Locke, John

Dizionario di filosofia (2009)

Locke, John


Filosofo inglese (Wrington, Somersetshire, 1632 - Oates, Essex, 1704). Uno dei promotori dell’Illuminismo inglese ed europeo, fu il primo teorico del regime politico liberale e l’iniziatore dell’indirizzo critico della gnoseologia moderna.

La vita e le opere

Di famiglia puritana, nel 1652 entrava al Christ Church di Oxford, dove, conseguiti i gradi di baccelliere e maestro di arti, continuò a soggiornare pur avendo rinunciato alla carriera ecclesiastica per darsi agli studi di medicina. Ma non conseguì regolarmente il titolo dottorale, impegnandosi con ardore anche in studi di fisica e di fisiologia. Nel 1668 la Royal Society lo accolse tra i suoi membri. In questo stesso periodo a Oxford conobbe, in qualità di medico, lord Ashley poi conte di Shaftesbury che lo volle suo ospite a Londra e presso il quale poté far pratica in affari di Stato, collaborando alla soluzione d’importanti questioni economiche e politiche. Quando il conte di Shaftes­bury nel 1682 fuggì dall’Inghilterra, L. si ritirò a Oxford, ma, sentendosi sospettato dai partigiani del re, si rifugiò in Olanda, dove sulla Bibliothèque universelle di J. Le Clerc pubblicò, a 54 anni, i primi scritti e dove entrò in relazione con Guglielmo d’Orange. Nel 1689 ritornò in Inghilterra. La sua autorità divenne allora grandissima: egli era il rappresentante intellettuale e il teorico del nuovo ordinamento liberale inglese. Ancora nel 1689 usciva anonima l’Epistola de tolerantia (trad. it. Epistola sulla tolleranza), poi i Two treatises of government (1690; trad. it. Due trattati sul governo) e il suo capolavoro, An essay concerning human understanding (1690; trad. it. Saggio sull’intelletto umano). Dal 1691 L. visse quasi sempre nel castello di Oates (Essex), ospite di Sir F. Masham, lavorando, pur malfermo in salute, a saggi sulle più varie questioni e interessandosi ancora ai problemi economici e monetari del momento fino ad accettare nel 1696 un incarico nel Board of Trade. Come già l’Epistola, The reasonableness of christianity (1695; trad. it. La ragionevolezza del cristianesimo), d’impostazione deistica, lo coinvolse in una lunga polemica resa più acerba dall’apparizione, nel 1696, del Christianity not mysterious di Toland. Nel 1693 erano usciti i Some thoughts concerning education (trad. it. Pensieri sull’educazione); e quattro Letters on toleration (tr. it. Lettere sulla tolleranza) apparvero via via dal 1690 al 1706, l’ultima postuma.

Critica dell’innatismo e teoria delle idee

Ricollegandosi sia alla filosofia baconiana che alla tradizione empirico-scettica della prima metà del Seicento, che aveva trovato in Gassendi esemplare espressione, e non senza risentire dell’influenza dei grandi rappresentanti della nuova cultura filosofica e scientifica, come Descartes e Hobbes, la ricerca di L. muove in primo luogo da un esame critico degli strumenti della conoscenza e del loro uso. L’idea della necessità di una «indagine pregiudiziale sui poteri e gli oggetti dell’intelligenza umana» si era presentata a L. già nel 1671 e, svolta, quell’idea diventò il Saggio sull’intelletto umano, la prima indagine critica della filosofia moderna sulla linea che porta alle Critiche kantiane. L’opera, in quattro libri, presenta una teoria della esperienza considerata unica fonte della conoscenza umana e un inventario sistematico delle idee, esaminate al vaglio dell’esperienza con un procedimento che troverà integrale applicazione da parte di Hume. Presupposto dell’indagine è il principio, di derivazione cartesiana, secondo il quale avere un’idea significa percepirla attualmente, cioè esserne consapevoli, così che per L., essendo alcune idee (per es., quella di Dio) presenti nell’adulto ma non nel bambino, va respinta ogni teoria innatistica. Tesi fondamentale dell’opera è che tutte le idee derivano dall’esperienza, o perché direttamente fornite da essa (idee semplici) nella forma della sensazione o percezione esterna e in quella della riflessione o percezione interna, o perché costruite dall’intelletto (idee complesse) mediante un’attività di riproduzione, confronto e composizione condotta sulle idee semplici provenienti dall’esperienza. Tutti i concetti della metafisica (spazio, tempo, movimento, causa, identità, sostanza, individuo, persona) vengono allora esaminati, quali si presentavano nella cultura filosofica corrente, per accertare in quale significato essi debbano essere definiti quando ne sia riconosciuta l’origine. Il risultato più gravido di conseguenze di questa analisi è l’affermazione che non solo noi non conosciamo la sostanza delle cose, ma l’idea stessa di sostanza si rivela del tutto indeterminata e inutile per ogni conoscenza positiva. Passando all’esame delle varie forme di sapere, di cui le idee, semplici o complesse, costituiscono il materiale, L. conclude che la conoscenza umana può assurgere al valore di vera scienza quando si limiti alla considerazione dei rapporti formali fra le idee precedentemente analizzate e definite: tale è il caso della matematica e dei problemi morali. La scienza naturale fondata sull’esperienza sensibile deve rinunciare alla pretesa di costituirsi con puri ragionamenti, per tenersi all’osservazione dei fatti. Ma poiché l’uomo non può basarsi solo sulle certezze fondate su procedimenti puramente razionali, accanto alle conoscenze assolutamente certe (la certezza dell’esistenza dell’Io; quella, per via dimostrativa, dell’esistenza di Dio; quelle riguardanti la conoscenza di rapporti fra le idee) devono trovar posto quelle la cui certezza è più o meno fondata sulla probabilità. Tra queste rientra anche la fede religiosa.

La teoria del linguaggio

Particolare attenzione dedica L., nel 3° libro del Saggio sull’intelletto umano, al problema del linguaggio, connettendolo strettamente alla propria teoria della conoscenza. Le parole gli appaiono come segni convenzionali, non però riferiti direttamente alle cose, ma alle idee che di esse ci formiamo nella nostra mente. I termini generali, per es., corrispondono a idee generali, ottenute mediante un processo di astrazione. Lo status gnoseologico-ontologico dell’idea generale è peraltro estremamente controverso e rimanda al problema degli universali. L. sostiene che, in sede di definizione, si può far ricorso soltanto alle «essenze nominali», non alle «essenze reali», essendo impossibile conoscere le sostanze nella loro vera realtà. Il suo punto di vista è dunque prevalentemente nominalista, nonostante qualche oscillazione verso il concettualismo. Una trattazione dei nomi delle idee semplici e delle relazioni (considerati come sincategorematici) conclude la sua trattazione. La preoccupazione nei confronti delle distorsioni e degli errori cui può dar luogo un uso inadeguato del linguaggio, la preoccupazione cioè di correggere le storture della comunicazione intersoggettiva, s’intreccia in L. problematicamente con l’esigenza di un’analisi estremamente radicale e rigorosamente aderente alle premesse empiristiche di fondo, che comporta peraltro serie difficoltà. La connessione tra problemi linguistici e problemi gnoseologici determina infatti l’insorgere, all’interno del linguaggio, delle stesse difficoltà emerse in sede di teoria della conoscenza; il linguaggio, lungi dall’essere strumento di comunicazione, viene talora a ridursi a linguaggio privato, valido cioè soltanto per il soggetto che se ne serve. I motivi della ricerca lockiana che sembrano aver esercitato maggiore influenza appaiono comunque l’impostazione nominalistica e i contributi a una teoria della definizione, in cui risulta chiara la possibilità d’impiegare anche altri metodi definitori oltre a quello tradizionale per genus et differentiam.

Il pensiero politico

Il pensiero politico di L., come già quello di Hobbes, è strettamente legato alle tormentate vicende inglesi del Seicento, nel corso del quale lo scontro tra corona e parlamento diede luogo a due rivoluzioni (1642 e 1688), la prima delle quali accompagnata da una guerra civile. Se in questo scontro Hobbes prese le parti della corona, elaborando la prima teoria razionalistica dell’assolutismo, L. si schierò dalla parte del parlamento, elaborando la prima grande teoria liberale moderna. Comune ai due pensatori è il modello giusnaturalistico, imperniato sulla dicotomia stato di natura/stato civile o politico e sul patto come strumento per passare dal primo al secondo. Tale modello è tuttavia declinato in modo molto diverso. Per L. lo stato di natura non è uno stato di guerra, bensì uno stato di pace, benevolenza e assistenza reciproca: gli uomini collaborano tra di loro e stabiliscono vari rapporti (famiglia, scambi commerciali e così via), dando luogo a una sorta di ‘società naturale’. Il limite dello stato di natura lockiano è nell’assenza di giudici in grado di risolvere le eventuali controversie: l’individuo, se i suoi diritti vengono violati da un altro, ha diritto di farsi giustizia da solo, ma nel fare ciò – poiché nessuno è buon giudice nella causa che lo riguarda – offenderà a sua volta l’offensore, dando avvio a un conflitto che non riesce a concludersi. Da tale difetto nasce l’esigenza di uscire dallo stato di natura, dando vita allo stato civile. Quest’ultimo sorge non per cancellare la condizione naturale, ma per perfezionarla, ponendo rimedio al suo unico difetto e conservando tutto quel che di positivo conteneva. In altre parole, le leggi civili dello Stato dovranno tutelare quei diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà che precedono, cronologicamente e assiologicamente, la sua nascita. Di qui la struttura del patto in L., che torna ad articolarsi in due momenti: dapprima il pactum societatis (i cui contraenti sono gli individui e il cui contenuto è la nascita dell’associazione) e quindi il pactum subjectionis (i cui contraenti sono il popolo e il sovrano e il cui contenuto è la cessione di un unico diritto, quello a farsi giustizia da soli). Ne consegue che il potere dello Stato sarà rigorosamente limitato: esso non potrà mai violare i diritti naturali degli individui e dovrà rispettare il principio di legalità, esercitando i suoi poteri secondo procedure prefissate e pubbliche. Qualora lo Stato violasse i diritti naturali, esso perderebbe la sua legittimità e gli individui avrebbero quindi il diritto di resistere al sovrano, ossia il diritto di disobbedire ai suoi ordini e di deporlo. Come tutti i pensatori liberali moderni, L. teorizza anche la separazione dei poteri: il potere legislativo (che è il potere supremo) spetta al parlamento, eletto dai cittadini che ne abbiano diritto (sulla base del censo), mentre il potere esecutivo spetta al re. In tale modo egli intende garantire quel bilanciamento e controllo reciproco dei poteri (checks and balance) che costituisce un argine contro il dispotismo e un’ulteriore garanzia per la libertà dei cittadini. In L. troviamo infine una teoria innovativa della proprietà, che per la prima volta nel pensiero sociale e politico ne fa qualcosa di dinamico, frutto dello sforzo e dell’attività dell’uomo. Se è vero, osserva L., che la terra è stata data agli uomini in comune, come è scritto nella Bibbia, è altrettanto vero che la proprietà della persona è rigorosamente individuale: e come ognuno possiede individualmente il proprio corpo e la propria mente, così possiederà tutto ciò che l’opera delle sue mani e della sua intelligenza potrà procurargli. Con il lavoro, l’uomo trae i beni dallo stato comune in cui si trovano originariamente e vi aggiunge qualcosa di individuale, che giustifica quindi la proprietà privata, la quale sorge già nello stato di natura. Dapprima L. pone due limiti all’acquisizione della proprietà privata: lasciare cose sufficienti e altrettanto buone agli altri e appropriarsi soltanto di ciò che può essere consumato. Ma tali limiti vengono superati grazie all’istituzione della moneta, che non è deperibile. L. è inoltre convinto che un’economia fondata sulla proprietà privata e sull’accumulazione illimitata di ricchezza generi uno sviluppo economico complessivo infinitamente superiore ai modelli preborghesi: un piccolo pezzo di terra coltivato privatamente, egli osserva, rende cento volte di più di quanto renderebbe se lasciato in proprietà comune (tanto è vero, aggiunge, che il re di un ampio e fertile territorio americano mangia, alloggia e veste peggio di un operaio giornaliero inglese). L. teorizza infine – sulla base di una chiara distinzione tra potere politico e potere spirituale – la tolleranza religiosa. Il potere politico, anche quando è basato sul consenso (come nel caso della teoria lockiana), può ricorrere alla forza, se le sue decisioni non vengono rispettate. Il potere spirituale, invece, può soltanto convincere e non costringere, perché la religione consiste nella fede interiore, senza la quale nulla ha valore di fronte a Dio. Imporre una fede religiosa con la forza non ha senso: si possono confiscare i beni, tormentare il corpo con il carcere e la tortura, afferma L., ma tutto ciò non può mutare le convinzioni interiori di un uomo. Queste mutano soltanto con la luce di una nuova convinzione, e non certo per effetto della forza. Perciò sfera politica e sfera religiosa debbono essere chiaramente distinte. Quanto alle varie Chiese, ognuna ritiene di avere il monopolio della verità: ma si tratta, secondo L., soltanto di una convinzione soggettiva. Ogni individuo entra spontaneamente in una Chiesa, sperando di aver trovato la vera religione e il culto più gradito a Dio; ma proprio per ciò, se cambiasse idea, deve poter abbandonare quella Chiesa, con la stessa libertà con cui vi era entrato. Ogni Chiesa ha il diritto di fissare i propri principi dogmatici, le proprie regole di culto e organizzative e di espellere chiunque non le rispetti; ma l’esclusione religiosa non deve avere conseguenze civili. Al decreto di scomunica, dice L., non deve seguire nessuna violenza, né fisica né verbale, e nessun danno ai beni del cittadino scomunicato. Dalla tolleranza L. esclude però sia i cattolici (perché obbediscono agli ordini di un sovrano straniero) sia gli atei (perché, non credendo in Dio, non riconoscono le leggi naturali che sono alla base della convivenza).

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