano col marchese di Monferrato. E messi del marchese e dei fuorusciti ghibellini di Milano andavano in Spagna. Nel 1272, la figlia di Alfonso, Isabella, sposava il marchese e questi era fatto dal re suo vicario in Lombardia, mentre signori lombardi giuravano al re fedeltà; Buoso da Dovara veniva messo al comando di un corpo di milizie castigliane, giunto su galere di Genova, pur essa alleatasi a quel re; i capi ghibellini acclamavano Alfonso a loro capo. Ma anche ora, la parola decisiva la disse il papa. E il papa riconobbe l'Asburgo: che fu tuttavia, anch'egli, una soluzione non favorevole all'Angioino. E intanto nel 1275, 10 novembre, grave sconfitta di Carlo a Roccavione, per le forze riunite di Asti, Monferrato, Pavia, Vercelli, Novara, Genova, Alessandria. Si avvantaggiavano Saluzzo, Savoia e più ancora, per il momento, Monferrato, con Guglielmo VII, che nel 1278 si fece nominare anche capitano generale di Milano, Vercelli, Pavia, Novara, Tortona, Alba, Torino, Como, Ivrea, per 5 anni, e nel marzo 1279 indisse un parlamento ove intervennero i rappresentanti di tutte queste città e di Genova, Mantova, Verona, Asti. Ormai, le varie forze della regione piemontese son tutte variamente mobilitate nel quadro della politica generale della Valle del Po e dell'Italia. Forte delle sue relazioni e dei suoi parentadi castigliani, il marchese altri vincoli contrasse con Aragonesi.
Poiché dalla Spagna, un altro principe, più audace e fortunato del re castigliano, Pietro d'Aragona, si sta facendo innanzi. Egli è marito di Costanza, figlia di re Manfredi; e, dopo il 1266, ha una vendetta da compiere e un'eredità da raccogliere. E poiché la madre di Costanza è una Beatrice di Savoia, così il re aragonese ha qualcosa da fare anche in Piemonte, cioè alle spalle di Francia e degli Angiò, con i quali è in guerra. E vi cerca alleati. Egli deve anche secondare le tendenze espansive e gl'interessi mercantili dei suoi Barcellonesi e Catalani, che sono animati da grande spirito di avventura e di conquista, molto coltivano la Sicilia e il porto di Messina, quasi loro porto, e vogliono, in patria, sostituirsi agl'Italiani. Egli attende perciò contemporaneamente alle cose della Sicilia e a quelle della Valle del Po, ospita esuli siciliani fra cui Ruggiero di Lauria e Giovanni da Procida, coadiutore abilissimo del re nella sua politica di accerchiamento dell'Angioino, si tiene in relazioni con ghibellini toscani e lombardi, sembra anzi che guardi alle terre lombarde da spartirsi coi Monferrato, prima che alla Sicilia.
Le difficoltà interne di Aragona, l'inimicizia col regno di Castiglia distolsero Pietro III dalle cose piemontesi. E poi, precipitarono gli avvenimenti siciliani. Portavano i loro frutti tanto il fiero odio contro i Francesi accumulato nelle popolazioni, quanto le trame diplomatiche che si erano venute tessendo attorno e contro il regno, difensive e offensive insieme. Poiché Carlo aveva, dai predecessori nel regno di Sicilia, raccolto anche ambizioni espansive verso l'Oriente: cumulate con quelle che, come vassallo del papa e come fratello del re cristianissimo, portava nel petto e che si riassumono in una parola: crociata. Alla quale egli si veniva preparando, avendo di mira la ricostituzione dell'impero latino in Oriente. E s'intese coi signori di Atene e di Negroponte; s'intese coi Veneziani che volevano tornare allo stato di cose instaurato laggiù con la quarta crociata. Ma Genova, informata, informò alla sua volta l'imperatore greco; il genovese Benedetto Zaccaria, gran signore e mercante ligure bizantino, promosse un'alleanza tra impero e Aragona e Glovanni da Procida per gli esuli siciliani. La spedizione di Venezia e di Carlo era fissata per il 1283.
Ma il 21 marzo 1282, ecco i Vespri, un'insurrezione improvvisa, spontanea, popolare. Dopo le trame dei nobili signori siciliani e dei ghibellini italiani con re Pietro d'Aragona, ma senza rapporti con esse, ecco la borghesia e il popolo minuto, in mezzo ai quali ribolliva fierissimo malcontento contro i Francesi per le gravi imposte. Nuclei armati di Palermitani e Corleonesi misero a rumore la regione attorno, trascinarono tutti a rivolta, cittadini e contadini. Dappertutto, si elessero rettori e capitani per organizzare la caccia ai Francesi. Raccoltisi poi in parlamento a Palermo, gl'insorti, dopo invocato il nome della Chiesa romana, statutum communen firmaverunt. Si costituì così la Communitas Siciliae, a cui via via aderì gran parte della Sicilia ribelle, con centro a Palermo. Riluttava Messina, con le terre attorno. La S. Sede, a cui i ribelli si offrirono, rifiutava anch'essa. Nella difficile situazione, vi furono contatti fra i nobili congiurati e la rivoluzione di popolo. In parlamento si dichiarò che, da soli, i ribelli non avrebbero potuto mantenersi. E allora, partirono di lì messi per re Pietro, il 27 aprile. Dopo qualche giorno, Messina aderì alla comunità siciliana: ma ormai l'appello all'Aragona era lanciato. E tuttavia i Messinesi erano sempre per l'autonomia, né volevano impegnarsi per il lontano signore. Nel giugno mosse la controffensiva di Carlo d'Angiò: e si abbatté su Messina che resisté fermamente, sebbene incompiute fossero le mura. Crebbe con ciò, nei Messinesi, la coscienza della loro forza; sempre più furono riluttanti al nuovo giogo. Altre città si accostarono ad essi, in specie della Sicilia orientale. E in breve nacque una nuova comunità o federazione, con a capo Messina; e al comando Alaimo da Lentini, capitano, e una giunta di Siciliani. Alaimo rimise la città nelle mani di un legato papale. Ma la Santa Sede seguitò nella sua ripulsa: e allora, i Messinesi aderirono anch'essi al parlamento di Palermo e alla chiamata di re Pietro.
Crollavano così i piani orientali di Carlo d'Angiò. Il credito politico di Roma e l'influenza francese in Italia ricevevano un duro colpo, inizio di grave decadenza. Si ebbe l'intervento aragonese nell'isola e la guerra del Vespro, per terra e per mare, in Sicilia e nel continente, in specie lungo la regione costiera della Lucania, fino a Salerno e Napoli. Col trattato di Caltabellotta, le terre di là dal Faro rimasero agli Aragonesi e la Spagna gittava il primo pilone del suo ponte verso l'Italia, presto seguito da un altro. Poiché nel 1297, Bonifacio VIII, in odio ai Pisani, investì della Sardegna re Alfonso di Aragona, che non tardò a prendere le armi per conquistare l'isola. Così la breccia, aperta nel 1266 dall'iniziativa dei pontefici, si allargò. La penisola cominciava a trovarsi di fronte e a soggiacere a stati europei militarmente e politicamente più forti.
Vita e cultura di borghesia italiana: secoli XIII e XIV..
Attività economica entro e fuori la penisola. - Effimera unità dunque, dopo quella ghihellina, anche questa papale, angioina, guelfa. Effimera, come unità di dominio o controllo politico su tutta la penisola. Ma importante, l'una e l'altra, come indice e causa di comuni elementi di vita, comuni tendenze e passioni e pensieri, dalle Alpi alla Sicilia; come indice e causa di corrosione e rilassamento d'istituti e spiriti municipali.
Questa fase della vita italiana, segnata dalla prevalenza papale, guelfa, angioina, è fase anche di grande sviluppo di attività mercantili e bancarie, specialmente nell'Italia comunale. Il guelfismo è, spesso, prevalenza di interessi volti al commercio e alla banca, che in esso trovano maggiore difesa e impulso. All'ombra della sua bandiera, e nelle condizioni che esso crea nella penisola, le città che hanno maggiori capacità e possibilità economiche prevalgono ora sulle altre. Venezia, che nel'200 si volge con più attenzione alle cose della sua vicina terraferma e incontra ostacoli nelle incipienti formazioni signorili dei Salinguerra e degli Ezzelino a Ferrara, a Padova, a Treviso, a Verona; Venezia ora trova nella lotta contro il ghibellinismo un'eccellente occasione per affrettare la rovina di quegli incomodi vicini. Posta al margine della vita italiana, Venezia comincia a legarsi ad essa con vincoli politici e commerciali assai notevoli. Si sono anche moltiplicati in questo tempo i nessi della Lombardia coi porti dell'Adriatico, specialmente con Venezia; ancora di più, quelli con Genova. Genova nel '200 diventa sbocco assai ricercato della regione piemontese e anche di Bologna; ma essa è, più veramente, quasi porto di Milano, come la chiama Bonvesin della Riva. Già fra i secoli XII e XIII vi sta una colonia numerosa di mercanti milanesi. Fra l'altro, Milano vi ha acquistato quasi il monopolio del commercio delle armi. Le comunicazioni attraverso l'alessandrino e tortonese con la Liguria e la Francia; quelle con la Toscana per l'Appennino parmense e piacentino; con la Germania per Como, Val di Blenio, Val Leventina, Valtellina, Milano le cura e difende con ogni mezzo, guerre o trattati. Rivendica su Federico II e i Comaschi Val di Blenio e Leventina. Toglie a Como Bellinzona, sbocco di quelle valli nel Verbano. La signoria dei Torriani è difesa del commercio milanese all'interno e fuori, contro nobiltà e signorie padane. Le quali ultime, tuttavia, sono anch'esse sollecite degli interessi mercantili della loro città, come mostra l'esempio del Salinguerra a Ferrara e del Pelavicino nel centro della Valle Padana.
In Toscana c'è ancor più movimento economico che dà alla regione certa discorde unità e di lì irraggia largamente attorno. Tutto il paese, in particolar modo il Valdarno, gravita su Pisa per il porto, il quale unisce e divide quelle città. Ma dalla metà del '200 in poi, Firenze si mette d'un balzo alla testa della regione. Le guerre guelfe contro la ghibellina Pisa spingono i comuni della toscana Taglia Guelfa, capeggiata da Firenze, a utilizzare il porto di Genova, alleata contro i Pisani. Quasi tutti i comuni di Toscana hanno patti e trattati con Genova. Non meno della strada di Genova, Firenze conosce quella di Venezia, tramite col vasto mondo. Case veneziane e fiorentine lavorano lì insieme, per imprese di Puglia e d'Oriente, dove fra non molto le esportazioni veneziane si troveranno di fronte la concorrenza delle industrie fiorentine, in fatto di pannilani e seterie. E probabilmente il punto di partenza di quelle molte famiglie fiorentine che fra poco cominciano a comparire nelle città di Croazia e di Dalmazia, Salviati, Altoviti, Giacomini, ecc., è Venezia. Con Venezia e Padova e le città della Marca Trevigiana, come con Genova e Modena e Reggio e Parma e Cremona e Milano, Firenze ha, fra il 1270 e il 1280, una serie di trattati commerciali. Fino all'angolo nord-est della penisola, il Friuli e il patriarcato sono meta d'immigrazione di famiglie fiorentine, senesi, locchesi, pisane, che tocca nella seconda metà del '200 il suo punto più alto. Essa è determinata anche dalle lotte dei partiti e dai forzati esilî: ma si rivolge ad attività essenzialmente economiche. Ai Toscani si aggiungono o si sostituiscono, attorno al 1270, anche Lombardi, chierici e secolari, amici e consorti al seguito di Raimondo della Torre, già vescovo di Como, ora patriarca di Aquileia. La sua casa diventa un focolare e un punto d'irradiazione di Lombardi verso le città istriane. Un della Torre è anche primo podestà di Trieste, nel 1293.
La politica guelfa seconda e promuove anche i rapporti di Firenze con Bologna e la Romagna, terra della Chiesa, per le valli Ombrone-Reno, Sieve-Lamone. Faenza è sbocco importante sulla Romagna. Tra Firenze e Bologna vi sono addirittura, nel '200, pagine di storia comune, per quanto riguarda le lotte contro parte ghibellina, l'emancipazione dei servi, le leggi contro i magnati: ormai l'antica barriera fra Italia longobarda e Italia bizantina non esiste più. La nuova e propria vita delle città l'ha distrutta. E anche mondo feudale toscano e romagnolo sono una cosa sola: oggetto di preoccupazione per i papi, che vogliono essere padroni in Romagna; e anche, per essi, incitamento a dare unità politica, unità papale, alle terre di Toscana e di Romagna. Ancor più si risentono della vittoria guelfa del 1266 i rapporti economici di Firenze, e anche di Venezia, con l'Italia meridionale. Le porte del regno ora veramente si spalancano. Se Carlo, di laggiù, lavora a dominare politicamente Toscana e Valle del Po, il regno invece e la corte del re cadono nell'influenza del commercio e della finanza del nord, specialmente di Firenze e di Venezia.
Questa attività mercantile, data la posizione della penisola fra mondo europeo e mondo greco e islamico, presto ampliò grandemente la sua sfera. Oltre la geografia, giovò la storia: cioè certa tradizione cosmopolitica, alimentata da Roma e dal papato, divenuta poi quasi natura. Dalla penisola era mossa, nel sec. XI, la controffensiva all'islamismo e la riconquista del Mediterraneo centrale. Nel sec. XII e al principio del '200, Veneziani, Pisani, Genovesi, padroni delle vie marittime, forniti di denaro, allenati ai traffici con l'Oriente, possono non solo volgere a loro posta le spedizioni dei cristiani d'Occidente, ma anche decidere la sorte delle piccole signorie feudali sorte dalla quarta crociata, influire sulla politica dell'impero greco. Un po' si imponevano, un po' erano ricercati. Si moltiplicarono i privilegi commerciali, la concessione di case, piazze, scali, chiese, intere contrade, entro tutte le città d'Oriente. In una prima fase, fin dopo la metà del '200, primato di Veneziani, più vicini e più forti, più esperti dell'ambiente orientale, meno attardati da devastazioni saracene. Quel primato ricevé suggello dopo la quarta crociata, che fu impresa soprattutto di Venezia e si risolse specialmente a suo vantaggio. La restaurazione della dinastia greca, voluta e preparata da Genova, segnò anche la prevalenza della Superba in Oriente. Il trattato di Ninfeo, conchiuso fra Genova e Michele VII Paleologo, imperatore di Nicea, fu tra i più accorti atti di politica coloniale in Oriente. Da allora, si delineò sempre più come una divisione dell'Oriente in due sfere d'influenza: Genova, più forte nella Siria, nella regione costiera della Piccola Armenia (Adana), a Costantinopoli, nel Mar Nero, nel Mar d'Azov, fino a Tana. Sorge, nel Mar Nero, la grande colonia di Caffa, che poi diventa anche vescovato. E più le colonie cristiane di Siria e Palestina diventano malsicure, più acquistano importanza le altre che sono attorno al Mar Nero: importanza non solo commerciale ma anche religiosa. Venezia, invece, si consolidò nell'Egeo. Ebbe le grandi isole, massime Creta e l'Eubea, base della potenza veneziana in Oriente. E sia perché erano terre più vicine e popoli più affini, sia perché Venezia aveva più largo spirito di romana umanità, essa costruì più durevolmente, creò veramente una civiltà veneziana e italiana in Oriente, legò una sua tradizione levantina alla nuova Italia del sec. XIX. Anche Pisa ebbe un'eccellente posizione in Levante: in certi momenti e luoghi, anzi, pari e superiore a quella dei Genovesi, come a Costantinopoli nel sec. XII. Campo d'azione di questa città fu, però, specie l'Africa settentrionale, meta delle sue giovanili spedizioni nel secolo XI: cioè la regione a ovest delle Sirti, da Tunisi a Ceuta. Il dominio della Sardegna favoriva.
Entro questi limiti geografici si svolse, si espanse, quella che si può chiamare l'attività coloniale degl'Italiani dal secolo XI al XIV. Sono anche Italiani dell'interno. Spirito d'avventura, insofferenza del piccolo ambiente cittadino, richiami del fascinoso oriente, pellegrinaggi che possono anche dare occasione a traffici e imprese di guerra e acquisto di preda, sollecitano anche Veronesi e Piacentini, Lucchesi e Bolognesi e Fiorentini. Ma i più sono Italiani delle città marinare, specialmente del nord, e gente dedita al commercio: per quanto commercio marittimo e guerra e corsa e acquisti coloniali non fossero poi cose tanto diverse e disgiunte, da non formare spesso una vicenda sola. A volte, da questa attività fra privata e pubblica, fra militare e piratesca, nascevano acquisto di terra e signorie, simili a quelle che nascevano in terraferma per opera di feudatarî, uomini di parte, vicarî imperiali e funzionarî di città. Corsari e mercanti insieme furono parecchi di quei privati cittadini che in Oriente conquistarono con proprî mezzi un'isola o una città di terraferma, ne ottennero il riconoscimento dalla madrepatria, vi fondarono una dinastia: i Sanudo a Nasso, i Dandolo ad Andro presso l'Eubea, i Quirini a Stampalia, i Contarini ad Ascalona, tutti Veneziani; i genovesi Gattilusio a Eno, sulla costa di Tracia, a Samotracia, a Imbro, a Lesbo, a Taso, a Lemno, Ghisolfi a Matrega fra Mar Nero e Mar d'Azov, De Marini a Bachtar sul Mar d'Azov, i Senarega a Castel d'Elci sulle foci del Dniester, Cattaneo della Volta a Metelino, Da Castello a Focea e Scio.
Ma accanto a costoro, i numerosissimi nuclei stabili di popolazione, che di solito son parte di una maggiore città, ma qualche volta costituiscono una città a sé, distinta dall'altra, come ad Altoluogo, presso l'antica Efeso, allo sbocco della strada Baghdād-Costantinopoli sull'Egeo, dove, nel'300, è in alto la città turca e lungo la marina la città italiana. Sono le vere colonie della nuova borghesia mercantile, vere propaggini della madrepatria, con istituzioni modellate su quelle di Pisa o Genova o Venezia, con la chiesa consacrata alla stessa divinità protettrice. I coloni vi godono libertà di commercio, esenzione di tributi, redditi fiscali proprî. Spesso, come nella Siria, dove questo complesso di privilegi fu più grande che altrove perché più importanti quelle colonie; spesso, anche una discreta zona di terre attorno, coltivate da indigeni per il possessore italiano. Di solito, sono attaccati alla costa o al vicinissimo retroterra, questi nuclei d'Italiani: e lì, attendono le merci recate dall'interno. Ma spesso, di lì s'irraggiano verso l'interno. Nel '200, a Iconio, nel centro dell'Anatolia, il commercio di alcune derrate è monopolio di Veneziani e Genovesi, i quali si mantennero in strettissimi contatti con gl'imperatori greci, nel sessantennio che essi ebbero laggiù la residenza. E Veneziani, Genovesi, Pisani, Piacentini tentano le vie della Piccola Armenia, dai porti della Cilicia, specialmente da Laiazzo; fanno il commercio carovaniero per l'Asia anteriore e la Persia. Qualche italiano si spinge fino al cuore della Moscovia: e nel 1300, se ne trovano a Novgorod, con i più numerosi mercanti tedeschi. Ma la più grande peregrinazione, nell'interno d'uno sconfinato continente, è della seconda metà del '200, proprio del tempo che segna, sotto molti rapporti, il maggior empito . dell'attività mercantile degl'Italiani. Dopo Giovanni da Pian dei Carpini, umbro, uno dei compagni di S. Francesco; dopo Giovanni da Montecorvino, che rappresentarono la penetrazione diplomatico-religiosa del papato e del cattolicismo romano fra i Tatari d'Asia, ecco i Polo veneziani: Marco Polo, specialmente, totius orbis et Indiae peregrinator primus.
Quadro diverso, a Occidente, nella stessa epoca o poco più tardi. Qui gl'Italiani sono solo mercanti, cambiatori, banchieri. Assai per tempo, se ne vedono in Portogallo e in Spagna, a Barcellona e in Aragona: Genovesi e Toscani, specialmente di Pisa e Firenze. Poi si volsero alla Francia. E la Francia divenne terra di buoni affari per gl'Italiani, Piemontesi, Lombardi e Toscani: prima la Champagne e la Francia meridionale, dove nel secondo '200 mercanti di città guelfe, specie Lucchesi, trovarono buona protezione; poi, nella Francia occidentale, a Parigi. E cominciò ad annodarsi quel legame dei Fiorentini con terra di Francia che poi farà di Firenze uno dei punti d'appoggio della politica e della penetrazione francese in Italia. Lì, campo propizio ai prestiti e alle usure e buona scuola di pratica commerciale. Sul finire del '200, anche l'Inghilterra si apre agl'Italiani, per il commercio del denaro, della lana, delle merci orientali. Intanto, altri Italiani coltivano le Fiandre, altri la Germania. Dalla Germania e dalle Fiandre essi giungono in Ungheria e Polonia, dove s'incontrano con altri Italiani che vengono dal Mar Nero.
Naturalmente la maggiore importanza loro, per numero e funzioni, è nell'Europa occidentale, in certa misura, nell'Europa centrale. Agenzie e agenti, relazioni d'affari e giro di capitali hanno a Lione, a Marsiglia, a Norimberga, ad Augusta, a Troyes, a Bruges, a Parigi, a Barcellona, a Londra, altrove. Si forma una vera aristocrazia, che è denaro e intelligenza insieme, ed esercita azione europea per un paio di secoli e più, avanti che molte porte le si chiudano o essa stessa si logori di fronte a mutate condizioni delle nuove economie nazionali. Essa conta gli Scarampi, i Soleri, i Malabaita di Asti, i Crivelli, i Taverna, i Pozzobonelli, ecc., di Milano; i Ricciardi, i Cenami, gli Arnolfini, i Rapondi, i Bonvisi, i Burlamacchi di Lucca; i Salimbene, i Gallerani, i Tolomei, i Bonsignori, ecc., di Siena; i Bardi, gli Ardinghelli, i Peruzzi, gli Acciaiuoli, gli Albizzi, i Cavalcanti, i Sassetti, i Frescobaldi, poi i Medici, di Firenze. Vengono dalle file del patriziato consolare e, taluni sono nobiltà rurale inurbata, poiché terra ed aree urbane, cresciute assai e rapidamente di valore dopo il sec. XI, hanno non poco concorso alla formazione del capitale; oppure vengono dal piccolo traffico, dal cambio della moneta, dal lanificio. Comunque, sono le potenze finanziarie del tempo, relativamente, e a volte assolutamente, grandi potenze, anche nella politica. La storia ricorda re e baroni: ma alle loro spalle, consiglieri, finanzieri, finanziatori, ecco questi Italiani accortissimi, che sanno adattarsi al luogo e al tempo, essere umili e orgogliosi, violenti e astuti.
Rafforza la posizione finanziaria, il credito e l'influenza politica loro la stretta relazione in cui, a una certa epoca, entrano con la S. Sede. A banche italiane e alle loro succursali all'estero, la curia affida il deposito fiduciario e la trasmissione a Roma delle somme riscosse dai collettori di decime e rendite ecclesiastiche in tutte le parti del mondo cattolico, assai cresciute dopo la riforma gregoriana, che volle essere e fu anche organizzazione fortemente unitaria e monarchica della Chiesa, rivendicazione di molte "libertà" e diritti e censi ecclesiastici. Abbondanti esse sono nel '200, al tempo del grande prestigio internazionale del papato e del grande numero di prelati italiani rivestiti di uffici e prebende in Germania, Francia, Inghilterra. Questo compito di trasmissione appare, già sul principio del '200, assunto dalle società mercantili e bancarie italiane, quelle stesse che con i prestiti sovvenivano ai bisogni delle chiese e contribuivano potentemente alla secolarizzazione e mobilitazione del grosso possesso fondiario ecclesiastico, in Italia e fuori. Roma, così, si avvantaggia dell'organizzazione capitalistica italiana, nel tempo stesso che la promuove. Quelli che in Italia, prima degli altri, instaurarono o resero intimo questo rapporto d'interessi con la S. Sede, furono i Senesi, specialmente con i loro Bonsignori. Fin oltre la metà del '200, i Senesi conservarono questa posizione di quasi arbitri delle finanze pontificie, giocando di destrezza per conciliare il loro ghibellinismo politico con il guelfismo finanziario. Ma, venuta Benevento, i Fiorentini, che combattevano e ormai vincevano in ogni campo i Senesi, li vinsero anche in questo. I banchieri di Firenze, come prepararono la riscossa guelfa per desiderio di più intimi rapporti con la S. Sede, così ne raccolsero il frutto. Allora, s'inaugurò quel primato bancario, che fu pure commerciale e industriale, di Firenze, che durò due secoli, resistendo fortemente anche a fieri colpi di fortuna. Città democratica quanto mai, la più viva mobile agitata piazzaiola città italiana, da una parte, Firenze fu anche città di plutocrazia, rappresentata un po' dai gruppi capitalistici delle Arti maggiori, base della costituzione, più ancora dai capitalisti magnati, gli Scali, gli Spini, i Bardi, i Mozzi, ecc., che sono esclusi dagli uffici o a gran fatica vi entrano, ma hanno banco e giro ampio di denaro, e beni fondiarî che servono a consolidare la ricchezza fondiaria e dar credito all'estero, e relazioni d'affari e di parte con la S. Sede. Firenze rappresenta tipicamente la generale tendenza dei ceti e delle città, che erano interessati al commercio e alla banca internazionale, di accostarsi anche politicamente a Roma. Anche quando i Fiorentini vollero fare, al tempo di Dante, una politica d'indipendenza dalla S. Sede, i mercatores curiae rappresentarono l'estrema punta guelfa, protesa verso Roma. Non contavano molto nel governo legale della città, ma facevano sentire in tanti modi la loro presenza e davano una forte impronta alla politica della città.
Questa operosa presenza, quasi onnipresenza, d'Italiani in tanta parte d'Europa e su tutto il bacino del Mediterraneo, non mai interrotta dopo Roma, rinnovatasi in modo nuovo e libero dopo il Mille, giunta alla sua maggiore intensità e ampiezza attorno al 1300; è grande fatto della storia economica e anche politica europea. Esso concorse tanto a creare la nuova economia e il nuovo capitalismo, quanto a promuovere la nuova forza delle monarchie, certe loro iniziative politiche, la stessa invadenza di alcune di esse nelle cose italiane. Nell'Italia delle città, poi, creò una ricchezza grande che si ritrova nel rinnovamento edilizio loro, nel carattere monumentale che esse acquistarono, nell'elevato tenore di vita della borghesia. Ebbe la sua efficacia anche nella formazione del carattere del popolo italiano. L'abitudine alle iniziative, la necessità di contare essenzialmente sulle proprie forze, rinvigorirono lo spirito individualistico: quello stesso spinto che intanto corrodeva la vita municipale e preparava un nuovo ordine politico e una nuova cultura, incarnandosi in capiparte e signori, in poeti e artisti. I contrasti frequenti con genti diverse e, spesso, ostili aiutava gl'Italiani a ritrovare la loro sostanziale affinità, a sentirsi più vicini e solidali, nonostante le gare, a volte vere guerre, che pur seguitavano a dividerli, specialmente nelle colonie d'Oriente, dove la loro libertà d'azione era maggiore e minore il freno dall'alto. Maggiore invece questa solidarietà, dove questo freno agiva, come fu in Francia. Qui essa si espresse anche in forme associative, in vaste federazioni di particolari associazioni di Astigiani, Bolognesi, Romani, Pistoiesi, Senesi, ecc., stanziati nelle varie città di quel regno. Essi si sentono di più la stessa gente, anche perchè tali li considerano i forestieri in mezzo a cui vivono. Essi sono i "Lombardi", parola che, specie in Francia, seguita a indicare gl'Italiani, quanto meno gl'Italiani del regno, non ancora invalsa la parola "Italiani"; ma anche in Inghilterra e nei Paesi Bassi e altrove. E la "Via dei Lombardi" si trova a Parigi e ad Avignone come a Londra, a Bruges, e anche ad Amburgo.
Cultura di borghesia nell'Italia del '200. - Sforzo di creare nuove istituzioni e difenderle dagli assalti del mondo feudale, più intensa attività economica che mette capo a una nuova economia, ascesa di ceti e strati sociali nuovi, più larga esperienza di mondo, rappresentavano naturalmente anche una nuova cultura, spiriti nuovi e forme nuove. È sorta la nuova architettura religiosa e civile insieme. Gli statuti si arricchiscono di disposizioni di polizia urbana. Il costume si viene raffinando, pur mentre gli odî di parte s'inaspriscono e il diritto punitivo si fa più crudele. L'urbanità prende il posto dell'antico tratto quasi rusticano: ed è quasi cerimoniosità nel saluto, nella conversazione. Si apprezzano le amabili doti dell'intelligenza e lo scherzo arguto, l'arte del cantare e suonare e poetare. È cresciuta la considerazione per il bel parlare in pubblico o in occasioni solenni della vita familiare. La parola adorna ed efficace, si dice, è più efficace della spada. E c'è già la tendenza a molto confidare nei sottili accorgimenti dell'ingegno. Tutto questo nasce in regime di popolo, nei parlamenti e nei consigli, fra capiparte e demagoghi.
Nello stesso regime di popolo acquista un posto centrale lo studio del diritto, che trova nelle università o "studî" la sua sede. Risponde esso al bisogno di una società che muta le sue assise fondamentali, deve regolare i rapporti con l'Impero e la Chiesa, conciliando e rivendicando, costruire nuovi istituti e gerarchie di uffici, innovare nel campo del sistema possessorio e familiare, nel commercio marittimo e nelle questioni del credito, nei rapporti internazionali e del diritto corporativo. Si pensi a tutta la multiforme attività statutaria, del comune, del popolo, delle Arti, già nel'200, persino in piccole terre, non senza ironia della gente dotta in lettere e in diritto. Sono questi statuti, da principio, mera consuetudine scritta, per i giuristi che li guardano un po' dall'alto in basso, essi che attendono a chiosare e glossare i loro testi giustinianei. Ma presto la realtà s'impone. Il nuovo diritto pubblico attira l'attenzione, essendo quello romano spesso ormai inapplicabile. Nel'200, il nuovo diritto statutario è lex, può derogare anch'esso a ogni legge o diritto precedente, si mette a fianco o al di sopra dei canoni, cede solo alle prescrizioni del Vangelo. Questo pullulare di leggi coevo allo svilupparsi della vita di popolo, vuol dire anche litigiosità pubblica e privata, moltiplicazione di tribunali, pullulare di giuristi e notai e avvocati per molte funzioni, e loro straripare anche nella vita politica. Essi interpretano, applicano, creano la legge, ma anche la svalutano nell'opinione pubblica, contribuiscono a turbare il semplice ma fermo concetto antico del giusto e dell'ingiusto, del lecito e dell'illecito. Ma in questa attività di legisti, maestri di diritto o pratici della legislazione statutaria, si deve pur vedere il diritto italiano che nasce, fatto di residui germanici e di più numerosi elementi romani, di diritto scritto e di diritto volgare: il tutto rivissuto, fuso, armonizzato, attraverso la vita della borghesia.
Si aggiunga che nel '200 questi uomini di legge sono, per nove decimi la classe colta per eccellenza. Non solo lo studio e il ravvivamento del diritto romano e la legislazione statutaria sono opera loro. Ma essi sono anche, per la più parte, i cronisti: uomini di legge sono Senzanome cronista fiorentino, Rolandino cronista della Marca Trevigiana, borghese di Padova, fiero nemico di Ezzelino, pur subendone un poco il fascino; Gherardo Maurizio di Vicenza, partigiano e cancelliere di Federico II, apologista di Ezzelino. E si sa quale posto occupi, nella produzione intellettuale del '200, la cronaca, emanazione della città e delle parti, eco delle lotte comunali e delle lotte fra imperatori e papi, fra guelfi e ghibellini, ma nel tempo stesso specchio della vita regionale e italiana, aperta anche, con più o meno chiara visione dei nessi, alle cose di Alemagna o Francia o Inghilterra: a differenza della più antica o coeva storia imperiale o papale, sospesa quasi nel vuoto della sua universalità, e della cronaca monastica, circoscritta alle vicende del monastero. Quanto poveri di prosa romanzesca e. fino al sec. XIII, di poesia, altrettanto ricchi di storia. Sono anche, quegli uomini di legge, i letterati del tempo, i primi poeti volgari, alla corte di Federico II o a Bologna o nelle città toscane; sono i primi intermediarî, come giuristi e come letterati, tra l'antica cultura classica e il nuovo mondo al cui servizio essa è posta: si ricordi Pier della Vigna. Il volgare comincia a essere adoperato come lingua letteraria, subendo naturalmente, nel suo sforzo di nobilitarsi, l'influenza riflessa del latino. Esso prende il posto in parte del latino, in parte del francese e del provenzale, assai diffusi in Italia, presso uomini di lettere e di affari e di corte, insieme con la lirica provenzale e le canzoni di gesta e i romanzi francesi e bretoni. E fa le sue prime prove nella corrispondenza d' affari dei mercanti e negli atti legislativi: cioè per scopi essenzialmente pratici. Ormai il volgare italiano ha vinto, rompendo la crosta latina e quella francese che ne avevano ritardato lo sbocciare e fiorire. Si manifesta, in questo, la nazione italiana, di cui la comune lingua è fattura e fattrice: come si manifesta in altre attività spirituali, in certa religiosità non ascetica ma conciliata con la natura e con la vita civile, quale è la religiosità francescana; in certo concreto filosofare, sostanziato di osservazione del mondo naturale e di tendenze sperimentali, lontano dall'astratta universalità della filosofia medievale e chiesastica, quale è il filosofare di Federico II; infine nell'arte architettonica e figurativa che, dal sec. XI al XIV, riempie di grandi monumenti più o meno anonimi la penisola, da Bari a Milano, o compie le prime gloriose affermazioni individuali con Niccolò e Giovanni Pisano, con Cimabue e Giotto.
Lo studio del diritto romano e statutario, il crescente richiamarsi all'antichità classica, dopo la renovatio del secolo X, il volgare che assurge a lingua letteraria, il nuovo filosofare e, in certi limiti, anche la nuova arte, portano chiari segni, anzi sono il segno di quel particolare carattere secolaresco che la nuova cultura italiana viene assumendo. L'Italia, come è centro della società ecclesiastica cattolica, così alimenta anche per prima un vero e proprio laicato, che si presenta in stato di latente o aperto contrasto con essa. Le grandi correnti teologiche muovono piuttosto dalla Francia e dall'Inghilterra che non dall'Italia, sia pure per il contributo di uomini emigrati lì dall'Italia, Lanfranco pavese e S. Anselmo d'Aosta. In Italia, piuttosto prevalenza di scuole di cultura laicale, cioè di arti liberali e legge civile: fatto segnalato anche da stranieri, insieme con quello della diffusa passione per gli studî, come fatto caratteristico dell'Italia. Al posto di Parigi, Bologna, con Irnerio e successori; e Palermo, emporio di elementi culturali arabi e bizantini sotto i Normanni e, poi, con Federico II officina di vario filosofare, anelante a verità diverse da quelle della scolastica. È stato notato che in Italia dall'epoca barbarica in poi, anche architetti e scultori sono, a differenza degli altri paesi, specialmente secolari: avanti che il sec. XIII porti alle arti costruttive i cisterciensi e poi i "mendicanti". Ora, tutto questo si fa sempre più visibile. Le stesse attività pratiche della nuova borghesia, hanno qualcosa di antichiesastico: il commercio, ad esempio, che fu modo e mezzo di emancipazione dallo spirito della chiesa medievale, come anche dal vecchio stato feudale. Col commercio, anche, la nuova borghesia si avvicinò a gente d'ogni credenza, passando sopra a scrupoli religiosi e a divieti papali, abituandosi a valutare gli uomini come uomini e non come credenza religiosa. Si aggiunga la potente affermazione chiesastica e teocratica in Italia nel sec. XIII, che generava energiche opposizioni, capaci d'investire, con i rapporti pratici, idee e sentimenti. Ne vennero alimentate certa più intima e non sempre e in tutto chiesastica religiosità e certo anelito di diretta comunione con Dio, come si vede in qualche filone della ricca miniera francescana; certe aspirazioni a una riforma della Chiesa in capite et membris, caldeggiata nel '200 e '300 da tanti e un po' praticata da uomini di chiesa e di mondo. Più ancora, si ebbe un orientamento mentale, un senso della vita, una considerazione dei valori spirituali, che non erano quelli rappresentati e avvalorati dalla Chiesa. Si guardava sempre al cielo, come a patria vera: ma con quanta passione, con quanta intima comunione, con quanta rispondenza fra sentimenti e pensieri, si vive ormai anche la vita della patria terrestre!
Vi è poi chi si dà agli studî, dimenticando ormai che essi debbano essere scala per salire alle verità religiose. Vi è chi comincia ad accostarsi ai classici con spirito meno ingombro e qualche desiderio di ritrovarli nella loro genuinità, come ritrovare il genuino diritto romano cercano i giuristi, sotto le interpretazioni ad esso sovrapposte. Nel girovagare di mercanti e nocchieri per terre e mari, già s'intravvede qualcosa più che solo il desiderio di trovare spezie e guadagnare fedeli a Cristo. Vi è chi si lascia prendere tutto dal fascino di misteriosi fatti e rapporti, come la vita animale, le proprietà fisiche dei corpi, l'origine del linguaggio, la espressicne della fisionomia umana, il corso degli astri. Il sec. XIII conta già, in Italia, gli appassionati di scienze esatte e zoologia, gli alchimisti e sperimentatori e astrologi, al seguito di re e signori e capitani di guerra, Ezzelino o Guido da Montefeltro. Sulle vecchie tendenze profetiche si innestano quelle astrologiche e magiche che sono proprie del Rinascimento e accompagnano i primi conati delle scienze fisiche e naturali. Il senso della ferrea dipendenza dell'uomo da Dio comincia a rilassarsi: e appare, divinità nuova, la Fortuna, che sta quasi fra Dio e l'uomo e prelude al riconoscimento dell'uomo come faber suae fortunae. Appare l'empio dubbio o negazione dell'immortalità dell'anima, si esclude la creazione del mondo per affermarne invece l'eternità, si ammette l'equivalenza del cristianesimo e dell'islamismo e del giudaismo, si chiede se la religione sia opera di Dio o degli uomini, si discute sulla storicità della persona di Cristo e sulla sua divinità. Si nota come un progresso nella fiducia dell'intelletto, come una crescente ritrosia a credere ciò che non si giustifica razionalmente o non cade sotto i sensi; l'avanzarsi di quel dubbio che prepara, attraverso lo scetticismo sul sapere tradizionale, un nuovo sapere. Un re già ricordato, Federico II, occupa un posto notevole in questo nuovo orientamento degli spiriti, in questo dubitare e interrogare: come lo occupa nella storia del nuovo concetto dello stato, sorto non solo divina gratia ma anche necessitate cogente, cioè per esigenze naturali degli uomini associati. E accanto a un re, anche un papa, Benedetto Caetani, poi Bonifacio VIII, quale ci lasciano intravvedere gli atti del processo che, lui morto, la curia avignonese ordì contro la sua memoria, sotto lo stimolo di Filippo il Bello e degli altri acerrimi nemici suoi. Senza lo spirito antichiesastico e paganeggiante di un Federico II e la torbida natura di un Bonifacio VIII, Dante Alighieri, cittadino di Firenze e poeta, poteva affermare anteriore alla Chiesa e scaturito direttamente da Dio lo stato, con tutti i compiti deha pace e dell'ordine terreno; affermare la legge umana, cioè naturale, coincidente con la volonta stessa e giustizia divina, e quindi capace di dar essa sostegno alla virtù. Insomma, un principio di base propria, cioè naturale e umana, data alla morale.
Questo sforzo di dare valore proprio alle cose terrene, cioè di emancipare spiritualmente la vita dalla pesante tutela, anche giuridica e politica, della Chiesa; questo sforzo che rivela il precoce carattere secolaresco della cultura italiana e dà una sua fisionomia al popolo italiano ora in formazione, è aiutato dal culto crescente dell'antico, dal culto di Roma. Il culto dell'antico e di Roma, che pur nasceva dalla vita, concorse alla riabilitazione morale della vita stessa. Si comincia con l'esaltazione della romanità, considerata come una cosa divina, frutto di divina volontà, per giungere a investire tutto l'umano. Questa esaltazione la fanno i giuristi, gli uomini colti di nuova coltura, i sostenitori dell'autonomia del potere civile. Federico II è quasi maniaco dell'antichità. Contemporaneo a Federico, ma uomo d'altra famiglia, Boncompagno da Signa fu grande beffeggiatore di chierici e, insieme, preannunciatore di umanesimo e di umanisti, con la loro sete di sapere, le loro vanità da letterati, il loro spirito polemico, la loro mania vagabonda. Più tardi, nel De Monarchia Dante, attaccando il papato teocratico, farà tutta una difesa e apoteosi del popolo romano. Di contro, decretalisti e canonisti, nel sec. XIII e XIV.
A questa nuova cultura - elaborazione di elementi preesistenti o venuti da fuori e creazione - tutto il popolo italiano concorse. Nei secoli XI e XII, specialmente lombardi erano gli architetti romanici. E insieme e dopo, Palermo rappresenta un grande centro d'influenze a cui tutta la penisola si apre: Palermo col suo nuovo filosofare, con la sua poesia volgare, con la sua autonoma elaborazione di elementi di cultura arabi e bizantini che, altrove, stimolano la nuova attività scientifica. E poi, l'Umbria, che dà quella sua vita religiosa in cui trovano sfogo e appagamento tante tendenze d'incerta e inquieta ortodossia, quel suo quasi nuovo vangelo che colora di sè per un secolo tutta la religiosità italiana quei suoi uomini rappresentativi, primo fra essi S. Francesco d'Assisi che è santo italiano per eccellenza e preannunciatore d'italiano rinascimento, e ha in Italia la sua maggiore forza generativa. E Pisa, che ha posizione egemonica nell'arte, specialmente nella scultura. E Bologna, la città di Guido Guinizelli e dei primi grandi progressi della nuova poesia volgare; la città che fu la scuola di diritto per i Lombardi, Siciliani, Toscani, Pugliesi, ecc., oltre che per il mondo intiero. Essa raccolse da tutta Italia, da tutta la tradizione romana e a tutta Italia distribuì per mezzo dei suoi innumerevoli maestri e scolari, che sono poi i reggitori e giudici e consultori e statutarî e legislatori di ogni città e del regno di Sicilia, gli elementi di una comune cultura giuridica, che è poi il nuovo diritto italiano.
E Firenze? Alla fine del '200 è ormai o si avvicina di gran passo il suo momento. Già grande la sua influenza finanziaria, commerciale, politica, da un capo all'altro della penisola e fuori. Essa rappresenta in modo tipico il nuovo capitalismo dai mille tentacoli, costruttore e distruttore insieme, politicamente opportunista, attaccato alla curia romana eppure economicamente rivoluzionario, suscitatore di scrupoli morali entro gli stessi cittadini di Firenze, non ancora riusciti ad adeguare realtà e pensiero. Ma da Firenze, anche, irraggia il nuovo volgare che il Cavalcanti e l'Alighieri e altri suggellano con opere di poesia e prosa, di prosa artistica e scientifica. Esso prevale sugli altri dialetti toscani e, allargandosi con lento vigore su tutta la penisola, prevale su tutti i dialetti non toscani come lingua letteraria e nazionale, simile alla lingua dell'Île de France, ma non aiutata, come questa, dalla forza di nessuna monarchia. È una conquista: ma fatta in virtù di un proprio vigore. Preesiste una non visibile omogeneità e unità: ora si fa più visibile e dinamica.
La figura morale del nuovo italiano. - Impresa difficile, pur conoscendo quali sono i suoi istituti giuridici e il suo diritto, la sua arte, il suo linguaggio letterario, ecc., disegnare la figura morale di questo Italiano, giunto ora a una tappa importante della sua storica formazione. Ma possiamo considerare che la società italiana, plasmatasi in mezzo a un'attività politica e giuridica straordinariamente intense e nella larghissima pratica del commercio e dell'artigianato, sopra un fondamento di vecchia cultura rimasta sempre abbastanza viva e rispondente alla vita, ha ora il suo uomo rappresentativo, l'uomo che dà il carattere di una civiltà in un determinato momento, nell'uomo di legge, e, fra poco, nell'uomo di lettere; non meno, nel mercante capitalista e nel mercante artiere. Relativa agiatezza di vita e raffinatezza di costumi, energica operosità, in patria e fuori , patria, rivolta specialmente alle faccende economiche e civili; crescente autonomia e individualità, di fronte alla consorteria, al comune e alla Chiesa, non disgiunta da un operoso senso religioso; abitudine e attitudine all'iniziativa, con relativo esercizio di responsabilità; spirito sereno e gioviale, tralucente pur di tra le crudeli lotte civili, conciliato anche intimamente con la vita mondana e con le belle e vane cose che l'adornano, sentimento della libertà personale e interna compostezza e fierezza e apprezzamento di sé e certo disdegno della plebe e amore di riputazione e tendenza a cercare sempre più in sé e vicino a sé i fini della vita. Il frequente andare per il mondo ha saturato di esperienze, ha allenato a tutti i climi questo Italiano, già ben predisposto, lo ha abituato a non sentirsi estraneo in nessun luogo e a considerarsi un po' cittadino del mondo, ha arricchito la sua umanità. E poi, una invidiabile ricchezza di risorse e di espedienti in tutti e per tutti i casi della vita, nessuno dei quali lo trova impreparato; attitudini svariatissime, nelle diverse regioni e persone e in una stessa persona. Facile trovare chi sappia, insieme, sbrigare un'ambasciata, redigere uno statuto e governare una terra come podestà o capitano, sovrintendere alla moneta e trattare un'impresa finanziaria, dirigere la costruzione d'un pubblico edificio e bene arringare la folla, conversare con acconci modi e parole e spesso lavorare manualmente con senso d'arte.
Si veniva rivelando agli stranieri questo popolo di Italiani o, meglio, "Lombardi". E anche nei confini della penisola, cresceva il sentimento non solo della comune discendenza romana ma della comunanza di lingua e costumi e, in certi momenti, d'interessi. Il '200 fu tutto di urti con stranieri. E questo aiutò. Innocenzo III, Gregorio IX, Innocenzo IV si richiamarono alla "libertà e felicità dell'Italia"; calcarono la voce sulle differenze fra Italiani e Tedeschi, "razza brutale, con strana lingua e strani sentimenti"; inveirono contro la "detestabile guerra" che, mentre avrebbe dovuto expugnare exteros, metteva Italiani contro Italiani. Manfredi, nell'imminenza della minaccia angioina, parlava agl'Italiani dell'onore che ad essi sarebbe venuto dal vincere Carlo e i Francesi, sebbene anch'egli avesse mercenarî tedeschi al suo servigio. Ma gl'Italiani si mettevano di fronte a costoro, amici o nemici, come a stranieri. Rozzi e grossolani apparivano i Tedeschi; avidi, presuntuosi, vani i Francesi. Sentimento antitedesco o antifrancese, è vero, è anche sentimento di guelfi e ghibellini: cioè espressione di partito o fazione più che di sentimento nazionale. Ma non è solamente questo o lo è sempre meno: ed è anche qualcosa di più, qualcosa in sé stesso. Anche perché più facilmente si trova in quei maggiori centri municipali e di partito nei quali più e meglio si esprime la nuova vita specificamente italiana: come Milano nel secolo XII; così, e più ancora, Firenze, nei secoli XIII e XIV. La quale, al principio del '300, ci mostra documenti di chiara eloquenza, come consapevolezza piena di ciò che quella nuova vita è. Firenze è città guelfa, cioè partigiana, per eccellenza; quella che ora identifica il suo guelfismo con la sua prosperità mercantile, la sua libertà politica, quasi la sua esistenza. Ma essa è anche la città italiana per eccellenza, la patria dei grandi trecentisti che possono veramente chiamarsi i padri della nazione italiana.
È necessario ricordare Dante? Potentemente vivono in lui gli elementi della nuova vita italiana avviata a nazione, pur tra superficiali incoerenze, tra attaccamento a cose ormai tramontate e visioni profetiche del domani. Egli è essenzialmente un poeta, uno scrittore, una coscienza morale. E Dante italiano si andrà a cercarlo, essenzialmente, in questa sfera ideale. Che se poi guardiamo Dante politico, e cerchiamo come egli concepì l'ordine italiano, in sè e nei rapporti con le istituzioni universali del Medioevo, noi troveremo che egli, nimicissimo della teocrazia, vagheggiò, sì, il Sacro Romano Impero, ma considerò l'Italia distinta dall'impero, perché essa e solo essa era l'erede dei Romani e cosa romana tutta quanta e legata da particolari vincoli a Roma. Gl'Italiani erano per lui sudditi dell'impero, sì, ma pure cittadini del regno, anzi liberi cittadini del regno prima che sottomessi all'impero; di quel regno che non era tanto il vecchio regno longobardo e carolingio, di Berengario e di Arduino, insomma il regno storicamente delimitato a una parte della penisola, ma un regno esteso idealmente a tutta la penisola. Sentì insomma potentemente l'unità storica e morale dell'Italia. L'importanza nazionale di Dante è in questo, oltre che nell'opera sua come poeta volgare. Ed è altamente significativo che, pur non ponendosi né risolvendo egli come li abbiamo posti e risoluti noi i problemi dell'unità, dell'indipendenza, del potere temporale dei papi, dello stato laico, ecc.; egli sia apparso poi, quando questi problemi furono posti e si cercarono i precedenti ideali e si tese l'orecchio alle lontane voci presaghe, come assertore di unità patria, d'indipendenza nazionale, di papato spirituale, di stato laico. E agì potentemente come tale; cioè, in un certo senso, fu un assertore. Perciò egli sta come alle sorgenti della moderna storia d'Italia, anzi, possiamo dire, della storia d'Italia: egli più del Petrarca e assai più del Boccaccio, che pure, sotto certi aspetti, sono più modernamente italiani e più di lui sicuri nel maneggio della lingua.
Luci e crepuscolo del papato e dell'impero nel medioevo.
Da Bonifacio VIII a Enrico VII. - Al tempo in cui Dante così riviveva e quasi ricostruiva, idealmente, la vita dell'Italia, l'impero era assente dalla penisola. Prevalevano partiti e forze antimperiali, le città tradizionalmente guelfe o legate al guelfismo prevalevano sulle altre, i vicarî di Rodolfo d'Asburgo avevano scarso riconoscimento, né esso né gl'immediati successori vennero a cercare in Italia corona regia e imperiale. I re di Germania cominciavano a operare nello stretto ambito dei loro paesi d'oltre Alpi, cioè, nel caso degli Asburgo, nell'ambito dei loro possessi ereditarî d'Austria. E come Asburgo e come Austria, gl'Italiani se li troveranno poi nuovamente di fronte. Ma se questi erano momenti gravi per l'impero, erano gravi anche per il papato. Era scemata la sua capacità coordinatrice delle forze politiche della penisola e anche delle altre più lontane, dovuta in parte all'esistenza e potenza dell'impero. Scaduto questo, veniva a mancare una delle ragioni che spesso avevano reso gli stati particolari ben disposti a riconoscere l'autorità del papato anche nelle forme della dipendenza feudale; veniva a mancare un'istituzione affine e perciò, in un certo senso, solidale, egualmente avversa allo sviluppo degli stati nazionali e territoriali. Si aggiunga, per il papato, la nuova e invadente mondanità della Chiesa, di nuovo quasi sommersa dal fiotto del secolo; i fieri dissidî entro la famiglia ecclesiastica (secolari e regolarí), la propaganda anticurialista dell'ala estrema del francescanesimo. E ambizioni temporali di vescovi, a servigio di una famiglia o di un partito; attriti in curia fra collegio cardinalizio e papa, come fra baroni e re; discordie entro il collegio stesso, in cui si rispecchiavano le gare tra le famiglie della nobiltà romana, fra cardinali fautori di Francia e cardinali fautori di parte italiana. Invadenza delle grandi potenze in curia: prima, francese, ora anche aragonese. Non c'è più, ora, l'imperatore: ma altri è sottentrato, con più evidenti fini di sfruttamento politico del papato, che sono anche fini di dominio italiano. È rotta l'unione dinastica del regno di Sicilia e del regno di Germania. Ma un legame quasi eguale si è stretto fra regno di Sicilia e regno di Francia. Di qui un senso di malessere nella stessa curia, che spiega l'elezione di un Celestino V, anche come modo di uscire fuori dalle strettoie dei partiti e delle famiglie che, aspirando al papato, rendevano estremamente difficili le elezioni. Ma la logica delle cose portava allora assai più verso i Niccolò III, gli Urbano IV, i Martino IV, i Bonifacio VIII, tutti papi politici, più o meno legati alle grandi monarchie o a potenti interessi familiari che bisognava promuovere e che si potevano, insieme, utilizzare ai fini dello Stato della Chiesa. Erano tempi di lotta. I re dell'Occidente manomettevano senza freno e senza scrupoli ogni libertà ecclesiastica, in materia finanziaria e giudiziaria. In Roma e nella Campagna Romana, i Colonna sono in ribellione e trovano alleato il re di Francia, hanno qualche intesa con gli Spirituali, che rappresentano la religiosità assoluta in lotta contro il papato politico e proclamano Bonifacio falso papa. I Fiorentini, i guelfi fiorentini anch'essi alzano il capo contro le somme chiavi e si fanno pietra di scandalo. I Siciliani non vogliono piegare a un re vassallo della S. Sede e rimangono fedeli a un re indipendente. Erano tutte questioni particolari e, in gran parte, di fatto. Ma, per la natura dei tempi e dell'uomo che reggeva il papato e anche per l'interesse degli avversarî, sfociarono in un generale contrasto ideale sulla natura del pontificato romano, sui rapporti fra esso e la Chiesa, fra esso e il collegio cardinalizio, fra Stato e Chiesa. E si venne a riaffermazioni solenni di diritti, da una parte e dall'altra; ad alte proclamazioni di principî, a enunciazioni dogmatiche. L'assenza dell'impero, la quasi assoluta indipendenza in cui gli stati particolari si erano messi di fronte a esso, incoraggiavano il papato a elevarsi ancora di più sopra di loro, gli dava il senso d'un illimitato diritto e dovere a farsi guida giudice arbitro nelle loro cose interne. Solo il pontefice a nessuno è soggetto, se non al giudizio di Dio. Posse summi Pontificis est sine pondere numero et mensura, nello spirituale e nel temporale. È il culmine della dottrina teocratica. La letteratura polemica italiana è quasi tutta di parte papale; laddove è francese la letteratura che ora si mette dalla parte dello stato, rivendica la sua libertà, limita i privilegi della Chiesa e, dove li ammette, li afferma per concessione del re, per il bene generale e dello stato, e dal re revocabili se quel bene lo richiede. Merito, in parte, del regno, centro ideale e pratico della vita francese, coordinatore di azioni e di pensieri. Ma in Italia, quella stessa rivendicazione, limitazione, affermazione è, amplissima, in re, ogni giorno e ogni ora; è nella letteratura giuridica, anche se questa conosce più l'impero che il regno d'Italia o, se si vuole, vede il regno come impero. E ormai l'impero mal poteva essere guida e segnacolo di una lotta di tal genere.
Bonifacio VIII uscì logoro e malconcio da questo sforzo, ormai anacronistico. La S. Sede, in seguito al conclave da cui uscì il francese papa Clemente V, si trasferì in Francia, il paese che da secoli offriva e forniva ai papi ospitalità e soccorso di eserciti. Così, anche il papato, come l'impero, si fa assente dall'Italia. Né solo materialmente. Il papato si fa o appare agl'Italiani cosa francese, a servizio d'interessi francesi. Dante si volse contro i papi avignonesi e, come invocò il ritorno dell'impero in Italia, così anche l'elezione di papa italiano e il ritorno della S. Sede. Vana fu questa seconda invocazione. Meno vano fu o sembrò l'appello all'imperatore. E venne Enrico VII di Lussemburgo e riportò agli Italiani "le onorate insegne" di Roma. Ma Firenze si oppose con tutte le sue forze. Essa incarnava lo spirito dell'indipendenza comunale e, ormai possiamo dire, nazionale di fronte ai Tedeschi.
Tutti sanno che vana fu la gran fatica di Enrico VII, l'ultimo imperatore che ancora si presentasse agl'Italiani con qualche raggio dell'antica luce. Procedettero sempre più libere le forze politiche salite in alto nell'età precedente, amiche o avverse che fossero all'impero: cioè il regno di Napoli, pur decurtato della Sicilia, e le signorie. Già l'assenza dei pontefici dall'Italia si era risolta in grande vantaggio di quel re, come utile sostegno dei diritti della S. Sede in Italia. Nel 1309, la curia avignonese aveva fatto Roberto rettore e vicario di Romagna, dove Malatesta, Polentani, Ordelaffi, Manfredi, arraffavano da tutte le parti. Di lì avrebbe potuto anche vigilare i signori dell'Italia settentrionale, specie i Visconti. Roberto aveva da principio trattato perfino con Enrico imperatore. Ma dopo la primavera del '12, anche Roberto, come già Firenze e molte città guelfe del nord, si era gettato contro l'imperatore, si era legato a Firenze, si era messo, nell'assenza del papa, a fare le sue parti. Nell'estate del '12, il papa nominò Roberto anche signore di Ferrara, al posto dell'ucciso Francesco d'Este. E poi i Consigli generali di Parma e Reggio gli offrirono il potere; Genova, lacerata dalle discordie, si diede nel 1316 per dieci anni a Roberto e al papa. Finalmente, nel 1317, il nuovo papa, francese anch'egli, Giovanni XXII gli conferi il vicariato imperiale in Italia. Né mancarono dicerie che si volesse dargli titolo e corona di re d'Italia.
Il papato contro le nuove signorie. - Assente, dunque, il pontefice dall'Italia, cercava di esservi fortemente presente appoggiandosi al re di Napoli, e di fronteggiare così le forze avverse che adesso erano non più l'imperatore ma i signori, quelli dello stato della Chiesa e quelli della Valle Padana. I quali marciavano ormai di buon passo. Era scomparsa la prima generazione dei signori. Ora, Visconti a Milano, Scaligeri a Verona, Bonaccolsi a Mantova, altri minori. Emergono i Visconti di Milano, per merito della grande città e per merito loro, dell'arcivescovo Ottone fondatore, del grande Matteo che, da lontano, si presentava, specialmente agli occhi dei sospettosi Fiorentini, quasi come un "re di Lombardia" (Villani). Sotto di lui, in vario modo, oltre Milano, si trovano Alessandria, Piacenza, Lodi, Bergamo, Pavia, Novara, Como, Vercelli. Non molto meno dei Visconti, gli Scaligeri, che hanno raccolto l'eredità ideale di Ezzelino e tengono sede anche in quella che era sede principale di Ezzelino, Verona, forte città allo sbocco della Val d'Adige, là dove la grande strada transalpina incrociava con la strada pedemontana fra Venezia e Milano. Milano, come Verona, cominciava a configurarsi non come città dominante ma come capitale d'uno stato di più città e relativi territorî. Sempre più si manifestava come la crisi dei comuni fosse crisi di ordini popolari e di stato di città nel tempo stesso. Ma una volta affermatasi anche solo in una città, la signoria, cioè il governo di un solo, aveva mezzi più efficaci che non prima i magistrati comunali, per farsi valere in altre città e vincerne gli spiriti autonomisti.
Questi nuovi signori si erano avvantaggiati anche della venuta dell'imperatore. Molti di essi avevano avuto titolo e ufficio di vicarî imperiali: cosa che ormai cominciava largamente a diffondersi, anche a vantaggio di superstiti comuni e loro magistrati. Era l'unico mezzo per farsi un po' valere, da parte dell'impero: salvare il diritto, poiché il fatto era quel che era. Ciò legava all'impero i concessionarî, già quasi tutti uscenti dal ghibellinismo. Non meno della discesa giovò ai signori la morte di Enrico VII. I più piccoli cercarono un vicino protettore, che li salvasse; grandi e piccoli solidalizzarono, di fronte al pericolo di Roberto e del papa. Il quale non si contentò d'innalzare il re di Napoli, ma fece altro e più. Nel 1317, due legati di Giovanni XXII vennero in Lombardia a "riformare la pace". Trovarono che i Lombardi erano tutti per Matteo Visconti e a lui obbedienti. Sentirono esprimere il convincimento che quella provincia solo con un re non di barbara nazione ma proprio e legittimo, investito di potere ereditario, avrebbe avuto pace e bene. Nonostante queste constatazioni, cominciò l'offensiva avignonese: "vacando l'impero, la sua giurisdizione è devoluta al papa", aveva proclamato una bolla del marzo, intimando, a chiunque non ne fosse investito da lui, di abbandonare entro due mesi l'esercizio del vicariato, pena la scomunica. Nessuno diede ascolto. Anzi, Cangrande si affrettò a giurare fedeltà a Federico d'Austria, aspirante all'impero, per poter fruire del titolo di vicario e togliere ragione all'intervento papale. Matteo fece di più: lasciò, sì, il titolo, ma si fece proclamare dai Milanesi "signore generale della città e del distretto". Dunque, nulla aveva da deporre, nulla avendo dall'impero.
Cominciò una lunga e complicata guerra. Papa, Angioini, re di Francia, signori. Eserciti e armi ecclesiastiche. Venne in Italia, quale legato papale, il cardinale Bertrando del Poggetto. La curia si proponeva tanto di spodestare quei signori quanto di riaffermarsi in Romagna. Teatro della guerra fu, come già nel sec. XII fra comuni e impero, la valle del Po e la Lombardia. Allora, i comuni avevano tenuto testa all'imperatore con l'aiuto del papa; ora le signorie fronteggiano il papato, facendosi esse un po' forti di certo riconoscimento imperiale. Lotta in fondo politica. La S. Sede aveva un bel portare la contesa nel campo religioso: magari in buona fede. Non trovava seguito. Lo spirito realistico e giuridico degl'Italiani e un po' anche, dove era, l'affinato e più spirituale sentimento religioso, di cui l'arte del tempo e le stesse sette dissidenti francescane erano testimonianza, insegnavano a distinguere religione e politica o, meglio, a segnare fra esse un confine diverso da quello che vi segnava la curia romana. E ora, i legisti a servizio dei signori sentenziavano invalide le scomuniche papali; lo stesso predicavano e diffondevano i minoriti, solidarizzando con i signori.. Eppure, non era puramente politico questo contrasto. C'era veramente qualcosa di più profondo. La signoria non significava solo un ordine politico nuovo, ma questo ordine politico portava intrinseci e profondi elementi di opposizione morale alla Chiesa medievale. Se il comune aveva rappresentato l'era della religiosità e della stretta colleganza fra vita civile e religiosa, fra istituzioni politiche ed ecclesiastiche; la signoria rappresentava invece la società civile più svolta e differenziata, con una coscienza di sé ormai viva e una volontà di battere vie proprie e farsi propria legge; con un atteggiamento d'indifferenza religiosa verso la Chiesa, salvo rimanendo il principio religioso; con la tendenza di separare nettamente Stato e Chiesa, anzi subordinare la Chiesa allo Stato, ai fini dello Stato, prevalenti sopra ogni altro fine. Operavano, entro questa società civile, anche esigenze di schietta religiosità, visibili da mille segni anche in uomini che erano all'opposizione verso la Chiesa politica. Operavano a suo fianco, non senza influenza su essa, le frazioni estreme del francescanesimo che, per altre vie e altri fini, giungevano egualmente all'idea della separazione fra Stato e Chiesa, e, implicitamente, poiché confidavano nel braccio secolare per la auspicata riforma chiesastica e religiosa, all'idea della subordinazione della Chiesa allo Stato. Negli anni della lotta fra Legato e signori dell'Italia settentrionale, Michele da Cesena, capo dei minori, deposto e perseguitato dopo che il capitolo generale da lui riunito in quella città ebbe dichiarato ortodossa la dottrina dell'assoluta povertà (1322), trovò ospitale accoglienza presso Ludovico il Bavaro, mentre altri francescani dissidenti la trovavano presso lo stesso Roberto d'Angiò. Il quale prese sempre posizione contro le decisioni papali nella questione della povertà: anche dopo la piena rottura di Michele con la Chiesa e la scomunica da cui il frate ribelle fu colpito. Marsilio da Padova, cresciuto nell'ambiente politico di quella città fieramente anticlericale, nell'ambiente scientifico delle università di Padova stessa e di Parigi, orientato verso la filosofia averroistica e nominalistica, diede nel Defensor pacis (1324) e poi nel Defensor minor certa veste politica anche al programma dei rivoluzionarî religiosi. Si pone il problema dello stato che deve assicurare quella pace, e del suo fondamento. E questo fondamento lo trovò nella universitas civium, depositaria di ogni potere, da esercitare direttamente o per mezzo di persone a ciò delegate. Egualmente, nella universitas fidelium trovò il fondamento della Chiesa, e nel concilio la sua rappresentanza. Ravvicinati così Stato e Chiesa, attribuito a questa un'origine non divina ma umana tolta l'identificazione sua con la gerarchia e col papato, demolita l'onnipotenza di quella e l'assolutismo di questo, cioè la costruzione teocratica, Marsilio si apriva la via a liberare lo Stato dalla Chiesa e a subordinarla allo Stato, negandole non solo giurisdizioni, immunità, libero uso dei beni temporali, ma anche la libera elezione dei sacerdoti, la stessa facoltà d'infliggere scomunica, considerata pena temporale oltre che spirituale, e ogni potere coercitivo contro i peccatori, essendo il peccato da correggere, non da costringere, e gli eretici da punire, in caso, solo come turbatori dell'ordine pubblico, di una legge umana. In quanto offesa a una legge religiosa, solo Dio, nell'altra vita, potrà punirli. Il principe, così, elettivo o ereditario, controlla l'attività della Chiesa; e la Chiesa, assolvendo una funzione dello Stato, si risolve quasi in esso.
La lotta di Lombardia si complicò per l'intervento di Ludovico di Baviera. Vincitore in Germania nella gara per la corona e rifiutatosi di obbedire alla curia che pretendeva di farsi giudice dell'elezione e dell'eletto e vietava a chicchessia di assumere titolo e funzioni di re e imperatore, scendeva anch'egli in Italia con spiriti anticuriali. Era con lui Marsilio, che, scomunicato per il suo libro, aveva trovato rifugio presso Ludovico e ora lo affiancava come medico e come consigliere. A Trento, il parlamento dichiarò Giovanni XXII eretico e violatore dei diritti del popolo; a Milano, Ludovico fu incoronato re dallo scomunicato vescovo Guido Tarlati d'Arezzo; a Roma, raccolse il popolo in Campidoglio, gli chiese il riconoscimento, ottenne dai suoi rappresentanti la corona imperiale, lo convocò poi altre volte, anche insieme col clero, in Campidoglio o in piazza S. Pietro, per riforme invocate dai minoriti, per la deposizione di Giovanni XXII, per l'elevazione alla tiara di Pietro da Corvara, che dall'imperatore ebbe le sacre insegne. Cose più conclusive il Bavaro non fece. Né era facile farle, in mezzo a tante opposizioni che, durante il ritorno verso l'alta Italia, degenerarono in contumelie. Anche i Visconti gli si voltarono contro e il Bavaro, assediata vanamente Milano, se ne dové tornare senza onore oltre Alpi, seguito dal suo fedele consigliere e medico, Marsilio da Padova.
Oscurissimo l'intrigo diplomatico che accompagnò e seguì la spedizione del Bavaro in Italia. Ne tenevano le fila principali i Visconti, il re di Francia e, più di ogni altro, la curia. La quale trattava con tutti. Offriva la corona di Lombardia al re; non rifiutava del tutto il vicariato imperiale al Visconti; d'accordo col re, contro i Visconti e contro Roberto, guastatosi con Filippo di Francia e con la curia, sollecitò la venuta in Italia di un altro personaggio, Giovanni di Boemia figlio d'Enrico VII, che, apparso alla fine del 1330, ebbe grande e rapida, ma effimera fortuna. Contro di lui, venuto in Italia sotto auspici papali e francesi (Giovanni troverà poi ospitalità alla corte di Francia e morirà nelle guerre di quel re), si voltarono signori e città. Il 16 settembre 1332, Scaligeri, Gonzaga, Visconti, Estensi fecero lega a Castelbaldo, "ad onore di Dio e della Chiesa romana, ed a conservazione dello stato presente in Italia": e contavano anche su Roberto d'Angiò e su Bologna. Erano ghibellini e guelfi insieme. Anche Firenze aderì: cioè anche comuni liberi. In lontani paesi, quei fatti si presentarono addirittura come una coalizione di Francia, papa, re di Boemia, imperatore. E di fronte ad essi, Milano. E a soccorso dei Milanesi, ecco gl'Italiani tutti. Certo, la costruzione di Giovanni di Boemia, tirata su in pochi mesi, in poche settimane crollò, anche per ribellione delle città che, in fondo, non volevano essere rimesse nelle mani dei nobili. Era sempre la vecchia fisima degl'imperatori tedeschi, che spesso non avevano nessun sentore della realtà italiana. Fu spazzato via anche il cardinale Del Poggetto, che nelle città emiliane aveva fatto, dopo il fallimento di Lombardia, qualche fortuna.
Nell'Italia settentrionale e anche in Romagna le cose proseguirono il loro corso verso la signoria. La reazione pontificia lo aveva, se mai, accelerato, come lo accelerò la lontananza dei papi, che fu un estraniarsi almeno moralmente dalla vita italiana, un asservirsi a interessi di Francia, un cercare solidarietà di Francesi o Tedeschi. Le nuove forze politiche italiane poterono additare nel papa e nelle sue genti d'arme altrettanti stranieri. E quanto al regno di Napoli, Roberto vi aveva certamente una buona base. Vi si era anch'egli acclimatato come gli Svevi. Era circondato non più da Francesi ma quasi solo da Italiani. I suoi legami con l'oltremonte con la stessa curia avignonese, si erano sempre più rilassati, mentre il re aveva potuto conservare un certo credito e prestigio italiano. Anzi, in mezzo a tanto disordine e a tanta illegalità, quanto ebbero a soffrirne le regioni in cui si veniva formando faticosamente il nuovo assetto politico, Roberto di Napoli poté apparire come ancora di salvezza per tutta la penisola. Qualche poeta o letterato italiano poté immaginare che Roma lo aspettasse; che tutti i "Latini", cioè l'Italia tutta, ormai ridotta in basso stato, scadute le forze, la riputazione, il nobile sangue, sperassero in lui, lo invocassero a signore, ultima e unica speranza. È il tempo che fra le cose possibili o desiderabili comincia a esservi non un imperatore ma un re, un re che neppure sembra sia l'antico, ormai identificato con l'imperatore, ma un re nuovo, tratto da Napoli o creato dal nulla, un re per tutta Italia o per più piccolo territorio.
Decadenza di regni e progresso di signorie nel sec. XIV. - E tuttavia, negli anni che seguirono la discesa del Bavaro, sempre più debole pulsò il cuore del regno di Napoli, ora ridotto solo alle provincie continentali, dopo che la Sicilia si era di nuovo estraniata dalle vicende della penisola. Il distacco dell'isola e poi i vani sforzi per ricuperarla e la preoccupazione di doversene difendere lo avevano ferito profondamente. E il credito italiano che si manteneva ancora in funzione di parte guelfa, in funzione antisignorile e antimperiale, era destinato a consumarsi rapidamente, via via che le signorie dilagavano vittoriose, e la corte di Avignone curava direttamente, per mezzo di suoi legati, il ricupero delle terre ecclesiastiche e trescava con Francesi e con i re dei Romani, magari a danno di Roberto. Sempre più precarî anche i possessi piemontesi del re angioino. Venivano poi illanguidendosi le forze stesse del regno, impari, a lungo andare, ai compiti non locali ma italiani e quasi universali che Svevi Angioini e papi, alti signori, da oltre un secolo gli avevano imposto. Aveva proseguito il processo di sgretolamento dell'autorità regia, mentre clero, nobiltà, municipî si facevano innanzi. Specialmente grave per le conseguenze sue, la nuova politica instaurata dagli Angioini nei rapporti degli ecclesiastici, con la soppressione di tanti limiti alla libertà del foro, al diritto di acquisti fondiarî, alle esenzioni tributarie. Riprendevano vigore le tendenze autonomistiche locali. Le consuetudini cittadine venivano proclamate superiori alla legge del regno. Una quantità di funzioni urbane passavano nelle mani di ufficiali elettivi, i quali non potevano essere, nell'inevitabile gara, se non i nobili. Discordia, guerriglie locali, università che si scindono, quella dei nobili e quella del popolo: il tutto, dovuto più a debolezza del potere regio che non a vera e feconda forza costruttiva di popolo. E intanto, la pressione fiscale non rallentava: donde generale inquietudine, disfacimento di piccole università, brigantaggio. Ai bisogni della corte e all'incerta fedeltà dei baroni, si s0vveniva anche infeudando le città. Nuovo feudalesimo, col risultato che le entrate regie si assottigliavano ancora e la fedeltà dei baroni diventava ancora più incerta. Peggio fu alla morte di Roberto, 1343, quando s'inaugurò una fase d'intrighi di corte, di lotte locali per la corona, di tentativi stranieri - Angioini di Francia e d'Ungheria, condottieri italiani e aspiranti di Spagna -, d'impotenza statale. Ciò significò nuovi e maggiori interventi papali nel regno mal tollerati dalla regina Giovanna, la quale prestò giuramento ai legati avignonesi, ma si oppose che clero e popolo facessero atto di sottomissione.
Presso a poco, la stessa cosa nel regno di Sicilia. Il quale vide, col Vespro, crescere di numero e avvantaggiarsi l'aristocrazia e affievolirsi quel che c'era di regime comunale; prevalere una concezione dello stato che metteva questo in balia dei parlamenti, cioè della nobiltà, e rivendicava alla nobiltà il diritto anche di ribellione al re, se il re avesse violato i loro privilegi; crescere le grandi signorie feudali e scemare il numero delle città dipendenti dal re e i redditi demaniali; passare nel possesso della nobiltà le maggiori dignità e uffici, con tendenza da parte sua a tenerseli ereditariamente. Insomma, il regno di Sicilia subì lo stesso processo di disintegrazione feudale che già aveva subito il regno d'Italia nel IX-X secolo. Resisterono i re, specialmente i primi. Essi si considerarono successori legittimi degli Svevi e attesero a ricollegarsi alla loro tradizione, anziché a quella angioina, come dice Federico III. L'opera legislativa assunse il carattere di restaurazione nel senso stesso degli Svevi. Furono richiamate in vigore le costituzioni di Federico II da cui i Francesi avevano derogato; messo freno agli abusi e sottoposti a sindacato i grandi uffici; data una più rapida giustizia e libertà di pignorare, vendere, donare, lasciare in eredità il feudo o parte di esso; abolita la servitù contadinesca e comminate pene capitali ai padroni che si rifiutavano di dare esecuzione a tale misura; convocati parlamenti annui con nobiltà, prelati, sindaci di città; disposto perché solo i borghesi fossero ammessi agli uffici cittadini. Cioè, si cercò di stabilire un certo equilibrio fra le classi. Ma la lotta per riuscire a ciò, sempre più difficile e impari. I nobili vennero in possesso delle risorse della corona; prevalsero nei municipî; quasi s'identificarono col parlamento; divennero il centro attorno a cui tutto ruotava, per legami di dipendenza, amicizia, clientela. E il re perse di prestigio e autorità di fronte a loro. Sempre più perciò si consolidò l'abito mentale per cui il popolo non dal re ma dai nobili doveva attendersi tutto, e siffatto ordine di cose, imperniato sulla nobiltà, era considerato legittimo. Il pericolo poi di una restaurazione angioina accresceva la debolezza del re, nei riguardi dei nobili. C'era il caso che si gettassero nelle braccia del re Roberto, come fece il conte di Modica della famiglia Chiaramonte, che poi guidò una flotta napoletana lungo le coste dell'isola. In tali condizioni, difficile anche mantenere le vecchie tradizioni di politica africana. Nel 1337, andò perduta anche l'isola delle Gerbe, già acquistata da una flotta siciliana. Finalmente, morto Federico II, con i successori Pietro II, Ludovico, Federico III, nessun freno resse più. Il regno di Sicilia, come quello di Napoli, parve svanire, quasi inghiottito dalle sabbie mobili.
Più vive forze muovono dalla Valle Padana, terreno sostanzioso, che traeva qualche vantaggio anche dai nessi crescenti con l'Europa centrale e occidentale in via di sviluppo, mentre il sud, distaccatosi dal mondo orientale e nordafricano, sempre più s'isolava, almeno come funzione attiva. Mastino della Scala, signore di Verona e Vicenza, mise le mani anche su Treviso, Belluno, Feltre, Brescia, Piacenza, Parma e, di là dall'Appennino, Lucca: dal Cadore, insomma, alle foci del Serchio. Padrone di tante città, ricco di patrimonio familiare, non alieno, come tutti questi signori nati in mezzo alla borghesia cittadina, da speculazioni commerciali, egli dispone di larghissimi mezzi. E si parlò di corona regia che dovesse mettere suggello a tanta potenza, di "re di Lombardia" vicini a nascere. Ma poco durò questa grandezza. Gl'interessi offesi si coalizzarono, si volsero contro gli Scaligeri (1336-41), travolsero la vasta ma incoerente signoria, di cui non rimase che Verona e Vicenza. Fra questi interessi coalizzati, in prima linea, Venezia, già nemica degli Ezzelini; Venezia che vedeva minacciate le strade verso l'interno e sé stessa accerchiata. E ora Venezia fece un passo innanzi verso una politica di terraferma. Cominciò anzi ad acquistarvi terre di proprio dominio: e fu Conegliano, nel 1337 ragione e incitamento poi di altri acquisti. Oltre Venezia, Giovanni Visconti, arcivescovo e signore di Milano dopo Luchino, che riprende i piani di Matteo sulla Lombardia e oltre. Genova e Bologna cominciano a essere scopo di questa politica viscontea: Genova quasi porto di Milano da un paio di secoli; Bologna, porta della Romagna e Toscana, crocicchio di molte strade, luogo di controllo dì metà del commercio fiorentino verso Venezia e la Valle Padana, grande mercato di milizie mercenarie che lì si vendevano e compravano. La città, già guelfa e datasi al legato papale, poi da lui passata a Taddeo Pepoli, era adesso mal governata dai suoi figlioli: e da essi, Giovanni arcivescovo la comprò.
Da Bologna, il Visconti preme su Toscana e Romagna: che erano terreni accidentati e rotti, con molte città e signori malfermi, con popoli in attesa, sensibili a seduzioni e richiami da fuori. Pisa, umiliata alla Meloria, divisa fra i partiti, sempre timorosa di Firenze; Lucca, anch'essa passata per tante mani di signori e avventurieri, locali e transappenninici, è pur sempre ricca ma debole e, per queste due ragioni, oggetto di cupidige da ogni parte; Firenze, operosa, politicamente ed economicamente presente in ogni angolo di mondo, non è in un momento felice. Ha subito gravi sconfitte a Montecatini e Altopascio, si è vista i nemici alle porte, si sente circondata da un cerchio d'odio da parte delle città, e ha visto anche Genova solidarizzare con Pisa, è minacciata alle spalle verso i monti da un nugolo di signorotti, Ubertini, Pazzi, Tarlati, Ubaldini, ecc., che molto confidano in estranei interventi, si trova malamente armata contro le bande mercenarie che hanno nella Toscana un passaggio obbligato anche verso il sud e un buon campo di ricchi borghesi da mietere. E poi i commerci non vanno più tanto bene. Vì è stata, anche per questo, la grossa crisi bancaria che, cominciata nelle piccole banche, dopo il 1320 è salita su, fino a scrollare le grosse società, quelle che avevano affari di ogni genere in Francia e Inghilterra. Firenze è stata vicina anch'essa alla signoria. Prima, un Angioino, vicario per re Roberto; poi il duca d'Atene. La città prosegue nella sua evoluzione sociale, uno strato dopo l'altro. Ora, siamo agli artigiani minori, che si appoggiano ai nobili. E il duca d'Atene è diventato signore anch'egli, sfruttando e fomentando malanimo popolaresco e nobilesco contro i grassi borghesi, contrasti fra artigiani organizzati e non organizzati. Ma Firenze ha grandi riserve di mezzana e alta borghesia. Essa è troppo "popolo" e "libertà". Essa non è un comune, è il comune: quasi potremmo dire, ormai, un principio. Si considera rappresentante e capo morale di quanti vivono ancora a comune o a comune vogliono tornare. Superato ogni pericolo di signoria, dopo cacciato a furia di popolo il duca d'Atene, prosegue nella sua evoluzione politico-sociale, conciliando ciò che le altre città non avevano saputo conciliare, regime popolaresco e comune. Perciò, ora affronta bravamente il "tiranno", il Visconti, quando, sollecitato e accompagnato dai ghibellini toscani, scende nel 1351 giù per i monti. Il tiranno non passò. Ritentò l'anno appresso, cercò di stringere Firenze anche dalla parte dell'Umbria: ed ebbe in dedizione Orvieto e Bettona. Ma le altre città toscane e umbre, comprese quelle in cui Firenze aveva molti nemici, si collegarono. La repubblica, che odiava i tiranni, trovò qualche aderente fra quelli di Romagna; si volse anche, essa, città antighibellina per eccellenza, a Carlo IV imperatore, ed ebbe segreti colloquî con inviati imperiali venuti in Italia e strinse patti con essi. Finora, a capo di ogni lega contro signori oltramontani era stata Firenze. Ora, piuttosto i Visconti. Firenze alla funzione di avversario primo e maggiore di ogni signoria che dal nord o sud vorrà allargarsi su tutta la penisola. Il Visconti fallì anche questa volta, in Toscana, trovando tuttavia compenso a Genova, che gli si diede ed ebbe da lui governo e denari in prestito per armare galere. Egualmente fallì, l'arcivescovo, in Romagna, ove più forte era la posizione e più energica l'azione dei papi.
Roma sede dell'impero e del papato, "Caput Italiae". - Nell'assenza dei pontefici, si venivano svolgendo anche entro lo Stato della Chiesa i germi della signoria, presenti ovunque fossero vita di comune e potenti famiglie più o meno mescolate alla vita dei comuni. Poco avevano potuto fare, per impedire questa evoluzione, i legati papali, compreso Bertrando del Poggetto. Ed era venuta su una folla di piccoli signori, ora disposti a solidarizzare nel momento del pericolo, ora tendenti a sopraffarsi nella violenta e fraudolenta gara. E realmente, alcuni erano riusciti a stabilire più o meno effimeri predominî: i Malatesta di Rimini, che nel 1350 si presero Ancona, Osimo, Ascoli, Iesi, Senigallia, cioè quasi tutta la Marca; gli Ordelaffi di Forlì, che ebbero Cesena e altri luoghi. Più verso Roma, il prefetto di Vico, impadronitosi di Viterbo ebbe potere su quasi tutte le terre del patrimonio.
In questo tempo, l'urbe era proprio nave senza nocchiero. La politica temporalesca e nepotistica di Bonifacio aveva inasprito i contrasti tra le famiglie maggiori, raggruppate attorno a Caetani e Colonna: quelle lotte che, come avevano reso difficile in Roma l'elezione del pontefice, ora rendevano difficile la designazione e l'azione del governo civile. La venuta di Enrico VII e di Ludovico il Bavaro aveva rinfocolato i partiti o, meglio, fazioni, in cui guelfismo e ghibellinismo erano maschere d'interessi pratici di famiglie e di gruppi di famiglie. Naturalmente, distrutto anche ogni commercio, sviata la corrente dei pellegrini, la città quasi adeguata alla campagna circostante, ove non era che rozza feudalità, contadiname ignaro, vita pastorale. In tali condizioni, ecco un tentativo di dittatura popolaresca: che naturalmente si colorò di antico e classico; v'era sostanza, idealmente parlando, della vita di Roma. Così era avvenuto con Alberico, così con Arnaldo da Brescia, così con Cola di Rienzo: ora che la renovatio, cioè la restaurazione di Roma antica nei pensieri, nelle immagini, nei desiderî, quasi la piena sua riabilitazione morale e storica è in rapido corso. Cola si fece a propugnare un rinvigorimento dell'autorità pubblica per mezzo del popolo, che mise capo nel 1347 a un nuovo governo democratico. Rinnovò il tribunato del popolo e assunse il titolo relativo. E come tribuno, si diede a frenare il disordine, bandire dalla città signori turbolenti, assicurare giustizia. Ma poteva, chi operava da Roma con tanto fervido animo, starsene con la mente chiusa entro le mura? Roma voleva dire il mondo. Cominciava anche a voler dire l'Italia, centro o giardino di qucl mondo. E ora Cola non solo vagheggiò di liberare Roma e restaurare l'antica repubblica, ma anche di rigenerare la sacra Italia, raccoglierla ordinata attorno a Roma. Roma e Italia non si disgiungono mai, nel pensiero del tribuno. Per la salute, la pace, la giustizia dell'una e dell'altra egli lavora; anzi, lavorando per Roma, egli lavora per tutta Italia. L'autorità di cui si fa forte, a lui viene "tanto dal popolo romano, quanto dai popoli della sacra Italia". "Roma e la sacra Italia sono da ridurre a unione concorde, pacifica, indissolubile". È qualcosa di più che non invocasse Francesco Petrarca, che poco si fermava sulla natura giuridica o politica del vincolo che avrebbe dovuto collegare tutti gl'Italiani, pur vedendo egualmente strette da un comune destino Roma e l'Italia.
Intanto, proclamò libere tutte le città e i popoli d'Italia, dichiarò cittadini romani questi popoli, li incitò contro i "tiranni" e contro i "barbari". Già da un pezzo questa parola "Italia" cominciava ad assumere intonazioni nuove: non la Valle Padana o il regno già dei Longobardi, ma la penisola tutta; e non solo un certo paese fisicamente individuato e uno, ma un paese di un certo sangue, e distinto per vicende storiche, per la sua presente infelicità, per la sua lingua, per specifici caratteri di nobiltà, che ne fanno "regione nobilissima d'Europa". Ora, a mezzo il sec. XIV, questa nozione e questo sentimento della individualità e unità della penisola è apertissimo. E l'Italia comincia a essere quel valore morale che mai più si smarrisce. Lo stesso Petrarca, toscano di Arezzo, che vive in questo tempo dividendo la sua dimora tra Francia e Italia e nel 1336, tornato con i Colonna da Avignone, visita Roma, ricevendone impressione incancellabile; nel 1338-40 compone l'Africa, celebrando come grande gesta nazionale la seconda guerra punica, nel 1341 riceve in Campidoglio la corona d'alloro, come poeta e storico.
Cola concepì in modo nuovo anche i rapporti fra Italia e impero. Da tempo, come si veniva affermando che l'impero derivava da Dio, ma era conferito "per autorità del senato e del popolo romano" e si vedeva dai giuristi bolognesi e italiani la prima ed essenziale fonte della sovranità imperiale nella lex regia o de imperio, con cui il popolo romano aveva conferito la sua podesta all'imperatore; cosi anche serpeggiava l'idea che l'imperatore dovesse risiedere a Roma e anche essere italiano. Poteva ciò essere un aspetto della renovatio; poteva essere una reazione alla crescente appropriazione dell'impero che da tempo i Tedeschi venivano facendo, sin da quando quegli Elettori, mettendo il regno di Germania invece del regno d'Italia a fondamento dell'impero, affermavano l'uomo da essi prescelto al trono di Germania essere ipso iure imperatore. Ancor più ora. Due diete di principi, a Rhense e a Francoforte, nel 1338, sancivano che non solo il loro eletto era da considerare legittimo re di Germania senza bisogno di approvazione papale, ma che, essendo l'impero stesso da considerare cosa del re, degli elettori, del popolo tedesco, il re eletto era anche investito di titolo e poteri imperiali. Si finiva, con queste deliberazioni e proclamazioni di diete tedesche, di nazionalizzare l'impero e si faceva della sua autorità sopra i particolari regni e popoli l'autorità di una nazione su altre nazioni. Di qui la crescente ripugnanza degl'Italiani all'impero o, in realtà, al re di Germania e ai Tedeschi. E si profilavano in Italia soluzioni più o meno utopistiche del problema dell'autorità suprema, ma diverse da quelle dell'età precedente e assai significative: un re d'Italia italiano; un re d'Italia che potrebbe anche, dal possesso di quel regno, derivare il diritto all'impero e aver sede in Roma.
Ecco appunto Cola di Rienzo. Egli faceva dell'impero, da effettuare per avventura anche in forma repubblicana, cosa di Roma, anzi di Roma e dell'Italia, quasi del tutto staccate dal vecchio quadro della monarchia universale e strettamente collegate l'una all'altra: collegate già nel creare le fortune dell'impero, Romanorum et Italicorum laboribus propagatum; collegate ora nel conservarlo.
Ma su questi tirannelli romagnoli e marchigiani, su questo dittatore romano e vagheggiatore di una Roma che non era certo quella papale, seguitava a vigilare la curia di Avignone, a cui era impossibile estraniarsi dall'Italia, dalle terre della Chiesa, da Roma, e a cui spesso dall'Italia, dalle terre della Chiesa, da Roma giungevano sollecitazioni e invocazioni di ritorno. Così, nel 1353, Avignone mandò ancora un suo luogotenente in Italia. Ora, più precise e circoscritte le aspirazioni e le attività della curia. Non più la Lombardia, ma la Romagna e Marche e stato della Chiesa vero e proprio, al fine di mettere pace tra le fazioni e ristabilire in dipendenza diretta o indiretta le terre papali. Il Medioevo si allontanava. Calcolo politico più che sogni imperiali animava l'azione del pontificato. L'uomo che papa Innocenzo VI investì di questo compito era il cardinale spagnolo Egidio Albornoz.
Bene accolto fu l'Albornoz da Giovanni Visconti. Gli fece festa, ma senza convinzione, Firenze. Bologna gli chiuse le porte in faccia. Era, insieme con lui, Cola di Rienzo che, dopo la fuga da Roma, si era rifugiato nel 1350 presso Carlo IV imperatore e re, era stato da lui consegnato al papa che pensò di trarre profitto del tribuno ai fini della restaurazione. Difatti, Cola fu ricevuto a Roma, che era ricaduta nel disordine, con grandi manifestazioni di giubilo e di fiducia. E riebbe il potere, questa volta come senatore di nomina pontificia; si rimise al lavoro col consueto sincero e un po' scomposto ardore. Ma la rivolta popolare un'altra volta scoppiò; Cola di Rienzo fu ucciso. E in Romagna e Marche, i tirannelli, l'uno sospettando dell'altro, facevano l'un dopo l'altro atto di sottomissione, rimanendo come vicarî: che era una via di mezzo, oggetto di qualche ironia da parte dei giuristi del tempo. Resistettero i Manfredi di Faenza e gli Ordelaffi. di Forlì. E contro di essi tutte le armi furono scatenate, tutte le condanne pronunciate. In piccolo, una lotta non diversa da quella di venti o trent'anni prima in Lombardia. Ma l'Albornoz, che pure aveva poche forze, ebbe ragione di loro.
L'Albornoz riordinò le terre della Chiesa, pubblicò nel parlamento provinciale delle Marche, il 1357, le Costituzioni Egidiane, riebbe nel'60 Bologna, dopo scaduto il decennale vicariato del Visconti; sgombrò la via del ritorno al papa, sempre più invocato da molte parti. Breve dimora a Roma fece, nel 1369, Urbano V, che poi se ne tornò in Francia, provocando nuove rampogne e invettive di uomini di Chiesa e di uomini di mondo, Caterina da Siena e Francesco Petrarca. Vi ritornò nel 1377, con più ferma intenzione di rimanervi, papa Gregorio XI.
Ma quale ritorno! Col pontefice, bande di mercenarî stranieri che misero a sacco e sangue Cesena. E parecchi Francesi, verso i quali l'opinione p