IVREA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1996)

IVREA

N. Bernacchio

(lat. Eporedia; Castrum Evriae, Eborgia, Yporegia nei docc. medievali)

Città del Piemonte (prov. Torino), che si estende sulle rive della Dora Baltea ai piedi della Serra d'I., nel centro dell'anfiteatro morenico aostano.La colonia romana di Eporedia fu fondata nel 100 a.C. a controllo della via delle Gallie, durante le guerre contro i Salassi (143-25 a.C.), molto probabilmente sul luogo di un precedente insediamento celtico legato a un'importante stazione di posta.La città antica si sviluppò con andamento cuneiforme su un colle digradante verso la riva sinistra della Dora Baltea e venne cinta da mura di cui sono stati scoperti cospicui avanzi della parte meridionale parallela al fiume (Ramella, 1984); l'od. asse viario di via Arduino-via Palestro ricalca il decumanus maximus, mentre, secondo un percorso più irregolare, il cardo maximus è riconoscibile nelle od. vie Quattro martiri e via Siccardi. In corrispondenza dell'incrocio dei due assi viari maggiori si trovava il teatro, occupato nel corso del Medioevo da strutture abitative private e dalla chiesa di S. Uldarico, edificata verso l'anno Mille nel centro della scena. A km. 1 ca. dall'abitato, sulla via per Vercelli, sorgeva l'anfiteatro, di cui oggi rimangono esigui resti, ma che era ancora in buono stato di conservazione in periodo medievale, tanto da essere indicato nei documenti a partire dal sec. 11° con il nome di Parlacium (Cavallari Murat, 1976, pp. 29-30). Due erano i ponti che univano in antico le sponde della Dora Baltea: di quello, detto ponte Vecchio, che rimase in uso nel Medioevo, si vedono ancora i piloni verso monte. Sotto l'od. corso Umberto I è stata rimessa in luce, per una lunghezza di m. 119, una banchina fluviale su palafitte lignee, databile tra il 1° e il 2° sec. (Finocchi, 1980).Del 451 è la prima menzione di un vescovo di I., Eulogio, che si firmò in quell'anno al concilio di Milano. Al termine della guerra greco-gotica (553), I. fu inserita fra i castra designati da Narsete a difendere l'arco alpino e dopo la conquista da parte dei Longobardi fu scelta come sede di un ducato; l'importanza della città in questo periodo è inoltre attestata dalla presenza di una zecca che coniava tremissi aurei sotto Desiderio (756-774; Ramella, 1993, p. 194). Con i Franchi, I. divenne capitale di una contea e nell'825 Lotario vi fondò uno studium, affidandolo al vescovo locale. Nell'888 Guido da Spoleto istituì la marca d'I., o d'Italia, e vi pose a capo Anscario, da cui discesero Berengario II, marchese d'I. e re d'Italia tra il 950 e il 960, e Arduino (m. nel 1015), che cinse la corona di re d'Italia per due volte, nel 1000 e nel 1002. La lunga guerra (997-1015) di Arduino con Ottone III, protettore del vescovo Varmondo (969-1005 ca.) prima, e con Enrico II il Santo poi, segnò il periodo più importante della storia di Ivrea. Dopo la morte di Arduino il controllo sulla città fu conteso fra i suoi discendenti, i vescovi e il Comune, formatosi nel corso dell'11° secolo. Nel 1178 I. venne affidata da Federico I ai conti di Biandrate; nel 1238 fu occupata da Federico II e nel 1271 da Carlo I d'Angiò. Nel 1356 passò definitivamente ai Savoia, che già l'avevano presa una prima volta nel 1313.La città medievale si sviluppò sul sito di quella antica, riutilizzandone le strutture. In due fasi, collocabili la prima entro il sec. 11° e la seconda al principio del 14°, la cinta muraria di età romana fu ampliata a E e a O, ma soprattutto prolungata verso S fino alla Dora, che venne a costituire una linea di difesa naturale. Alla fine del sec. 10° si fa risalire la costruzione, con materiale romano di recupero, di un lungo muro, di cui rimangono tracce per un totale di m. 23, che dalla zona del teatro raggiungeva la cinta muraria verso E, costituendo una fortificazione interna a protezione della città alta, sede del potere vescovile.Nella città alta sorse la cattedrale di S. Maria, il cui impianto dei secc. 10°-12° può essere in parte ancora letto sotto i pesanti rifacimenti che, tra il sec. 18° e il 19°, ne hanno stravolto l'interno e la parte occidentale dell'esterno, mentre della primitiva chiesa, di cui sono ignote sia la pianta sia la data di fondazione, rimangono solo un frammento di transenna e uno di architrave decorati a intreccio e datati alla seconda metà del sec. 8° (De Bernardi Ferrero, 1987, p. 124).Durante il suo episcopato, Varmondo decise la ricostruzione dell'edificio, come è ricordato dall'epigrafe dedicatoria conservata all'interno. In questa prima fase fu impostata una pianta a tre navate, la centrale terminante a O con un'abside circondata da un deambulatorio, voltato a botte e con le pareti interne ed esterne scandite da lesene, che, sottopassando i due campanili absidali, si ricollegava alle navatelle. Coro e deambulatorio erano separati da arcate su colonne, successivamente inglobate in una parete continua. La cripta sottostante ripete l'impianto del presbiterio: un vano centrale, articolato da quattro colonne in tre navatelle, è separato mediante cinque grossi pilastri in muratura a sezione quadrangolare da un deambulatorio semicircolare diviso in due navate da pilastri e colonne su cui impostano volte a crociera. Sulla parete orientale una nicchia accoglieva il sarcofago contenente le reliquie dei ss. Tegulo e Besso, qui traslate da Varmondo, ed era affiancata da due nicchie minori destinate al loro culto; cinque umbilici, forando le volte del vano centrale, permettevano la visione del sarcofago dalla chiesa superiore.La seconda e conclusiva fase dei lavori, distinguibile soprattutto per l'accuratezza della muratura in mattoni e per l'apparato decorativo, fu avviata alla fine del sec. 11° e si concluse entro la prima metà del successivo. Furono costruite le navate, scandite da pilastri polilobati, con la centrale coperta da una volta a botte costolonata, mentre le laterali avevano volte a crociera con i costoloni ricadenti sulle semicolonne dei pilastri e su semicolonne che, collegate da arcate cieche, ritmavano le pareti perimetrali interne; tra semicolonne e imposta degli archi erano inseriti capitelli cubici. Un tiburio a pianta ottagonale coperto da una volta a spicchi venne innestato su quattro possenti pilastri cruciformi; la sua decorazione esterna è articolata su due livelli: nella parte superiore si aprono quattro nicchie per ogni lato, mentre in quella inferiore archetti pensili a doppio profilo - alternativamente, partendo dal lato parallelo alla facciata, cinque e quattro - collegano le lesene angolari. La cripta fu successivamente ampliata verso E con un vano a pianta rettangolare diviso in sei campate con volte a crociera costolonata impostate su due colonne centrali e semicolonne addossate alle pareti; i capitelli sono decorati a intreccio, con racemi e raffigurazioni zoomorfe, secondo uno stile pienamente lombardo. Furono infine terminati i campanili, disuguali nella disposizione delle aperture (monofore, bifore, trifore con colonnine e capitelli a stampella) e con i sei piani sottolineati nelle pareti esterne da cornici ad archetti pensili inquadrati da lesene.Nel giardino retrostante l'abside della cattedrale sono visibili le arcate superstiti dei lati orientale e settentrionale del chiostro capitolare, costruito nel sec. 12° e rinnovato nel 1301: le arcate, in mattoni, sono traforate ciascuna da quattro e cinque archetti a doppio profilo poggianti su colonne e capitelli di arenaria decorati con intrecci e motivi vegetali.Nel seminario Vescovile si conserva il frammento di un mosaico pavimentale (m. 3,321,34) proveniente dalla cattedrale e datato ai secc. 10°-12°: vi sono delineate con contorni neri su fondo bianco e particolari in rosso, da sinistra verso destra, la Grammatica, la Filosofia, la Dialettica, la Geometria e l'Aritmetica ritratte come donne sedute.Nel tesoro della cattedrale è custodita una cassetta eburnea (cm. 51,825,415,2) di fattura orientale, con raffigurazioni di animali e uomini inseriti in intrecci geometrici e vegetali; borchie e fermagli in rame cesellato e dorato, di stile arabo-siculo, furono aggiunti tra 12° e 13° secolo.Muri di fondazione e qualche tratto di muro di cinta sono le testimonianze residue del Castellaccio, o castello di S. Maurizio, sorto in prossimità del ponte Vecchio e probabile residenza dei marchesi di I. prima e dei conti di Biandrate poi; fortemente danneggiato nel 1195, fu ricostruito prima del 1292 da Guglielmo VII di Monferrato e quindi definitivamente distrutto nel 1310.Un secondo castello, detto delle Quattro torri, fu edificato nella parte alta della città per volere di Amedeo VI di Savoia in seguito alla conquista di I. nel 1356. I lavori iniziarono nel 1358 dopo la demolizione delle case del Capitolo della cattedrale e del palazzo di Giorgio de Solerio; in un documento del 1381 risulta magister operum castris Antonio Cognon di Vercelli (Carandini, 1963, pp. 304-305). Nel 1394 il castello era completato. Costruito in mattoni appositamente fabbricati, ha pianta quadrangolare con torri cilindriche agli spigoli, una delle quali semicrollata per l'esplosione di una polveriera nel 1676; a coronamento delle torri e dei muri perimetrali si trovano merli ghibellini e un camminamento aggettante in muratura poggiante su modiglioni in pietra. L'ingresso originale si apriva sul lato sudoccidentale ed era protetto da un rivellino (oggi non più esistente) e da un ponte levatoio; si passava quindi in un grande cortile interno da cui si accedeva ai corpi di fabbrica. L'uso continuo della fortezza e la sua destinazione a carcere dalla metà del sec. 18° fino agli anni Settanta di questo secolo ne hanno notevolmente alterato la disposizione originale degli ambienti e l'aspetto esterno a causa dell'apertura di numerose finestre.La torre del Comune, a pianta quadrata con merli guelfi tamponati, inglobata negli edifici moderni del vescovado, è quanto rimane della probabile primitiva sede del Consiglio di città, che i documenti del sec. 12° dicono ospitato nel palazzo Vescovile (Carandini, 1963, pp. 26-27).Con la trasformazione parziale del palazzo in residenza del vicario sabaudo (1313), venne costruita la casa della Credenza per ospitare le adunanze dei settantacinque credendarii. L'edificio, realizzato in mattoni, si apre al piano terreno con un portico ad arcate ogivali al di sopra del quale si impostano due livelli con finestre a tutto sesto caratterizzate all'ultimo piano da una leggera strombatura e poste in evidenza da due file parallele di archetti pensili con funzione di cornice marcapiano.Dell'abbazia di S. Stefano, fondata dal vescovo Enrico tra il 1041 e il 1044 e affidata ai Benedettini dell'abbazia di S. Benigno di Fruttuaria, nell'antica diocesi di I., rimane solo il campanile, essendo stato il resto abbattuto nel 1588: a pianta quadrangolare (altezza m. 23), ha pareti costruite in laterizi romani di riuso, misti a pietrame nella parte bassa; è scandito esternamente in sei piani da cornici a denti di sega e fasce sottostanti di archetti pensili raccordati da lesene sporgenti all'estremità di ciascun lato. Le aperture sono costituite da feritoie al primo piano e, progressivamente, monofore, bifore e trifore con colonnine e capitelli a stampella.Nella Bibl. Capitolare sono conservati centoquindici codici membranacei e cartacei, prodotti tra il sec. 7° e il 15° e contenenti opere di autori latini antichi e medievali, testi liturgici e raccolte di leggi. Un codice, vergato da Agifredo e dedicato al vescovo Azzone (876-877; Bibl. Capitolare, 83), costituisce la prima testimonianza certa dell'esistenza di uno scriptorium strettamente legato alla cattedrale e alla figura del vescovo, che si sarebbe formato in seguito alla fondazione dello studium nell'825 (Mazzoli Casagrande, 1971-1974). Il periodo di maggiore attività dello scriptorium coincise con l'episcopato di Varmondo, committente di un gruppo di codici dalle caratteristiche estremamente omogenee sia per il tipo di scrittura sia per lo stile delle miniature: tra questi spicca il sacramentario (Bibl. Capitolare, 86) realizzato tra il 1000 e il 1002, decorato da miniature che commentano con sinteticità e realismo preghiere, cerimonie, la Vita di Cristo e quelle di santi e, per la liturgia super defunctos, le varie fasi dell'assoluzione al moribondo e delle esequie, racchiuse per la maggior parte in cornici quadre a doppia profilatura con intrecci agli angoli e didascalie sui quattro lati.

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