JACOBSEN, Jens Peter

Enciclopedia Italiana (1933)

JACOBSEN, Jens Peter

Giuseppe Gabetti

Poeta e romanziere danese, nato il 7 aprile 1847 a Thisted, ove morì il 30 aprile 1885. Era il quinto dei figli, e il padre, Christen Jacobsen, poco si curò della sua educazione. Il bimbo, delicato e di pronta intelligenza, crebbe quasi esclusivamente sotto l'influenza della madre, Benthe Marie Hundahl, donna semplice, ma d'indole dolce, malinconicamente romantica, la cui immagine è evocata con riguardosa tenerezza in Niels Lyhne. Già a nove anni diceva di "voler diventare un poeta"; ma, anche già fin d'allora, aveva un istintivo attaccamento alla realtà e uno spontaneo interesse per le scienze positive sperimentali; nel 1863, quando si recò a Copenaghen, gli studî a cui con maggiore predilezione si volse furono la fisica e la chimica, e poi, più tardi e definitivamente, la botanica.

Ancora nel 1868, quando s'iscrisse all'università, il dissidio di inclinazioni persisteva vivo nel suo spirito, ma per alcuni anni gli interessi scientifici parvero prevalere. Erano quelli i tempi dei grandi entusiasmi per Darwin, e il giovane J. si accese a quegli entusiasmi. Appartengono a quel tempo numerose liriche, fra cui i Gurresange (Canti di Castel Gurre), squisito ciclo di poesie impressionistiche, che con le loro delicate, ora lente, ora improvvise mutazioni di colore, e con la loro sinuosa, dolce e strana melodia segnarono in Danimarca l'inizio di una nuova lirica, e affascinarono più tardi anche Stephan George e Rainer Maria Rilke, e ispirarono la musica di Arnold Schonberg. Ma J. non ne fece mai parola con nessuno. Uomo schivo e solitario per natura, amava vivere e lavorare per sé, e solo quando ebbe coscienza di avere raggiunto lo stile personale della sua arte, uscì dal silenzio.

Nella sua spontaneità e freschezza di accenti, l'ampia novella Mogens, pubblicata nel 1872 nella Nyt danske Maanedskrift, presenta infatti fino dalle prime parole una così sorprendente sicurezza di tono, che si comprende come abbia prodotto l'effetto di una vera e propria rivelazione. Georg Brandes, il quale, tornando di Francia dove era stato alla scuola del Taine, iniziava in quel medesimo anno le sue lezioni sulle grandi correnti della letteratura europea nel sec. XIX e battagliava con travolgente impeto in favore di una nuova estetica realistica, credette senz'altro di avere scoperto "il poeta dei nuovi tempi" secondo le sue idee. In verità, invece, J. muoveva verso un'arte più liricamente soggettiva, più raffinata. Anch'egli voleva aderire alla realtà; ma quando si accingeva a ritrarne qualche aspetto rozzo e brutale istintivamente gli accadeva di sbalzarne i contorni in una linea di grottesco. La vita intera, anche in ciò che ha di più ineffabile, appariva al suo sguardo in una perenne consistenza corporea, ma in lui l'ispirazione nasceva da uno stato d'animo nostalgico, assetato di bellezza; ed erano sempre le sfuggevoli intimità del sentimento quelle che lo attiravano, era scmpre una sensibilità d'esteta quella che in segreto lo spingeva. Il romanzo Fru Marie Grubbe - Interiører fra 17. Aarhundrede (La signora Maria Grubbe - Scene di ambiente del secolo XVII), nacque appunto da tale atteggiamento: vi è la stessa gioia del colore ricco e raro e delle arcane soavi musiche, lo stesso cromatismo, lo stesso procedere per sfumature e semiluci e semitoni, che si osserva anche nelle liriche di quei tempi, spesso ispirate a quadri di pittori italiani: nella prima parte dell'Arabesco (da un disegno di Michelangelo), in Englen asali, in Serapher, in Marine, in Genrebillede, in Silkesko over Golden Laest (Scarpetta di seta su piedino d'oro), in Har dagen sanket al sin sorg (Quando il giorno ha raccolto tutto il suo dolore).

I primi tre capitoli del romanzo erano già scritti nell'inverno del 1873; ma i postumi di una malattia polmonare che J. aveva contratto nell'autunno mentre raccoglieva erbe per i suoi studî in una palude presso Ordrup, lo costrinsero al riposo. Partì allora con E. Brandes, e compì un lungo viaggio in Germania, in Austria, in Italia: fu a Riva sul lago di Garda, a Venezia, a Firenze; finché a Firenze, improvvisamente, il suo male si aggravò. Ma non si lasciò abbattere e appena ritornato in patria si rimise al lavoro. E fu lavoro lungo e lento. Egli si era proposto di esprimere "in colori di realtà" il dramma dell'anima romantica, che, esaltandosi nel sogno e nelle inquiete ebbrezze del desiderio, si estenua, e si ammala; e ne nasceva tutto un mondo di sensazioni composite, d'impressioni ambigue, di stanchezze e di voluttà, che la lingua danese non aveva mai prima di lui conosciuto. Gli fu necessario creare una nuova prosa, morbida e ricca di mezze tinte, con nuovi accordi d'immagini e parole. Oltre a ciò la materia era storica. Per mesi e mesi egli passò gran parte delle sue giornate in biblioteca, intento a compulsare vecchie cronache, pergamene, documentarî, atti processuali, corrispondenze epistolari. Persino una patina di linguaggio del tempo volle distendere sopra la sua opera, traendone effetti di colore preziosi. Alla fine del 1876 il romanzo era terminato. Uscì nel dicembre. Due mesi dopo compariva la seconda edizione.

Intanto già l'idea di un nuovo romanzo era venuta maturando. Si doveva intitolare Atheisten (L'ateo), e le prime pagine furono scritte nel 1874, nel medesimo anno in cui l'angosciata domanda del perché della vita ispirava a J. anche la severa e grandiosa poesia dell'ultima parte dell'Arabesco. Nel 1877 il progetto venne ripreso. Ma la composizione riuscì, anche questa volta, lentissima. L'intuito del poeta andò al di là del pensiero dello scienziato, e l'idea del romanzo si fece poco a poco più semplice e più vasta. Anche il titolo mutò; divenne: Niels Lyhne, en unhdoms histoire (Niels Lyhne storia di una giovinezza). Nell'ottobre del 1878 erano stesi i soli primi cinque capitoli: nel novembre J. partì per Roma. E a Roma si incontrò con Ibsen. Frequentavano tutti e due il Circolo scandinavo, in Via Campo Marzio, ma non si amarono e non si potevano amare. Il soggiorno romano fu fecondo per J.: figure come quelle di Erik, della signora Boye poterono soltanto a Roma prender forma e colore, diventare ciò che ora sono. Alla fine della primavera quando fece ritorno a Thisted, J. portava ormai con sé tutti gli elementi della sua opera. E questa non era più, ora, soltanto "la storia di una giovinezza": era la chiarificazione finale di tutte le sue esperienze come uomo e come artista: era, in toni crepuscolari, la poesia del "miracolo eterno della vita", contemplato da un uomo che si sente morire. L'elaborazione fu ancora lunghissima: durò quasi senza interruzioni, fino al dicembre del 1880.

Il 9 dicembre, il romanzo uscì. Portava il semplice titolo: Niels Lyhne. Negli anni che seguirono, il progredire del male tolse a J. ogni attività. L'unico libro che ancora pubblicò, fu la raccolta delle novelle - Mogens og andre Noveller (1882) - e sono tutte bellissime: dalla prima, Mogens, aerata e chiara e impetuosa come una primavera, all'ultima, Fru Fønns, così piena di autunnale senso di rinuncia e di bontà verso la vita; ma erano quasi tutte già scritte da più o meno lungo tempo. La raccolta delle poesie - Digte og Udkast (1886) uscì postuma.

J. morì a trentotto anni, ma per quasi mezzo secolo una non secondaria parte della poesia scandinava, anzi germanica, restò presa e dominata dall'incantesimo della sua breve opera.

Ediz.: Samlede Skifter, voll. 3, Copenaghen 1886: oltre 100 ristampe. V. ora l'edizione critica Samlede Voerker, Copenaghen 1925 e segg. in italiano, dopo la traduzione di G. Gabetti (Niels Lyhne, Milano 1930; Maria Grubbe, Milano 1932), due altre traduzioni del Niels si sono succedute (Niels Lyhne, Lanciano 1931, e La signora Fønns, Milano 1932). V. anche una traduzione della Peste di Bergamo, in Rivista d'Italia, 1928.

Bibl.: E. Brandes, Introd. biografica a Breve fra J. P. J., Copenaghen 1898; G. Brandes, in Samlede Skrifter, III, Copenaghen 1900; W. Andersen, Literaturbilleder, II, Copenaghen 1907; G. Christensen, J. P. J., Copenaghen 1910; A. Linck, J. P. J., Copenaghen 1919; H. Bertge, J. P. J., Amburgo 1920. In Italia gli dedicò un numero unico il Convegno (aprile-maggio 1926); un capitolo gli è assegnato in L'Europa nel sec. XIX, II: La letteratura, Padova 1927.

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