INGRES, Jean-Auguste-Dominique

Enciclopedia Italiana (1933)

INGRES, Jean-Auguste-Dominique

Louis Gillet

Pittore, nato a Montauban il 29 agosto 1780, morto a Parigi il 14 gennaio 1867. In un primo tempo allievo del padre, decoratore e miniatore non privo di talento; giunto a Parigi poco prima della rivoluzione di Termidoro (agosto 1799) entrò nello studio di L. David, occupato allora con il celebre quadro Le Sabine. L'I. si fece presto notare dal maestro e pare abbia collaborato al ritratto della signora Récamier; tutta la vita rimase fedele al grande riformatore della pittura, pur rimproverandogli l'enfasi, l'abuso dell'imitazione della statuaria antica, la mancanza di spontaneità. Sin dalla giovinezza l'I., pur dotato di un gusto squisito e di un sentimento musicale della linea, fu un deciso realista e nella sua opera fuse in modo unico l'arabesco decorativo e il senso voluttuoso della vita. Nel 1801 ottenne il premio di Roma, ove però poté recarsi solo dopo cinque anni; durante quel periodo si rese noto a Parigi con una serie di ritratti (La famiglia Rivière, Louvre; La bella Zélie, 1806, Rouen; Il primo console, Liegi; l'Autoritratto, Chantilly). Seguirono i ritratti dipinti a Roma e a Napoli: Signora Devauåay (Chantilly); Signora de Senones (Nantes); Il pittore Granet (Aix in Provenza); Bartolini; Signor Cordier, ecc.; ritratti la cui potenza non trova uguale che nell'opera dei maestri del Rinascimento.

Giunto a Roma nel 1806 pensionato di Villa Medici, l'artista rimase circa vent'anni in Italia. Appartengono a questo periodo le sue opere principali: Edipo (1808, Louvre), Giove e Teti (1811, Aix in Provenza), i quadri destinati agli appartamenti dell'Imperatore nel Quirinale, commessigli dal governatore Miollis: Romolo vincitore (1812, Scuola di belle arti, Parigi); il Sogno di Ossian (Montauban) e quelli per Villa Aldobrandini (Virgilio legge l'Eneide, 1813, oggi a Bruxelles). Colpisce in queste opere un fare da primitivo, l'assenza d'ogni retorica, lo stile talmente severo da parer arido, lo spirito che si può dire arcaicizzante; vi si sente infatti l'influenza delle sculture d'Egina, oggi a Monaco, allora nello studio del Thorwaldsen, ma anche quella dei grandi maestri italiani del '300 (l'ultimo disegno dell'I., eseguito a oltre 86 anni, pochi giorni prima della morte, è una copia della Deposizione di Giotto all'Arena di Padova). Ma la parte più originale della sua opera è costituita dalla serie di studî femminili allora iniziati, il suo poema sulla donna e sulla bellezza concepita all'antica, lunga serie di figurazioni di plastica perfezione, sogno di tutta la sua lunga vita; creò allora i temi prediletti, la Bagnante (1807, Parigi Louvre; Baiona), l'Odalisca (1814), la Sorgente (Louvre), Nascita di Venere, Stratonice, tutta la materia elegiaca e nostalgica, culminante nell'Età dell'oro (Castello di Dampierre, 1841-49), e nel Bagno turco (1859, Louvre).

Simili opere estranee alle tendenze contemporanee, schive di ogni ricerca drammatica o aneddotica, crearono intorno all'artista la solitudine più assoluta. Per quanto cercasse di assicurarsi una certa notorietà dipingendo numerose scene nel gusto dell'epoca (Paolo e Francesca, Angers; il Maresciallo di Berwick, l'Aretino, la Morte di Leonardo da Vinci, Raffaello e la Fornarina, Ruggero libera Angelica, 1819, ecc.), l'I. rimaneva sempre un incompreso. Viveva allora a Firenze (1820), e per guadagnarsi da vivere eseguiva, per un luigi, piccoli ritratti con il bianco di piombo, i celebri "crayons d'I.", oggi tanto ricercati e che gli venivano procurati dai portieri d'albergo. I più celebri fra di essi sono i ritratti della famiglia Stamaty (Bayonne) e della famiglia di Luciano Bonaparte (Museo napoleonico, Roma).

Imperversava allora il movimento romantico; Delacroix, Devéria trionfavano al Salon del 1824, quando il grande quadro Il voto di Luigi XIII (cattedrale di Montauban), presentato dall'I richiamò l'attenzione generale sul solitario di Firenze, che divenne da un giorno all'altro il campione dei classicisti. Nominato membro dell'Institut (1825), il suo studio divenne il centro di diffusione "della giusta dottrina". Si volle vedere un manifesto della reazione nel celebre soffitto del Louvre con l'Apoteosi d'Omero (1827), che consacrò l'autore capo della scuola classicista e apostolo del buon gusto. Dopo l'esecuzione del magnifico quadro Martirio di S. Sinforiano (Autun, v.), l'I. fu nominato direttore di Villa Medici (1834-41) ed esercitò un'influenza decisiva sull'andamento della scuola; fu però anche l'ultimo maestro del sec. XIX che avesse una dottrina, un insegnamento da impartire ai suoi discepoli, alcuni dei quali, J.-H. Flandrin, E.-E. Amaury-Duval, V. Orsel, L. Janmot e specialmente il mirabile T. Chassériau gli compongono intorno un corteo trionfale, accrescendone la gloria. In nessun'opera troviamo la sensualità, il sapore carnale, la languida e magica poesia che pervade le opere principali del maestro sessantenne: Venere Anadiomene, Sorgente, Odalisca con la schiava, slancio giovanile che sembra risalire al periodo romano, per sbocciare e fiorire nelle stupende pitture già ricordate dall'Età dell'oro e del Bagno turco, ove il tormento generato dalla bellezza, l'ebbrezza nata dalla felicità assumono un aspetto lirico e demoniaco dimenticato dopo il Correggio e Tiziano. Appartengono alla stessa epoca numerosi ritratti celebri, tra i quali basta ricordare i più noti: ritratto di Edoardo Bertin (1832, Louvre), del conte Morlé (1834), del Pastorel, della signora d'Haussonville (1842), del musicista Cherubini (1844, Louvre), del duca d'Orléans, della contessa di Rothschild (1848), ecc. Tra le ultime opere dell'artista eseguite durante il Secondo Impero, sono il soffitto dell'Hôtel de Ville con l'Apoteosi di Napoleone (1853), bruciato sotto la Comune (alcuni studî preparatorî si trovano al Louvre) e alcuni quadri di soggetto religioso, alquanto freddi: Giovanna d'Arco (1854, Louvre), la Vergine con l'ostia (1854, Louvre) e finalmente il glaciale quadro di Montauban, Gesù tra i dottori (1866), opera mediocre per la quale il vecchio maestro fece anche alcuni studî di una divina perfezione.

L'I. toccò, nella seconda parte della sua vita, l'apogeo della gloria. Dopo l'esposizione del 1855 era stato nominato grande ufficiale della Legion d'onore. Egli godeva d'una situazione mai più vista dopo Raffaello e Michelangelo. Bisogna però riconoscere che tanta autorità gli veniva in parte conferita dall'atteggiamento riservato e ostile assunto di fronte alle nuove idee, da una ristrettezza di vedute che lo spinse, per esempio, a escludere lo Shakespeare dall'Omero divinizzato del 1862, mentre l'aveva incluso nel quadro del 1827.

L'I. fu la piattaforma dell'accademismo dopo esserne stato per 30 anni lo spauracchio; per un curioso paradosso il difensore della tradizione fu dotato di un genio assolutamente personale e anticonvenzionale, sicché tutta la sua opera pare una sfida ai principî attribuitigli. La sua opera detta "classica" è il frutto di una sensibilità esclusiva, dei preconcetti più strani, di una concezione poetica e pura della forma audace e reale, di un'inaudita raffinatezza. L'amore della melopea ricercata e serpentina, assorbente e decorativa, lo spirito intensamente contemplativo, l'arte che riduce il corpo umano, particolarmente quello femminile, a un geroglifico, espressione di un linguaggio quasi musicale, che sdegna ogni effetto e ogni volgare somiglianza, ne fanno un artista sperduto nel proprio secolo quanto il Baudelaire. Lo scultore A.-A. Préault, per definire la complessa sensazione provata innanzi alla sua arte, soleva definirlo "un cinese sperduto nelle vie di Atene". E infatti a lui si riallacciano, più che a qualsiasi altro suo contemporaneo, artisti moderni quali il Degas, il Renoir della seconda maniera, e a lui fanno risalire le proprie teorie fauvisti e superrealisti che trovano nella sua opera l'origine dei loro principî sulla deformazione e sulla stilizzazione.

Un altro autoritratto dell'I. è dal 1858 agli Uffizî. Il Museo Ingres in Montauban conserva alcuni dipinti e più di 4000 disegni.

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