FICHTE, Johann Gottlieb

Enciclopedia Italiana (1932)

FICHTE, Johann Gottlieb

Pantaleo Carabellese

Nato nel villaggio di Rammenau (Lusazia sup.) il 19 maggio 1752, primo di otto figli, da Cristiano, tessitore di nastri, fu tolto a nove anni all'affettuosa amicizia paterna e all'altera severità materna dal barone Von Miltitz, che al promettente fanciullo, il quale aveva saputo ripetergli con fedeltà e calore una predica ascoltata la mattina, volle assicurata, a sue spese, una degna educazione. Fu per quasi cinque anni presso il buon pastore Krebel, poi per sei ancora nel collegio di Pforta, di dove, conseguito nel 1780 il diploma, passò, studente di teologia, nell'Università di Jena. Compiuti gli studî, il giovane F., che aveva letto Lessing e meditato Spinoza, si sentì sempre meno portato a esercitare la funzione di pastore, cui gli studî seguiti dovevano menarlo. E, venutogli meno il sussidio che la vedova del barone, secondo le ultime volontà del marito, aveva continuato a dargli, dovette provvedere da sé al proprio mantenimento. Dopo anni di grandi ristrettezze, passò a Zurigo, nel settembre 1788, precettore in casa di un ricco albergatore. Non vi durò; ma questo passaggio da Zurigo fu decisivo nella vita di F.: conobbe Giovanna Rahn, figlia d'un ispettore di pesi e misure e nipote del poeta Klopstock, e si fidanzò con lei. Nel marzo 1790 ripartì per la Germania, dove continuò la sua vita di istitutore, piena l'anima di sogni di rinnovamento della coscienza pubblica. Per istruire un giovane nella dottrina kantiana, fu portato ad approfondire Kant. Fu la luce: la mente di F., già presa da Spinoza come in un ferreo cerchio di necessità, vide invece balenarsi davanti, affascinante condizione per attuar quei sogni, la libertà. Entusiasta, volle conoscere di persona Kant: si recò a Königsberg, vi si fermò quanto gli consentì il gruzzoletto messo da parte, e compose il saggio sulla Rivelazione. Questo, attribuito allo stesso Kant, fece di colpo la rinomanza di F., ma pur non gli concesse ancora tranquillità economica.: la dichiarazione con cui Kant lo indica autore del saggio (1792) lo additò precettore privato presso il conte Grafen di Cracovia. Vi stette due anni: l'iniziato apostolato della filosofica libertà morale kantiana tira con sé la difesa della civile libertà politica della rivoluzione francese. E, fattosi animo nell'affermatasi stima di sé, non disdegnò più di accettare la relativa agiatezza di Giovanna per passare a nozze (22 ottobre 1793). Invitato a succedere all'acclamatissimo espositore della filosofia kantiana Reinhold, in quel centro vivo della spiritualità della Germania che era l'università di Jena, il 23 maggio 1794 vi tenne la sua prima lezione. Fu un trionfo, che durò per tutto l'anno: il cristallizzato kantismo della rappresentazione di Reinhold assume un potente ampio respiro morale nell'Io di F. La libertà dell'Io, nella rigorosa autocoscienza morale del dovere kantiano e nell'entusiastica attuazione dei diritti dell'uomo della rivoluzione francese, trascinava i giovani, ma rendeva sempre più irrespirabile l'atmosfera ai colleghi: la dottrina e l'opera di F. è additata come pericolo per il trono e per l'altare; l'Atheismusstreit finisce con la sconfitta di F. Così, costretto a lasciare Jena, egli, accogliendo l'invito che gli veniva da voci romantiche, riecheggianti a loro modo quella di F., si recò a Berlino (1799), dove continuarono a maturarsi e moltiplicarsi le opposizioni a F.: da Jacobi a Reinhold, da Kant a Schelling, dai filosofi popolari ai romantici è tutto un rompere le relazioni personali con F., tutto un opporsi, spesso violento, al suo pensiero; F. tien testa a tutti con alterezza, spesso con alterigia; cerca di mostrare, con successive ripresentazioni, come verità solare la sua dottrina della scienza e come deficienza morale l'incomprensione di essa. Finalmente nell'inverno 1804-05 F. ricominciò, a Berlino, la sua opera di insegnante, svolgendo I tratti fondamentali del tempo presente: non è più il puro Wissenschaftslehrer; è l'uomo del suo tempo e del suo popolo. Il quale, frattanto, dopo la sconfitta di Jena (1806), vedeva quei Francesi dei diritti dell'uomo occupare da vincitori Berlino. F. riparò prima a Königsberg, poi, invasa anche questa, a Copenaghen. Tornò a Berlino a pace fatta, ma per ridare al suo popolo la coscienza della sua dignità i suoi Discorsi alla nazione tedesca ritemprano l'arma prima e unica di ogni lotta: la coscienza del popolo educato a sentire altamente dei proprî destini. L'occasione di adoperarla non tardò a presentarsi: la nuova e decisiva guerra contro Napoleone. Fichte, che frattanto era stato nominato professore nella nuova università fondata a Berlino (1810) e primo rettore di essa, chiese di accompagnare l'esercito in campo come oratore: non gli fu concesso. Morì (29 gennaio 1814) di un'infezione che la moglie aveva contratta nella cura dei feriti, ed egli nella cura della moglie che ne fu salva.

Lo scrittore. - F. scrittore ci appare in tre successivi periodi e aspetti: 1. il neofita che bandisce l'altrui parola (1790-1794); 2. il filosofo che scopre ed elabora il suo sistema (1794-1799); 3. il dotto nella sua missione (1799-1814).

Un inno alla dottrina morale kantiana è il suo Versuch einer Kritik aller Offenbarung (Königsberg 1792); una giustificazione dei principî rivoluzionarî invece è il Beitrag zur Berichtigung der Urteile des Publihums über die französische Revolution, 1793, che, anonimo anch'esso e senza neppure l'indicazione dell'editore, comparve in due fascicoli.

La recensione dell'Aenesidemus di Schulze fatta nella Jen. Allgemeine Literaturzeitung, 1794, è il primo importante scritto del 2° periodo. La Critica è strenuamente difesa contro lo scetticismo. F. comincia a porre esplicito il suo pensiero, che si manifesta subito dopo col saggio Über den Begriff der Wissenschaftslehre oder der sogenannten Philosophie (Weimar 1794), breve ma fondamentale saggio, col quale il F. pone per suo conto il problema della critica come ricerca del concetto di filosofia. E con la Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (Jena e Lipsia 1794), egli attua in un sistema, che chiama il vero idealismo trascendentale di Kant, tale concetto. Nei fecondi e combattivi anni di Jena egli da una parte sviluppa la sua critica, cioè torna a confermare e dimostrare come filosofia il concetto della "dottrina della scienza" con i due importanti articoli Erste Einleitung in die W's.l. e Zweite Einleitung in die W's.l. (I797), e dall'altra dà le due più importanti applicazioni della parte pratica della W's.l. con la Grundlage des Naturrecht nach Prinzipien der W's.l. (Jena e Lipsia 1796), opera in cui, fondendo i due motivi iniziali della sua speculazione, formula la sua filosofia del diritto, e con Das System der Sittenlehre nach den Prinzipien der W's.l. (ibid. 1798): opera fondamentale per il pensiero fichtiano, in quanto mostra come il dovere, principio di ogni moralità sia deducibile nella libertà e sia realizzabile. Sviluppo e applicazione della filosofia del diritto vuol essere Der geschlossene Handelstaat. Ein philosophischer Entwurf als Anhang zur Rechtslehre und Probe einer künftig zu liefernden Politik (Tubinga 1800), opera in cui certo si afferma la genialità di F., ma in cui anche più evidente è il semplicismo che è forse il suo difetto: il saggio tende a far sostituire un mondo umano finora dovuto al caso da uno stato costituito secondo ragione e cioè chiuso in sé stesso, senza rapporti commerciali con l'estero se non eccezionali e nettamente determinati.

Il terzo periodo dell'attività letteraria fichtiana si può determinare secondo tre diversi punti di mira. Il primo, rivolto a confermare il concetto di filosofia come W's.l., ed espresso in note, lezioni, conferenze, pubblicate, per lo più, postume. Notevole il Sonnenklarer Bericht an das grössere Publikum über das eigentliche Wesen der neuesten Philosophie. Ein Versuch, die Leser zum Verstehen zu zwingen (Berlino 1801). Il secondo scopo viene a costituire quella che è stata ritenuta la seconda filosofia di F. per la quale l'assolutismo dell'Io puro fichtiano è fortemente scosso quasi da un ripresentarsi della trascendenza tradizionale nella forma religiosa dell'attività spirituale. Ma non si tratta né di un'involuzione del pensiero fichtiano, né d'un deciso suo cambiamento. Il F. vuol ora parlare non più da filosofo, ma da uomo a uomo e quindi volgarizza il suo pensiero filosofico, nel che si manifesta più evidente un certo equivoco che già c'è nel suo pensiero scientifico: l'Io della Dottrina della scienza di F., anche nel periodo di Jena, non è Dio, mentre sotto molti aspetti come tale si presenta. Questo indirizzo, con tale inconsapevole manifestazione delle difficoltà proprie del pensiero fichtiano, si può dire che costituisca la filosofia della religione di F. Perciò dal rigido moralismo immanentistico dell'Atheismusstreit ( 1798-99) del periodo di Jena si passa, attraverso la religione del sentimento, il cui vangelo sta in Die Bestimmung des Menschen (Berlino 1800) e che indica già un notevole sviluppo del concetto di religione in rapporto a quello di morale, a Die Anweisung zum seligen Leben, oder auch die Religionslehre (Berlino 1806), opera nella quale la religione non è più soltanto un credere che si soddisfa e si compie nell'atto morale, ma è anche un intuire una vita eterna di beatitudine. Ma il punto di mira predominante nettamente tutta l'attività letteraria e oratoria di F. in quest'ultimo periodo è quello che si puo dire educativo-sociale. Nel F. prende deciso sopravvento quella natura apostolica, che del resto anche negli altri scritti di questo periodo si ritrova in quell'intento formativo dell'umanità a lui contemporanea, che tutti li anima. Se nel periodo di Jena egli predicava, è stato detto, la sua filosofia, ora non vuol essere e non è che predicatore nel più profondo senso della parola, cioè trasformatore di anime mediante la divulgazione orale e scritta del sapere. Dalle lezioni Über das Wesen des Gelehrten, und seine Erscheinungen im Gebiete der Freiheit tenute nel 1805 e da quelle sulla Missione del dotto tenute nel 1811 ripetendo un motivo iniziale (1794) della sua attività, a Die Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (Berlino 1807) e alle Reden an die deutsche Nation (ibid. 1808), a trascurare le minori continue manifestazioni, è tutta un'opera di formazione dello spirito dei suoi contemporanei e connazionali che F. fa con la parola e con lo scritto, per elevarli a quell'autocoscienza che, mentre è costitutiva dell'umanità, è la missione specifica del dotto, che non è tale se, come "sacerdote della verità", non è "l'uomo moralmente più perfetto del suo tempo", per quell'appagarsi del vero soltanto nel dovere, che anche il più compiuto sacrificio rende obbligatorio da una parte, beatifico dall'altra. Motivo questo che dominò tutto il pensiero e l'azione di F. come dotto, e fu l'ultima nota con cui si chiuse la breve ma forte sinfonia che fu la sua vita.

Il filosofo. - Il problema critico. - Dopo la negazione scettica di Hume, Kant per primo pose esplicito alla filosofia il problema di sé stessa come conoscenza dell'essere in sé e quindi assoluta scienza. E tale problema non può esser risolto che dalla stessa filosofia, che, in tale indagine, si dice Critica. La complessiva risposta di Kant a questa domanda è contraddittoria. Ammette, assoluta, la scienza, ma facendone costitutivo un giudizio sintetico a priori, che però a sua volta, non potendo mai procurare la conoscenza dell'essere in sé, che pur è ammesso e pensato come tale, esclude una scienza assoluta che deve essere κατ'ἀλήϑειαν e non soltanto κατ'ἄνϑρωπον. E la sintesi a priori per Kant è conoscenza tipicamente umana: non è tale la conoscenza divina che è intuizione intellettuale. Così il problema della critica (la possibilità della filosofia come assoluta scienza) rimaneva insoluto. Questa mancanza di soluzione, che, lasciata al punto in cui era con Kant, doveva far proclamare il fallimento della critica, F. cerca di colmare, esplicando dalla posizione kantiana la soluzione che le era implicita. La filosofia è scienza, ripeté F. con Kant e con tutto il sapere tradizionale. Ma appunto questo accordo nel ritenere scienza la filosofia, messo in confrontV col disaccordo nel determinare l'oggetto di essa, ci fa scoprire anche questo e determinare quindi la speciale natura di questa assoluta scienza. Tale oggetto è la scienza stessa: la filosofia è perciò Wissenschaftslehre.

Cosi F., da una parte, muta radicalmente l'oggetto della filosofia: questo non è più l'essere in sé, ma lo stesso sapere. In tal modo F. comincia a scalzare quella logica formale, che, in quanto unica scienza del pensiero, doveva esser presupposta a fondamento dalla stessa filosofia. Non c'è più questa esigenza, se anche la filosofia, avendo come oggetto il sapere e non l'essere, è scienza del pensiero: la vecchia logica non condiziona la filosofia, ma, in quanto scienza particolare, ne è condizionata. Dall'altra parte, però, F. conserva e rinsalda il concetto tradizionale della filosofia come riflessione, e perciò anche, egli ritiene, astrazione ("è impossibile riflettere senza aver astratto"). La filosofia quindi, presupponendo il sapere umano nella sua unica organicità sistematica, è, come filosofia, costituita da una "astrazione riflettente", della quale non si può dare regola alcuna di validità, giacché essa ha il principio unicamente nell'io geniale del filosofo, e perciò è atto libero come l'io che lo compie, pur riguardando, in quanto ha per oggetto la scienza, le azioni necessarie dello spirito conoscitivo. In questo la filosofia si distingue da tutte le altre scienze, che nella loro particolarità determinata riguardano anche azioni libere dello spirito. "Questo - che tocca al filosofo - intuire sé stesso nel compimento dell'atto, dal quale gli nasce l'Io, io dico intuizione intellettuale", che non si può dimostrare con concetti, ma che "ognuno deve trovare immediatamente in sé stesso", come "autocoscienza chiara e completa". Non però come un dato; e perciò si dovrà distinguere dalla coscienza comune la filosofia. Questa non è innata; ma è scienza che deve essere appresa e praticata da chiunque è capace di generare in sé tale scienza mediante quell'intuizione intellettuale; alla coscienza comune manca tal generarsi della scienza mediante questa libera astrazione riflettente. Libera astrazione, la quale però non può essere patrimonio esclusivo e arbitrario del filosofo come tale, giacché in tanto sarà valida la dottrina della scienza che egli costruisce, in quanto concorda con l'esperienza che non è altro che quel sistema dell'umano sapere di cui la filosofia cerca e dà l'unico principio: l'Io.

Con questo nuovo concetto della filosofia F. sfugge alla contraddizione ìn cui si era chiuso Kant; giacché elimina l'essere in sé come oggetto della filosofia, e così ritrova anche unica la fonte del sapere, non essendovi più bisogno d'un senso che dia un contenuto al conoscere col fenomenizzare l'essere in sé. Il problema della critica pare risoluto: la filosofia, concepita come scienza della scienza, è possibile, ed è così veramente idealismo trascendentale (Kant), il quale deve essere assolutamente inconciliabile con ogni dogmatismo, anche se questo parta da un principio idealistico (Spinoza). Chi assume come principio la cosa non può assumere l'Io; l'una via rende reciprocamente inintelligibile l'altra. La dottrina della scienza, dice F., va presa o lasciata in blocco.

La filosofia in generale. - Questo nuovo concetto della filosofia rende costruibile la filosofia e risolve quindi il quesito kantiano circa la possibilità di essa. Pare così con F. veramente conquistata quell'unità d'origine della conoscenza che invano aveva cercato di dare il Reinhold alla dottrina kantiana. Il filosofo, a principio del suo filosofare, non dispone che del suo Io; Io, vedemmo, che egli deve costruire, perché non gli è dato. E come Kant aveva tratto dalla forma, che i giudizî assumono nella presentazione che ne faceva la logica tradizionale, quelle categorie che sono le leggi stesse del conoscere e che per F. sono azioni necessarie dello spirito, così F., con un deciso passo più avanti di Kant ma sulla stessa sua strada, trae dalla logica tradizionale, per così dire, le linee architettoniche di questa costruzione dell'Io che il filosofo deve compiere. Principio fondamentale della logica è quello d'identità: A è A. Principio, in sé, vuoto di ogni contenuto, e se vogliamo riempirlo in questa posa della prima pietra dell'edificio della filosofia come scienza d'ogni umano sapere, non possiamo riempirlo se non con l'Io del quale soltanto il filosofo dispone. Questo però, per la stessa sua essenza di libertà, è un agente, e perciò non può riempire quella vuota formula se non portandovi questa sua essenza attiva e libera di porre: porre sé stesso. Quindi la fondamentale trasformazione di quella morta, immutabile formula logica nella viva formula fichtiana: "se l'Io è posto, è posto l'Io", dove quel "wenn", "se", viene a dare, col porre ipotetico, alla stessa identità logica tradizionale quell'attività che già Kant aveva visto costituire la spiritualità conoscitiva come tale. Quindi il fichtiano principio di posizione: "L'Io originariamente pone assolutamente il suo proprio essere". Continuando questa animazione della logica tradizionale (che dà anche del secondo principio, quello di opposizione, non dedotta la forma) F. passa poi alla stessa trasformazione del principio logico tradizionale di non contraddizione (− A non è = A), deducendone il contenuto dal principio di posizione: "All'Io è opposto assolutamente un Non-Io". Ma dal secondo principio in poi la filosofia non ha più bisogno di postulare nulla dalla logica formale. Il terzo principio fichtiano, quello di ragione, che cerca di conciliaie questi due principî opposti, ciascuno dei quali reclama per sé tutta la costruzione, "giacché il Non-Io sopprime completamente l'Io", è dedotto senz'altro dai primi due: "appena all'Io è opposto un Non-Io, l'Io al quale è opposto il Non-Io, e il Non-Io che è opposto, son posti come divisibili". Dai quali tre principî si deduce quello che il F. dice sintesi suprema: "Io oppongo nell'Io all'Io divisibile un Non-Io divisibile", e cioè "l'Io e il non-Io sono posti dall'Io e nell'Io come mutuamente limitabili". A tale sintesi F. aggiunge queste superbe parole: "Niuna filosofia va oltre questa conoscenza; ma ogni filosofia solida deve rimontare sino a essa; e, quando lo fa, diventa dottrina della scienza. Tutto ciò che da ora in poi si presenterà nel sistema dello spirito umano, si deve poter dedurre da ciò che è stato esposto".

Il problema della conoscenza. - In questa sintesi fondamentale, che è poi la coscienza stessa, sono poste tutte le possibili sintesi che la coscienza compie col suo svolgersi e attuarsi. Ora in tale sintesi sono racchiuse due proposizioni: 1. L'Io pone il Non-Io come limitato dall'Io; 2. L'Io pone sé stesso come limitato dal Non-Io. Cioè i principî di posizione e di opposizione prendono forma concreta nel principio di ragione. Nasce così una distinzione nella coscienza, che dev'essere anche distinzione in quella riflessione astraente che è la filosofia: pratica, teoretica.

Così la conoscenza per F. (coscienza teoretica) è, secondo il concetto tradizionale, limitazione che il soggetto conoscente sente di avere da qualcosa che non è esso stesso. Per intendere ciò bisogna eliminare le contraddizioni che in questo principio della conoscenza sono racchiuse; e questa eliminazione ci chiude in un circolo tra un realistico riconoscimento della causalità (per il quale quella limitazione, che l'Io di questa sua libera attività che lo costituisce sente di avere, è riconosciuta come prodotta dall'azione del Non-Io, e quindi l'Io conoscente è riconosciuto come paziente nonostante la sua intima costituzione di libera attività) e una idealistica affermazione dell'attiva sostanzialità dell'Io, escludente ogni azione che non sia dell'Io stesso. Questo circolo ripete nell'ambito dell'attività conoscitiva quel circolo che già si è visto nell'ambito di tutta l'attività dell'Io tra la realistica attività teoretica e l'idealistica attività pratica; come questo a sua volta ripeteva già nell'ambito dell'attività concreta dell'Io quel circolo in cui si chiude la fondazione stessa della dottrina della scienza come riflessa sistemazione unica del sapere, il circolo tra principio di posizione e principio di opposizione. Questo circolo tra tesi e antitesi, riconosciuto come tale nella sintesi che se ne dà, è quel metodo dialettico che F. dà all'idealismo post-kantiano e che avrà da Hegel il suo pieno riconoscimento e sviluppo. La sintesi quindi contiene sempre in sé le antitetiche posizioni da cui nasce e le rigenera ampliate dal nuovo circolo in cui nascono. La riflessione in cui la filosofia, come dottrina della scienza, consiste, si può dire compiuta, quando è soddisfatta e quindi estinta questa brama di rigenerazione necessariamente contraddittoria. Così infatti l'Io geniale del filosofo avrà raggiunto e riprodotto con la sua riflessione quel sistema unico dell'umano sapere inalterabile nelle sue linee essenziali, e al quale nulla di nuovo potrà essere aggiunto, perché qualsiasi scoperta resterà sempre nell'ambito di quel sistema. Il riconoscimento di questo circolo conoscitivo tra il realismo della causa e l'idealismo della sostanza si ha nell'idealismo critico, che, realistico nell'urto primitivo che l'Io nella sua assoluta teticità ha con l'assolutamente antitetico Non-Io, perciò schiettamente tetico anch'esso, è invece idealistico nel riconoscimento che tutto quanto v'è nell'Io, anche in quanto conoscente, non può essere che prodotto dell'attività dell'Io: l'Io pone in sé stesso anche la sua negazione.

La novità che F. porta in questo concetto di conoscenza sta nel far vedere con chiarezza come questo qualcosa, dal quale il soggetto conoscente sarebbe determinato quando conosce, non risulta se non come non-soggetto, Non-Io. Schietta negazione, cioè; la quale, come tale, non può non essere posta dallo stesso soggetto conoscente che si sente limitato da essa. Intendere profondamente questa riduzione dello stesso concetto realistico di oggetto conosciuto a negazione del soggetto, e l'originarsi di tal negazione nella coscienza dall'unica attività che risulta alla coscienza, quella dell'Io libero, è intendere il fichtismo nel suo valore e nel suo difetto. Anche in questa determinazione del Non-Io sempre l'Io pone sè stesso come in tal modo determinato.

Il che sarà da tutti chiaramente riconosciuto e compreso, quando si pensi che l'Io conoscente è l'Io rappresentante, cioè è l'Io che dà a sé stesso le rappresentazioni dell'oggetto nell'urto, che è la condizione primigenia dello svolgersi della sua attività. L'idealismo critico è quindi riconoscimento puro e semplice che conoscere è rappresentare. E il rappresentare è attività dell'Io: è "la meravigliosa facoltà dell'immaginazione produttiva". Quando così la dottrina della scienza è salita "fino alla rappresentazione del rappresentante", essa ha spiegato la conoscenza riportandola tutta al suo unico principio, l'Io: non le resta che dedurre i gradi dello spirito teoretico, di questo Io rappresentante, che da F. vengono scoperti e determinati come sensazione, intuizione, immagine, intelletto, giudizio, e finalmente ragione, cioè autocoscienza, culminante nella teoretica "rappresentazione del rappresentante". Io rappresentante, che, per quanto sia soltanto potere di immaginare, non dà un sapere illusorio, giacché "su quell'atto dell'immaginazione si fonda la possibilità della nostra coscienza" dalla quale non si può fare astrazione, perché "ciò che astrae non può mai fare astrazione da sé stesso. Quindi esso non illude, ma dà verità e l'unica verità possibile".

Il problema dell'azione. - Ma non appena abbiamo guadagnato questa sia pur non illusoria rappresentazione del rappresentante, ci accorgiamo che questo Io rappresentante (intelligenza) non è l'assoluto Io che è indipendente da qualunque possibile Non-Io nel suo assoluto porsi, cioè nella sua assoluta attività. Nasce quindi fra l'intelligenza e l'Io assoluto un'incompatibilità la quale dimostra che risolvere il problema teoretico non è risolvere il problema della filosofia, cioè raggiungere l'assoluta unità di principio del sapere. Ma non per questo essa ci sospinge senz'altro nell'Io assoluto, cioè in una, per noi impensabile, "coscienza, nella quale tutto fosse posto pel solo fatto che l'Io fosse posto"; bensì, richiamandoci a quella sintesi suprema che abbiamo guadagnato riempiendo di egoità i primi principî logici, ci pone dinnanzi all'altra proposizione implicita in detta sintesi: "l'Io pone il Non-Io come limitato dall'Io". Tale Non-Io, infatti, quale nell'intelligenza si determina (cioè il momento teoretico), non è eliminabile. Quindi la necessità, per F., di un primo motore al difuori dell'Io, che ne susciti l'azione pur libera, cioè "l'originaria reciprocità d'azione tra l'Io e una qualche cosa posta al di fuori di lui, della quale non si può dir che questo: che essa dev'essere affatto opposta all'Io". Ma nella così nata attività dell'Io, non v'ha opposto, che egli stesso non si opponga, e perciò "se alla Dottrina della scienza si dovesse rivolgere la domanda: or dunque come son fatte le cose in sé? essa non potrebbe rispondere altrimenti che: come noi dobbiamo farle". "Donde segue nel modo più luminoso la subordinazione della teoria alla pratica; ne segue che tutte le leggi teoretiche si fondano sulle leggi pratiche, e poiché non ci può essere che una sola legge platica [il dovere], si fondano sopra una sola e medesima legge". Così il primato kantiano della ragione pratica fa un deciso passo avanti risolvendo in sé anche il mondo conoscitivo e reciprocamente risolvendo sé in questo. Non si dovrà che riconoscere come intrinseco allo stesso Io quell'urto da cui F. fa nascere l'attività dell'Io; non si dovrà che riconoscerlo come questa stessa attività nei principî che già F. vi ha ritrovati di posizione e di opposizione, perché il primato della ragion pratica si faccia assoluto, cioè la volontà si riconosca come la stessa intelligenza. Con F. non sappiamo ancora, più di quanto non sapevamo con Kant, che cosa sia questo volere che non è l'intendere, mentre si risolve nel creare quel mondo di rappresentazioni che costituiscono appunto il momento teoretico dello spirito. "L'azione (così conclude la sua opera fondamentale il F.) di cui qui si parla è come sempre un'azione ideale, la quale ha luogo per rappresentazione".

Così anche l'Io agente dell'attività pratica ci risulta quell'Io rappresentante visto nell'attività teoretica; e anche di questo Io agente non ci saremo fatta che una rappresentazione. La rappresentazione dell'Io rappresentante risolve il problema pratico come già aveva risolto quello teoretico; e quindi, come con questo, ci pone dinnanzi a una fondamentale incoerenza: questo circolo in cui vediamo chiudersi l'Io dell'uomo si distingue così dall'Io assoluto, creando una dualità che il concetto stesso dell'Io come libera attività infinita non consente.

In complesso l'originalità speculativa di F. sta nel rivendicare, per tutta l'attività dell'Io, la libertà che Kant aveva postulato solo per l'agire morale; rivendicarla liberando quell'attività da ogni intervento della oggettiva cosa in sé, in quanto questa, nella coscienza del soggetto, non può essere che negazione posta dal soggetto stesso. Con questa tanto geniale quanto semplice intuizione F. pone esplicito il valore in cui culmina tutta la filosofia moderna: l'oggettività in sé delle cose, della cosiddetta natura, è negazione, non è. Ma, riconosciuta negativa l'oggettività della natura, non per questo rimane risoluto il problema della oggettività pura. La mancanza di tal soluzione è il difetto della dottrina del F., che si ripercuote e continua nel successivo svolgersi dell'idealismo post-kantiano.

Edizioni principali delle opere di F.: Nachgelassene Werke, voll. 3, editi dal figlio Immanuel Hermann Fichte, Bonn 1834-35; Sämtliche Werke, voll. 8, editi dallo stesso, Berlino 1845-46; tutti gli 11 volumi riprodotti recentemente, Lipsia 1924; Werke, Auswahl, voll. 6, editi da F. Medicus, Lipsia 1908-12, ottima edizione della Philosophische Bibliothek, con indice delle materie al vol. VI, e della quale si è cominciato il completamento con un vol. VII, a cura di Strecker e Schulz; F. s Briefwechsel, voll. 2, racc. da Schulz, Lipsia 1925.

Traduzioni italiane: Dottrina della scienza, a cura di A. Tilgher, 2ª ed., Bari 1925; Dottrina morale secondo i principî della D. d. sc., a cura di L. Ambrosi, Roma 1918; Stato secondo ragione, Torino 1909; Missione del dotto, a cura di E. Roncali, Lanciano 1912, e di G. Perticone, Torino 1927, 1928; Missione dell'uomo, a cura di G. Perticone, Torino 1928; Introduzione alla vita beata (le sole prime cinque lezioni), a cura di N. Quilici, Lanciano 1913; Discorsi alla nazione tedesca, a cura di E. Burich, 2ª ed., Palermo 1927; Machiavelli scrittore, a cura di A. Buoso, Portogruaro 1920; Filosofia della massoneria, a cura di S. Caramella, Genova 1924.

Bibl.: F. Medicus, F., Berlino 1905; id., F. s Leben, Lipsia 1914, 2ª ed., 1922; A. Mener, F., seine Persönlichkeit u. seine Philosophie, Lipsia 1920; X. Léon, F. et son temps, Parigi (finora usciti 3 voll. 1922-27); H. Heimsoeth, F., Monaco 1923; G. Maggiore, F., Milano 1925; M. Wundt F., Stoccarda 1927.

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