ROSSI, Jacopo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 88 (2017)

ROSSI, Jacopo (Giacomo, Iacopo)

Fabrizio Pagnoni

– Figlio di Bertrando e di Eleonora di Ugolino Rossi, nacque probabilmente negli anni Sessanta del Trecento.

Della numerosa prole di Bertrando, Litta attesta in tutto sei discendenti: oltre alle sorelle Caterina e Agnese, e al naturale Leonardo, Jacopo era probabilmente il maggiore rispetto ai maschi legittimi (nell’ordine, Giovanni e Pietro; Litta, 1837, tav. III; Gentile, 2007, p. 55). Rimangono oscure le tappe della sua formazione, come del resto i fattori che determinarono il suo avvio alla carriera ecclesiastica.

Di certo, l’una e l’altra beneficiarono della grande vicinanza del padre Bertrando (a capo del casato rossiano dalla morte del vescovo Ugolino nel 1377) al progetto politico di Gian Galeazzo Visconti (Gentile, 2007, pp. 31, 40).

Formatosi nelle discipline giuridiche, Jacopo fu chiamato, probabilmente attorno al 1387, allo Studium pavese in qualità di lettore di diritto canonico (Affò, 1789, p. 127). Il suo impegno universitario è ampiamente attestato nell’ultimo decennio del secolo: in particolare, vale la pena ricordare che, nell’estate del 1394, fu tra gli esaminatori di Giovanni Zenobio, figlio del celebre giurista Baldo degli Ubaldi (R. Maiocchi, Codice diplomatico..., 1905, atto n. 441 e passim).

Dotto canonista, Jacopo fu probabilmente anche interessato alla riscoperta dei classici, come farebbe pensare l’acquisto da lui disposto anni più tardi, nel 1418, di una copia dell’Etica Nicomachea e della Politica di Aristotele (Gentile, 2001, p. 63).

Alla docenza presso lo Studium di Pavia Jacopo aggiunse un altro prestigioso incarico, anche in questo caso strettamente dipendente dalla vicinanza a Gian Galeazzo Visconti: l’episcopato di Verona. La nomina, avvenuta il 21 aprile del 1388 (il 20 per Ederle, 1965, p. 60), si inseriva in un più ampio progetto politico del principe, recentemente entrato in possesso della città scaligera e già proiettato verso la conquista dei domini carraresi (K. Eubel, Hierarchia Catholica..., 1913, p. 523). Con il sostegno della Chiesa romana, Gian Galeazzo poté installare negli episcopati veneti presuli provenienti dal suo più ristretto entourage: Jacopo, come del resto alcuni suoi colleghi, non esitava a rivolgersi al principe in qualità di «devota creatura vestra» (Gamberini, 2005, p. 86).

Le prime iniziative del presule, del resto, furono marcatamente improntate a favorire Gian Galeazzo, consentendogli di entrare in controllo dei ricchi feudi della Chiesa veronese precedentemente detenuti dagli Scaligeri. Nell’ottobre del 1389, con i vecchi signori allontanati dalla città, il vescovo ebbe buon gioco, facendo leva sulle norme del diritto feudale, a dichiarare devoluti i beni, reinvestendone il conte di Virtù e concedendogli l’avvocazia «in omnibus iuribus suis, et iurisdictionibus ad ipsum pertinentibus et expectantibus» (gli atti di devoluzione e riassegnazione sono editi rispettivamente in G. Romano, La cartella del notaio..., 1889, p. 681; F. Ughelli, Italia sacra..., 1720, coll. 897-900; una copia del secondo è conservata a Brescia, Biblioteca Queriniana, F. LI.1, perg. 57). Dopo la fallita rivolta del 1390, inoltre, Jacopo fornì la propria collaborazione al tentativo del principe di colpire tutti i protagonisti del tumulto, anche coloro che erano protetti dallo status ecclesiastico: ottenne infatti da Bonifacio IX una delega a procedere contro due canonici che avevano preso parte alla rivolta (Gamberini, 2005, p. 113).

Non diversamente dagli altri presuli appuntati da Gian Galeazzo nel Veneto, Jacopo risiedette poco in diocesi, preferendo (per questioni dipendenti dagli impegni universitari e dalla frequentazione della corte) la sua residenza pavese «in porta Palacii» (ibid., p. 109) oppure i domini familiari nel Parmense (per esempio, la rocca di Corniglio; Varanini, 1990, p. 915). Si circondò di collaboratori di alto profilo funzionariale e, generalmente, ben preparati nelle materie giuridiche (ibid.). È interessante notare che molti dei suoi collaboratori erano reclutati dal Parmense: su tutti, vale la pena ricordare il giurista (e professionista itinerante) Degoldo Fiori, probabilmente lo stesso che, trent’anni prima, aveva servito come vicario per il potente vescovo Ugolino Rossi, antenato di Jacopo (Soldi Rondinini, 1984, p. 153).

Contrastanti sono le attestazioni relative al governo del presule. Di certo, Jacopo non insistette molto sul proprio ruolo di direzione spirituale e pastorale della diocesi, se è vero quanto attesta l’anonimo continuatore della cronaca di Paride da Cerea, secondo cui solo il 12 dicembre del 1400 il presule «cantavit suam primam missam» (Il Chronicon veronense, a cura di R. Vaccari, 2014, p. 68). Jacopo mantenne un ruolo marginale anche nell’importante episodio del rinvenimento delle spoglie mortali di s. Giacomo, avvenuto nel 1396, e della conseguente edificazione della chiesa presso il colle del Grigliano, promossa dal Comune di Verona e, significativamente, inaugurata alla presenza di diversi presuli, tra i quali non figurava il titolare della cattedra scaligera (ibid., pp. 61 s.; De Sandre Gasparini, 1997, p. 128).

Il vescovo dimostrò maggiore attenzione nel governo dei beni della mensa episcopale. Iniziò da subito a presentarsi come «episcopus et comes»: il dispiego di questi titoli, che non pare attestato nella corrispondenza con i Visconti, era probabilmente funzionale alla tutela delle residue temporalità dell’episcopato anche rispetto alla vassallità installata sul patrimonio della Chiesa locale.

Nel 1392 i buoni rapporti con il principe gli valsero appunto la conferma di privilegi e immunità godute dall’episcopato nelle terre di Monteforte, Bovolone e Pol di Valpolicella (F. Ughelli, Italia sacra..., cit., col. 900; Soldi Rondinini, 1984, p. 151; De Sandre Gasparini, 1995, p. 347).

La folta presenza di parmensi nelle file dei propri collaboratori fu ampiamente gratificata, durante gli anni del suo episcopato, attraverso un uso «marcatamente clientelare» dei benefici di collazione episcopale (Gamberini, 2005, p. 111; Ederle, 1965, p. 60).

La possibilità di premiare amici e fideles aveva una valenza cruciale rispetto al progetto politico signorile dei Rossi: non va dimenticato, infatti, che dopo la morte del padre Bertrando (nel 1396), Jacopo rivestì assieme al fratello Pietro (l’altro fratello, Giovanni, seguì il padre poco tempo dopo) il ruolo di capo del casato (Gentile, 2001, p. 63).

La morte del duca di Milano nel 1402 provocò un immediato mutamento degli scenari: i Rossi coltivarono il sogno di tornare a insignorirsi di Parma, facendo leva sulle gravi difficoltà che interessavano il ducato. Nel 1403 Pietro e Jacopo, che già avevano fatto rifortificare i propri castelli nel Parmense, iniziarono una serie di spedizioni contro le famiglie avversarie. In questo quadro già di per sé instabile si inserì Ottobuono Terzi, il condottiero ducale che, approfittando della debolezza di Milano, riuscì a insignorirsi di Parma. Dopo un breve condominio con i Rossi, nel maggio del 1404 Terzi li espulse dalla città, confiscandone i beni (Gentile, 2010, pp. 213-215).

Brutte notizie attendevano Jacopo anche sul versante veronese dove, dal giugno del 1405, i veneziani fecero il loro ingresso come nuovi dominatori. Il vescovo, considerato dal Senato «inimicus nostri dominii» e non del tutto gradito neppure dai cives veronesi (che lo definirono, con un’enfasi probabilmente dettata dalle circostanze, «episcopus tamquam insufficiens et indignus»), fu messo alle strette fin dall’autunno dello stesso anno (Brugnoli, 1968-1969, pp. 1-3). In settembre il Senato iniziò a trattare con il papa per la sua sostituzione, impiegando mezzi piuttosto risoluti, come il sequestro dei beni episcopali e la nomina di quattro procuratori (significativamente, due cittadini veronesi e due membri del capitolo) che li gestissero in attesa del trasferimento di Jacopo. Al presule fu impedito di tornare in città: su di lui pesavano accuse circostanziate, quali l’aver stretto accordi con Francesco da Carrara e con il governatore francese di Genova in chiave antiveneziana. La rimozione non fu tuttavia immediata, per via di alcune amicizie che Jacopo vantava presso i più alti uffici della Curia romana (p. 8). Solo il 20 settembre 1406 i veneziani ottennero la conferma del loro candidato, Angelo Barbarigo, mentre Jacopo fu trasferito a Luni (K. Eubel, Hierarchia Catholica..., cit., p. 318; Del Torre, 1992-1993, p. 1177). In quella sede nel 1407 il papa avignonese costituì quale amministratore apostolico Aragone Malaspina, inaugurando una fase difficile per la Chiesa locale che si sarebbe risolta solo nel 1415.

Il trasferimento a Luni poteva rinvigorire le ambizioni rossiane di proporsi come ago della bilancia in un quadrante strategico nel controllo dei passi appenninici e della via Francigena. Già nel marzo del 1404 Jacopo aveva guidato un colpo di mano volto a recuperare Pontremoli e a mettere fuori gioco i Fieschi. Il conferimento dell’episcopato, tuttavia, non produsse effetti sensibili anche perché Firenze, che dal 1402 finanziava i Rossi, smise di appoggiarne le imprese (Gentile, 2001, p. 177).

I Rossi non rinunciarono a muoversi su uno scacchiere politico ampio: già nel 1408, nel castello di Felino, Jacopo (in rappresentanza anche di Cabrino Fondulo, Giovanni Malatesta, Niccolò III d’Este e del duca di Milano) siglò con Francesco Lupi un accordo finalizzato alla cacciata di Ottobuono Terzi da Parma. Nei capitoli presentati per la sottoscrizione della lega, Jacopo pretese la restituzione delle terre e dei castelli sottratti ai Rossi da Ottobuono, e chiese all’Este l’impegno formale di adoperarsi presso Venezia affinché gli venisse restituita la sede episcopale di Verona oppure, se impossibile, che gli fosse conferita quella di Parma (Gentile, 2007, p. 45). I frutti dell’intesa non tardarono a manifestarsi: nel 1409, al famoso incontro di Rubiera, Ottobuono fu attirato con l’inganno e ucciso dai suoi nemici. La testa del condottiero, come noto, sarebbe in seguito stata inviata a Jacopo il quale, secondo le cronache, assunse un duplice atteggiamento: in qualità di uomo di chiesa ne pianse le spoglie, ma in qualità di capo della pars avversa a Terzi ne fece issare su una picca la testa (F. Ughelli, Italia sacra..., cit., col. 903; Gentile, 2001, p. 64).

Rimasto a bocca asciutta sul versante veronese, Jacopo si dedicò alla paziente ricostruzione del dominio familiare, piegato dalle guerre contro Ottobuono. I relitti della cancelleria rossiana (che aveva sede a Felino, abituale residenza del presule) mostrano quanto Jacopo e Pietro furono attivi, nel secondo decennio del secolo, non soltanto nell’esercizio delle proprie prerogative giurisdizionali, ma anche nella tutela dei propri sudditi dalle ingerenze signorili e cittadine, oltre che nell’esercizio di un pervasivo patronage consentito, in particolare, dal peso politico ed ecclesiastico di Jacopo (ibid., pp. 69-73).

Non sono chiare le circostanze che portarono Jacopo a far parte dell’entourage di Baldassarre Cossa, di cui divenne, secondo Konrad Eubel (Hierarchia Catholica..., cit., p. 318), cubicularius e vicecancelliere. Agli inizi del 1415, in pieno clima conciliare, si presentò a Giovanni XXIII l’occasione per risolvere lo scisma della chiesa lunense e, al contempo, punire Ladislao d’Angiò, che si era voltato contro di lui: tra febbraio e i primi di marzo Giovanni traslò rispettivamente Aragone Malaspina alla sede arcivescovile di Brindisi e Jacopo a quella di Napoli (ibid., pp. 149, 360; Somaini, 2007, p. 115). Questo però non risolse i problemi legati al governo della sede partenopea, su cui Nicola Diano (nominato nel 1412 da Gregorio XII) continuò a governare (Franceschini, 1991, p. 658).

Negli ultimi anni di vita, Jacopo fu attivo principalmente nel governo dello Stato rossiano. Morì il 30 marzo 1418, dopo aver nominato suoi eredi universali il fratello Pietro e il nipote Pietro Maria.

Nel caso di scomparsa di quest’ultimo, indicò come erede il proprio figlio naturale, Marsilio, che avrebbe dovuto all’occorrenza essere legittimato dal fratello (Gentile, 2007, p. 64).

Fonti e Bibl.: Brescia, Biblioteca Queriniana, F. LI.1, perg. 57; R. Maiocchi, Codice diplomatico dell’università di Pavia, I, 1361-1400, Pavia 1905, atto n. 441, p. 232; F. Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiae, et insularum adjacentium, rebusque ab iis praeclare gestis, V, Venetia 1720 (rist. anast. Bologna 1972), coll. 896-906; G. Romano, La cartella del notaio Cristiani, in Archivio storico lombardo, XVI (1889), p. 681; K. Eubel, Hierarchia Catholica Medii Aevii, Monasterii 1913 (rist. anast. Padova 1930), pp. 318 s., 360, 523; Il Chronicon veronense di Paride da Cerea e dei suoi continuatori, a cura di R. Vaccari, III, t. 1, Legnago 2014, pp. 61 s. 68.

I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, II, Parma, 1789, p. 127, atti nn. 337, 345, 348, 436 s., 441, 443, 455, 512, 543, 550, 623, 694; P. Litta, Le famiglie celebri italiane s.v. Rossi, Milano 1837; G. Ederle, Dizionario cronologico bio-bibliografico dei vescovi di Verona, Verona 1965, p. 60; P. Brugnoli, Il primo vescovo veneziano sulla cattedra di S. Zeno (Angelo Barbarigo), estr. da Atti e Memorie dell’Accademia di Verona, XX (1968-1969), pp. 1-6; G. Soldi Rondinini, La dominazione viscontea a Verona (1387-1404), in Verona e il suo territorio, IV, Verona 1984, pp. 151, 153; G.M. Varanini, Signoria cittadina, vescovi e diocesi nel Veneto: l’esempio scaligero, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo, a cura di G. De Sandre Gasparini et al., II, Roma 1990, p. 915; M. Franceschini, Diano Nicola di, in Dizionario biografico degli Italiani, XXXIX, Roma 1991, p. 658; G. Del Torre, Stato regionale e benefici ecclesiastici: vescovadi e canonicati nella terraferma veneziana all’inizio dell’età moderna, in Atti dell’Istituto veneto di scienze lettere e arti, CLI (1992-1993), p. 1177; G. De Sandre Gasparini, Chiese venete e signorie cittadine: vescovi e capitoli fra pressione politica e autonomia istituzionale, in Il Veneto nel medioevo. Le signorie trecentesche, a cura di A. Castagnetti - G.M. Varanini, Verona 1995, p. 347; Ead. Origine, ascesa e decadenza di un santuario medievale. San Giacomo al Grigliano presso Verona tra l’ultimo decennio del Trecento e i primi decenni del Quattrocento, in Studi di storia religiosa padovana dal Medioevo ai nostri giorni, Padova 1997, p. 128; M. Gentile, Terra e poteri. Parma e il Parmense nel ducato visconteo all’inizio del Quattrocento, Milano 2001, pp. 63 s., 69-73, 177; A. Gamberini, Il principe e i vescovi. Un aspetto della politica ecclesiastica di Gian Galeazzo Visconti, in Id., Lo Stato Visconteo. Linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, pp. 86, 109, 111, 113; M. Gentile, La formazione del dominio dei Rossi tra XIV e XV secolo, in Le signorie dei Rossi di Parma tra XIV e XVI secolo, a cura di L. Arcangeli - M. Gentile, Firenze 2007, pp. 23-55, 64; F. Somaini, Una storia spezzata. La carriera ecclesiastica di Bernardo Rossi tra il «piccolo stato», la corte sforzesca, la curia romana e il «sistema degli Stati italiani», ibid., p. 115; M. Gentile, Alla periferia di uno stato. Il Quattrocento, in Storia di Parma, III, 1, a cura di R. Greci, Parma 2010, pp. 213-215, 222.

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