Mondo, italiano nel

Enciclopedia dell'Italiano (2011)

mondo, italiano nel

Patrizia Bertini Malgarini

L’area linguistica italiana (lingua e confini)

I confini dell’Italia linguistica non coincidono perfettamente con quelli dello Stato italiano. In generale, il rapporto tra comunità linguistica e spazio geografico è assai più complesso e articolato di quanto i confini nazionali (e non solo; ➔ italiano regionale) possano rappresentare, dal momento che i confini amministrativi non corrispondono quasi mai perfettamente a quelli linguistici, assai più sfumati e sfrangiati.

Naturalmente (soprattutto in Europa) ciò è particolarmente evidente nelle aree frontaliere: così, per es., a ovest del confine italiano varietà dialettali italo-romanze sono presenti nel sud-est della Francia sino a Nizza; e il monegasco, lingua ufficiale del Principato di Monaco, è un dialetto ligure. Nell’estrema area orientale invece, dialetti veneti e istriani sono presenti in Slovenia (nel censimento del 2002 quasi 4000 persone, concentrate nei comuni di Capodistria, Pirano e Isola d’Istria) e in Croazia (circa 20.000 persone, residenti soprattutto nella regione istriana, a Fiume e nelle isole del Quarnaro e della Dalmazia).

Molto particolare il caso della Corsica, la cui varietà linguistica, appartenente tipologicamente al gruppo italo-romanzo, è stata di recente denominata corsoromanzo (Durand 2003); la lingua còrsa è dal 1974 ufficialmente riconosciuta come lingua regionale di Francia (cfr. Nesi 2002: 968-970; per la legislazione a tutela delle lingue regionali, cfr. Toso 2002: 1067-1068; ➔ minoranze linguistiche). Fuori dei confini nazionali all’italiano è riconosciuto, insieme al tedesco, al francese e al romancio, lo statuto di lingua nazionale nella Confederazione Elvetica, dove costituisce la lingua dominante del Canton Ticino (qui la presenza dell’italiano è documentata già a partire dalla fine del XIV secolo; ➔ Svizzera, italiano di). I dati del censimento svizzero del 2000, inoltre, hanno registrato nel Canton Ticino, per la prima volta dal 1880, un aumento del numero di coloro che dichiarano l’italiano come lingua principale (+9,1%, percentuale superiore a quella dell’incremento demografico assoluto). Per contro, gli stessi dati hanno messo in luce una perdita fuori cantone del 27% di parlanti (http://www.ti.ch/DFE/USTAT) e quindi una diminuzione degli italofoni in Svizzera: soltanto il 6,5% della popolazione è infatti risultata di lingua madre italiana, mentre nel 1980 la percentuale raggiungeva il 10% (però già nel 1990 era di poco superiore al 7,6%). L’italiano appare fondamentalmente stabile anche nelle quattro valli meridionali dei Grigioni (il Grigioni italiano), sia pure con qualche difficoltà nei casi più problematici della Bregaglia e della Calanca.

Nella Confederazione Elvetica l’italiano è utilizzato anche come lingua burocratica e amministrativa dagli organismi federali, dalle poste, dalle ferrovie, dalle banche e dalle aziende della grande distribuzione commerciale: è quella varietà specifica denominata italiano elvetico (o federale), caratterizzata da peculiarità grafiche, fonetiche, morfosintattiche, oltre che lessicali, da mettere in relazione in primo luogo con il contatto con il tedesco e il francese. Trentatré ‘elvetismi’ sono registrati dal Vocabolario Zingarelli 2007: ad es., azione «campagna promozionale», buralista «responsabile di ufficio postale», picchetto «turno di reperibilità», servisol «self service», vignetta «contrassegno, bollo» (cfr. anche Savoia & Vitale 2003). Il variegato quadro degli impieghi dell’italiano in Svizzera comprende anche il suo uso come lingua franca tra lavoratori stranieri di diverse nazionalità, tra cui soprattutto portoghesi e spagnoli prima, greci e slavi poi. Tale varietà si è sviluppata nell’ambito delle interazioni linguistiche tra gruppi di lavoratori immigrati tra i quali quelli di provenienza italiana svolgevano un ruolo egemone (cfr. Berruto, Moretti & Schmid 1990 e Schmid 1994).

L’italiano è lingua ufficiale anche di due piccoli stati interni alla penisola italiana, la Repubblica di San Marino (Foresti 1998) e lo Stato della Città del Vaticano, le cui ordinanze sono redatte in italiano. Importante e mai abbastanza sottolineato il ruolo della Chiesa (i documenti ufficiali sono in latino) nella promozione e diffusione della lingua italiana nel passato ma anche oggi, basti solo pensare ai network radiofonici cattolici, da Radio Vaticana a Radio Maria (➔ Chiesa e lingua).

L’italiano nel Mediterraneo

Nel passato, come studi anche recenti hanno mostrato, la lingua italiana ha avuto una certa diffusione nel bacino del Mediterraneo e in particolare in Tunisia, dove è stato possibile rintracciare documenti del XVI e XVII secolo redatti in italiano (➔ Mediterraneo e lingua italiana). Tuttavia «l’odierna diffusione dell’italiano nei Paesi arabi del Mediterraneo o in Grecia […] è effetto di condizioni moderne, di relazioni di natura prevalentemente commerciale o turistica» (Bruni 1999: 76).

Molto particolare il caso di Malta, dove la storia dell’italiano inizia con la conquista dell’isola nel 1091 da parte dei Normanni; però è solo a partire dal XVI secolo che si registra la presenza dell’italiano con una certa regolarità nei documenti. È, infatti, con il passaggio di Malta sotto l’egida dei Cavalieri gerosolimitani (poi Cavalieri di Malta, 1530-1798), che il volgare toscano viene adottato come lingua ufficiale. Nel XIX secolo, con gli Inglesi, la posizione della nostra lingua subì un progressivo ridimensionamento, fino alla Costituzione del 1964 in cui il maltese acquisisce il ruolo di lingua nazionale, affiancato dall’inglese che conserva lo status di lingua ufficiale (Brincat 2003).

L’italiano tra le altre lingue

Qualunque lingua, parlata in un determinato periodo storico da una comunità d’individui legati da vincoli sociali e politici e insediata in un determinato territorio, può raggiungere comunità insediate altrove; può cioè essere ‘esportata’. Il processo può avvenire secondo varie modalità che possono essere schematicamente riassunte in: (a) politico-militari; (b) culturali; (c) migratorie.

Se molte lingue europee, e in primo luogo proprio lo spagnolo (ma anche il portoghese, il russo, il francese), debbono la loro espansione fuori dei confini nazionali alla supremazia politico-militare (sull’italiano coloniale cfr. Ricci 2005) o a quella economico-commerciale (l’inglese della colonizzazione britannica che è fattore non secondario all’attuale diffusione dell’anglo-americano),

per l’italiano, lingua senza impero, questo metro non vale, e la lingua letteraria ha avuto fortuna perché è stata e continua a essere una lingua leggera, che si afferma non per la pesantezza di forti organizzazioni statali o economiche, ma per le virtù della creatività (non solo letteraria) (Bruni 2002: 201).

L’apprezzamento per la grande tradizione letteraria italiana risale in Europa al medioevo; ➔ Dante, ➔ Francesco Petrarca e ➔ Giovanni Boccaccio, presto conosciuti e ammirati di là dalle Alpi, esercitarono un’influenza profonda e duratura sulla letteratura europea, che spesso si riferisce alle loro opere avvertite come capolavori ineguagliabili. Dei molti esempi di tale plurisecolare preminenza basterà ricordare la diffusione del ➔ sonetto, forma metrica introdotta nella lirica romanza da Jacopo da Lentini e affermatasi largamente anche fuori d’Italia grazie alla fortuna di Petrarca e del petrarchismo: soneto in spagnolo e portoghese; sonnet in francese, inglese, olandese; sonett in tedesco e in svedese; sonet in danese, polacco e russo; szonett in ungherese; sone in turco; ma anche in neogreco sonetto o in ebraico snnṭh (per la diffusione dell’italiano come grande lingua ‘di cultura’, non solo letteraria, ➔ italiano in Europa; immagine dell’italiano; ➔ italianismi).

L’emigrazione

Tra i fattori di diffusione di una lingua al di fuori dai confini nazionali il fenomeno migratorio propone interessanti specificità, sia perché comporta necessariamente lo spostamento di ingenti masse di individui, sia perché il contatto linguistico avviene a livello di lingua d’uso, legata quindi primariamente all’oralità (➔ emigrazione, italiano dell’).

Nel caso dell’italiano «le dimensioni del processo migratorio […] nel periodo a cavallo fra i due secoli non hanno eguali nella storia contemporanea europea e si contraddistinguono per intensità e vastità» (Turchetta 2005: 3): si è calcolato che tra il 1876 e il 1976 partirono dal nostro Paese poco meno di 26 milioni di individui (Favero & Tassello 1978: 11), oltre la metà dei quali prima della seconda guerra mondiale (il maggior numero di partenze si colloca tra il 1891 e il 1911). Non tutti gli espatri furono definitivi: si è stimato difatti che «fra il 1871 e il 1951 circa 7 milioni d’italiani si sono trasferiti definitivamente all’estero» (De Mauro 1976: 54), negli altri casi, dopo una permanenza più o meno lunga nel paese di arrivo, gli emigrati hanno fatto rientro in patria.

Certo, in larghissima parte la storia linguistica dell’emigrazione italiana è la storia di «un grande naufragio» (Baldelli 1991: 20); ma, senza tener conto della non indifferente spinta all’alfabetizzazione e dell’elevazione culturale prodotta in Italia dal fenomeno migratorio (De Mauro 1976 e Bettoni 1993), è all’emigrazione otto-novecentesca (sulla storia dell’emigrazione cfr. Bevilacqua, De Clementi & Franzina 2001-2002) che si deve la diffusione di comunità italofone più o meno cospicue disseminate in buona parte del mondo (soprattutto nelle Americhe e in Australia). Si trattò per la verità di un’emigrazione fondamentalmente dialettofona, e per di più, all’inizio e per lungo tempo, in larga prevalenza di analfabeti o al più di semicolti: «negli anni ’20 del ’900 fu il Literacy Act a frenare la migrazione italiana negli Stati Uniti, aprendo così nuove strade alla migrazione transoceanica verso altri Paesi» (Turchetta 2005: 4; il Literacy Act è una sezione dell’Immigration Act del 1917, inasprita nel 1924, secondo la quale era impedito l’ingresso negli Stati Uniti agli analfabeti al di sopra dei 16 anni).

Sul piano linguistico quindi la prima imponente ondata di espatri (cioè quella fino agli anni Quaranta) trasferì non tanto l’italiano quanto i molti dialetti parlati da chi, arrivato nella nuova comunità, si trovava di solito in una condizione di subordinazione sociale ed economica. In un contesto del genere diventava indispensabile, se non per sé, per i figli, appropriarsi della lingua della nuova patria, dotata di maggior prestigio nonché spesso necessaria per l’attività lavorativa:

la lingua di competenza e la cultura di appartenenza si trovarono a fondersi con una nuova realtà linguistica e culturale, dove la trasmissione verticale, da una generazione all’altra, viene spesso interrotta (Turchetta 2005: 9).

Naturalmente non solo lo status sociolinguistico dei diversi sistemi in gioco, ma anche fattori di natura demografica e ambientale, in primo luogo la composizione e la consistenza numerica del gruppo (l’emigrazione individuale o di piccoli nuclei è di solito destinata a una rapida assimilazione), ovvero la prospettiva o meno di un rientro in patria, hanno condizionato le scelte linguistiche degli emigrati e condotto nella maggior parte dei casi all’abbandono della lingua nativa che non è riuscita a conservarsi soprattutto nelle seconde e terze generazioni (Bettoni 1993: 412-420; Bertini Malgarini 1994: 804).

Il variegato quadro linguistico dell’emigrazione d’origine italiana registra ancora oggi (sia pure in misure ormai fortemente ridotte) una serie di varietà sviluppatesi dall’incontro tra i dialetti italiani con le lingue dei luoghi d’arrivo; la più nota e significativa registrazione letteraria del fenomeno (e tra le primissime) è nel poemetto Italy di Giovanni ➔ Pascoli, non a caso «sacro all’Italia raminga», apparso nel 1904, che registra mirabilmente forme precoci di italo-americano:

Venne, sapendo della lor venuta,

gente, e qualcosa rispondeva a tutti

Ioe, grave: “Oh yes, è fiero ... vi saluta ...

molti bisini, oh yes ... No, tiene un frutti-

stendo ... Oh yes, vende checche, candi, scrima ...

Conta moneta! Può campar coi frutti ...

Il baschetto non rende come prima ...

Yes, un salone, che ci ha tanti bordi ...

Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima ... ”

(vv. 110-118; cfr. Bertini Malgarini & Vignuzzi 2002: 1018-1019)

Come appunto rileva Carla Marcato, tra le varie situazioni di contatto tra dialetto/italiano dei migranti e nuova lingua sono molto interessanti quelle caratterizzate da forte mescolanza linguistica: tali sono il cosiddetto ➔ italoamericano, che ha il corrispettivo nell’italocanadese e nell’italoaustraliano (o australitaliano). Un caso per certi aspetti analogo è quello del cocoliche rioplatense (tra Argentina e Uruguay), sviluppatosi dall’interferenza tra dialetti italiani (originariamente soprattutto genovese) e spagnolo, e caratterizzato, oltre che da rese fonetiche quali [mu’kere] mujer, e lessemi del tipo di manyar «mangiare», ecc., da elementi fraseologici quali atenti ai piati que la polenta bruya! «fate attenzione perché c’è pericolo», o lo che vuoi «ciò che vuoi» (➔ italiano come pidgin). Proprio negli ambienti più malfamati di Buenos Aires si sviluppò il lunfardo, sorta di gergo della malavita fortemente influenzato da elementi dialettali italiani (ad es., vento «soldi», ma anche anduma «andiamo!»), ampiamente utilizzato sia nel teatro popolare sia nei testi del genere musicale più rappresentativo dell’Argentina, il tango (cfr. Marcato et al. 2002).

Dal Bel Paese a Eataly

L’icona dell’Italia come ‘Bel paese’ nel quale fioriscono aranci e limoni, luogo prediletto di poeti e artisti, grande museo delle opere dell’arte antica (e non solo), tappa imperdibile, a partire dal XVI secolo e in misura crescente in quelli successivi, del Grand Tour, ha non solo favorito e richiamato flussi sempre più consistenti di turisti nel nostro Paese, ma ha anche diffuso nel mondo globalizzato la convinzione dell’esistenza di un legame speciale che, soprattutto dal Rinascimento in poi, unisce l’Italia e l’italiano al ‘bello’. Tale convinzione ha avuto negli ultimi decenni un riscontro concreto ed economicamente significativo nel grande successo all’estero dei prodotti made in Italy (principalmente nei settori della moda, dell’arredamento e più in generale dei beni di lusso) e del cosiddetto vivere all’italiana.

Non è un caso allora che uno degli aspetti della civiltà italiana da secoli di maggior attrattiva e prestigio sia la cucina (➔ gastronomia, lingua della). Termini d’origine italiana relativi alla gastronomia si ritrovano nelle lingue europee già nel XVI secolo: maccheroni nella forma adattata macarrones è attestato per la prima volta in spagnolo nel 1517 (macarons, poi macaroni in francese, 1599; macaroni in inglese, 1599); sono di diffusione molto antica pure mortadella in francese e vermicelli in francese e inglese; risale alla fine del Settecento-primo Ottocento la fortuna di confetti. Numerosi gli italianismi gastronomici recenti, per molti dei quali sarà da mettere in rilievo la probabile diffusione non per via colta, ma attraverso l’emigrazione, cioè per via popolare. È probabilmente collegata alla folta presenza di comunità italiane la penetrazione in inglese di termini quali lasagne, spaghetti, ricotta, risotto, salami (tutti attestati intorno alla seconda metà del XIX secolo); mozzarella, rigatoni, scampi, zucchini e prosciutto (registrati nella prima metà del XX secolo; Haller 1993). Il settore della gastronomia è senz’altro quello nel quale l’italiano si è maggiormente affermato all’estero in questi ultimi cento anni, come mostra il numero degli italianismi relativi all’alimentazione entrati in inglese nel Novecento: nella prima metà del secolo rappresentano infatti un quarto del totale, sono circa la metà nel periodo successivo e giungono a superare il 70% verso la fine (Lepschy & Lepschy 1999; cfr. Bertini Malgarini 2002). Risale al secondo dopoguerra la diffusione internazionale di espresso e cappuccino, come anche di pizza, oggi la parola italiana più nota nel mondo (➔ italianismi).

La fortuna impetuosa, per non dire travolgente, della cucina italiana ha fatto sì che in tutte le città del mondo (e non solo nelle grandi metropoli) vi siano ristoranti italiani, spesso d’altissimo pregio, che propongono e diffondono cibi e ricette della nostra tradizione. Un caso emblematico è quello della star della gastronomia d’oltreoceano, l’istriana di Pola Lidia Bastianich, che, oltre ad essere lo chef di due notissimi ristoranti di Manhattan, ha pubblicato libri che hanno venduto quasi un milione e mezzo di copie e conduce un seguitissima trasmissione gastronomica, Lidia’s Italy. Il suo sito (http://lidiasitaly.com/) ha una pagina d’entrata che si avvia con «Buongiorno and Welcome to Lidia’s Italy» per concludersi con l’invito «Tutti A Tavola A Mangiare!» e propone piatti quali Basic Risotto o Rigatoni Woodsman-Style «rigatoni alla boscaiola». La consacrazione della cucina italiana negli Stati Uniti è testimoniata dall’inaugurazione nel settembre 2010 del megastore Eataly, cinque piani in un edificio situato in una delle strade più eleganti di New York, nei quali si può intraprendere un viaggio che partendo dal cibo può avvicinare alla storia e all’identità italiane.

Lo studio dell’italiano all’estero

Alla fine degli anni Settanta del Novecento la prima sistematica indagine valutativa sulle motivazioni allo studio dell’italiano, realizzata dall’Istituto della Enciclopedia Italiana e diretta da Ignazio Baldelli, mise in luce come l’interesse dell’italiano fosse riferibile, quanto meno in senso ampio, all’ambito culturale: tra «arricchimento culturale» e «esigenze di studio» si arrivava ai 2/3 del campione (Baldelli 1987). Altre indagini, quali quella del CNR (Freddi 1987) e della Società Dante Alighieri (2003), hanno «rivelato una molteplicità di interessi e bisogni formativi per cui l’italiano iniziava a diffondersi all’estero per rispondere a fini sociali e produttivi, oltre che culturali» (Turchetta 2005: 118).

Nel 2000, il Ministero degli Affari Esteri promosse una rilevazione sulle «motivazioni e sui pubblici» dell’italiano all’estero, sotto la direzione scientifica di Tullio De Mauro (De Mauro et al. 2002), per avere un quadro organico e aggiornato sulla diffusione dell’italiano, sulle metodologie del suo insegnamento, sulle ragioni della sua scelta. Il primo importante dato che emerge da questa ricerca è l’incremento del numero di coloro che studiano l’italiano nel mondo: l’italiano si colloca infatti al quarto posto tra le lingue più studiate e in costante crescita: «in generale la nostra lingua si espande in tutti quei Paesi in cui […] gli scambi economici e culturali con l’Italia si mantengono intensi (ad esempio in Europa, in Australia e alcuni Paesi dell’Estremo Oriente)» (Turchetta 2005: 118). Dall’indagine emerge poi che il crescente interesse per l’italiano non è da riferirsi solo al prestigio della cultura e della civiltà italiana, ma anche alle necessità lavorative; se infatti tra le motivazioni si colloca al primo posto «tempo libero» (32,8%), cui segue «motivi personali» (25,8%), al terzo posto si situa il lavoro, con ben il 22,4%.

Tale mutata percezione è confermata da uno studio del 2004 di Puglielli e Turchetta (Turchetta 2004) nell’area mediterranea: la scelta dell’italiano appare motivata in primo luogo dall’interesse personale (62%), ma anche da motivi connessi con l’attività lavorativa, in particolare nel settore turistico-alberghiero. Nel loro complesso le diverse indagini consentono di affermare che la fortuna dell’italiano fuori dai confini nazionali rimane fortemente legata a un importante e illustre passato, ma è anche condizionata dalla capacità dell’Italia nel proporsi nel mercato globalizzato come protagonista di processi economico-commerciali che possono trovare nel made in Italy e nelle attrattive turistiche importanti fattori di promozione.

Studi

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