IUGOSLAVIA

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Iugoslavia

Lucia Betti
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(XX, p. 15; App. I, p. 767; II, ii, p. 125, III, i, p. 936; IV, ii, p. 275, V, iii, p. 79)

Geografia umana ed economica

La Repubblica Federale di I. è lo Stato residuo della vecchia federazione iugoslava, dissoltasi nel 1992 per la secessione di Croazia, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia. La nuova I., costituitasi formalmente nel 1992, ha conservato una struttura federale, sia pure limitata a due soli Stati membri: la Serbia, con le unità amministrative autonome (ma con livello di autonomia drasticamente ridotto) della Vojvodina e del Kosovo, e il Montenegro; quest'ultimo assicura alla I. lo sbocco al mare. L'esistenza dello Stato iugoslavo nella sua attuale struttura politico-territoriale è oggi in discussione per gli sviluppi assunti dalla questione del Kosovo, regione abitata in larga maggioranza (quasi il 90%) da Albanesi le cui richieste per ottenere una maggiore autonomia (o lo status di repubblica federata, o addirittura l'indipendenza), sempre disattese - e duramente represse - dalla Serbia, hanno portato all'intervento armato della NATO (marzo-giugno 1999; v. oltre: Storia; e v. kosovo, in questa Appendice).

Popolazione

Nel 1998, secondo una stima ufficiale delle Nazioni Unite, la popolazione - alla cui dinamica ha contribuito negli anni Novanta l'afflusso di profughi dalla Bosnia e dalla Croazia - superava i 10,6 milioni di unità, cifra certamente diminuita nel corso del 1999 a causa degli eventi bellici e, in particolare, dell'esodo degli Albanesi dal Kosovo.

Etnicamente, i Serbi rappresentano un po' meno dei due terzi degli abitanti, i Montenegrini solo il 5%; ambedue i gruppi adoperano la lingua serbo-croata con alfabeto cirillico e sono di religione ortodossa. Il secondo gruppo etnico del paese per importanza numerica è costituito dagli Albanesi del Kosovo (che prima del recentissimo esodo ammontavano al 17% della popolazione totale), mentre assai più modeste sono la minoranza magiara concentrata nella Vojvodina (3%), quella slavo-musulmana a cavallo tra Serbia e Montenegro (pure 3%), e ancor più piccoli i gruppi romeni, croati, slovacchi e macedoni.

La maggiore città del paese è Belgrado, capitale sia della Serbia sia dell'intera federazione, con 1,6 milioni di abitanti. Molto più modeste, fra i 100 e i 200.000 abitanti ciascuna, sono la capitale del Montenegro, Podgorica (che dal 1945 al 1992 aveva assunto il nome di Titograd), i capoluoghi della Vojvodina, Novi Sad, e del Kosovo, Priština, e altre città della Serbia in senso stretto come Niš e l'importante centro industriale di Kragujevac.

Condizioni economiche

L'agricoltura occupa a tempo pieno solo una minuscola frazione della forza lavoro, praticata anche da numerosi piccoli proprietari a tempo parziale. Si ricavano notevoli quantità, a livello europeo, di mais (68,7 milioni di q nel 1997), grano e foraggi nelle pianure della Vojvodina e della Serbia settentrionale attorno a Belgrado; queste stesse terre pianeggianti assicurano buoni raccolti di tabacco, barbabietola da zucchero e girasole. Le colline della Serbia centrale forniscono invece frutta, fra cui prugne, mele e marasche in parte utilizzate per la distillazione di pregiate bevande alcooliche. In montagna si produce legname dalle estese foreste e si allevano ovini, mentre i suini sono diffusi un po' dappertutto.

Per quanto concerne l'attività mineraria, si ricavano buone quantità di lignite, bauxite nel Montenegro, abbondante rame nella Serbia orientale e un'esigua quantità di petrolio nella Vojvodina orientale. Siderurgia e metallurgia rappresentano il nerbo di una considerevole industria pesante, localizzata soprattutto attorno a Belgrado, nella Serbia settentrionale e in Vojvodina, affiancata da industrie meccaniche (costruzione di mezzi di trasporto) e tessili.

Proprio nel momento in cui il paese cominciava a risollevarsi dalla grave crisi prodottasi a seguito del conflitto bosniaco (distruzioni fisiche ed effetti negativi delle sanzioni internazionali in vigore tra il 1992 e il 1995 e mirate soprattutto a penalizzare la Serbia), e riprendevano le privatizzazioni, l'apertura agli investimenti stranieri e le esportazioni di cereali e di manufatti, un nuovo gravissimo colpo, di cui non è dato ancora prevedere le conseguenze, è stato inferto all'economia dal pesante intervento della NATO.  *

bibliografia

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Storia

di Lucia Betti

La Repubblica Federale di I., composta da Serbia e Montenegro, sorse in seguito alla disgregazione della Repubblica Socialista Federale di I., il 27 aprile 1992. Serbia e Montenegro, in base alla Costituzione emanata lo stesso 27 aprile, godevano di poteri equivalenti all'interno della federazione. Fin dall'inizio si affermò l'egemonia della Serbia e del suo presidente S. Milošević, assecondato nella sua strategia politica, fino alla fine del 1996, dalla completa collaborazione del presidente montenegrino M. Bulatović. A causa del conflitto in Croazia e in Bosnia ed Erzegovina, la Repubblica Federale di I. conobbe un prolungato periodo di isolamento internazionale, mentre la situazione economica già critica peggiorava ulteriormente per le sanzioni imposte dall'ONU sin dal maggio 1992. L'immagine internazionale della Repubblica Federale di I. era sempre più offuscata a causa degli eccidi e dei campi di concentramento scoperti in Bosnia ed Erzegovina, e per il fatto che il Tribunale internazionale per i crimini di guerra nella ex I. sembrava potesse portare sul banco degli imputati lo stesso Milošević. È fra queste incertezze che - dopo la formazione in Serbia, nel febbraio 1994, di un governo di coalizione fra il Partito socialista serbo (Socijalistička Partija Srbije, SPS), Nuova democrazia (Nova Demokratija, ND) e la Sinistra unita iugoslava (Jugoslovenska Udružena Levica, JUL, partito guidato da M. Marković, moglie di Milošević) - si affermò a Belgrado l'idea di una mediazione politica volta a fermare la guerra. La nuova proposta di mediazione sulla Bosnia ed Erzegovina, promossa nel luglio 1994 dal cosiddetto Gruppo di contatto (v. bosnia ed erzegovina, in questa Appendice), venne accolta positivamente dalla leadership di Belgrado, ma fu respinta dal Partito radicale serbo (Srpska Radikalna Stranka, SRS) di V. Šešelj e soprattutto dai Serbi di Bosnia. Ciò indusse Milošević a prendere le distanze dal loro presidente R. Karadžić e ad applicare un controllo più severo sui transiti alla frontiera serbo-bosniaca. Inoltre, nella primavera-estate 1995, l'esercito croato riconquistò quasi tutti i territori controllati dai Serbi di Croazia: in maggio la Slavonia occidentale e in agosto la Krajina. In questo clima, il 21 novembre 1995 gli USA riuscirono a imporre gli accordi di pace, firmati a Dayton (Ohio, USA) dai presidenti di Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Serbia. La ratifica degli accordi (14 dicembre) favorì la sospensione di alcune sanzioni contro la Serbia e il Montenegro, ma ciò non fu sufficiente per il riconoscimento della Repubblica Federale di I. e per la sua ammissione alle organizzazioni internazionali. La comunità internazionale intendeva infatti verificare il pieno rispetto degli accordi di pace, la normalizzazione delle relazioni con Croazia e Bosnia ed Erzegovina, l'individuazione dei criminali di guerra, il rispetto dei diritti umani e la possibilità di una soluzione pacifica della questione del Kosovo. Sul piano interno, l'incapacità del governo di far fronte ad alcune gravi questioni, come la crisi economica e la gestione dei circa 700.000 profughi, suscitava reazioni e mobilitazioni, in particolare nel mondo politico serbo. L'opposizione si divise fra le tesi estremiste del radicale Šešelj e quelle di appoggio al processo di pace di V. Drašković. Si costituì la formazione Zajedno (Insieme), coalizione antisocialista formata da Alleanza civica - un gruppo di democratici liberali antinazionalisti promotori del movimento contro la guerra, diretto da V. Pešić - e da tre partiti di ispirazione nazionalista: il Partito per il rinnovamento serbo (Srpski Pokret Obnove, SPO) di Drašković, il Partito democratico (Demokratska Stranka, DS) di Z. Đinđić e il Partito democratico serbo di V. Koštunica. Le elezioni amministrative serbe del 17 novembre 1996 diedero luogo a gravissime irregolarità nelle 14 municipalità (compresa Belgrado) in cui l'opposizione aveva vinto, secondo le conclusioni degli osservatori dell'OSCE. Il mancato riconoscimento della vittoria della coalizione di opposizione Zajedno da parte delle forze di governo determinò la reazione di una parte della società civile; questa, esasperata dai lunghi anni di privazioni causati dal conflitto nella ex Iugoslavia e dalla oppressione interna esercitata da Milošević in Serbia e dai suoi alleati guidati dal presidente Bulatović in Montenegro, sostenne e partecipò in massa alle azioni dimostrative di Zajedno, dal dicembre 1996 al febbraio 1997. Il riconoscimento dei risultati delle elezioni di novembre da parte del Parlamento serbo avvenne, infine, il 17 febbraio 1997, anche in seguito alle forti pressioni internazionali. Oltre alle manifestazioni contro il suo governo, Milošević doveva far fronte alla crescita del Partito radicale serbo di Šešelj, in un momento in cui si inaspriva la questione del Kosovo, legata alla profonda crisi che stava affrontando lo Stato albanese, e si complicavano le relazioni con il Montenegro.

Il Kosovo, insieme alla Vojvodina, è stata un'unità amministrativa con un'ampia autonomia riconosciutagli dalla Costituzione del 1974, status che ha mantenuto fino al 1989, anno in cui Milošević limitò l'autonomia, fino a cancellarla nel 1990. In seguito le relazioni fra le due comunità, serba e albanese, nel Kosovo andarono sempre più deteriorandosi fino ad arrivare allo scontro diretto e al successivo intervento della NATO contro la Iugoslavia del marzo 1999 (v. kosovo: storia, in questa Appendice).

In queste circostanze, nel 1997, se da un lato la posizione di Šešelj andavano rafforzandosi, dall'altro la coalizione Zajedno si sgretolava con l'emergere di forti dissidi fra Drašković e Đinđić e, venuto meno il favore dell'opinione pubblica, perdeva le elezioni parlamentari del 21 settembre 1997. Queste furono vinte dal Partito socialista serbo, insieme a Sinistra unita iugoslava e a Nuova democrazia. La posizione di Milošević venne rafforzata da tale risultato, ma ormai la seconda forza politica del paese era quella dei radicali di Šešelj, il quale annunciò la propria candidatura alle elezioni presidenziali della Serbia.

Milošević si era dimesso da presidente della Serbia in quanto, in base al dettato della Costituzione del 1992, esaurito il suo secondo mandato presidenziale non poteva ricandidarsi, e in luglio aveva assunto la carica di presidente della Repubblica Federale di I., indicando Z. Lilić come candidato del Partito socialista serbo. Svoltesi fra settembre e ottobre (primo turno e ballottaggio), le elezioni presidenziali furono ripetute in dicembre perché al secondo turno dello scrutinio non era stato raggiunto il quorum. Milošević ebbe così tempo e modo di riformulare la campagna elettorale cambiando candidato: il posto di Lilić fu assegnato a M. Milutinović, che vinse di misura il ballottaggio del 21 dicembre contro Šešelj. Nel frattempo, sin dai primi mesi del 1997, i rapporti fra Serbia e Montenegro avevano cominciato a incrinarsi. Accuse di incompetenza nella gestione degli affari di politica interna della federazione venivano rivolte al presidente serbo Milošević dal primo ministro montenegrino Đukanović, mentre il presidente del Montenegro Bulatović interveniva per stemperare le tensioni fra Serbia e Montenegro. Ma la discussione sul futuro del Montenegro si infuocava; da una parte vi erano coloro che premevano per il mantenimento dello status quo, alla cui testa si poneva Bulatović, dall'altra, capeggiati da Đukanović, si trovavano coloro che richiedevano il rispetto dell'equivalenza piena dei poteri legislativi fra Serbia e Montenegro nell'ambito della federazione, così come sancito dalla Costituzione federale del 1992.

Lo scontro politico fra Bulatović e Đukanović spaccò il locale Partito democratico dei socialisti (Demokratska Partija Socijalista, DPS) in due nuove entità, che si presentarono distinte alle elezioni presidenziali del novembre 1997; in un clima di forti tensioni, le elezioni furono vinte da Đukanović, che sconfiggendo Bulatović privò Milošević di un fedele alleato. Già durante la campagna elettorale Đukanović aveva avviato una propria linea di politica estera volta, in particolare, alla ricerca di sostegni economici al fine di fronteggiare la difficile situazione interna, suscitando forti irritazioni a Belgrado.

Per quanto riguarda il versante delle relazioni internazionali della Repubblica Federale di I. si registrava, nell'aprile 1997, la ripresa delle relazioni commerciali dell'Unione Europea con la Repubblica. Anche i rapporti con la Croazia avevano conosciuto un miglioramento, con la firma (23 agosto 1996) di un accordo per il ripristino delle relazioni diplomatiche e commerciali. Ciononostante erano rimaste in sospeso alcune questioni, quali per esempio quella dei 200.000 Serbi fuggiti dalla Croazia, che quest'ultima non intendeva rimpatriare, e la diatriba territoriale inerente la penisola di Prevlaka sulla costa dalmata. Rivendicata da entrambi i paesi, la penisola, sotto tutela di un contingente delle Nazioni Unite, rivestiva un ruolo strategico fondamentale nel controllo dell'accesso alle Bocche di Cattaro, unico sbocco al mare di interesse militare e commerciale della Repubblica iugoslava. I rapporti con la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina registravano una fase distensiva con la ratifica da parte del Parlamento della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina (15 marzo 1997) di un trattato che stabiliva un legame privilegiato fra Pale e Belgrado per la creazione di un mercato comune fra le due aree, lo sviluppo di una più intensa relazione economica, libertà di movimento per i cittadini e il coordinamento della politica estera. Nell'insieme, se da un lato il 1997 sembrava concludersi con un miglioramento della posizione internazionale della I., dall'altro registrava, con l'inasprirsi della situazione in Kosovo, l'apertura di un'ulteriore grave crisi.

In reazione alle azioni di guerriglia e rappresaglia dei separatisti dell'UÇK in Kosovo, nei primi tre mesi del 1998 si consumò la tragedia nella Drenica, piccola regione dove polizia e gruppi paramilitari serbi eseguirono numerosi massacri tra gli Albanesi, generando nuovi sfollati (fra le 15.000 e le 20.000 persone secondo fonti ONU), in particolare donne e bambini. L'offensiva serba suscitò la reazione del Gruppo di contatto, che il 9 marzo diede a Milošević dieci giorni di tempo per ritirare le sue forze speciali e impegnarsi ad avviare negoziati con i leader albanesi locali. Le azioni delle forze di polizia e dei gruppi paramilitari serbi tuttavia non cessarono e il Gruppo di contatto, dopo aver più volte richiamato Milošević all'accettazione delle richieste avanzate in marzo, il 9 maggio 1998 decretò il blocco di nuovi investimenti stranieri in Serbia, mentre la NATO iniziava a studiare piani di intervento militare. L'embargo economico fu sospeso sul finire dello stesso mese, in segno distensivo nei confronti di Milošević che aveva avviato il dialogo con gli Albanesi. D'altro canto, però, l'UÇK andava sempre più rafforzandosi ed estendeva il territorio sotto il proprio controllo. La politica di reazione non violenta di Rugova - confermato il 22 marzo presidente della 'Repubblica del Kosovo', nel corso di elezioni non riconosciute da Belgrado - sembrava perdere credibilità, mentre le forze serbe fra giugno e agosto 1998 recuperavano zone strategiche vicine alla frontiera con l'Albania. Le operazioni delle forze serbe proseguirono anche in settembre sotto forma di rastrellamenti, che il 4 e il 5 culminarono con l'arresto in massa di uomini in grado di combattere. Per convincere la leadership serba a porre fine alle atrocità la NATO minacciò di bombardare la Serbia, nonostante la ferma opposizione della Russia. Nessuna delle due parti in conflitto sembrava comunque interessata a raggiungere un compromesso: sia i Serbi che gli Albanesi del Kosovo continuarono a violare gli accordi imposti dalla comunità internazionale. Scartate le ipotesi di una divisione del Kosovo tra una parte serba e una albanese e quella dell'indipendenza del Kosovo, rimaneva da discutere il grado di autonomia che il Kosovo poteva avere all'interno della Repubblica Federale di Iugoslavia. Il ripristino dell'autonomia esistente tra il 1974 e il 1989 era respinta sia dai dirigenti albanesi sia dalla leadership serba. Inoltre, l'ipotesi di un'ampia autonomia del Kosovo, con la concessione dello status di terza repubblica federale oltre alla Serbia e al Montenegro, vedeva contrari i Montenegrini. Il difficile compromesso raggiunto a Belgrado (ottobre 1998), fra Milošević e l'inviato speciale degli Stati Uniti per la ex I., R. Holbrook, era respinto non solo dalle ali estremiste politiche e militari albanesi, ma anche da F. Agani, vice di Rugova. Sostanzialmente, il compromesso richiedeva il ripristino di un'ampia autonomia per il Kosovo e un periodo di transizione di tre anni, conclusi i quali le parti in causa avrebbero deciso lo status istituzionale della provincia.

In novembre cominciò quindi il dispiegamento in Kosovo di 2000 osservatori internazionali per verificare che le forze di polizia e paramilitari serbe si ritirassero dalla provincia e non vi facessero successivamente ritorno. Tuttavia l'accordo non resse e anche la conferenza di Rambouillet del febbraio 1999, dove si incontrarono il Gruppo di contatto e gli USA per cercare una soluzione del conflitto, fu un fallimento. Il 24 marzo scattò, senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell'ONU (a causa del veto di Russia e Cina) l'intervento aereo della NATO contro la Iugoslavia. Soltanto dopo 80 giorni di bombardamenti, all'inizio di giugno, Belgrado accettò il piano di pace elaborato dai paesi del G8 segnando così la fine degli attacchi della NATO. Fra il 10 e l'11 giugno la I. cominciò a ritirare le proprie truppe dal Kosovo. In base al dettato della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, in Kosovo vennero poi dispiegate le forze internazionali costituite da oltre 50 mila soldati (KFOR) sotto il comando NATO e da operatori dell'amministrazione civile ONU, ma gli scontri fra le parti non cessarono. Alla fine di luglio, a Sarajevo, oltre 40 capi di Stato e di governo si incontrarono per varare il Patto di stabilità dei Balcani, fra i cui punti rientravano la creazione della democrazia, lo sviluppo dell'economia di mercato attraverso aiuti americani ed europei (circa 2,2 miliardi di dollari), la lotta alla corruzione e al crimine organizzato. La linea che emerse dal vertice di Sarajevo aveva come obiettivo fondamentale l'isolamento di Milošević. A tale scopo, il 19 agosto l'opposizione organizzò, a Belgrado, una manifestazione alla quale parteciparono circa 150 mila persone. L'opposizione, però, stentava ad organizzarsi in un forte e compatto movimento di massa a causa della frammentazione che la caratterizzava e delle divergenze sulle modalità di azione. Inoltre, l'incertezza che ancora gravava sul problema dello status finale del Kosovo, e di quali sarebbero state le sue relazioni con la Serbia, con la I. e con la regione nel suo complesso, rendevano comunque molto precaria una soluzione pacifica e durevole della questione. Il portavoce del Partito socialista serbo, I. Dačić, affermò infatti che la I. non avrebbe accettato alcuna decisione che potesse violare l'integrità territoriale garantita dalla Risoluzione dell'ONU. Integrità territoriale che, tuttavia, sembrava minacciata anche su un altro fronte, quello montenegrino: una seduta del Parlamento del Montenegro, infatti, avrebbe discusso fra i diversi punti all'ordine del giorno, anche l'eventualità di organizzare un referendum per l'indipendenza. Il 1999 sembrava chiudersi per la I. e l'intera regione balcanica all'insegna dell'incertezza e dell'instabilità.

bibliografia

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