SUCKERT, Kurt Erich

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 94 (2019)

SUCKERT, Kurt Erich (Curzio Malaparte)

Marino Biondi

Nacque il 9 giugno 1898 a Prato, dove la famiglia risiedeva in un appartamento al terzo piano di un palazzo di via Magnolfi 416, da Erwin, tintore di origini sassoni, e da Eugenia Perelli (detta Edda), di origini milanesi. Ebbe cinque fratelli (Sandro, il maggiore) e due sorelle. Seguì la famiglia in una serie di trasferimenti (Milano, Carate Brianza, Brescia) dovuti alla grave crisi che incontrò la professione paterna. Cessato il benessere dei primi anni, Curtino, come veniva affettuosamente appellato in casa, venne mandato a balia presso la famiglia dei coniugi Eugenia e Milziade Baldi; quest’ultimo, contadino, detto anche il «balio» Mersiade, incise non poco sulla formazione morale e intellettuale di Malaparte.

I tratti di anarchismo sovversivo, la costante turbolenza di carattere, la spontanea e insopprimibile tendenza a non accettare lo status quo e a mettersi contro, non accettando discipline (anche nel nome che volle assumere, di controparte, di malaparte, di chi, sconfitto ad Austerlitz, può dirsi vittorioso a Waterloo: un nome paradossale e sottilmente antitirannico), furono l’eredità di quella ‘seconda famiglia’ che, secondo i valori propri del mondo operaio, gli trasmise stimoli di rivolta e di rivoluzione, interpretati da Malaparte nei diversi periodi della sua vita con originale singolarità che lo rese uno dei più discussi e controversi protagonisti del Novecento.

Studiò al Convitto Cicognini di Prato, dove conseguì la licenza liceale nella primavera 1916, quando era già in prima linea nella Grande Guerra. Il Cicognini, emblema scolastico-istituzionale della città, era codificato dalla presenza simbolica del convittore Gabriele D’Annunzio, che fu per Malaparte un modello di formazione. Il dantista, nonché preside del liceo, Paolo Giorgi, affidò il giovane Curtino allo scrittore pratese Bino Binazzi, vicino ai futuristi di Lacerba, con il consenso di Giovanni Marradi, noto poeta livornese. Prato, città radicale (patria di Gaetano Bresci, il regicida, sotto scacco di anatema) e letteraria, fu la ‘culla’ di Malaparte, da cui trasse i succhi essenziali per la sua crescita intellettuale.

Al 18 febbraio 1912 è possibile datare il suo battesimo letterario, allorché compose l’inno A Sem Benelli, stampato in 125 copie a cura della municipalità pratese. In questi stessi anni iniziò ad emergere anche la sua vocazione giornalistica. Nel 1912 fondò, insieme ad Alighiero Ceri, Il Bacchino, giornale satirico illustrato. In Malaparte è dato constatare una disposizione continua, pressoché ininterrotta, alla scrittura su diverse materie e per diversi fini. Sul Corriere dei Piccoli pubblicò, rispettivamente il 30 marzo e il 20 ottobre 1913, due novelle, La camicia della perfetta letizia Il piccolo sonatore d’organo.Nel 1913 fondò, sempre a Prato, la sezione giovanile del Partito repubblicano, di ispirazione risorgimentale, mazziniana e garibaldina, impegnata audacemente sul presente della storia politica.

Nell’autunno del 1914 si arruolò, passando la frontiera di Ventimiglia, nella Legione Garibaldina, di stanza ad Avignone, che combatteva sulle Argonne, anticipando l’ingresso italiano nella Grande Guerra. Durante le operazioni in Francia, nel «Régiment Étranger», Malaparte giunse a Parigi, che divenne la sua città di elezione, nonché sede delle sue pubblicazioni in lingua francese. Quale scrittore bilingue (e anche questo bilinguismo rese di fatto eccezionale la sua esperienza letteraria), Malaparte può oggettivamente iscriversi a due letterature nazionali.

Promosso ufficiale nel 1917, sul fronte italiano, dopo aver combattuto sul Piave e sul Grappa, visse la rotta di Caporetto (24 ottobre 1917) dal fronte defilato del Cadore; ne derivò il suo primo libro, che lo rese scandalosamente celebre, Viva Caporetto!, edito a Prato dalla Tipografia Martini nel 1921.

Il punto esclamativo sul trionfalismo di una disfatta racchiude in una sintesi tanto provocatoria quanto efficace il malapartismo come stile e come genere nella cultura novecentesca. Dopo un sequestro, Viva Caporetto! fu ripubblicato nel 1923 con il nuovo titolo La rivolta dei santi maledetti. Vi si esplora il mito di una guerra proletaria, ed è paradossale che una guerra proletaria, dei pezzenti trinceraschi, per il tramite di una suggestiva e potente costruzione letteraria, fosse all’origine del fascismo malapartiano, sociale e ribelle, destabilizzante gli equilibri statuali del liberalismo e delle democrazie oligarchico-consociative, inteso a virare verso un teppismo squadristico, del quale pure lui stesso restò vittima. Malaparte, artista immaginifico e mitografico, non rinunciò mai all’apporto del mito, nutrendo di miti ideologici e politici l’allestimento della sua scena letteraria; e mitografica sarà la sua letteratura, anche quella più prossima agli eventi della storia. Il titolo Viva Caporetto! era già una soluzione provocatoria. Si tratta di uno dei diari di guerra più artefatti e ideologicamente orientati, in un senso che possiamo definire spartachista (la rivolta dei nuovi schiavi delle trincee), incentrato su una rivolta che fu rivoluzione abortita: una rivoluzione sociale, sentita e auspicata, in realtà mai avvenuta, che lo scrittore dipinse con i colori corruschi di una memorabile epica della sconfitta. Nella profluvie dei titoli registrati dalla stagione letteraria della guerra, Viva Caporetto! è ancora oggi uno dei più letti e acclamati, perché riscrisse Caporetto in un’altra più nobile versione, radicalizzando politicamente la Grande Guerra. Anche questo fu il malapartismo. Dalla guerra al fascismo. Dai miti della guerra ai miti del fascismo.

Fu iscritto al PNF, e precisamente al Fascio di Firenze dal 20 settembre 1922 al 18 gennaio 1931 con un incarico di segretario della Camera Italiana del Lavoro di Firenze. Qui svolse il lavoro di sindacalista fino al marzo del 1923.

Dai primi mesi del 1922 fu corrispondente dall’Italia del giornale polacco Kurjer Polski e scrisse per La Ronda di Vincenzo Cardarelli e Antonio Baldini. Troncò dunque gli studi universitari per seguire la sua schietta vocazione al giornalismo (scrisse per Il MattinoIl TempoLa Nazione), e collaborò pure con il quotidiano politico Il Mondo, nato su iniziativa di Giovanni Amendola e poi soppresso dal regime fascista nel 1926.

L’approccio al fascismo fu, nelle sue fasi iniziali, ambiguo e non del tutto convinto, come conferma anche il rapporto di stima che lo legò a Piero Gobetti, il quale gli propose di scrivere su Energie Nuove e Rivoluzione liberale, e con il quale instaurò un’amicizia sincera, nonostante la radicale divergenza tra l’etica gobettiana e l’opportunistica disponibilità malapartiana.

Alcuni scritti, tra cui i saggi sul Dramma della modernità e le varie riflessioni sulla crisi della civiltà italiana in relazione a quella protestante (dalla sua remota genesi sassone), furono raccolti nel volume L’Europa vivente. Teoria del sindacalismo nazionale (1922-23, con prefazione di Ardengo Soffici). Nel 1925 uscì nelle edizioni gobettiane Italia barbara, con una nota di Gobetti, anticipazione di Viaggio in inferno.

Nel 1924 fondò e diresse la rivista quindicinale La conquista dello Stato, che indicava fin dal titolo della testata un interesse peculiare per la materia ‘Stato’, per la sua costruzione e decostruzione, sia in fase di primario allestimento sia in fase di riconquista eversiva (Tecnica del colpo di StatoTecnique du coup d’État, uscito a Parigi nel 1931, si radicava specificamente in questa concezione e, pertanto, fu proibito in Italia e in Germania). Non vi è dubbio che in Tecnique Malaparte si volse al conterraneo Niccolò Machiavelli, e intese specchiarsi – lo si legge tra le righe dell’operetta – in un De principatibus, aggiornato all’era moderna e reinterpretato nel Novecento degli Stati nazionali.

La rivista La conquista dello Stato e l’opera Tecnica del colpo di Stato non furono gradite a Benito Mussolini, che temeva fossero messi in piazza le regole del disordine, la manualistica dell’eversione, anche e proprio in ragione dell’integralismo fascista cui Malaparte inneggiava, criticando un fascismo già gerarchizzato, un movimento inerte nelle cariche e nei privilegi di casta, che stava venendo meno alla sua primaria vocazione rivoluzionaria. Dal 1931 fu sottoposto a sorveglianza e controlli periodici da parte della polizia italiana e della Gestapo e fu, infine, espulso dal PNF con la motivazione di non aver «tenuto fede al giuramento prestato»; il 10 ottobre 1933, di ritorno in Italia per motivi familiari, fu arrestato e detenuto a Regina Coeli; quindi fu condotto nell’isola di Lipari fino al giugno del 1934 e fu in seguito trasferito, per l’intervento di Galeazzo Ciano, a Ischia e a Forte dei Marmi.

Aldo Borelli, allora direttore del Corriere della Sera, lo reclutò, pur senza firma o con il ricorso allo pseudonimo di Candido, per scrivere articoli di letteratura e di storia sulle colonne del giornale milanese; gli scritti giornalistici, insieme a riflessioni di carattere culturale, appunti in prosa e frammenti poetici risalenti al periodo di Lipari e di Regina Coeli, rifluirono in libri di racconti, tra cui Fughe in prigione, che uscì nel 1936.

Un telegramma di Mussolini, in data 11 giugno 1935, decretò la sua liberazione dal confino. L’annunciato matrimonio con Virginia Bourbon del Monte, principessa di San Faustino, vedova di Edoardo Agnelli, e madre di sette figli, previsto nel Duomo di Pisa il 10 ottobre 1936, venne letteralmente sventato da un intervento del senatore Giovanni Agnelli, il quale, mosso da ragioni d’ordine dinastico e politico, si dichiarò avverso alla relazione e tanto più all’ipotesi coniugale che avrebbe fatto di Malaparte il patrigno degli eredi di casa Fiat.

Nel 1937 si stabilì a Roma, dove visse di collaborazioni con giornali e riviste (Il MeridianoOmnibus) fino a quando il suo astro tornò a brillare grazie alla fondazione e alla direzione della rivista Prospettive (luglio 1937-maggio 1943), cui poi si affiancarono le edizioni di Prospettive («Malaparte Editore»), con due collane («Caratteri della letteratura moderna» e «Viaggiare bene in Italia»), gestite dal suo vice, e stretto collaboratore, Guglielmo Petroni, fine letterato lucchese, autore di Il mondo è una prigione.

Prospettive fu una delle testate più ricche e vitali dell’epoca, eclettica e moderna, per larghi tratti indifferente alla retorica fascista. Una rivista spontaneamente aperta alla Francia e alla cultura europea. Sono celebri alcuni suoi numeri monografici dedicati al surrealismo (Il surrealismo e l’Italia, gennaio 1940), all’esistenzialismo, all’ermetismo, alla critica letteraria, al romanzo e alla prosa d’arte, con singolari aperture vero lavori di traduzione (Paul Eluard, Friedrich Hölderlin, Federico Garcìa Lorca, Antonio Machado, James Joyce, John Donne, Ezra Pound, Rainer Maria Rilke).

Alla guida di Prospettive (AlbertoMoravia ne rilevò poi la direzione firmandosi Pseudo), il talentuoso e intraprendente Malaparte tornò ad avere un ruolo centrale, a svolgere le mansioni di regista della società letteraria. Fu il momento apicale della sua realizzazione professionale, come primus inter pares, in un sodalizio che includeva alcuni tra i personaggi più autorevoli della vita letteraria italiana (Corrado Alvaro, Luciano Anceschi, d’Annunzio, Moravia, Elsa Morante, Mario Luzi, Eugenio Montale, Aldo Palazzeschi, Giaime Pintor, Giuseppe Prezzolini, Umberto Saba, Alberto Savinio, Alberto Lattuada, Vittorio Sereni, Giorgio Vigolo, Elio Vittorini ecc.), oltre ad artisti di altissimo rilievo (Mino Maccari, Scipione, Giorgio De Chirico, Massimo Campigli, Renato Guttuso, Pablo Picasso).

Nel 1938 acquistò un lotto sull’isola di Capri (Punta Massullo) facendone una residenza leggendaria, un rifugio dorato ma impervio, scomodo quanto speciale, una dimora su un’isola imperiale (l’isola di Tiberio e delle sirene) che diventò anche un simbolo di esistenza inimitabile, il suo Vittoriale luminoso e marino. Molti anni dopo, nell’ottobre del 1945, in una dichiarazione inviata al Commissario per l’avocazione dei profitti di regime, Malaparte negò di aver mai lucrato sulla sua militanza, affermando di non avere percepito mai alcuna prebenda e di non essere mai stato uno squadrista («Non sono Marcia su Roma, né Sciarpa Littoria. Non sono neppure cavaliere della Corona d’Italia» (L. Martellini, Cronologia, in Opere scelte, 1997, p. LXXXVII).

Chiusa la parentesi fascista, in coincidenza anche con il suo licenziamento per decisione di Giovanni Agnelli dalla direzione della Stampa di Torino, nel gennaio 1931 Malaparte scelse la Francia (Juan Les Pins, Parigi, Antibes, Cannes), stringendo relazioni importanti (François Mauriac, George Bernanos, André Malraux, e su tutti Daniel Halévy, intimo amico e vitale punto di riferimento durante il soggiorno francese). Trasferendosi in Francia si lasciava alle spalle due libri, I custodi del disordine (Torino 1931) e Vita di Pizzo di Ferro detto Italo Balbo (Roma 1931), quest’ultimo firmato da Malaparte e da Enrico Falqui.

L’intellettuale Malaparte fu, alla radice, antidemocratico, nel solco dei suoi autori e maestri, da Giosue Carducci a D’Annunzio. L’anticrocianesimo si spiegava e risolveva in antiliberalismo, con l’odio conclamato per ogni ordine costituzionale, costruito su principi condivisi, su una quiete istituzionale, ritenuta ipocrita e antistorica, e non sull’avventura romantica dell’idea motrice di eventi (l’idealismo attualistico gentiliano, altro elemento fondamentale della sua formazione). La democrazia fu un disvalore nella nostra cultura. Le fu preferito uno Stato forte, magari per abbatterlo. L’intero Ottocento postunitario lo testimonia, anche nello spartito del Risorgimento incompiuto, tradito: una versione revanscista, questa, che arrivava fino alla Lotta politica. Origini della lotta attuale (476-1887) di Alfredo Oriani (Torino 1892). Senza prendere in considerazione questa voltura antidemocratica, endemica fra i nostri autori, tutti spregiatori delle forme basilari della rappresentanza democratica (a cominciare dal Parlamento, l’arena dei Moribondi nel romanzo di Ferdinando Petruccelli della Gattina), non si capirebbe la china storica del fascismo, primogenito della guerra ma anche di una tradizione intellettuale, elitaria e antiparlamentare. Il fascismo e le sue passioni tristi furono la somma della diffusa e antica pulsione antidemocratica, nonché della sfinita vacuità e impotenza delle classi dirigenti liberali.

Nel giugno 1940, richiamato alle armi come ufficiale di complemento e capitano del V Reggimento Alpini, Malaparte fu dapprima inviato sul fronte francese, nella fase della illusoria guerra-lampo; quindi, anche per i trascorsi di espulsione dal PNF, il suo ruolo fu quello di corrispondente di guerra per il Corriere della Sera.

Malaparte fu lo scrittore esemplare della seconda guerra mondiale (di quel conflitto il maggiore, e in absentia di ufficiali riconoscimenti) perché ne interpretò e mostrò in atto la policentrica dispersione, su fronti lontanissimi, dall’Africa all’Europa scandinava. E anche perché, per sua natura, seppe non arretrare di fronte alle atrocità di quella guerra.Malaparte fu artefice di una letteratura che anche nel nomadismo dell’inviato seppe cogliere la diversa qualità psicologica del conflitto, l’irriducibilità a uno schema o a un modello. Scrisse gli articoli che formarono Il sole è cieco, romanzo apparso a puntate su Tempo nel 1941, prima di essere trasferito, per interessamento di Ciano, sul fronte greco nel settembre 1940; poi dall’aprile 1941 il fronte orientale (Bulgaria, Jugoslavia, Romania); a Belgrado con le truppe tedesche il 17 aprile; il fronte russo fu descritto nel romanzo Kaputt e negli articoli che costituirono la prima parte del libro Il Volga nasce in Europa. L’11 gennaio 1942 si trasferì in Polonia, dove cominciò a stendere un diario, Giornale segreto. Nella seconda parte del Volga, uscito nell’agosto 1943, entrarono le corrispondenze dalla Lituania, Lettonia, Estonia, Finlandia, nelle trincee di fronte a Leningrado assediata dai nazisti. Materia che, rivista e romanzata, costituì Kaputt, pubblicato nel 1944. Se l’atrocità della guerra segna Kaputt, l’atrocità della pace nelle retrovie della guerra, nel periodo dell’occupazione italiana delle truppe alleate, contrassegna la Napoli di La pelle (1949). La pace dei vincitori, pietosa e clemente, portava la peste. Sull’alternanza peste/pelle, con la peste già accaparrata da Albert Camus (La peste, 1947), si giocò anche la scelta e la fortuna del titolo del romanzo.

Con La pelle si perfezionava il romanzo di Partenope, città pure amata ma stravolta nella rappresentazione che si sceglieva di darne. Emergeva il chiaroscuro della scrittura, s’innalzava oltre ogni limite d’uso il virtuosismo dello stile, fino a precipitare nella zona sconcia di un barocchismo che poté suonare come vilipendio. Dai fronti nordici e orientali alla retroguardia di Napoli, fra guerra e pace, guerra perduta e pace segnata dalla corruzione di un intero popolo. Kaputt La pelle immortalarono lo spirito di quel tempo efferato: il malore universale (la rovina) e l’ultimo baluardo, l’estrema soglia della sopravvivenza, l’ultimo valore per cui vivere, la vita nuda, l’ignuda pelle umana.

A Prato e alla Toscana Malaparte, figlio giramondo, si mantenne fedele, e il toscano, il ‘maledetto toscano’ fu la figura iconica impressa su tanta sua letteratura, fra sociologia e antropologia; a patto di non vivere in quella terra, di andarsene, sapendo che Prato, la ‘capitale degli stracci’, lo avrebbe riaccolto, lui stesso come uno straccio del secolo. Prato visse malapartianamente nella munificenza degli stracci, tra i residuati della storia. Il viaggio, l’esplorazione di luoghi e ambienti lontani, segnarono la vita di Malaparte, all’insegna della curiosità e dell’avventura, e furono il segno peculiare della sua professione di scrittore nomade e di eminente giornalista, insuperato prototipo di inviato speciale nelle guerre del secolo. Anche l’indro-montanellismo, vale a dire il giornalismo con licenza d’invenzione, nacque da una sua costola.

Quel Suckert dalle origini sassoni scelse di chiamarsi e di essere Curzio Malaparte: un nome sgradito e rigettato, a configurare un’identità controversa e radicalmente polemica. Non sono lecite di Suckert-Malaparte soltanto le interpretazioni esclusivamente letterarie, anche se fu letterato raffinatissimo, stilista virtuoso, narratore potente, scrittore smagliante, poeta a tempo perso, elzevirista elegante, polemista abilissimo; fu sostanzialmente uomo d’azione e alla fama dell’azione intese scientemente consacrare una parte dei suoi talenti.

Fu uno dei rari intellettuali capaci di rappresentare nei chiaroscuri un’intera epoca storica. Finché fu in vita, tenne su di sé acceso il riflettore dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Seguì, mai del tutto contrastato, un lungo oblio, una dimenticanza cui contribuirono risentimenti e pregiudizi. Ma nella ‘commedia dell’arte’ italiana quella di Curzio Suckert-Malaparte fu e resta una maschera immortale.

Morì a Roma di cancro il 19 luglio 1957.

La democrazia postbellica guardò a lui come a un curioso reperto d’altra epoca, da rimuovere più che da storicizzare, una ‘salamandra’ battezzata da tutti i fuochi di guerra e di conflitto ideologico (un Ernst Jünger italiano), la resultante di una complessa e ardita metamorfosi e delle innumerevoli contorsioni dovute alle fatali necessità di una storia drammatica, finita in tragedia. Un Ovidio del secolo italiano, finito sul Mar Nero della dimenticanza, poiché di fatto è ancora oggi uno scrittore emarginato. Imperdonabile.

Opere

Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, Secondo il testo della prima edizione 1921, a cura di M. Biondi, Firenze 1995; Opere scelte, a cura di L. Martellini, con una testimonianza di G. Vigorelli, Milano 1997; Coppi e Bartali, Milano 2009; Tecnica del colpo di Stato, Milano 2011; Il ballo al Kremlino (Materiale per un romanzo), a cura di R. Rodondi, Milano 2012; Kaputt, a cura di G. Pinotti, Milano 2009-14; La pelle, a cura di C. Guagni- G. Pinotti, Milano 2010-15; Maledetti toscani, Milano 2017; Il buonuomo Lenin, a cura di M. Bricchi, Milano 2018. Altri titoli significativi: Il compagno di viaggio, Milano 2010; Muss. Ritratto di un dittatore, Firenze 2017; Sangue, Milano 2017. L’ultimo titolo apparso in libreria: Viaggio in Etiopia e altri scritti africani, a cura di E.R. Laforgia, Firenze 2019.

Fonti e bibliografia

L’ingente e prezioso materiale dell’Archivio Malaparte, la cui sede è ubicata nella Biblioteca di Via Senato (Milano), è stato raccolto in dodici volumi intitolati Malaparte, curati dalla sorella dello scrittore, Edda Suckert Ronchi, editi dal Ponte alle Grazie (Firenze 1991-96). Il materiale archivistico, procurando agli studiosi un notevolissimo apporto documentario, ha consentito un rilancio, a livello accademico, degli studi malapartiani. Sul personaggio e lo scrittore si veda il classico volume di G. B. Guerri, L’Arcitaliano. Vita di Curzio Malaparte, Milano 1980. Salda pietra miliare della biografia il libro di M. Serra, Malaparte. Vite e leggende, Venezia 2012. Su Malaparte scrittore politico si veda G. Pardini, Malaparte. Biografia politica, Milano 1998; M. Biondi, Scrittori e miti totalitari. Malaparte Pratolini Silone, Firenze 2002. Sull’estetica v. G. Panella, L’estetica dello choc. La scrittura di Malaparte tra esperimenti narrativi e poesia, Firenze 2014. Infine L. Martellini, Le “Prospettive” di Malaparte, Napoli 2015; M. Biondi, Su Malaparte. Il guerriero filosofo; Una rassegna di studi sul Maledetto Toscano, in Id., Letteratura giornalismo commenti. Un diario di letture, Firenze 2018, pp. 423-439; F. Baldasso, Curzio Malaparte la letteratura crudele. “Kaputt”, “La pelle” e la caduta della civiltà europea, Roma 2019.

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