L'Africa subsahariana nel II millennio d.C.: repertorio alfabetico

Il Mondo dell'Archeologia (2005)

L'Africa subsahariana nel II millennio d.C.: repertorio alfabetico

Giovanna Antongini
Tito Spini
Zoe Crossland
Eric Huysecom
Alain Gallay
David W. Phillipson
Peter J. Mitchell
Andrea Manzo
Celeste Intartaglia
Rodolfo Fattovich
Samou Camara
Séverine Marchi

Agadez

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Città fortificata cinta da mura ubicata sulle pendici meridionali della catena dell'Air (Niger), a 500 m s.l.m. Luogo santo dell'Islam, da sempre è stata il crocevia delle piste provenienti dall'Algeria e dalla Libia e il collegamento trasversale tra Timbuctù e le popolazioni Hausa delle regioni orientali.

In un primo periodo, tra l'VIII e il IX secolo, giunsero su questo territorio gruppi berberi provenienti dai deserti di Bilma, che in seguito, tra l'XI e il XIV secolo, furono raggiunti da nuovi "emigranti bianchi": Tuareg Issadalen, Kel-Gress, Kel-Owey, Sandal, insieme ad altri gruppi originari dell'Hoggar. La storia della città è scritta dalle continue lotte tra i diversi popoli che la abitarono fino al XVI secolo, quando, con l'affermarsi del sultanato Tuareg di Yunus, si stabilì che il sovrano eletto fosse sempre di origine "nera" onde mantenere un equilibrio tra le fazioni rivali. Tale evento segnò l'inizio del potere di A. su tutta la regione. L'estensione della città, pari a 120 ha, era delimitata da una cinta di oltre 4 miglia, alta 3 m e dotata di 4 porte di accesso; la principale, a nord, immetteva direttamente alla moschea e al palazzo del sultano. Eretta nel 1449, nel 1500-1515 la moschea venne ampliata con l'integrazione a est di un oratorio, sede della maqṣūra (loggia dei califfi). Mediante questo inserimento segnico si affermava, anche spazialmente, il potere del sultano. Nel corso dei successivi ampliamenti il muro della qibla (orientato verso la Mecca) rimase l'asse di riferimento per lo sviluppo parallelo delle navate ottenendo così uno straordinario effetto prospettico e, insieme, la definizione di una netta scala gerarchica delle forme architettoniche.

Leone Africano così descrive la città quando vi giunge nel 1516: "Agadez è una città murata, edificata dai moderni re ne' confini di Libia, e questa città è quasi vicina alle città dei bianchi più che alcun'altra dei negri, trattone fuori Gualata. Le case sono benissimo edificate, a modo delle case di Barberia, percioché gli abitatori sono quasi tutti mercatanti forestieri, e pochi sono paesani, e quei pochi sono tutti o artigiani o soldati del re della detta città. Riceve il re gran rendita delle gabbelle che pagano le robbe dei forestieri, e anco di quello che nasce nel regno, ma paga di tributi al re di Tombutto circa cento e cinquantamila ducati". Nella cronaca di Leone Africano non vi è accenno al minareto e poiché è improbabile che un elemento di tale importanza per forma e dimensioni possa essergli sfuggito, è possibile che la sua costruzione sia avvenuta in tempi più tardi, ossia dopo il 1516, secondo l'ipotesi di H.T. Norris confermata dagli studi di A. Adamou, che attesta l'arrivo ad A. nel 1520 dell'architetto costruttore Zakariya Abdullah, proveniente dalle oasi del Sud algerino che qui trasportò i modelli delle moschee dello M'Zab.

Il minareto, alto 27 m, venne eretto di fronte alla porta nord; la data della sua costruzione riveste particolare importanza per la conoscenza dei caratteri architettonici dell'area subsahariana. Se si avvalora la tesi esito delle ricerche condotte da P. Cressier e S. Bernus negli anni Ottanta del Novecento, fondata sulle documentazioni dei due Tarīḫ e sui precedenti lavori effettuati nel 1950 da R. Mauny, il minareto di A. sarebbe da considerarsi il modello di riferimento per quelli delle celebri moschee di Timbuctù e Gao e per la tomba-mausoleo degli Askia (monumenti ricostruiti tra il 1570 e il 1591). Nel disegno originario, l'oratorio della moschea di A. copriva una superficie di 390 m2, testimonianza del crescente sviluppo del sultanato che, nonostante le continue lotte interne di potere, si affermò come uno dei nodi più importanti del commercio carovaniero. Nel 1850 il geografo tedesco H. Barth visitò A. e ne disegnò una mappa schematica da cui risulta che la moschea si estendeva per 10.000 m2, occupando con il palazzo reale l'intera area nord di accesso alla città; tuttavia, il resto gli appare in netto degrado, un declino che sarà definitivo dopo l'attacco dei cannoni dell'esercito francese. Oggi un'aura mitico-storica continua a circondare A., ma il suo futuro è ormai affidato alla presenza dell'uranio nella vicina zona di Arlit.

Bibliografia

Y. Urvoy, Chroniques d'Agadès, in JSocAfr, 4 (1934), pp. 144-77; R. Mauny, Tableau géographique de l'Ouest africain au Moyen Age, d'après les sources écrites, la tradition orale et l'archéologie, Dakar 1961; H.T. Norris, The Touareghs. Their Islamic Legacy and its Diffusion in the Sahel, London 1975; G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi (ed. M. Milanesi), I, Torino 1978; A. Amadou, Agadès et sa région, in Études Nigériennes, 44 (1979); P. Cressier - S. Bernus, La grande mosquée d'Agadès, in Journal des Africanistes, 54, 1 (1984), pp. 3-39.

Andaro

di Zoe Crossland

Importante sito archeologico Manda cinto da mura, ubicato nella regione dell'Androy (Madagascar) e datato tra il X e il XIII sec. d.C. Come altri siti affini dell'area, esso è localizzato nel tratto superiore di un importante corso d'acqua.

Il sito è composto da due vasti recinti ubicati su entrambe le rive del fiume Volovolo (un tributario del Manambovo), coprendo un'estensione totale di 21 ha. Le mura che lo circondano vennero costruite con blocchi di quarzo e sembrano avere sostituito una palizzata di epoca più antica. Come M. Parker Pearson ha rilevato, sebbene tali mura dovessero essere di forte impatto visivo per i visitatori che viaggiavano lungo il corso del Volovolo, la loro funzione difensiva era limitata in quanto A., come molti altri siti Manda di epoca coeva, è ubicato su una lieve altura in prossimità del fiume, sovrastata da vicini pianori, in modo tale da essere facilmente esposto a eventuali attacchi. Parker Pearson ha inoltre notato che le evidenze di fossati associati alle mura di pietra sono scarse. Il quarzo potrebbe avere avuto un significato particolare per i gruppi che risiedevano ad A. e certamente esso era altamente ricercato dai mercanti arabi. Le vestigia delle abitazioni scavate hanno pianta rettangolare e sembrano essere state costruite con materiali vegetali relativamente deperibili. Una significativa quantità di vetro e ceramiche di importazione, soprattutto la tipologia sgraffiata proveniente dal Golfo Arabico, è stata raccolta in superficie nel sito, a differenza di quanto attestano i siti Manda di dimensioni minori e i piccoli siti all'aperto come Talaky, in cui non sono stati rinvenuti materiali importati. Ciotole decorate con ingobbio rosso sono state recuperate soltanto nei siti più vasti, come A. Le ricerche condotte in questo sito hanno incrementato la conoscenza della rete dei commerci esterni della regione dell'Androy, che precedentemente erano stati ritenuti limitati sia per scopo che per estensione. Parker Pearson ha avanzato l'ipotesi che il commercio possa essere stato controllato da centri visibili e ben segnalati, come A., e che esso potrebbe essere messo in relazione con feste collettive e con altre attività associate.

Bibliografia

M. Parker Pearson et al., A Thousand Years of Solitude. The Archaeology of Isolation and Change in Southern Madagascar, Nairobi, in c.s.

Ankadivory

di Zoe Crossland

Sito archeologico ubicato nell'Imerina centrale (Madagascar); occupato per la prima volta nel XIII sec. d.C., esso costituisce a tutt'oggi il più vasto sito conosciuto di questa regione.

A. misura un'estensione di meno di 2 ha ed è localizzato su una lieve altura che sovrasta una piccola valle con risorse idriche facilmente accessibili. Gli scavi condotti da S. Rakotovololona nel sito hanno svolto un importante ruolo per una migliore comprensione del più antico insediamento dell'altopiano centrale del Madagascar. Ubicato 20 km a nord di Antananarivo, A. fu identificato per la prima volta durante una ricognizione sistematica condotta da H. Wright e S. Kus. A differenza delle migliaia di recinti ben demarcati e dotati di fossati che sono stati identificati in varie località delle regioni montuose, ad A. le ricognizioni e le fotografie aree di A. Mille non hanno consentito di distinguere con chiarezza la presenza di fossati. Come in tutti i siti risalenti alle fasi di occupazione più antiche dell'altopiano, non esistono tradizioni orali associate ad A. e dunque di esso non si è conservata alcuna traccia nella memoria storica.

Gli scavi condotti ad A. hanno consentito di rilevare che esistevano nel sito fossati poco profondi che delimitavano parzialmente un'area abitativa a pianta ovale, dove fori di palo attestano strutture domestiche costruite con materiali vegetali, simili a quelle che sono state identificate nelle regioni costiere. Giare globulari prive di collo e semplici ciotole aperte con bassi piedi, entrambe con impressioni triangolari sotto l'orlo, caratterizzano il complesso ceramico. Alcune ciotole hanno piedi a sezione quadrangolare o rettangolare, simili a quelli che compaiono sui vasi di cloritoscisto recuperati nelle regioni costiere. È stata inoltre riportata alla luce una piccola quantità di ceramiche islamiche e di perle importate. La presenza di oggetti di metallo, tra cui una lama di ferro, e di scorie di ferro dimostra che i gruppi dell'altopiano in questo periodo lavoravano e utilizzavano i metalli. I fossati localizzati nel lato settentrionale del sito contenevano argilla incombusta, forse associata con la produzione ceramica. Nei complessi faunistici predominano resti di bovini macellati. Rakotovololona ha formulato l'ipotesi secondo cui i fossati poco profondi presenti ad A. potrebbero essere stati utilizzati per controllare il bestiame.

Bibliografia

S. Rakotovololona, Premiers résultats de la fouille d'Ankadivory, in Urban Origins in Eastern Africa: Working Papers 1989, Stockholm 1990; Id., Ankadivory et la période Fiekena. Début d'urbanisation sur les Hautes Terres Centrales (Madagascar), in Données archéologiques sur l'origine des villes à Madagascar, Antananarivo 1993.

Ankatso

di Zoe Crossland

Sito archeologico ubicato 1 km a est di Antananarivo (Imerina centrale, Madagascar). Indagato per la prima volta da A. Mille nel 1971, esso sorge su un crinale montuoso che viene citato nelle tradizioni orali come la patria dei Vazimba, gli antichi abitanti dell'Imerina prima dell'arrivo dei Merina.

All'estremità meridionale del crinale vennero aperte trincee e i risultati di tali scavi vennero successivamente utilizzati per definire e caratterizzare la fase ceramica Ankatso dell'Imerina centrale, che viene approssimativamente datata tra il XV e il XVI sec. d.C. attraverso la comparazione con materiali datati radiometricamente provenienti dal sito di Antsetsindrano, ubicato in una regione molto più meridionale. La ceramica recuperata ad A. appare frequentemente decorata con grafite e con complessi disegni incisi e impressi, che si concentrano sulle pareti e sulle basi-piedistallo di ciotole e sulla spalla di giare globulari. Si possiedono scarsi dati sulle modalità residenziali di A. e di altri siti di epoca coeva. Focolari di pietre furono identificati nel corso degli scavi di Mille, ma non venne rinvenuta alcuna altra evidenza di strutture abitative. Fu riportata alla luce una grande quantità di ossa di bovini e, in percentuale minore, di pecore, capre e pollame. Non disponendo di dati provenienti da complessi botanici, risulta arduo chiarire le modalità attraverso cui lo spostamento verso le regioni montuose produsse mutamenti nelle pratiche di sussistenza. L'assenza di informazioni sulle pratiche funerarie e sulle sepolture costituisce anch'essa un ostacolo alla comprensione dei mutamenti verificatisi durante la fase Ankatso. Le scorie di ferro rinvenute ad A. sembrano documentare la lavorazione dei metalli; un frammento in lega di rame rinvenuto è stato interpretato come un ornamento personale. Utensili di osso potrebbero essere stati impiegati per la produzione di cesti.

Bibliografia

A. Mille, Anciens horizons d'Ankatso, in Taloha, 4 (1971), pp. 117-26.

Antsoheribory

di Zoe Crossland

Città localizzata su un'isola della baia di Boeny, sulla costa nord-occidentale del Madagascar; fu un importante porto islamizzato a partire dalle fasi finali del XVI sec. d.C. fino agli inizi del XVIII sec. d.C.

Nota con il nome di Boeny e più tardi con quello di New Masselage, essa venne descritta da numerosi viaggiatori europei come un centro di approvvigionamento di vasellame, dove il bestiame allevato in loco, riso e frutta erano scambiati con perle, metalli, stoffe, vetro e ceramica. A partire dalla fine del XVII sec. d.C. lo scambio di schiavi con armi da fuoco divenne un elemento-chiave delle transazioni commerciali. L'isola in cui la città sorge è di piccole dimensioni, con un'ampiezza di solo 0,5 km e una lunghezza di 2,5 km; la gran parte delle abitazioni sembra essere stata concentrata sul terreno più eleva-

to che si estende per oltre 20 ha a nord e a est, dove è stata rinvenuta la maggioranza dei resti archeologici. Le vestigia di una semplice moschea di pietra delle dimensioni di circa 14 × 9 m furono parzialmente scavate da P. Vérin. Sul lato settentrionale di tale struttura si trovava un'estensione di 2 m, presumibilmente un miḥrāb (nicchia di preghiera), mentre una probabile entrata fu identificata nel muro orientale, dotata all'esterno di una pietra utilizzata per pulirsi i piedi. Appare verosimile che tale struttura corrisponda alla moschea citata da visitatori europei nel 1617. Vérin condusse ricerche anche in due adiacenti strutture di pietra, probabilmente abitazioni, che occupavano entrambe un'area di 12 × 4 m e che possedevano porte sul lato settentrionale. Una di esse presentava una partizione interna e nicchie ornamentali anch'esse all'interno ed era localmente nota come la "casa del sultano". La maggioranza del vasellame importato, comprendente anche materiali provenienti dalla Cina, dal Golfo e dal Portogallo, venne rinvenuta in associazione a queste strutture. In altri settori del sito la presenza di terrapieni e di depositi di rifiuti consente di ipotizzare che la gran parte della popolazione vivesse in abitazioni realizzate con materiali vegetali. Conchiglie, pesci e ossa di bestiame sono i resti animali più comunemente documentati nei complessi faunistici scavati. Pipe di importazione e di fabbricazione locale e pietre focaie sono anch'essi presenti.

Gruppi di ampie e imponenti tombe di muratura circondano l'area dell'abitazione centrale; la tradizione orale pone alcune di esse in relazione con importanti capi della città. Tali strutture sono a pianta rettangolare e in alcuni casi possono raggiungere un'altezza di oltre 3 m. Due tombe possedevano tetti a cupola, e in senso generale le più antiche tombe in muratura sono decorate da pannelli realizzati a stampo e in alcuni casi presentano ingressi realizzati con corallo. Sono state inoltre identificate sepolture semplici, segnalate solo da una stele o da pietre a secco.

Bibliografia

P. Vérin, The History of Civilisation in North Madagascar, Rotterdam 1986; H.T. Wright et al., Evolution of Settlement Systems in the Bay of Boeny and the Mahavavy River Valley, Northwestern Madagascar, in Azania, 31 (1996), pp. 37-73.

Awdaghost (tegdaghost)

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Capitale del regno di Ghast e, in seguito, una delle maggiori città e centro commerciale dell'impero del Ghana (Mauritania).

Le popolazioni Lamtouma e Sanhadia, facenti parte della federazione berbera, già dal V sec. d.C. presidiavano le rotte del traffico carovaniero che collegava Sigilmasa in Marocco con il Bilad al-Sudan, il Paese dei Neri. Per il commercio trans-sahariano, in continua espansione, era essenziale fissare una tappa di controllo e verifica del carico in una zona scevra dai pericoli presenti sulle piste che attraversavano il deserto e, insieme, prossima alle aree aurifere dell'impero del Ghana. La scelta della regione di Hodh, nel Sud della Mauritania, risulta determinante per un insieme di motivi di ordine geografico, economico e strategico. In quel periodo vigeva un riconoscimento politico che stabiliva un limite territoriale convenzionale, rispettato dai nomadi berberi e dagli agricoltori sedentari neri: la regione di Hodh, terra di elezione dei nomadi saheliani per la ricchezza dei pascoli e terra di residenza dei coltivatori meridionali. Sito naturale, facile da sorvegliare e difendere, chiuso a nord e a est dalle falesie del Tagant e dal dhar di Tichitt e di Walata, a sud, territorio aperto oltre il largo corridoio di Taskass, divenne un rilevante nodo economico dove pascoli e terreni agricoli, tradizionalmente complementari, entravano in contatto con le rotte dell'oro e del sale.

Nell'VIII secolo qui venne fondata A., che nel 960, durante il regno berbero di Tin Yerouta, divenne capitale del regno di Ghast: una città di 5000 abitanti. Scrive il geografo al-Bakri (1068): "Più di venti re del Sudan sono assoggettati a Tin Yerouta e a lui pagano tributi, lo stato si estende per due mesi di marcia a piedi e il suo esercito conta 100.000 cammelli di razza". Già nel 988 lo storico Ibn Hawqal descriveva la città sovrastata dalla falesia di Tagant: "Awdaghost, una città splendida, di tutte le città di Dio è quella che più assomiglia alla Mecca, è situata tra due montagne e profonde vallate". A. era il punto strategico di grandi interessi economici e centro di smistamento delle merci verso Kairouan, Tadmekka e Ghadames; essa si trovava a distanza di soli 15 giorni a dorso di cammello dall'impero del Ghana, con il quale mantenne rapporti di scambio di merci e uomini sino al 999, quando l'armata di Tounka, imperatore del Ghana, invase e conquistò la città, che si spopolò e divenne solo un intermediario dei commerci diretti al Ghana. L'esercito almoravide, impegnato nel ǧihād (guerra santa) volto all'islamizzazione dei popoli a sud del Sahara, nel 1054 attaccò e distrusse A. Il decadimento del nucleo abitato, l'abbandono delle attività, il conseguente tracollo dell'economia urbana e i lunghi periodi di siccità che inaridirono i pozzi segnarono il declino della città, che si sarebbe trascinata in una debole economia rurale sino al XIV-XV secolo.

Ogni traccia di questa grande città scomparve, in un'alternanza di occupazioni e abbandoni, sotto gli strati di sabbia provenienti dalle zone desertiche orientali: dimenticata dai nomadi che scelsero altre rotte ricche di pozzi, ignorata dalle cronache, rimossa dalle tradizioni orali. Il suo stesso nome non viene più citato. Mentre gli antichi autori arabi si erano sempre riferiti a essa come "Awdaghost, capitale del regno di Ghast", nel XV-XVI secolo gli abitanti della zona la indicano come Tegdaghost, denominazione che il linguista L. Galand giudicherà del tutto arbitraria perché non sostenuta da alcun riferimento storico o geografico. Tuttavia, in lingua berbera, ambedue i toponimi sono in rapporto con il verbo "purificare": A. significherebbe "è pura", mentre Tegdaghost "è stata purificata". La questione dell'identificazione e della localizzazione dell'antica città è stata dibattuta a lungo. Nel 1913 M. Delafosse, rilevati alcuni reperti archeologici affiorati nei pressi dell'attuale Kiffa (nella regione di Hodh), sostenne la loro appartenenza a Tegdaghost. Nel 1923 J. Vidal, D. d'Empeaux e P. Laforge affermarono che i materiali ritrovati negli scavi di Togba appartenevano all'antica città berbera; nel 1927 il sottotenente P. Boery, a seguito di approfondite ricerche in situ e alla raccolta di tradizioni orali effettuate nell'area ai piedi della falesia di Tagant, portò alla luce allineamenti di murature, materiale fittile e oggetti lavorati di metallo (oro e rame) riferibili per tipologia e datazione alla cultura di Tegdaghost, ipotesi confermata nel 1949 dai lavori di R. Mauny. Tra il 1960 e il 1976 la campagna di scavo condotta da J. Devisse, D. Robert e S. Robert, nel quadro di ricerche promosse dall'Università di Dakar, rivelò il complesso di un sistema-città che corrispondeva alle descrizioni delle antiche cronache arabe, confermando che "Teghdagost è Awdaghost". La struttura urbanistica generale evidenzia l'organizzazione politica che ha determinato la definizione gerarchica dei quartieri: nucleo degli edifici religiosi, assetto compatto dei laboratori artigianali, zone abitative a rapida mutazione di tipologie, tracciato viario che disegna con chiarezza le diverse funzioni del territorio.

L'insieme dell'insediamento urbano oggi visibile copre oltre 12 ha e include le varie integrazioni realizzate tra l'VIII e il XIV secolo. In collaborazione con l'Istituto Mauritano della Ricerca Scientifica sono state condotte otto campagne di scavo essenzialmente mirate alla datazione delle diverse fasi di occupazione del sito. Le rovine affioranti, modeste abitazioni di gruppi seminomadi che si insediarono sui resti delle antiche costruzioni di pietra e terra, sono state identificate come le ultime sporadiche presenze sul luogo posteriori al XVI secolo. Oggetto di analisi approfondite è stato uno dei quartieri orientali, situato ai piedi delle falesie e composto da 3 isolati urbani che coprono un'area di 3500 m2, suddivisi in 13 unità servite da una rete viaria con strade dal calibro variante da 2 a 4 m. Lo studio delle fasi di insediamento ha riguardato un'unità di residenza di 28 × 25 m, procedendo alla sua rilevazione stratigrafica dalla quota di 3,5 m e ricavandone una serie di datazioni.

Nella fase I (600-1020 d.C.) l'area, non delimitata da muri o elementi di recinzione, viene qualificata come preurbana; sono presenti focolari, ceneri e mole di pietra arrotondate. In questo livello sono state raccolte ceramiche con disegni a triangolo alternati a motivi a rilievo e incisi. Durante la fase II (700-1050 d.C.) iniziarono a essere edificate strutture con muri di pietra che recingevano l'area, con porzioni interne di muri di argilla che definivano due spazi di abitazione e un deposito-granaio. Sono presenti alcune grandi giare infossate nella sabbia ocra del suolo, oltre a perle di vetro di tipo mediterraneo e frammenti di grandi conchiglie Cymbium. Nella fase III (920-1250 d.C.) si registra un incremento della costruzione di muri di pietra. Si rileva una definizione articolata degli spazi interni: stanze, depositi, corridoi e gallerie coperte, latrine. Lo spazio di maggiori dimensioni è occupato da un cortile, luogo di attività collettive e di lavorazione dei metalli, al cui centro è scavato il pozzo. È stata rilevata la presenza di recipienti sferici di terracotta decorati con linee puntiformi, oggetti e frammenti di rame lavorati in situ, biglie di vetro usate per la caccia agli uccelli, scorie di forgia, vetri di colore verde, nero e giallo; sono state individuate molte tracce di fosse scavate nel terreno con pareti vetrificate utilizzate per la fusione dei metalli. Nel corso della fase IV (1040-1300) nell'edificio venne realizzato un piano superiore, cui si accedeva mediante una scala elicoidale di pietra. Descrivendo la città nel 1068, al-Bakri specificava: "Ci sono case costruite di pietra, la città ospita costruzioni ben fatte e dimore eleganti". In quel periodo la presenza di numerosi commercianti stranieri comportò l'adozione di modelli architettonici del Maghreb e dell'Andalusia; gli accessi diretti dalla strada furono sostituiti da un dedalo di passaggi coperti su cui affacciavano le stanze con caratteri distributivi simili agli ksar della vallata di Draa in Marocco. Gli abitanti, in questa fase, conducevano un genere di vita molto diverso da quello dei predecessori; vi erano maggior spazio disponibile per depositi (stoccaggio di merci?) e luoghi separati per le riserve di viveri.

Durante la fase V (1050-1350) l'utilizzo del pilastro come struttura portante in alternativa alla continuità della muratura (già rilevato nella fase precedente) assunse un particolare valore estetico nella lettura prospettica degli spazi interni. Aumentarono le dimensioni di porte e finestre, dotate di serramenti di legno che si aprivano all'esterno contro i muri per agevolare il passaggio verso i luoghi destinati a laboratori. A difesa dall'acqua e dalla sabbia che invadevano le strade (nella fase precedente, le grandi piogge e le tempeste di sabbia avevano distrutto alcune abitazioni) vennero realizzati canali di deflusso delle acque con pietre scavate e sigillate e furono poste grandi lastre di pietra lavorata sui limiti delle strade e dei cortili. Dalla sabbia del suolo sono affiorati collane di conchiglie, perle di cuprite, discoidi di rame, lampade a olio di ceramica colorata, elementi di acconciature di rame, gusci di uova di struzzo e fusaiole per la tessitura. Nella fase VI (1270-1470) proseguì il declino della città ed era inoltre in corso un processo di desertificazione alternato da periodi di grandi piogge che aggravarono lo stato delle strutture di pietra e dei manufatti di legno. In mezzo ai detriti si rileva l'installazione di tende e ripari provvisori di stuoie rette da pali di legno. La stratigrafia del nucleo abitativo preso a campione evidenzia il crollo delle strutture portanti, l'abbandono dei materiali o la loro rimozione, che lasciarono libere vaste aree prima occupate in cui i soli reperti ritrovati sono focolari sparsi senza alcuna traccia di oggetti di importazione a testimonianza di una produzione artigianale di autoconsumo e non più destinata all'esportazione. L'esclusione dal circuito commerciale, le continue razzie e i saccheggi accelerarono l'esodo degli abitanti. In merito alla fase VII (1300-1496), solo dopo il 1300, periodo in cui si affermò l'impero del Mali, la situazione politica tornò a una relativa stabilità; le popolazioni Tegdaghost occuparono la zona e ricostruirono parte delle abitazioni riutilizzando i materiali abbandonati ma sembra ignorassero stili e tecniche precedenti. Agricoltori e commercianti, essi rinnovarono l'esperienza di lavoratori immigrati, riprendendo contatto con le saline di Gil a nord e trasportando le barre di sale verso il Senegal per caricare al ritorno cotone e cereali. Tegdaghost si sovrappose all'antica A. sino alla fine del XV secolo, quando il definitivo inaridimento dei pozzi costrinse ad abbandonare il luogo. Sull'area dell'ultima fase analizzata restano pochi cumuli di cenere e alcune macine di pietra datate al 1412-1495.

Questa "stazione archeologica" costituisce un importante esempio della ricerca in Africa, impegnando, oltre ad archeologi, esperti di vari settori: etnologi, antropologi, studiosi di scienze naturali e delle tradizioni orali. L'esito finale è stato la lettura spaziale dell'intero complesso urbano, un attendibile indice di datazione e la raccolta di circa 2000 oggetti (in gran parte depositati al Museo Nazionale di Nouakchott), oltre alla conferma di A. come centro culturale e commerciale di dimensione internazionale sin dall'inizio del I millennio d.C. Tra i più importanti reperti portati alla luce dall'indagine vi sono preziosi boccali di vetro lavorato provenienti dall'Egitto, barbazzali d'argento di area marocchina, pesi marchiati di vetro di lavorazione fatimide, ceramiche con decorazioni bianche della Nubia, bracciali d'oro del Bambouk-Galam e gioielli d'argento con agate e granate di provenienza yemenita.

Bibliografia

R. Mauny, Les ruines de Tegdaoust et la question d'Aoudaghost, in Notes Africaines, 47 (1950); D. Robert - S. Robert - J. Devisse, Tegdaoust, I. Recherches sur Aoudaghost, Paris 1970; J. Polet, Tegdaoust, IV. Fouille d'un quartier de Tegdaoust (Mauritanie Orientale). Urbanisation, architecture, utilisation de l'espace construit, Paris 1985; D. Robert-Chaleix, Tegdaoust, V. Une concession médiévale à Tegdaoust: implantation, évolution d'une unité d'habitation, Paris 1989.

Ayawaso

di Eric Huysecom

Capitale della comunità politica denominata Greater Accra per poco più di un secolo (dalla metà del XVI sec. al 1677), A. (o Ayaso) si trova circa 10 km a nord dell'attuale città di Accra (Ghana). L'ambiente è quello caratteristico della pianura costiera: una savana arborea con palme da olio (Elaeis guineensis) e pascoli per il bestiame. Il sito fu scavato da R.B. Nunoo (1956), S. Owusu (1957), P. Ozanne (1962) e J. Anquandah (1979).

Prima del XVI secolo i popoli di lingua Ga, a tutt'oggi di origine ignota, occupavano i giacimenti auriferi dei bacini dei fiumi Nsaki e Densu, sfruttando in maniera intensiva il metallo per venderlo ai commercianti europei stanziati sulla costa. I Portoghesi avevano infatti iniziato nel 1550 le loro attività commerciali nella regione di Accra e nel 1557, come riferito dall'inglese W. Towerson, i mercanti britannici intrapresero un fruttuoso commercio dell'oro con questa regione. In seguito alla crescente domanda europea di quantità maggiori di oro di migliore qualità, i Ga, avendo valutato che i vicini gruppi Akan producevano oro molto più puro, interruppero le attività estrattive per dedicarsi unicamente al commercio. È per questo motivo che nel corso del XVI secolo il re Ayite della dinastia Asere scelse di insediare la capitale Ga ad A., più vicina alle regioni produttrici di oro a sud dell'area Akan. Gli scambi con le città del Nord-Est, quali Abiriw e Dawu nella regione di Akwapem, venivano effettuati probabilmente attraverso il fiume Nsaki. Nel XVII secolo i Ga di A. conobbero un importante sviluppo commerciale e intensificarono i loro rapporti non solo con Olandesi e Inglesi, ma anche con Svedesi, Tedeschi, Danesi e Francesi. Da un lato scambiavano con gli Europei l'oro Akan, gli schiavi e l'avorio per ottenere armi da fuoco, tessuti, metallo, perle e alcool, dall'altro vendevano agli Akan i prodotti di provenienza europea (pesce secco, sale, cereali) in cambio non solo dell'oro, ma anche di prodotti alimentari e di bestiame. Nel 1697 un commerciante danese, E. Tilleman, descrisse dettagliatamente questo fiorente commercio della regione di A. e il ruolo dei Ga.

La città di A. si estendeva per oltre 1,5 km lungo la sponda orientale del fiume Nsaki, come risulta dai numerosi tumuli di abitazioni delimitati da grandi depositi di rifiuti. Il più grande, che oggi misura 20 m di diametro e 2,5 m di altezza, fu scavato da Owusu, Ozanne e Anquandah. Si osservano sulla sua superficie numerosi frammenti di ceramica e scorie di ferro, insieme a piccoli pilastri di pietra che potrebbero avere costituito le fondazioni di un abitato in terra cruda. Lo scavo di Anquandah, una trincea di 10 × 2 m con una profondità di 2,5 m, ha identificato cinque livelli stratigrafici. Tranne che nel livello più antico e in quello più recente, gli archeologi hanno rinvenuto numerosi reperti legati all'attività metallurgica, provenienti probabilmente da un quartiere di artigiani specializzati: frammenti di pareti di forni, cumuli di scorie e oggetti di ferro lavorati. Era praticata anche la lavorazione del rame e dell'ottone, come indicano i crogioli di argilla utilizzati probabilmente per la rifusione del metallo di importazione europea al fine di ottenere, con la tecnica della cera persa, i numerosi braccialetti e orecchini trovati negli scavi.

Per quanto riguarda la ceramica, si possono distinguere due gruppi: il gruppo 1 (metà XVI sec.) presenta vasi rivestiti di ematite, con profilo regolare e fondo sferico; il gruppo 2 (XVII sec.) comprende soprattutto recipienti invetriati dal profilo geometrico, spesso con piedistallo circolare e piede ad anello. Caratteristici sono i motivi applicati in rilievo che rappresentano serpenti e piante. Nei due livelli superiori sono stati portati alla luce numerosi oggetti di importazione europea, quali perle vitree, ceramica, un piatto dell'Assia degli inizi del XVII secolo e un gres blu renano della metà del XVII secolo; nell'ultimo livello sono state rinvenute le prime pipe di argilla di fabbricazione locale. Si tratta di copie fedeli delle pipe di radica europee; Ozanne ha avanzato l'ipotesi che le pipe africane siano posteriori all'importazione del tabacco dal continente americano. I lavori di Anquandah hanno rivelato la diversità delle fonti di sussistenza: una grande varietà di conchiglie di acqua dolce (11 tipi diversi), numerose ossa di animali domestici (Bovidi, Capridi, galli) e selvatici, noci di Elaeis guineensis. La coltivazione del miglio è testimoniata dalla tradizione orale: i primi antenati Ga l'avrebbero appresa nella regione a nord o a nord-est della pianura di Accra; è da notare che oggi il miglio selvatico non si trova più in quest'ultima regione.

Bibliografia

P. Ozanne, Notes on the Early Historical Archaeology of Accra. The Chronological Basis, in TransactHistSocGhana, 6 (1962), pp. 53-70; J. Anquandah, Accra Plains Archaeological and Historical Project, in Nyame Akuma, 15 (1979), pp. 18-20; Id., Rediscovering Ghana's Past, Accra 1982, pp. 5-134.

Azelik (takkeda)

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Sito archeologico (la Takkeda delle antiche cronache) ubicato a nord-ovest di Agadez (Mali), città il cui sultanato a partire dal XVI secolo assunse il dominio di un territorio che si estende da Arlit, a nord, sino a In Gall, 300 km a sud.

Il sito di A. è una vasta area archeologica che include Teguidda-n-Tecum ("la fonte salata"), Teguidda-n-Taguei ("la fonte dalle palme a candelabro") e Teguidda-n-Adrar (nella lingua dei Tuareg il termine tagidda significa "cavità", "bacino"); qui giunse nel 1353 Ibn Battuta nel corso del suo viaggio verso il Marocco: "Le case di Takkeda sono costruite di terra rossa, l'acqua scorre attraverso le miniere di rame (...). La miniera di rame è fuori dall'abitato, la gente scava il suolo per trovare il minerale che trasporta in città; lo fondono nelle loro case, è il lavoro degli schiavi dei due sessi. Ottenuto il rame rosso, ne ricavano verghe di una spanna e mezza, sottili o spesse che vendono a un miṯqal d'oro per 400 pezzi (il prezzo di un cammello è di 35 miṯqal)". Il comprensorio di A., un'area di 2400 ha, nel XIV-XV secolo, al tempo della maggiore espansione della popolazione formata da gruppi Inusufa e Imesdgharen (gli attuali Isawaghen), si articolava attorno a tre insediamenti nelle zone nord-ovest, est e sud-est che presidiavano le molteplici attività comunitarie. Dieci fonti d'acqua salmastra erano il punto di incontro dei pastori nomadi che vi confluivano con le mandrie di bovini e cammelli per la tradizionale "cura salata"; quattro fonti, lontane dai quartieri abitati, alimentavano le unità di produzione delle numerose saline. Grandi estensioni di terre erano coltivate a sorgo e grano, e 100 ha di palmeti occupavano i margini degli anticlinali del Guélélé.

Lungo tutta la faglia, che si estende per circa 10 km dal nord di A. in direzione sud-ovest, i giacimenti di cuprite, tenorite, malachite, azurite e calcopirite sono ancora oggi segnati dalla presenza di migliaia di cupole di gres usate per la frantumazione del minerale e l'estrazione del rame. Già dall'XI secolo le miniere di Takkeda furono il centro di produzione e distribuzione del rame per l'intera area subsahariana. Nucleo forte di interessi convergenti, qui affluirono dal Maghreb eruditi, religiosi, celebri giureconsulti; il commercio carovaniero diretto al Bornu e al Cairo percorse questa rotta preferenziale; scambi economici e alleanze politiche con le grandi città Hausa ne consolidarono e accrebbero il potere. Un'egemonia che avrebbe dovuto tuttavia confrontarsi con la vicina Agadez quando le tribù Tuareg-Santal, fuse in un patto federativo, fecero di questa città fortificata il grande sultanato dell'Air: lo scontro sarebbe stato inevitabile. Nel 1561 la cavalleria di Agadez invase e distrusse A., chiamata allora Takkeda, e nel 1908, quando vi giunse M.-A. Cortier, capitano dell'esercito francese inviato in missione di ricerca sulla preistoria sahariana, egli si trovò di fronte a resti affioranti di muri di pietra, tumuli emergenti, distese di pietre da macina, cupole, recinzioni di pozzi abbandonati e a un insieme di nove aree cimiteriali. Nel 1936 lo storico Y. Urvoy procedette a un'indagine sulle tradizioni orali al fine di stabilire una cronologia dell'uso delle saline che, malgrado l'abbandono dei luoghi dopo la distruzione, continuò sino al XIX secolo. Nello stesso periodo il comandante francese della regione di Agadez, G. Bruin, diede corso a una serie di sondaggi sui giacimenti di rame localizzandoli in alcuni punti della faglia di A.

Tra il 1951 e il 1961 R. Mauny effettuò il rilievo del quadro geografico dell'intera zona delle pianure di Talak e di Ighazer; infine, nel 1973-75, S. Bernus e P. Gouletquer diedero inizio a una complessa ricerca etnoarcheologica nella regione di A. I materiali di scavo sono rappresentati da campioni di carboni minerali e da scorie che, sottoposti all'analisi spettrografica, sono stati datati al 2040±90 B.P., ossia al 90 a.C., indice di una precedente industria del rame. Nelle aree centrali dell'antica città affiorano strutture visibili di edifici: muri in blocchi di gres su cui poggiano strati di impasto d'argilla. Le abitazioni, di forma rettangolare, erano recinte da un muro che delimitava uno spazio-cortile su cui affacciavano numerose stanze e magazzini. All'interno di queste unità abitative è stata portata alla luce una quantità di ceramica di uso domestico: recipienti a collo verticale o troncoconico, porta-profumi, perle cilindriche decorate, perle discoidi di colore vivo, braccialetti di vetro verde e nero. Contigui al nucleo abitato si trovano i laboratori, con cupole di gres fissate a terra usate per la frantumazione dei minerali di rame. Sulle tracce delle mura di moschee risalenti al XIII-XIV secolo, citate dalle cronache arabe, sono attualmente in corso sondaggi archeologici.

Nell'area delle fonti salmastre, esterna al quartiere di Teguidda-n-Tessoum, Bernus e Gouletquer hanno effettuato un puntuale rilievo delle unità di produzione del sale, integrando la prospezione archeologica alle ricerche etnologiche, antropologiche e alla raccolta delle tradizioni orali. Su banchi irregolari di gres calcareo (di circa 50 m2) sono presenti vasche scavate, separate da muretti di argilla, che avevano funzioni di raccolta, essiccamento e calibratura per le diverse forme da immettere sul mercato. Questa struttura di produzione, in attività dal XV-XVI secolo, è in parte ancora oggi utilizzata dagli abitanti della circoscrizione amministrativa di Agadez - In Gall e dai pastori nomadi che ogni anno tra agosto e settembre vi conducono le mandrie per la cura del sale e, al ritorno, trasportano sugli asini e sui cammelli le lastre di sale nei propri accampamenti e nei villaggi circostanti (una lastra di sale pesa mediamente 10-15 kg).

Bibliografia

M.-A. Cortier, Mission Cortier, 1908-1909-1910. Notice de préhistoire saharienne, notice astronomique, notice géographique, Paris 1914; Y. Hurvoy, Histoire des populations du Soudan central (Colonie du Niger), Paris 1936; G. Bruin, Du nouveau au sujet de la question de Takkeda, in Notes Africaines, 47 (1950), pp. 90-91; R. Mauny, Un âge de cuivre au Sahara occidental, in BIFAN, 13, 1 (1951), pp. 168-98; S. Bernus - P. Gouletquer, Du cuivre au sel. Recherches ethno-archéologiques sur la région d'Azelik, in JSocAfr, 46, 1-2 (1976), pp. 7-68.

Azugi

di Eric Huysecom

Sito archeologico ubicato in prossimità di un'oasi non lontano da Atar, nel settore nord-occidentale della Mauritania; anticamente era chiamato anche Azogga, Azuki, Azaqqa o Arki. Il sito è importante per diverse ragioni: esso fornisce infatti rilevanti dati sui processi insediativi verificatisi in quest'area della Mauritania e sulle rotte del commercio trans-sahariano. Il suo studio è inoltre fondamentale per precisare l'estensione meridionale del movimento almoravide e comprendere i processi di sviluppo delle strutture urbane e politiche del XVII secolo.

La sua ubicazione fu segnalata per la prima volta nell'XI secolo dallo scrittore al-Bakri; le rovine, soprattutto quelle della cittadella, furono descritte varie volte, in particolare nel 1950 da Th. Monod e nel 1955 da R. Mauny; A. fu inoltre oggetto di diversi sondaggi, effettuati nel 1960 da R. Soper e nel 1980-81 da B. Saison. Si suppone che questa piccola città sia stata fondata in epoca pre-almoravide; essa si chiamava in quel periodo Madinat al-Kilab ("la città dei cani") e sarebbe stata abitata dai Bafur, una popolazione "negro-africana" ostile all'Islam. Poco dopo, nell'XI secolo, Yannu ibn Omar al-Haǵ, fratello di uno dei fondatori del movimento marocchino almoravide, avrebbe preso il controllo di A. e fondato la cittadella. I più antichi livelli archeologici (I-II) di questo periodo, posti direttamente sulle dune sterili, hanno portato alla luce alcuni resti di costruzioni quadrangolari costruite sul tell e di pozzi, la cui profondità (5 m) è analoga a quella della falda freatica attuale. Il materiale archeologico consiste in ceramica di produzione essenzialmente locale, in qualche oggetto di importazione, talvolta smaltato, in resti metallici (scorie o oggetti di ferro e rame) e in rare perle di vetro. Le datazioni ottenute per questa fase antica di A. oscillano tra gli inizi dell'XI (1010±80 B.P., Gif-5339) e la metà del XII sec. d.C. (880±80 B.P., Gif-5338). I dati archeologici confermano perciò le fonti storiche e le tradizioni orali e si riferiscono alla fase di massima estensione dell'insediamento.

Tuttavia, gli scavi hanno mostrato che la "metropoli" citata nei testi deve essere considerata piuttosto un modesto abitato ubicato lungo la via carovaniera e che la "cittadella" di cui conosciamo la pianta è successiva all'epoca almoravide. Infatti, per la sua posizione stratigrafica, quest'ultima potrebbe essere datata solo al XVII o addirittura al XVIII secolo (200±80 B.P., Gif-5334). All'epoca della sua costruzione, l'estensione di A. si era ristretta alla sua sola superficie. Tuttavia gli scavi non hanno mostrato nessuna interruzione di occupazione tra i livelli antichi e quelli coevi alla costruzione della "cittadella". Essa presenta una pianta a forma di poligono irregolare di 100 × 70-80 m, composta da due muri paralleli di pietre a secco dello spessore di 0,5 m, distanti tra loro 1,5 m circa e fiancheggiati da una ventina di bastioni rettangolari di 3 × 2 m, sporgenti verso l'esterno. Esistono anche altre costruzioni, in particolare un edificio rettangolare a doppio recinto di 25 × 12-15 m, di tipo simile a quello della cittadella, e un tumulo con recinto funerario e nicchie che indicano l'orientamento della preghiera, la cui datazione resta da precisare.

Bibliografia

Th. Monod, Sur quelques constructions anciennes du Sahara occidental, in SocGeoAOran, 71 (1950), p. 23; R. Mauny, Notes d'histoire et d'archéologie sur Azougi, Chinguetti et Oudanne, in BIFAN, 17 (1955), pp. 142-45; B. Saison, Azugi. Archéologie et histoire en Adrar mauritanien, in Recherche. Pédagogie et Culture, 55 (1981), pp. 66-74.

Bambandyanalo

v. K2

Bandiagara, falesia di

di Alain Gallay

Falesia situata al centro dell'ansa del fiume Niger (Repubblica del Mali), attualmente occupata da popolazioni Dogon, note soprattutto grazie ai lavori di M. Griaule.

L'interesse archeologico della regione è stato intuito sin dal 1960 dall'architetto olandese H. Haan; sotto la sua direzione prima e successivamente sotto quella di J. Huizinga, l'Istituto di Antropologia dell'Università di Utrecht ha proseguito, dal 1964 al 1971, le ricerche nelle grotte funerarie con la collaborazione dell'Istituto di Scienze Umane di Bamako. Una missione condotta da Haan ha permesso di completare le informazioni nel 1974; sono state scavate 27 grotte nella regione di Sanga e 5 nei dintorni di Nokara. L'analisi dei materiali, effettuata in particolare da R.-M.-A. Bedaux, ha permesso di proporre una cronologia relativa articolata in cinque fasi, confermata da 11 datazioni al 14C: fase 1, cultura Toloy (III-II sec. a.C.), seguita da un lungo iato; fase 2, cultura Tellem (XI-XII sec.); fase 3, cultura Tellem (XII-XIV sec.); fase 4, transizione Tellem-Dogon (XV-XVI sec.); fase 5, cultura Dogon (XVII-XVIII sec.). Questa sequenza presenta una certa omogeneità culturale. Ulteriori dati sulla ceramica della fase 5 sono stati raccolti da A. Gallay e C. Sauvain-Dugerdil nel 1976 a Sarnyéré, nel quadro delle ricerche promosse dall'Istituto di Studi Demografici di Parigi. Nel 1992 la Missione Etnoarcheologica dell'Università di Ginevra (A. Gallay ed E. Huysecom) ha studiato gli stili ceramici del XIX secolo.

Nella falesia le sepolture collettive sono ubicate in grotte spesso inaccessibili, che ospitano anche antichi granai per cereali. L'architettura presenta un'evoluzione significativa. La fase 1 è caratterizzata da strutture circolari, costruite con spirali di argilla e dalle superfici decorate; nella fase 2 si inizia a costruire con mattoni crudi e spirali di argilla; nella fase 3 l'uso di mattoni si generalizza e appaiono costruzioni a pianta rettangolare. L'architettura attuale, che comprende granai quadrangolari di pietre, appare nella fase 4. Scarsa è la ceramica Toloy; in quella Tellem figurano coppe a piedi multipli e piccole ciotole con piedi circolari (fasi 2-4). A partire dalla fase 3 è presente una ceramica ottenuta per martellatura dell'impasto su stuoia, che perdura nell'attuale tradizione Dogon. A questa tipologia, di fabbricazione domestica, si affiancano nel XIX secolo diverse produzioni eseguite da gruppi di vasaie specializzate, sull'esempio delle tradizioni periferiche di Niongono e Modjodjé. Nelle grotte a destinazione funeraria sono inoltre stati rinvenuti poggianuca di legno (fasi 2 e 3a, XI-XII sec.) e di ferro (fase 3b, XIV sec.). I tessuti sono tra i più antichi dell'Africa Occidentale. Le donne indossavano cinture e coprisesso di fibre vegetali e cotone (fasi da 2 a 4); i perizomi di cotone non appaiono che nella fase 5. Gli uomini erano vestiti con tuniche di cotone (fasi da 2 a 4), mentre nella fase 3b appaiono i pantaloni. Sono inoltre presenti coperte e cappelli di cotone (fasi da 2 a 4) e, nelle fasi 2 e 3, frammenti di tessuto di lana con decorazioni policrome (rosso, giallo, verde, nero).

L'interpretazione di questa sequenza sul piano della storia del popolamento è ardua. La fase Toloy è isolata, mentre il materiale più recente si ricollega probabilmente a due popolazioni succedutesi nell'area: i Tellem, di cui parlano le tradizioni orali, e i Dogon, per i quali è difficile a tutt'oggi stabilire la data di arrivo nella falesia. Le grandi maschere Dogon, intagliate ogni 60 anni in occasione della festa del Sigi e religiosamente conservate, inducono la maggior parte degli studiosi a collocare quest'arrivo nella fase 4, agli inizi del XV secolo. Le tradizioni orali, che parlano di un'appartenenza al gruppo Mande, e l'apparizione della ceramica realizzata con l'ausilio di stuoie a partire dalla fase 3 (XIII sec.) potrebbero permettere di ipotizzare una data più antica. Il problema della relazione tra i Tellem e gli odierni Kurumba del Burkina Faso non è risolto: le tradizioni orali sono contraddittorie e si possono avanzare riserve sull'interpretazione dei dati antropologici forniti dai resti ossei rinvenuti nelle sepolture.

Bibliografia

M. Griaule, Masques Dogon, Paris 1938; Id., Dieu d'eau (entretiens avec Ogotemmêli), Paris 1948 (trad. it. Torino 2002); R.-M.-A. Bedaux, Tellem, reconnaissance archéologique d'une culture de l'Ouest africain au Moyen Age. Recherches architectoniques, in JSocAfr, 42, 2 (1972), pp. 103-85; Id., Tellem. Reconnaissance archéologique d'une culture de l'Ouest africain au Moyen Age. Les appuie-nuque, ibid., 44, 1 (1974), pp. 7-42; A. Gallay - C. Sauvain-Dugerdil, Le Sarnyéré Dogon. Archéologie d'un isolat, Mali, Paris 1981; R.-M.-A. Bedaux, Tellem Textiles. Archaeological Finds from Burial Caves in Mali's Bandiagara Cliff, Bamako 1983; R.-M.-A. Bedaux - A.-G. Lange, Tellem, reconnaissance archéologique d'une culture de l'Ouest africain au Moyen Age. La poterie, in Journal des Africanistes, 53, 1-2 (1983), pp. 5-59.

Bantama

di Eric Huysecom

Forte coloniale olandese (conosciuto anche con il nome di Veersche Schans, o Fort de Veer) ubicato sulla costa del Ghana, nei pressi della città di Elmina; fu scavato da D. Calvocoressi nel 1967 e nel 1969. Sulla base delle fonti storiche europee e delle tradizioni locali, il forte è stato ritenuto la testimonianza dell'occupazione francese di Elmina nel XIV secolo.

Gli scavi hanno messo in luce tre livelli di occupazione. Il più antico, datato tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, è rappresentato da un chiocciolaio di Arca senilis, nel quale gli archeologi hanno individuato soprattutto ceramica di fabbricazione locale dal fondo arrotondato, decorata a impressione mediante conchiglie o pettine. Non sono stati rinvenuti oggetti di importazione europea. La seconda fase di occupazione, datata al XVIII secolo, è contrassegnata unicamente dalla presenza di una necropoli in cui sono state rinvenute ceramiche di fabbricazione locale, per lo più di tipo funerario, ed esemplari di importazione europea, alcuni dei quali forse intrusivi. Il terzo e ultimo periodo di occupazione è quello a cui risale il forte. Di forma quadrangolare con 13 m di lato, esso sorgeva su un monticolo (alt. 4,5 m, largh. 22 m) situato a 20 m dall'acqua ed era costruito con pietre commesse da una malta a base di conchiglie; in vari punti erano collocati affusti di cannone. Il materiale rinvenuto, databile al XIX secolo, è abbondante e per lo più di origine europea: bottiglie, pipe, perle, ecc.; la ceramica di fabbricazione locale è più rara. Le ricerche storiche e la tradizione orale hanno confermato tali dati, permettendo di identificare in questa struttura uno dei cinque forti difensivi olandesi di Elmina, costruiti intorno al 1810-11 e abbandonati nel 1872.

Bibliografia

D. Calvocoressi, Excavations at Bantama near Elmina, Ghana, in WestAfrJA, 7 (1977), pp. 117-41.

Begho

di Eric Huysecom

Città di tradizione Akan, conosciuta anche con il nome di Beeo, situata nella provincia di Brong Ahafo (Ghana), al limite tra la zona di foresta tropicale umida e quella di savana boscosa.

Il centro era conosciuto come stazione di transito sulla via del "grande commercio" e si componeva di diversi quartieri di artigiani, specializzati soprattutto nella metallurgia. Benché B. sia nota dalle fonti europee e islamiche per il suo ruolo di città commerciale, la tradizione orale ha fornito un prezioso aiuto per l'identificazione e la denominazione di diversi quartieri. Dal 1968 il West African Trade Project diretto da M. Posnansky vi ha stabilito una base di ricerca semipermanente. Il sito, di notevole estensione, fu scavato tra il 1971 e il 1979 ed è stato oggetto di un approccio multidisciplinare a cui hanno preso parte linguisti, etnostorici, etnobotanici e specialisti di diversi campi, quali la metallurgia, la tessitura, l'architettura o l'archeologia sperimentale. La popolazione di B. succedette alle antiche comunità di pastori neolitici. Tale periodo è ben testimoniato nella regione sia dal sito di Nsesrekeseeso (centro periferico situato 3 km a sud-ovest di B.), appartenente alla cultura Kintampo, sia da antiche cisterne molto profonde, scavate nel terreno del quartiere di Hani, che risalirebbero alla metà del II millennio a.C. La più antica occupazione dell'età del Ferro sarebbe proprio ad Hani, che si trova nel cuore di B., in un luogo chiamato Nami (o Atwetwebooso), dove sono stati rinvenuti i resti della più antica fornace per la fusione del ferro del Ghana. I carboni di legna associati a scorie, le canne da soffio e le pareti di fornaci rinvenuti sono infatti databili alla metà del III sec. d.C. (1770±75 B.P., N-2140). Tuttavia le popolazioni Brong di B., secondo la tradizione orale, collocano il loro luogo di origine in una grotta chiamata Bonkese e localizzerebbero la città di B. nella località di Nsesrekeseeso.

L'urbanizzazione di B. avvenne tra la fine dell'XI e gli inizi del XII sec. d.C., a partire da un quartiere chiamato Nyarko, identificabile in superficie per una concentrazione di ceramica estesa su oltre 0,5 km2 (le più antiche datazioni: 930±160 B.P., Birm-71; 905±80 B.P., N-2142); la città sarebbe stata fondata da un eroe leggendario, Efua Nyarko. Lo scavo del quartiere Nyarko ha evidenziato uno stadio di protourbanizzazione e lo sviluppo di industrie locali, quali quella tessile e quella dell'avorio; qui sono state anche rinvenute le ceramiche più antiche, attribuibili secondo la tradizione orale agli Akan: vasi ingobbiati e ornati da motivi a volte geometrici ottenuti con l'aiuto di una pittura policroma. A partire da questo quartiere, la città venne ingrandendosi durante l'arco di cinque secoli, fino al suo apogeo nel XVII sec. d.C. L'abbandono di B. sembra essere avvenuto al più tardi nel XVIII sec. d.C.

La città è interessante soprattutto per la presenza di un artigianato specializzato e di un commercio molto sviluppato. Durante l'intero periodo della sua occupazione, in particolare dagli inizi del XV secolo (la data più antica: 550±100 B.P., N-4226), B. assicurò un'ingente produzione di ferro, che spiega gli oltre 2000 manufatti di questo metallo trovati negli scavi. Così a Dapaa, un centro periferico situato 4 km a nord-ovest della città, si trovano oltre 2 ha di monticoli di detriti provenienti dalla fusione del ferro. Gli scavi del maggiore (lungh. 30 m, alt. 2 m) hanno portato alla luce scorie di ferro, canne da soffio e frammenti di pareti di forni. I resti di questi accumuli, che provengono dallo scarico di fornaci intensamente utilizzate, indicano la presenza di un vasto centro metallurgico. Dalla metà del XV sec. d.C. (la data più antica: 430±75 B.P., N-2288), nel quartiere Dwimfuor i fabbri Akan non lavoravano solo il ferro, ma anche il rame e l'ottone. Sono stati individuati oltre 500 crogioli, insieme a oggetti di ottone quali braccialetti, anelli, orecchini e scorie metalliche. Le analisi hanno indicato che il metallo grezzo proveniva nel XVI e XVII sec. d.C. dalla rifusione di oggetti europei. Altra attività metallurgica era la lavorazione dell'oro fluviale proveniente dal fiume Koosona, poi esportato. Sono stati scoperti numerosi frammenti lavorati a forma circolare o quadrangolare, il cui peso sembra allinearsi su uno dei sistemi islamici allora in uso. Veniva lavorato anche l'avorio: nel momento di massima produzione, tra il XV e XVI sec. d.C., a B. venivano scolpite magnifiche trombe a imboccatura laterale usate per la musica di corte. Ma questo centro fu celebre soprattutto, dal XIV al XVIII sec. d.C., per la tessitura. Quest'attività è confermata non soltanto dalla tradizione orale, ma anche dalle numerose fusaiole e dai catini per la tintura scoperti nel corso degli scavi. Anche la ceramica era una produzione importante e, al pari dei tessuti, veniva esportata in numerose direzioni. Oggetti fittili prodotti a B. nel XVI e nel XVII sec. d.C. si ritrovano in particolare a Wenchi e a Bono Manso. Una parte della produzione ceramica di B. fu senza dubbio influenzata dai vasi a ingobbio rosso che si ritrovano nella maggior parte degli insediamenti coevi del delta interno del Niger (Mali), così come dai vasi dipinti del Nord del Ghana, presenti nei differenti mercati Akan settentrionali, tra cui B.

Nel XVII sec. d.C. la città viveva dunque già in gran parte di commercio, in particolare tra il Mali e le coste del Ghana. Esso era gestito, in area meridionale, da mercanti Akan che scambiavano beni europei, pesce essiccato, sale, oro e cola sul vasto mercato di Dwabrim. Il commercio verso nord era assicurato da mercanti Mande che risiedevano nel quartiere musulmano di Kramo: essi esportavano l'oro e la cola degli Akan verso i confini del Niger, regione da cui ottenevano ottone, porcellana orientale e cavalli provenienti dall'Africa settentrionale. La presenza di questi animali è attestata archeologicamente da ossa rinvenute nel quartiere di Brong, sede del capo Akan e centro nodale della città, e dalla tradizione orale che descrive l'importanza di questi animali alla corte del primo re Kutu. Il commercio diretto o indiretto con gli Europei è testimoniato dai numerosi oggetti sia di importazione (gres, perle di vetro olandesi e veneziane, cauri), sia di fabbricazione locale, quali le migliaia di pipe di argilla che dimostrano che anche il tabacco era intensamente scambiato. Inoltre alcuni elementi orientali, come, ad esempio, una porcellana cinese del XVII sec. d.C. decorata con un tempio buddhista, possono essere giunti in loco sia tramite mercanti musulmani sia attraverso il commercio con gli Europei.

Bibliografia

M. Posnansky, Aspects of Early West African Trade, in WorldA, 5, 2 (1973), pp. 149-62; R.J. McIntosh, The Excavation of Mud Structures. An Experiment from West Africa, ibid., 9, 2 (1977), pp. 185-99; M. Posnansky, Excavations at Begho, Ghana 1979, in Nyame Akuma, 15 (1979), pp. 23-27; J. Anquandah, Excavation at the Smith's Quarter of Begho, Ghana. Preliminary Report, in WestAfrJA, 11 (1981), pp. 131-44; L.B. Crossland, Pottery from the Begho-B2 Site, Ghana, Calgary 1989.

Benin, regno del

di Eric Huysecom

Regno dell'Africa Occidentale, chiamato anche Edo in lingua locale, che fiorì in epoca precoloniale e coloniale e fu uno dei più importanti centri commerciali e culturali dell'Africa Occidentale; il nome potrebbe derivare da Ile Ibinu, letteralmente "paese delle contrarietà".

Il regno si trovava nella zona di foresta dell'odierna Nigeria; al momento della sua massima espansione, nel XVI sec. d.C., la sua influenza si estendeva dall'attuale Repubblica del Benin, a ovest, fino al fiume Niger a est. Questo stato comprendeva la capitale, Benin City, e diverse centinaia di villaggi abitati principalmente da popolazioni Edo e da altre etnie, quali gli Yoruba, gli Ibo e gli Igala. Poiché le ricerche archeologiche sono state poco numerose e molto limitate, la maggior parte delle informazioni proviene da dati etnografici, dalla tradizione orale o dagli scritti dei coloni. Durante il IX secolo a partire dall'area settentrionale e orientale della Nigeria si verificarono alcune migrazioni che portarono i popoli di lingua Edo nella regione di Benin City; a questo periodo risale la fondazione mitica del regno. Dal X alla seconda metà del XIII sec. d.C. detenne il potere la dinastia degli Ogiso; anche se le notizie sono imprecise, è probabile che il regno si sia strutturato allora, con un'organizzazione di tipo statale caratterizzata da una fase di pre-urbanizzazione e dall'affermazione di un potere centrale, con una divisione del lavoro che prevedeva corporazioni, con classi sociali e una casta di nobili. Dopo l'ultimo Ogiso vi fu un periodo di anarchia, che venne risolto ponendo sul trono il figlio del sovrano del vicino regno di Ife, Oranmiyan; Eneka I, figlio di questi, è considerato il vero fondatore della dinastia di sovrani conosciuti con il titolo di Oba, che detennero il potere fino al 1897. Durante il XV e il XVI sec. d.C., i sovrani di questa dinastia estesero il loro regno: tra questi Ewuare, che ampliò la città di Benin attraverso l'incorporazione dei villaggi limitrofi, recingendone il centro con gigantesche mura e dividendola in due parti, una delle quali riservata al sovrano. Grazie a una serie di campagne militari, gli Oba incrementarono il commercio degli schiavi ed estesero la loro influenza: il regno raggiunse allora i suoi massimi confini. Nello stesso periodo venne consolidato il potere della dinastia regnante attraverso il culto degli avi e il cerimoniale di corte. Nel 1486 il portoghese J.A. d'Aveiro visitò e descrisse Benin City, segnando così l'inizio dei rapporti commerciali tra gli Europei e il B. I Portoghesi vi acquistavano schiavi, avorio (monopolio dell'Oba), tessuti di cotone, spezie (soprattutto pepe), pelli, ecc.; in cambio, rifornivano la corte del regno del B. di drappi, velluti, oggetti di vetro, maniglie di rame od ottone, barre di ferro, porcellane asiatiche, grani di corallo rosso e crini di cavallo per la corte dell'Oba. Verso il 1510, in seguito all'intensificazione dei rapporti commerciali, l'Oba Esigie istituì addirittura un ufficio del palazzo incaricato del commercio con gli Europei.

Nel XVII secolo si crearono conflitti per la detenzione del potere tra i capi delle armate e l'Oba; quest'ultimo fu sconfitto e vide il suo ruolo relegato al solo campo religioso. Questo periodo segnò l'inizio di un'era di decadenza e di guerre civili che durò fino al 1715, anno dell'avvento dell'Oba Akenzua I, che recuperò non solo il comando delle armate ma anche gran parte degli introiti derivanti dall'interscambio con le stazioni commerciali europee. Egli si affermò perciò come uno dei sovrani più ricchi della storia del B. e fu promotore di un rinnovamento nell'arte. Questa nuova fase di prosperità ebbe termine sia a causa del Congresso di Vienna del 1815, che si era pronunciato contro la tratta degli schiavi, sia per gli incrementi di potere di alcune etnie vicine. Le funzioni dell'Oba tornarono a essere soltanto religiose e ciò determinò la perdita del controllo politico del regno. Il 3 gennaio 1897 i capi del palazzo organizzarono, apparentemente all'insaputa del re, l'attacco e il massacro di un gruppo di negoziatori inglesi disarmati. La risposta di Londra fu immediata: il 18 febbraio i soldati inglesi presero la città, catturarono ed esiliarono l'Oba a Calabar e si impossessarono dei tesori che si trovavano nel palazzo reale. Una parte del bottino fu destinata ai musei, tra cui il British Museum, mentre il resto venne messo in vendita "per coprire le spese della spedizione punitiva". La fine del regno del B. era compiuta.

Molti scavi sono stati condotti in diversi settori di Benin City, tra cui quelli di A.J.H. Goodwin (1945-57) e di G. Connah (1961-64). Le più antiche datazioni al 14C segnalano l'esistenza di un insediamento già dalla metà del XIII secolo (770±105 B.P., N-377). Una delle evidenze più antiche è rappresentata da un vaso funerario decorato con la rappresentazione del sacrificio di 41 fanciulle riccamente adornate. La cinta fortificata della città, che sembra risalire al XV sec. d.C., durante il regno di Ewuare, è costituita da un argine di terra preceduto da un fossato: la fortificazione, che presenta nove porte, forma un fronte alto 17,4 m e lungo 11.600 m. Un tale sistema di difesa pre-

suppone un'autorità centrale capace di mobilitare per opere comunitarie un numero ingente di uomini. Del resto i lavori di vari ricercatori, in particolare quelli di P.J. Darling, hanno rivelato che un complesso reticolo costituito da 16.000 km di argini di terra (iya) suddivideva a scacchiera la regione intorno a Benin City, per un'area di oltre 6500 km2. Questo reticolo sembrerebbe dimostrare l'esistenza di uno stato in formazione già prima della fondazione della città e segnerebbe pertanto solo le frontiere tra comunità che si andavano progressivamente unendo in uno "stato".

Le sculture d'avorio del Golfo di Guinea esercitarono un fascino notevole sugli Europei: già dal XVI sec. d.C. apparvero nelle locali stazioni commerciali, ma anche in Europa, oggetti di avorio, quali spille o coppe, definiti genericamente con il termine di "arte afro-portoghese". Alcuni di questi oggetti furono molto probabilmente realizzati da scultori appartenenti alle corporazioni che lavoravano l'avorio nel palazzo di B. Tuttavia fu solo in seguito alla presa del palazzo reale, nel 1897, che l'arte del B. si rivelò al grande pubblico. Quest'arte può essere definita di corte, dato che la sua produzione era riservata alle corporazioni, o gilde, associate alla corte dell'Oba e i cui laboratori, che si trovavano nella cinta del palazzo, producevano esclusivamente sotto ordine del re e del suo entourage. La produzione artigianale consisteva soprattutto in oggetti di ottone e d'avorio. Il rame utilizzato proveniva probabilmente, almeno per il periodo precoloniale, dalla regione di Azelik, nel Niger, e dall'Africa islamica, trasportato da carovane trans-sahariane. Più tardi si cominciarono a rifondere alcuni metalli introdotti dai mercanti olandesi, quali gli anelli di ottone, al fine di ottenere metallo e soprattutto ottone già in lega. I cosiddetti "bronzi del Benin" (in realtà per lo più di ottone, lega considerata più nobile) raffigurano essenzialmente teste che, secondo la tradizione orale, rappresentavano le teste decapitate dei re vinti e dei re e delle regine deceduti. Ottenute con la tecnica della cera persa, di solito erano sormontate da una zanna di elefante scolpita, infissa in una cavità posta sulla loro sommità. Le cronologie proposte si basano unicamente sull'evoluzione stilistica e ornamentale e si articolano in tre fasi: una fase antica, compresa tra il 1325 e il 1475, precedente quindi l'arrivo degli Europei, in cui le teste, dalle pareti molto sottili, presentano scarificazioni; una fase intermedia, corrispondente all'apogeo del regno e al periodo di sviluppo dei rapporti commerciali con gli Europei, durante la quale le teste sono adornate da alte collane di corallo (i monili di corallo erano riservati all'Oba poiché avevano il potere di rendere possibile tutto ciò che si diceva in loro presenza); rispetto alla fase precedente i dettagli sono meno precisi, ma i visi più espressivi; una fase recente, legata al declino e alla caduta del regno, in cui predominano i dettagli plastici, con una minore incisività dei lineamenti. Sotto il regno dell'Oba Osemwede (1816-48), ai due lati dell'acconciatura venivano applicate ali.

Altri oggetti caratteristici sono le placche di ottone in rilievo, che ornano la facciata e le colonne del palazzo dell'Oba e illustrano soprattutto la vita di corte. Vi appaiono sovrani, notabili e funzionari, alcuni Europei e diversi simboli religiosi. Si distinguono tre fasi diverse di produzione, dalla metà del XVI agli inizi del XVIII sec. d.C. identificabili per l'importanza del rilievo, la decorazione del fondo e l'abbigliamento dei personaggi. Vari autori concordano nel ritenere che, dopo questo periodo, la produzione di placche cessò. Tra gli oggetti artisticamente rilevanti figurano anche numerose zanne di elefante scolpite: infisse sulle teste che rappresentavano i sovrani, esse erano ornate da numerosi simboli la cui lettura era riservata agli iniziati. L'avorio, materia regale, era riservato all'Oba e alla sua corte.

Bibliografia

C.H. Read - O.M. Dalton, Antiquities from the City of Benin and from Other Parts of West Africa in the British Museum, London 1899; A. Pitt Rivers, Antique Works of Art from Benin Collected by Liutenant-General Pitt Rivers, London 1900; F. von Luschan, Die Altertümer von Benin, Berlin - Leipzig 1919; A.J.H. Goodwin, Archaeology and Benin Architecture, in Journal of the Historical Society of Nigeria, 1-2 (1957), pp. 65-85; G. Connah, The Archaeology of Benin. Excavations and Other Researches in and around Benin City, Nigeria, Oxford 1975; Th. Shaw, Nigeria. Its Archaeology and Early History, London 1978; P.J. Darling, Archaeology and History in Southern Nigeria. The Ancient Linear Earthworks of Benin and Isham, Cambridge 1984; A. Duchâteau, Bénin. Art royal d'Afrique (Catalogo della mostra), Bruxelles 1990.

Bigo

di David W. Phillipson

Sito ubicato nei pressi delle paludi di Katonga, 170 km circa a ovest di Kampala (Uganda), e caratterizzato dalla presenza di imponenti terrapieni.

Come numerosi siti dell'Uganda occidentale, B. è associato nelle tradizioni storiche orali a una popolazione denominata Bacwezi, descritta come un gruppo di allevatori di bestiame che ebbe parte attiva nella nascita e nei primi sviluppi dei regni interlacustri. Vi sono tuttavia opinioni divergenti sulla fondatezza storica delle tradizioni Bacwezi e i tentativi di stabilire strette correlazioni tra queste e i risultati delle ricerche archeologiche sono ora considerati privi di fondamento. Le testimonianze archeologiche a B. sono comunque di considerevole interesse. Il tratto più rilevante è rappresentato da terrapieni lineari che misurano oltre 10 km di lunghezza, con fossati scavati originariamente a una profondità di 5 m circa; l'area che essi un tempo delimitavano doveva aggirarsi intorno ai 300 ha di estensione. Si ritiene che tali massicce opere siano state realizzate a fini di protezione e difesa: le loro dimensioni confermano l'ipotesi secondo cui nell'area così delimitata doveva essere lasciato pascolare il bestiame. Bassi monticoli al centro del sito potrebbero costituire i resti di abitazioni che gli scavi di M. Posnansky hanno consentito di datare tra il XIII e il XV sec. d.C. Il ruolo di B. è ancora scarsamente conosciuto, come varie altre "antiche capitali" dell'Uganda occidentale.

Bibliografia

M. Posnanky, Bigo bya Mugenyi, in UgandaJ, 33 (1969), pp. 125-50; J.E.G. Sutton, A Thousand Years of East Africa, Nairobi 1990, pp. 4-27.

Bilad al-sudan

di Giovanna Antongini, Tito Spini

L'antica espressione B.al-S. ("Paese dei Neri") indica un territorio (16° - 3° Lat. O, 4° - 16° Long. N) che si estende dal Senegal al Niger e dalla Mauritania al Golfo di Guinea (Africa Occidentale) e che fu dominato tra il IX e il XVI sec. d.C. dai grandi imperi africani dell'Ovest: Mali, Ghana, Songhai.

Il declino di queste dinastie ebbe come conseguenza la polverizzazione dei poteri e degli stati e l'insorgenza di una conflittualità endemica che costrinse le popolazioni ad arroccarsi all'interno dei tata, villaggi fortificati siti in postazioni di vedetta lungo le rive dei fiumi, le rotte commerciali e le zone di coltura, per salvaguardare i raccolti dagli assalti di predoni e negrieri. Questa architettura militare minore è stata in seguito integrata dalla costruzione di fortezze a difesa di punti strategici e di città minacciate dal ǧihād lanciato da al-Hadji Umar a partire dal 1838; tale guerra santa si sarebbe conclusa con la sconfitta dell'impero Toucouleur e la morte dell'almany (letteralmente "capo dei fedeli", titolo assegnato ai re musulmani dei Peul del Fouta-Djalon e dei Toucouleurs del Fouta-Toro) nel 1864 tra le rocce delle falesie Dogon di Bandiagara. Dalle postazioni di Saint-Louis nel 1830 l'esercito coloniale francese mosse verso Bamako e il fiume Niger, zone strategiche per la conquista dell'intera Africa Occidentale.

Nelle savane meridionali della Guinea della Liberia e della Sierra Leone, nelle foreste della Costa d'Avorio e nelle alteterre del Fouta Djalon e del Fouta Toro si era formato un potente esercito al comando di Samory Touré che, domati i conflitti interetnici, tra il 1853 e il 1881 riuscì a trasformare la struttura sociale delle diverse popolazioni senza distruggerla: commercianti e militari musulmani accrebbero il loro potere, ma il nucleo tradizionalista mantenne la propria libertà. Questo è il quadro storico che vide lo scontro tra le popolazioni autoctone e gli eserciti coloniali. Le armi da fuoco, in specie il cannone, ebbero la meglio sulle fortificazioni assediate, quelle strutture difensive costruite in terra che per secoli avevano resistito agli scontri. I documenti di questo passato, quali i villaggi fortificati e le città-fortezza, sono rilevanti testimonianze sociali, antropologiche e archeologiche che potranno servire a una più corretta ricostruzione storica. Alcuni resti di queste architetture militari, riutilizzate per funzioni diverse, rovine apparenti o volontariamente cancellate, sono stati oggetto di sporadiche indagini e di sondaggi archeologici. La città murata di Sikasso (nell'odierno Mali, a est di Bamako, oggi centro vitale di comunicazione con la Costa d'Avorio e il Burkina Faso), che tra il 1887 e il 1888 fu teatro di violenti attacchi da parte delle armate di Samory Touré resistendo a un assedio durato oltre 15 mesi, cedette il 1° maggio 1898 all'esercito francese guidato dal luogotenente Audéoud che distrusse a cannonate le mura della città. Tre cinte di mura circondavano Sikasso: la prima, di 5 km, è dotata di cinque porte sul lato nord e nord-ovest, due a sud, tre a est e una a ovest; la seconda, arretrata di 500 m dalla prima, delimitava i quartieri dei nobili, dei commercianti e dei militari; la terza, a difesa della parte più elevata del complesso urbano, includeva il diofontou (palazzo del sovrano) e il campo degli schiavi. Nel 1970 il Ministero di Cultura del Mali diede inizio a una rilevazione topografica e a saggi di scavo nell'area ovest, in prossimità del palazzo del re Tieba, e sulle parti restanti delle mura esterne, oggi fiancheggiate da una strada.

Dalle prime verifiche risulta che le fondazioni della muraglia, interrate per 1,5 m, misurano 7,5 m di larghezza; la base del muro, di 6 m, si rastrema sino a 60 cm all'altezza massima di 6 m. Il materiale usato per la costruzione è un impasto di argilla ferruginosa misto a pietre calcaree tagliate in blocchi irregolari il cui lato misura mediamente 40-50 cm. L'intero perimetro difensivo è segnato ogni 25 m da torri di guardia: si tratta di strutture semicircolari di pietra del diametro di 6 m e di altezza pari alle muraglie, alle quali sono ancorate da incastri sovrapposti di pietre squadrate, percorribili, come le mura, da un camminamento di guardia supportato da mensole di legno di Borassus flabelliformis, resistente all'azione dell'acqua e inattaccabile dalle termiti. Del secondo muro (alt. 4 m), una linea ondulata senza torri di guardia, rimangono alcuni tratti nella zona sud-est; la struttura appare contraffortata da costole sporgenti distanziate tra loro di circa 4 m; una delle porte ancora esistenti è ritagliata tra due costole e sormontata ‒ elemento segnico rilevante ‒ da una forma piramidale di terra a lati arrotondati e alta 3 m, eretta sopra l'architrave. Della cinta interna, la cui altezza non supera i 3,5 m, restano parti importanti in corrispondenza dell'imponente massa del palazzo del fama (sovrano); questo edificio è attualmente in corso di restauro e oggetto di parziale ricostruzione.

In questi territori segnati da perenni conflitti, dal ǧihād e da invasioni coloniali, la difesa degli abitanti era affidata ai tata, minimi presidi fortificati. Nell'area lungo il fiume Senegal e sino agli approdi del Niger, così come nelle zone desertiche di Kita (Mali) esistono ancora tracce, o parti rilevanti, dei tata di Goubanko, Mourgoula, Niantanso, Bahè, Koumakhana, Fafati, Koubakoto, Noya, Guignagué, Siékokoto, Koundian, Bissandougou, Medina. Le strutture del sistema difensivo variano a seconda della natura del terreno, ma il disegno spaziale rispetta uno stesso schema: una muraglia continua poligonale che difende una parte dei terreni coltivabili, pozzi, recinti per animali, granai e magazzini, abitazioni in forma di capanne in terra con tetto di paglia e, al centro, la residenza del capo villaggio, costituita da un edificio a due o tre piani, a sua volta protetto da un muro continuo. A Mourgoula (13° Lat. N, 9° 30' Long. O, 60 km a est di Bamako), un tata Malinke semidistrutto il 15 febbraio 1892 dalle truppe francesi, è stata effettuata una rilevazione topografica e pianificata una prossima campagna di scavo. La cinta muraria esterna, un esagono irregolare di 2,4 km2 di perimetro, racchiude un'area di 240.000 m2. Al centro sono state rilevate le tracce di un edificio quadrato, oggi in rovina, che misurava 60 × 50 m ed era cinto da un muro delimitante uno spazio di 180 × 150 m. Sul terreno, oltre alle tracce del muro esterno, sono visibili sezioni di muri che consentono di individuare i diversi materiali edilizi: argille lamellari stabilizzate con olio di palma e paglia al fine di impedire le fessurazioni e aumentare la resistenza alla trazione. Le datazioni di questi manufatti sono incerte e si basano in gran parte sulle tradizioni orali, oltre che sull'analisi di alcuni materiali, sulla loro provenienza e sulle tecniche utilizzate, effettuate dall'esercito francese verso il 1882-83, che datano queste costruzioni al 1750-1780. Questo complesso sistema di fortificazioni, oggetto di scavo e di documentazioni da parte degli amministratori coloniali negli anni 1930-50, di cui esistono rilievi e descrizioni presso gli Archivi Nazionali di Parigi, meriterebbe uno studio organico, così da consentire di far luce su molti aspetti ancora sconosciuti della cultura Malinke.

Bibliografia

L.-G. Binger, Du Niger au Golfe de Guinée par le pays de Kong et la Mossi. 1887-1889, Paris 1892; J. Méniaud, Sikasso ou l'histoire dramatique d'un royaume noir, Paris 1935; C. Meillassoux, Plans d'anciennes fortifications (tata) en pays Malinké, in Journal des Africanistes, 36, 1 (1966), pp. 29-43; B. Coulibaly, L'armée du djihad omarien fut l'instrument de la grandeur de l'empire Toucouleur, in Afrique Histoire, 11 (1984), pp. 19-30; T.M. Bah, Architecture militaire traditionnelle et poliorcétique dans le Soudan occidental du XVIIe à la fin du XIXe siecle, Yaoundé 1985.

Birnin gazargamo

di Eric Huysecom

Antica capitale della popolazione Kanuri ubicata sulla riva meridionale del fiume Yobé, a ovest del Lago Ciad (Nigeria); chiamata anche Ngazargamu, la città sorgeva in una piana sabbiosa del Sahel.

Il sito è stato oggetto di prospezioni, sondaggi e scavi (A. Rosman e R. Cohen nel 1957, A.D.H. Bivar e P.L. Shinnie nel 1959, G. Connah nel 1965). B.G. venne fondata verso il 1470 da Mai Ali Dunamami (chiamato anche Mai Ali Gaji), un Kanuri originario dell'antica capitale Garu Kime, che vi si stabilì durante l'assedio dei sovrani Kanuri di Bornu, i Mai. All'apogeo del regno, sotto Mai Idris Aloma (1571-1603), la città fu ristrutturata e vi furono costruiti edifici di mattoni cotti. Questa tecnica fu introdotta probabilmente dai Turchi, che allora si recavano nel Bornu in cerca di fortuna come mercenari o come addetti ai lavori pesanti. Nel 1810, in seguito ai ripetuti attacchi dei Peul, i Mai abbandonarono B.G. per recarsi 155 km più a ovest, a Birnin Kafela, sulle rive del Lago Ciad. Nel 1811-12 la città fu distrutta e abbandonata.

B.G. misurava 1 km di diametro e aveva cinque accessi; era interamente cinta da un argine di terra, oggi alto 7 m, rinforzato nella parte occidentale da un fossato. Al suo interno sono ancora visibili diverse costruzioni di mattoni di terra rossa (delle dimensioni di 18 × 9 × 5 cm) prodotti a stampo e cotti; nel centro sorgono le rovine del palazzo dei Mai, costruito su un terreno leggermente sopraelevato. Le numerose vestigia di muri, aventi lo spessore di 16 mattoni commessi con argilla (1,19 m ca.), sembrano avere avuto la funzione di recinzione più che di sostegno di edifici coperti; molti di essi sono incompleti, poiché i mattoni vennero rimossi per essere riutilizzati in costruzioni recenti. Gli altri edifici di mattoni cotti sono coevi alla costruzione del palazzo e potrebbero essere appartenuti a personaggi di rango. Le abitazioni comuni erano probabilmente costruite con materiali deperibili (legno, impasti di argilla e paglia o terra cruda), dato che non ne restano tracce visibili in superficie. Al centro della città, vicino alla facciata meridionale del palazzo, si trova un grande tumulo contenente rifiuti, che gli scavi hanno permesso di datare alla metà del XVI secolo (330±105 B.P., N-481): esso sarebbe quindi coevo al palazzo, come è confermato dalla scoperta di numerosi frammenti di mattoni cotti. Tra gli abbondanti materiali rinvenuti vi sono oggetti di ferro (tra cui punte di frecce e maglie di catene), ceramiche decorate a rotella o sgraffiate, fusaiole, macine e macinelli, qualche perla di vetro e un cauri. La scoperta di scorie di ferro, di canne da soffio e di frammenti di crogioli indica la presenza di botteghe in cui si lavorava il ferro e si fondeva il bronzo. Tra i resti animali figurano ossa di caprovini, bovidi e uccelli.

Bibliografia

A.D.H. Bivar - P.L. Shinnie, Old Kanuri Capitals, in J.D. Fage - R.A. Oliver (edd.), Papers in African Prehistory, Cambridge 1970, p. 290 ss.; G. Connah, Three Thousand Years in Africa. Man and his Environment in the Lake Chad Region of Nigeria, Cambridge 1981, p. 51 ss.

Blackburn, tradizione

di Peter J. Mitchell

Tradizione vascolare identificata nel KwaZulu-Natal e nel settore orientale della Provincia Orientale del Capo, associata nella sua fase più recente con le comunità storiche di lingua Nguni (Zulu, Xhosa) stanziate in queste regioni.

Molte ceramiche sono inornate; negli esemplari decorati si osservano intaccature sugli orli, motivi stampati e incisi sulle spalle dei vasi, serie di impressioni puntinate e occasionali elementi in rilievo. Possono essere distinte tre fasi: Blackburn, datata tra il 1030 e il 1250 d.C.; Moor Park, risalente al XIV sec. d.C. e protrattasi forse nei secoli successivi; Nqabeni, che si sviluppò dalla fine del XVII agli inizi del XIX secolo. Le lacune evidenti nella sequenza cronologica sono dovute con molta probabilità al limitato numero di siti conosciuti in queste aree dell'Africa Meridionale per gran parte del II millennio d.C. e rendono quanto mai necessarie ulteriori indagini sul campo. Gli insediamenti in cui è stata rinvenuta ceramica della tradizione B. erano organizzati con probabilità secondo il cosiddetto central cattle pattern, nonostante vi siano numerose varianti determinate dalle specifiche caratteristiche topografiche del sito; inoltre, non si dispone di documentazione sufficiente per la stessa fase Blackburn. Come per la tradizione Moloko, le affinità riscontrate nei repertori vascolari e argomenti di carattere linguistico sono stati utilizzati da alcuni studiosi per i quali la tradizione B. avrebbe avuto origine in Africa Orientale. Le ceramiche riferibili a questa tradizione non parrebbero infatti derivare dalle produzioni fittili delle comunità agricole stanziate in queste aree nel I millennio d.C.

Bibliografia

O. Davies, Excavations at Blackburn, in SouthAfrAB, 26 (1971), pp. 165-78; G. Whitelaw, Twenty One Centuries of Ceramics in KwaZulu-Natal, in B. Bell - J. Calder (edd.), Ubumba. Aspects of Indigenous Ceramics in KwaZulu-Natal (Catalogo della mostra), Pietermaritzburg 1998, pp. 3-12.

Blinkklipkop

di Peter J. Mitchell

Cava per l'estrazione della specularite (ematite), ubicata nella Provincia Settentrionale del Capo (Repubblica Sudafricana). Il suo nome in lingua Afrikaans (la lingua dei Boeri), letteralmente "collina della pietra che risplende", fa riferimento alla brillantezza del pigmento nero che vi veniva estratto.

Si tratta di una profonda fenditura sul fianco di una collina, dalla quale furono estratte in epoche precoloniali circa 80.000 t di materiale. Gli scavi effettuati indicano che le attività minerarie ebbero inizio già verso la fine del I millennio d.C., anche se tracce più antiche sono andate in parte distrutte o ricoperte dai lavori compiuti in fasi successive. Le ceramiche rinvenute evidenziano una certa somiglianza con le produzioni vascolari associate agli strumentari tipici dell'industria di Doornfontein; tale evidenza, unitamente alla cospicua presenza di resti di caprovini lungo l'intera sequenza culturale, potrebbe suggerire uno sfruttamento del sito da parte di comunità di pastori. La cava venne utilizzata comunque anche dai gruppi di cacciatori-raccoglitori e dagli agricoltori di lingua Tswana, dato il grande valore che aveva il minerale, oggetto frequente di scambi, trasportato in gusci di ostriche e contenitori di terracotta. Il pigmento era adoperato per decorare le capigliature e il corpo o, come riportano le fonti raccolte presso informatori boscimani/Xam, per realizzare pitture rupestri.

Bibliografia

A.I. Thackeray - J.F. Thackeray - P.B. Beaumont, Excavations at the Blinkklipkop Specularite Mine near Postmasburg, Northern Cape, in SouthAfrAB, 38 (1983), pp. 17-25.

Bono manso

di Eric Huysecom

Sito urbano, industriale e commerciale ubicato nella provincia di Brong Ahafo (area centro-occidentale dell'attuale Repubblica del Ghana), in una zona di foresta di latifoglie. Fu la capitale di uno dei più antichi regni del Ghana, con un importante quartiere di metallurghi. Il giacimento è noto attraverso le tradizioni orali e gli scavi condotti tra il 1970 e il 1976 da K. Effah Gyamfi, nel quadro del West African Trade Project.

Dall'inizio del V sec. d.C. popoli di lingua Brong si stabilirono nella regione di B.M., fondandovi insediamenti permanenti che possono essere considerati gli antecedenti della futura capitale. Lo scavo della vicina grotta di Amuowi ha rivelato due livelli di occupazione, il più antico dei quali risale al IV sec. d.C. (1510±70 B.P., N-1801). Già in questo periodo veniva praticata la metallurgia del ferro, come attestato dagli scavi effettuati in un quartiere di fabbri chiamato Abam, in cui vennero rinvenuti monticoli di scarti di fusione con scorie di ferro e carbone di legna, datati all'inizio del V sec. d.C. (1630±20 B.P., BLN-1730). Il periodo urbano di B.M. è diviso in tre fasi. La fase 1, dalla seconda metà del XIII al XV-XVI sec. d.C. (la data più antica: 715±75 B.P., N-2493), coincide con l'apparizione di città con potere centralizzato in quest'area del Ghana. L'espansione di B.M., una città situata sulla rotta commerciale che conduceva a importanti crocevia del Nord come Djenné, fu probabilmente legata allo sviluppo della tecnologia dell'ottone e dell'oro, diffuse dal sud della regione Akan; la città doveva essere un grande centro, più o meno urbanizzato, con un importante mercato. Le evidenze archeologiche rivelano, per questa fase di insediamento, nuclei residenziali dispersi di dimensioni modeste. Fin dalla fondazione della città la metallurgia costituiva un'attività importante ed era concentrata in un quartiere specializzato nella produzione di oggetti di ferro di uso domestico, agricolo, artigianale e militare, come evidenzia il ritrovamento di cucchiai, coltelli, spille, braccialetti, attrezzi per l'aratura e punte di freccia; alcuni oggetti erano prodotti anche in rame e ottone. La lavorazione dell'oro è attestata solo dalla tradizione orale; sono stati rinvenuti frammenti fittili tagliati in forma circolare o quadrangolare, forse utilizzati per pesare questo metallo. Nel XIV secolo iniziò la fabbricazione locale di indumenti, come indicato dai numerosi fusi e dai catini per la tintura, e nel XVI secolo la scultura in avorio. Le pratiche agricole sono testimoniate dalle decorazioni impresse sul ventre dei vasi realizzate con spighe di cereali.

La fase 2 del periodo urbano va dal XV-XVI fino alla fine del XVII secolo. B.M. aveva allora almeno 11 grandi nuclei residenziali disposti secondo un modello pianificato. Nel XVII secolo, all'apice del suo sviluppo, la città era la sede del re Bono e un importante centro commerciale e industriale con diversi villaggi-satellite, tra cui Takyiman, retti da capi aggiunti, una sorta di amministratori provinciali; erano sotto il suo controllo anche diversi centri commerciali periferici, quali Forikrom. B.M. intratteneva inoltre relazioni con altre città vicine, come documentano gli scambi di vasellame con Begho o, a partire dal

XVI secolo, le importazioni di ceramica dipinta del Ghana settentrionale. La ceramica di questa fase presenta una maggiore varietà rispetto a quella del periodo precedente, soprattutto per la presenza di vari stili distinti. Diversi templi erano consacrati alle divinità Brong, come Ntoa o Tano, e per i culti a loro dedicati erano utilizzati recipienti di ottone colmi di oggetti rituali o di un liquido sacro. Dal 1601 sono attestate relazioni commerciali con gli Europei, come risulta dal testo dell'olandese P. de Marees, pubblicato nel 1604, sui regni del Golfo di Guinea. Dal XVII secolo sono presenti oggetti di importazione europea quali pipe, perle di vetro, cauri e ceramiche; sono state inoltre rinvenute pipe di terracotta di fabbricazione locale. La fase 3 del periodo urbano è compresa tra la fine del XVII e la metà del XVIII secolo. B.M. si avviò verso un declino, evidenziato da una riduzione delle dimensioni dell'abitato e da una probabile contrazione demografica, che sarebbe sfociato nell'invasione degli Asante nel corso del XVIII secolo.

Bibliografia

J. Anquandah, Rediscovering Ghana's Past, Harlow 1982; K. Effah Gyamfi, Bono Manso. An Archaeological Investigation into Early Akan Urbanism, Calgary 1985.

Bura-asinda-sikka

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Sito archeologico e necropoli facente parte di un gruppo di insediamenti localizzati lungo il corso medio del fiume Niger che attraversa l'Ovest della Repubblica del Niger per 450 km.

Analogamente a molti altri depositi archeologici, il primo ritrovamento nel 1975 di due teste di terracotta fu del tutto casuale. Una prima immediata ricognizione in loco rivelò soltanto qualche frammento di ceramica, ma nel 1980 l'erosione mise a nudo una parte del sito che, in attesa di procedere allo scavo, venne delimitata e suddivisa in sezioni; i lavori in superficie e stratigrafici iniziarono nel 1983 a opera dell'archeologo nigerino B. Gado. Il sito include un'importante necropoli e alcuni resti di insediamenti di blocchi di pietra, dove è stato ritrovato un certo numero di utensili di selce lavorata, frammenti di terracotta in forma di piccoli cilindri e piedi di vasi tripodi; l'analisi di questi reperti ha consentito di verificare i diversi livelli di occupazione della zona. L'area della necropoli si estende su molte centinaia di metri e, fatta eccezione per le parti scoperte dall'erosione, è ancora ricoperta da uno strato sabbioso. Un settore del sito di 25 × 20 m è stato scavato sino a 2 m di profondità, consentendo il recupero di 630 terrecotte funerarie, tra cui grandi giare ovoidali, marmitte, vasi emisferici o allungati, oblunghi o a forma di anfora. I vasi allungati o tubolari, di altezza compresa tra 70-80 cm e del diametro di 10-30 cm, sono sormontati da raffigurazioni a corpo intero di personaggi o di cavalieri montati; quelli emisferici (alt. 20-40 cm, diam. 10-30 cm) formano il corpo di statue antropomorfe su cui poggia il coperchio foggiato a testa. Le giare semiovoidali (alt. 50-70 cm, diam. 40-60 cm) in qualche caso supportano statuette complete, mentre in altri sono esse stesse figurazioni di teste o di acconciature. I dettagli di fattura evidenziano una differenziazione per età, status e sesso del defunto cui l'urna è dedicata: acconciature a cresta o a ciocche divise per i bambini, capelli intrecciati per gli adulti; a volte sono raffigurati falli o seni, ma nella maggioranza la distinzione per sesso è affidata al particolare stile di acconciatura e alle scarificazioni incise sulle teste di terracotta.

L'analisi dei reperti e lo scavo in profondità hanno fatto luce sui peculiari rituali funerari in uso presso i popoli che abitarono la zona: il contenuto delle giare posate in superficie (resti di cranio e parti di mascella) costituiva il complemento all'inumazione del personaggio oggetto della cerimonia, il cui scheletro intero è stato ritrovato 1-1,5 m al di sotto delle urne funerarie. L'ipotesi risultante è che i resti contenuti nelle urne di superficie appartengano a una vittima sacrificata e che i vasi antropomorfi siano l'effigie del personaggio sepolto nel livello inferiore. Il periodo di utilizzazione del sito viene indicato con la data III-XIII sec. d.C.; le datazioni di campioni di carbone di legna e di frammenti di terracotta raccolti tra la superficie e la base delle urne funerarie oscillano tra il 1430 e il 1630. Le date posteriori al XIII secolo potrebbero indicare un'ultima fase di utilizzo della necropoli o una nuova fase dopo un periodo di abbandono, come suggerisce il ritrovamento di scheletri a poca profondità nella parte bassa del sito quando l'insieme delle urne funerarie era già ricoperto dallo strato di sabbia. Gli antichi abitanti del III secolo, così come quelli del XIII, conoscevano l'uso del metallo, come attestano anelli e bracciali di rame e ottone ritrovati sugli scheletri e riprodotti sulle loro effigi di terracotta. Prelievi dalle figure e dai vasi sono stati sottoposti ad analisi archeometriche al fine di identificarne materie prime e tecniche di fabbricazione; altri metodi di datazione, per termoluminescenza e analisi radiocarboniche, sono stati applicati direttamente sulla materia organica inclusa nelle terrecotte.

Bibliografia

B. Gado, Un village des morts à Boura en République du Niger. Un site métodiquement fouillé fournit d'irremplaçables informations, in Vallées du Niger (Catalogo della mostra), Paris 1993, pp. 365-74.

Bwana mkubwa

di David W. Phillipson

Nome ("grande uomo") attribuito a una delle più vaste miniere di rame a cielo aperto rinvenute alla fine del XIX secolo nel Copperbelt, fra Zambia e Repubblica Democratica del Congo, da cercatori di minerali del periodo coloniale.

Il sito è ubicato circa 10 km a sud-est dell'attuale città di Ndola; esso documenta le attività estrattive praticate in epoca precoloniale dai gruppi indigeni e lo sfruttamento intensivo dei giacimenti minerari di questa regione. Un resoconto del 1904 di T.G. Davey, ingegnere consulente della Rhodesia Copper Company, afferma che, quando fu visitata per la prima volta, la miniera di B.M. comprendeva "due antiche gallerie principali, parallele e distanti circa 10 m (...). Una di queste corre ininterrotta per un tratto di 700 m, con un'ampiezza oscillante tra gli 1,5 e i 7 m". Le successive attività estrattive europee rivelarono che la galleria più grande raggiungeva una profondità di oltre 50 m. Lo sfruttamento precoloniale implicava lo scavo della massa minerale, la selezione della malachite e il riempimento della trincea con gli scarti che, come è stato accertato, contenevano solo il 2% di rame. Nelle gallerie sono state rinvenute pietre forate, forse parte dell'antico strumentario estrattivo. Come la maggior parte delle miniere preistoriche, gli antichi resti di B.M. vennero distrutti dalle attività estrattive coloniali prima che il sito potesse essere oggetto di ricerche archeologiche; scarsissime sono dunque le evidenze che permettano di datare le antiche gallerie. Ricerche in altre località della Copperbelt indicano comunque che la lavorazione dei depositi minerari iniziò su piccola scala durante la seconda metà del I millennio d.C., con un netto incremento intorno all'XI secolo. Un'ulteriore intensificazione della lavorazione del rame sembra essersi verificata tra il XVII e il XVIII secolo.

Bibliografia

D.W. Phillipson, Early Iron Age Sites on the Zambian Copperbelt, in Azania, 7 (1972), pp. 93-128.

Bweyorere

di David W. Phillipson

Sito ubicato in prossimità del margine meridionale delle pianure di Masha, circa 270 km a sud-ovest di Kampala; è il più conosciuto tra quelli che costituiscono le vestigia delle antiche capitali del regno di Ankole (Uganda sud-occidentale) ed è ancora vivo nella memoria storica delle popolazioni locali. Fu scavato da M. Posnansky nel 1959.

B. comprende una serie di circa 50 monticoli che si estendono per 400 m lungo i pendii di una bassa collina, formando piccoli recinti aperti verso il centro del sito. Una vasta area, che misura 50 × 35 m ed è circondata da monticoli che arrivano fino a 1,3 m di altezza, è stata interpretata come recinto reale. Gli scavi hanno portato alla luce evidenze di due fasi di occupazione, della presenza di bovini e di fori per pali delimitanti un'area che doveva essere occupata da un palazzo di dimensioni maggiori rispetto a quelli che i viaggiatori europei trovarono ad Ankole nel XIX secolo. Datazioni al 14C indicano che l'occupazione non iniziò prima del XVI sec. d.C.; la ceramica, i beni ottenuti attraverso il commercio e gli utensili di ferro rinvenuti confermano tale collocazione temporale. Le tradizioni orali riferiscono che i sovrani di Ankole stabilirono la loro capitale a B. tra 10 e 5 generazioni prima della fine del XIX secolo. Le ricerche a tutt'oggi effettuate nel sito non hanno rilevato evidenze che contraddicano tali fonti, ma neppure in grado di fornire riscontri positivi: come a Bigo, a tutt'oggi non è stato possibile correlare dati archeologici e tradizioni orali.

Bibliografia

M. Posnansky, The Excavation of an Ankole Capital Site at Bweyorere, in UgandaJ, 32 (1968), pp. 165-82; A. Reid - P. Robertshaw, A New Look at Ankole Capital Sites, in Azania, 22 (1987), pp. 83-88.

Castle of good hope

di Peter J. Mitchell

Forte coloniale costruito dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) sul litorale del moderno centro abitato di Città del Capo (Repubblica Sudafricana). Esso sostituì il più antico Fort de Goede Hoop, di pianta quadrangolare, occupato tra il 1652 e il 1674. La sua costruzione fu completata nel 1679 e il castello, tuttora in discrete condizioni, fu dotato di cinque bastioni.

Gli scavi effettuati hanno posto in risalto come la mancanza di materiali abbia costretto a ridimensionare progressivamente il progetto originario. Le dimensioni del fossato furono, ad esempio, notevolmente ridotte rispetto ai piani stabiliti e inoltre esso non venne mai effettivamente riempito d'acqua. La funzione principale del castello era più simbolica che militare, evidenziando la presenza della Compagnia Olandese nei territori dell'Africa Meridionale. Dalle indagini compiute è emerso che alcuni occupanti del forte si alimentavano con pesce essiccato e con tagli di montone di seconda scelta e utilizzavano porcellane cinesi di scarso valore e terrecotte di fattura grossolana. È difficile stabilire se tali evidenze attestino la presenza di schiavi, ma è comunque certo che esse non possono essere associate alle élites della Compagnia che controllava la Colonia del Capo.

Bibliografia

G. Abrahams, The Development of Historical Archaeology at the Cape, in Bulletin of the South African Cultural History Museum, 5 (1984), pp. 20-23; M. Hall et al., "A Stone Wall out of the Earth that Thundering Cannon Cannot Destroy"? Bastion and Moat at the Castle, Cape Town, in Social Dynamics, 16 (1990), pp. 22-37.

Chibuene

di Andrea Manzo

Sito ubicato nella baia di Vilanculos (Mozambico meridionale), identificato per la prima volta nel corso di ricerche archeologiche sistematiche nell'area. Localizzato su un affioramento di roccia circondato da banchi di sabbia, il sito deriva la sua importanza dalla disponibilità nell'area di acqua potabile, che ha da sempre attirato nella baia prospiciente naviganti bisognosi di rifornirsene.

Il sito si estende su un fronte di 100 m lungo il mare e per una profondità di 200 m. Nonostante le dimensioni, non sono giunte fino a noi tracce di strutture, forse distrutte dall'erosione dovuta all'azione delle acque marine e del vento, e solo alcune concentrazioni di pietre suggeriscono la presenza di fondazioni di capanne di materiali deperibili. Due fasi di occupazione sono documentate a Ch. La più antica risale almeno alla metà del I millennio d.C. e terminò intorno al 1000. Questa fase è caratterizzata da cumuli di conchiglie, che indicano uno sfruttamento intensivo delle risorse marine, e da tombe con scheletri con posizione e orientamento che suggeriscono un'adesione ai dettami della fede islamica. La seconda fase di occupazione si caratterizza per la presenza di tracce mal conservate di strutture e di cumuli di conchiglie, che indicano ‒ analogamente alla fase più antica ‒ lo sfruttamento delle risorse alimentari derivanti dal mare ed evidenze di lavorazione del ferro, del rame e dell'oro. Nonostante al-Masudi e al-Idrisi sembrino escludere questa regione del Mozambico dal circuito commerciale dell'Oceano Indiano, Ch. ha restituito materiali che suggeriscono rapporti diretti o mediati con il Madagascar, con i siti di Manda e Kilwa e con le Isole Comore a partire almeno dall'VIII sec. d.C. e anche ceramica persiana, frammenti di vasi e pendenti di vetro databili a partire dalla metà del IX sec. d.C. Dal sito, in cui sono state inoltre individuate evidenze di legami con l'entroterra africano, provengono anche ceramiche simili a quelle della tradizione di Gokomere/Ziwa (Zimbabwe).

Altri siti collegabili a Ch. per somiglianze nella cultura materiale, in particolare nella ceramica, sono localizzati nella medesima regione. Tra essi si segnala Manyikeni, a circa 50 km da Ch., che è stato datato a partire dalla metà del XV sec. d.C. e continua ancora oggi a essere abitato.

Bibliografia

P. Sinclair, Chibuene. An Early Trading Site in Southern Mozambique, in Paideuma, 28 (1982), pp. 149-64.

Chinguetti

di Celeste Intartaglia

Antica città (ar. Ǧinqêt, Šinqitī, Šinšit), il cui nome significa "fonte a cui si abbeverano i cavalli", ubicata nella regione dell'Adrar, nel Nord dell'attuale Mauritania; essa sorse sulla scarpata poco elevata di un wādī, fra il XII e il XV sec. d.C., in prossimità di Abweir, città di più antica tradizione edificata dalla tribù degli Idaw Ali.

Ch. si trovava all'estremità meridionale di una rotta commerciale trans-sahariana che collegava le regioni meridionali dell'attuale Marocco con l'Africa subsahariana ed era luogo di sosta delle carovane, di deposito e divisione del carico. Considerata una delle sette città sante dell'Islam, la città conobbe certamente un periodo di grande prosperità, al punto che l'intero territorio dell'attuale Mauritania fu conosciuto per lungo tempo col nome di Trab Ch. Qui si radunavano i pellegrini di tutto l'Adrar in partenza per la Mecca. La presenza di numerosi letterati e marabutti favorì la nascita di scuole e università coraniche, nonché la raccolta di antichi e preziosi manoscritti, tuttora custoditi in biblioteche private.

La cittadella attuale (400 × 300 m ca.) sorge sul sito antico, non ha mura e strette stradine si incuneano fra le abitazioni. Il solo edificio importante risalente sicuramente a molti secoli fa è la moschea, che ha subito nel corso degli anni vari rimaneggiamenti documentati dai pilastri dell'interno, a volte rotondi, a volte quadrati. D'altra parte, questi erano interventi frequenti dovuti al materiale usato: pietre a secco, impasto di terreno, tetto di tronchi di palma ricoperti da uno spesso strato di banco (argilla) per formare una terrazza. Interamente costruita con pietre a secco, la moschea di Ch. è l'edificio più conosciuto della Mauritania. È una costruzione rettangolare di 30 × 11 m, orientata nord-sud e alta circa 2,3 m, ricoperta da una terrazza in banco. Dal cortile interno vi si accede attraverso quattro aperture situate a ovest. Il soffitto è sostenuto da tre file di undici colonne; anche all'interno la pietra è rivestita di banco. Al centro del muro orientale vi sono due nicchie. Una contiene il minbār (pulpito), uno scanno di legno molto semplice senza sculture, su cui l'imam legge il Corano, e che prende luce da un buco nel soffitto. Segue a nord la nicchia del miḥrāb (nicchia di preghiera), che indica la qibla (direzione della Mecca). All'esterno, isolato dalla moschea, all'angolo sud-est del cortile, vi è il minareto, torre quadrata di 5 × 5 m, alto circa 10 m; 25 scalini permettono di accedere alla sommità, che è circondata da un muro di 1 m di altezza. Sugli angoli, di forma arrotondata, sono posti alcuni bastoni sormontati da un uovo di struzzo. La facciata ovest del minareto è ornata da alcuni motivi geometrici digradanti, tipici dell'arte decorativa maura di pietre a secco e simili a quelli che si trovano in molte abitazioni della città. Sull'altra riva del wādī, di fronte alla città, è situato un importante cimitero in cui non è stata segnalata alcuna tomba antica datata.

Bibliografia

M.O. Hamidoun - A. Leriche, Curiosité et bibliothèques de Chinguetti, in Notes Africaines, 48, 10 (1950), pp. 109-12; R. Mauny, Notes d'histoire et d'archéologie sur Azougi, Chinguetti et Oudanne, in BIFAN, 17 (1955), pp. 142-45; Id., Tableau géographique de l'Ouest africain au Moyen Age d'après les sources écrites, la tradition et l'archéologie, Dakar 1961; Ch.C. Stewart - S.A. Salim - A.O. Yahya, Catalogue of Arabic Manuscripts at the Institut Mauritanien de Recherche Scientifique, in Islam et sociétés au Sud du Sahara, 2, 1 (1990), pp. 179-84.

Dahlac kebir

di Rodolfo Fattovich

Isola del Mar Rosso ubicata al largo della costa dell'Eritrea, di fronte a Massaua, nelle Isole Dahlac. Venne frequentata fin dalla tarda preistoria e fu utilizzata come approdo in epoca romana; nel periodo islamico l'isola fu sede di un sultanato.

Le prime notizie su D.K., nota con il nome di Elaia, si trovano in fonti classiche del I sec. a.C. - I sec. d.C. In particolare il Periplo del Mare Eritreo menziona l'Arcipelago delle Dahlac come luogo di approvvigionamento di tartarughe per i mercati degli "ittiofagi". Molto probabilmente già alla fine del II sec. d.C. l'isola era inclusa nel regno di Aksum. Secondo le tradizioni locali D.K. sarebbe stata anche utilizzata da mercanti persiani (Furs), che avrebbero costruito numerose cisterne, ma questa tradizione non ha finora trovato conferma in altre evidenze storiche o archeologiche. Nell'VIII secolo D.K. venne occupata dagli Omayyadi e successivamente dagli Abbasidi. Nel IX secolo le Isole Dahlac furono definitivamente controllate dai musulmani e agli inizi del X secolo entrarono nella sfera yemenita; nell'XI secolo esse divennero un sultanato indipendente, che ebbe un periodo di maggior prosperità nel XII-XIII declinando progressivamente nel XIV secolo, fino a entrare nell'orbita portoghese nel XV secolo. Infine, le Isole Dahlac divennero un dominio turco nel XVI secolo.

Benché visitata da numerosi viaggiatori fin dal XIX secolo, D.K. non è mai stata oggetto di indagini archeologiche sistematiche. Numerosi strumenti litici di ossidiana vennero raccolti alla fine degli anni Trenta del XX secolo e pubblicati nel 1955 da A.C. Blanc. Alla fine degli anni Quaranta un residente italiano, G. Puglisi, descrisse tutti i principali monumenti visibili sull'isola. Negli anni Settanta l'epigrafista italiano G. Oman rilevò tutte le iscrizioni islamiche ancora visibili in loco. La presenza di un'industria litica di ossidiana con strumenti simili a quelli del tecnocomplesso wiltoniano dell'Africa subsahariana suggerisce che quest'isola sia stata frequentata già in epoca tardopreistorica. La maggior parte delle rovine visibili a D.K., tuttavia, risale a epoca pienamente storica. Esse comprendono i resti di uno o forse due edifici di probabile età aksumita, cisterne, due tombe a qubba, alcune necropoli islamiche e tracce di un abitato con edifici del XVII-XVIII secolo. Di particolare rilievo è una necropoli islamica con stele che presentano iscrizioni in caratteri cufici, datate tra il X e il XVI sec. d.C. Esse hanno permesso di ricostruire nelle sue linee generali la genealogia dei sultani tra l'XI e il XIII secolo.

Bibliografia

A.C. Blanc, L'industrie sur obsidienne des Iles Dahlac (Mer Rouge), in Actes du Congrès Panafricain de Préhistoire, IIe Session (Alger, 1952), Paris 1955, pp. 355-57; G. Puglisi, Alcuni vestigi dell'isola di Dahlac Kebir e la leggenda dei Furs, in Proceedings of the Third International Conference of Ethiopian Studies (Addis Ababa 1966), I, Addis Abeba 1969, pp. 35-47; S. Tedeschi, Notizie storiche sulle Isole Dahlak, ibid., pp. 49-74; G. Oman, La necropoli islamica di Dahlak Kebir (Mar Rosso), I-III, Napoli 1976-87.

Dahomey

v. Danxomè

Danangombe (dhlo dhlo)

di David W. Phillipson

Sito archeologico, noto in passato con il nome di Dhlo Dhlo, ubicato nello Zimbabwe centrale, circa 80 km a est-nord-est di Bulawayo. Caratterizzato dalla presenza di apparati murari, il sito venne occupato intorno alla fine del XVII sec. d.C.

D. si estende su un'area di poco più di 1 km2; il suo tratto saliente è costituito da complessi e imponenti strutture architettoniche di pietra e dai resti di strutture di fango pressato (daga). È stato accertato che il centro fu la capitale dello Stato Torwa (uno dei regni successivi a Great Zimbabwe) nel corso del periodo in cui missionari cristiani provenienti dal Mozambico stavano iniziando a penetrare l'altopiano dello Zimbabwe. Il sito è stato gravemente danneggiato alla fine del XIX secolo da cercatori europei di tesori che depredarono il luogo alla ricerca di oro. Come molti altri giacimenti archeologici dello Zimbabwe, in quel periodo esso venne ritenuto di elevata antichità e addirittura attribuito a una colonizzazione fenicia. Successive ricerche, realizzate nel primo e nel terzo decennio del XX secolo, hanno consentito di stabilire che D. e le strutture architettoniche di pietra associate risalivano a epoche molto più recenti ed erano opera di gruppi nativi, antenati degli Shona attualmente insediati nello Zimbabwe.

La capitale dello Stato Torwa era inizialmente localizzata a Khami (Kame), nei pressi di Bulawayo; a tutt'oggi non sono completamente chiare le ragioni del suo trasferimento a D. Come a Khami, ma a differenza di quanto documentato per Great Zimbabwe, gli apparati murari di D. non sono generalmente isolati, ma costituiscono i muri di contenimento di una serie di terrazze su cui vennero costruite strutture domestiche di daga. Nelle fasi finali del XVII secolo i governanti Torwa vennero sostituiti dalla dinastia Changamire, che continuò a utilizzare D. come capitale fino agli inizi del XIX secolo. Gli interventi di ampliamento degli apparati murari eseguiti in questo periodo sembrano rispondere a uno stile più rozzo rispetto a quello documentato per l'occupazione Torwa.

Bibliografia

D. Beach, The Shona and their Neighbours, Oxford 1994; G. Connah, African Civilizations, Cambridge 20042.

Danxomè (dahomey)

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Nome del regno Adja-Fon prima della colonizzazione francese, che lo mutò in Dahomey; nel 1975 assunse l'attuale nome di Repubblica del Benin. La sua capitale, Abomey (Agbomè, che significa "dentro le mura"), dal 1985 è inclusa nella lista del Patrimonio Mondiale stabilita dall'UNESCO per il suo prestigioso passato storico e per le vestigia costituite dagli antichi palazzi reali oggi museo storico.

Risultati di sondaggi di scavo effettuati nel 1926 da E. du Châtelet indicano che la regione era abitata in epoca "antichissima" da una popolazione di civiltà avanzata che conosceva l'uso del ferro, sostituita in seguito da un'altra allo stadio della pietra scheggiata. L'origine della dinastia che per circa sei secoli ha regnato sui Fon è attribuita alla migrazione, avvenuta attorno al XIII-XIV secolo, di un clan Aja proveniente dall'attuale Togo, guidato da un essere mitico per metà uomo e per metà pantera. Dopo un lungo periodo di lotte e di stratagemmi per sottomettere i capi locali, Wegbaja (1650-85) stabilì ad Abomey la capitale del suo regno, che divenne uno dei più potenti e organizzati dell'area grazie alla guerra, alla tratta degli schiavi e, più tardi, al commercio con gli Europei di olio di palma.

Abomey si allinea al modello di cittadella fortificata, città-stato-palazzo, diffuso nella vicina Nigeria e nel Togo, che riflette l'atteggiamento politico verso l'esterno: la difesa dai nemici e l'aggressione al fine di espandere i confini del regno e assicurarsi l'esclusiva dei commerci sulla costa. Per Allada (prima capitale dei Fon, divenuta in seguito capitale religiosa) abbiamo la descrizione del Sieur d'Elbée (1725) di alte muraglie di terra, all'interno delle quali erano scavati profondi fossati con ponti di legno guardati da soldati armati di fucili e sciabole. L'inglese A. Norris, che soggiornò ad Abomey nel 1772, descrive un fossato largo e profondo senza fortificazioni; le attuali fotografie aeree mostrano chiaramente l'intero percorso, anche se il rilevamento sul terreno è oggi reso più difficile da moderne costruzioni che ne hanno occupato alcuni tratti. Attorno ai 44 ha della cittadella sede dei palazzi reali, la cinta muraria di circa 5 km, in parte ricostruita, conserva ancora porzioni originarie realizzate con fasce di argilla sovrapposte, che nei punti massimi raggiungono un'altezza di circa 7 m. Città nella città, il palazzo, fatta eccezione per il re stesso e gli eunuchi, era abitato esclusivamente da donne: regine madri, spose reali, "doppi femminili" dei diversi ministri, donne guerriere e schiave. Il concetto di monarchia assoluta è rappresentato spazialmente dal fatto che nessun re può occupare il palazzo del predecessore ma deve costruirsene uno proprio; all'interno delle mura, le residenze dei sovrani si susseguono lungo un virtuale "asse del mondo" diretto verso Tado, il luogo di provenienza. Le dimore in cui abitarono gli eredi designati prima di essere intronizzati sono posti alla testa dei quartieri urbani secondo un sistema stellare che converge verso il palazzo reale.

Nel 1892, prima di abbandonare la capitale nelle mani dei Francesi, Behanzin ordinò che i palazzi fossero incendiati. Ciò che oggi esiste è dunque una parte delle residenze dei re Guézo (1818-58) e Glele (1858-89), restaurati nel 1911 e di nuovo tra il 1931-33 dal governatore francese Reste. I pesanti tetti di paglia che giungevano quasi sino a terra sono stati sostituiti con lamiere ondulate e i bassorilievi policromi che ornano i muri e i pilastri degli edifici, illustrando le grandi imprese del regno, hanno subito ciclici rifacimenti. La zona museale occupa solo 4 ha dell'intero sito; il resto dell'area, escluso dal circuito di visita, conserva i resti delle residenze degli antichi sovrani, i djeho dei 13 re della dinastia (templi in cui lo "spirito del re viene a riposare") e le loro tombe, ancora oggi oggetto di culto e sede di cerimonie annuali. Ogni possibilità di indagini archeologiche è qui tassativamente esclusa; questo veto si giustifica per il fatto che le tombe in realtà non contengono le spoglie dei re, sepolte in luoghi segreti del sito al fine di sventare la loro dissacrazione da parte dei nemici prima e, più tardi, dagli stranieri colonizzatori. Negli ultimi anni del suo regno, Glele assegnò al figlio Behanzin, designato a succedergli, un terreno su cui erigere il suo futuro palazzo e diede ordine di delimitarlo con un'alta muraglia. Quest'area venne chiamata Dowomè ("decimo muro") perché, come afferma la tradizione, l'oracolo del Fa aveva già predetto al fondatore Wegbaja che i muri del suo palazzo (e dunque i suoi successori) avrebbero progredito sino al decimo e non oltre. La storia ha confermato il vaticinio perché Behanzin (1889-94) fu da subito impegnato nella guerra contro i Francesi, che si concluse con la sua sconfitta e l'esilio dove morì nel 1906. Solo nel 1950 i membri della dinastia edificarono in suo onore il palazzo che Behanzin non ebbe il tempo di erigere. Nel 2001, grazie al finanziamento del governo giapponese (fondi in deposito all'UNESCO per la preservazione del patrimonio mondiale), sono iniziati i lavori di riabilitazione di questo edificio. Il restauro e l'inclusione del palazzo di Behanzin tra i "siti storici" di Abomey è la restituzione di un diritto a lungo negato, un intervento che garantisce, nel quadro di una metodologia storico-critico-estetica fondata sulla "autenticità di funzione", la continuità di una genealogia spaziale interrotta con la violenza.

Bibliografia

A. Dalzel, The History of Dahomy. An Inland Kingdom of Africa, London 1793 (rist. 1967); A. le Hérissé, L'ancien royaume du Dahomey. Moeurs, religion, histoire, Paris 1911; E.-G. Waterlot, Les bas-reliefs des bâtiments royaux d'Abomey (Dahomey), Paris 1926; A. Savary, La pensée symbolique des Fon du Dahomey, Genève 1976; G. Antongini - T. Spini, Reiterazione di spazi e segni come conferma del potere. Il regno di Dahomey, in G.R. Cardona (ed.), La trasmissione del sapere. Aspetti linguistici e antropologici, Roma 1989, pp. 17-34; Iid., Les palais royaux d'Abomey. Espace, architecture, dynamique socio-anthropologique, Paris 1995; Iid., Restauration des palais royaux d'Abomey. Le palais du roi Behanzin (Document de Projet), 2000-2003.

Dawu

di Eric Huysecom

Sito ubicato a nord di Accra, capitale del Ghana, ai margini della foresta tropicale, e costituito da un gruppo di 18 tumuli esplorati da R.N. Junner intorno al 1930 e da J.E.G. Sutton nel 1979. Due tumuli sono stati oggetto di scavi che hanno portato a risultati concordanti: si tratta del tumulo di Dawu Asaman, esplorato da Th. Shaw nel 1942, e di quello di Larbi-Kom I, sondato da Sutton nel 1980.

I tumuli sono costituiti da depositi di rifiuti che possono raggiungere 8 m di altezza; essi contengono, mescolati a terra, sabbia, ciottoli e carboni di legna, rifiuti domestici e "industriali" provenienti con ogni probabilità da abitazioni. I lavori hanno permesso di distinguere due fasi che possono essere messe in rapporto con i dati trasmessi dalla tradizione orale. La prima fase avrebbe avuto inizio nella seconda metà del XVI sec. d.C. e si riferirebbe all'arrivo dalle regioni settentrionali di popolazioni Guan; essa coinciderebbe con un periodo di urbanizzazione, stimolato dall'arrivo dei Portoghesi. I numerosi stampi e crogioli, utilizzati per la fabbricazione di vasellame e gioielli, attestano l'importanza della metallurgia del rame e dell'ottone. Anche la lavorazione dell'avorio rivestiva un ruolo importante, come indicano i numerosi ritrovamenti di bracciali e pettini finemente decorati. Quattro perle di vetro documentano precoci contatti con i primi empori europei, mentre i rari cauri rinvenuti potrebbero essere stati introdotti da navigatori europei o da commercianti che avevano relazioni con l'Africa Orientale. Caratteristica di questa prima fase è l'assenza di pipe di terracotta; tipiche di questo periodo sembrano essere ceramiche con bordo rientrante e spalla marcata, decorate con file di scanalature e motivi puntiformi.

La seconda fase, corrispondente all'occupazione Guan, ebbe forse inizio intorno al 1640-1650, epoca in cui, secondo quanto risulta da studi compiuti in altre località della regione, fecero la loro comparsa le pipe, importate o fabbricate in loco. Questa fase è caratterizzata, oltre che dalle pipe, da un incremento della lavorazione del ferro (che si inferisce dal numero degli oggetti di tale metallo e dalla grande quantità di scorie), dall'abbondanza di perle di vetro di importazione e da raffigurazioni antropomorfe di terracotta. A questa fase appartengono anche frammenti fittili decorati e scolpiti in forma di dischi (probabilmente pesi per l'oro), colini di ceramica, nonché vasi con piedi decorati e orlo everso. In superficie è stata rinvenuta una perla d'oro, mentre macine e macinelli, manufatti microlitici di quarzo, asce levigate, perle di pietra o di conchiglia sono stati trovati dispersi nel materiale di riempimento dei tumuli. Infine, lo studio dei resti ossei rivela la presenza di cani, facoceri, montoni e capre. La fine di questa seconda fase sembra situarsi intorno al 1680 e deve probabilmente essere posta in relazione con la conquista Akwamu della regione (1677-1681 ca.). Gli argomenti addotti per proporre questa datazione sono l'assenza di alcuni tipi particolari di pipe datate alla fine del XVII secolo e di oggetti di importazione europea tipici del XVIII secolo. L'importanza commerciale del sito durante questa seconda fase è confermata dalla presenza di ceramiche nere lucide con decorazioni a raggiera incise, del tipo Shai e Ladoka, che attestano l'esistenza di rapporti con la regione Dangme dell'area settentrionale. D. va probabilmente considerata uno scalo intermedio nella diffusione di beni di importazione europea. Il sito è dunque importante non solo per l'analisi dell'impatto con i primi Europei, ma anche allo scopo di individuare le rotte commerciali che collegavano gli empori costieri con l'interno del paese.

Bibliografia

Th. Shaw, Excavations at Dawu. Report on an Excavation in a Mound at Dawu, Akuapim, Ghana, Legon 1961; Id., Chronology of Excavation at Dawu, Ghana, in Man, 62 (1962), pp. 136-37; J.E.G. Sutton, New Work at Dawu, Southern Ghana, in Nyame Akuma, 18 (1981), pp. 11-13.

Debra damo

di Rodolfo Fattovich

Località dell'Agamè (Tigrè, Etiopia settentrionale), sede di uno dei più antichi e importanti monasteri della chiesa ortodossa etiopica. Secondo la tradizione etiopica il monastero sarebbe stato fondato da Za-Mikael, chiamato Aragawi, uno dei Nove Santi di origine siriana che alla fine del V sec. d.C. contribuirono a una più ampia diffusione del cristianesimo nel regno di Aksum. I luoghi di culto comprendono due chiese di dimensioni diverse e una grotta artificiale, considerata l'eremitaggio del santo.

La maggiore delle due chiese, di 20 × 9,7 m, databile tra VIII e XI sec. d.C. ma con rifacimenti di epoca posteriore, è di tipo basilicale con vestibolo, aula a tre navate e abside quadrata, affiancata da due vani quadrati. La navata centrale è sopraelevata rispetto alle laterali sormontate da gallerie. Le mura perimetrali esterne, in stile aksumita, mostrano una serie di sporgenze e rientranze e sono costruite con la tecnica detta "a teste di scimmia". Lungo la navata centrale corre un fregio a metope quadrate, decorate con motivi intagliati. All'entrata dell'abside vi è un arco di legno a ferro di cavallo, anch'esso ornato con motivi a intaglio. Infine, il soffitto a cassettoni del vestibolo è ornato con 15 pannelli lignei decorati con figure di leoni, elefanti, rinoceronti, antilopi, giraffe e dromedari simili a motivi dell'Egitto ellenistico, copto-bizantino e islamico. La cripta, scavata sotto la chiesa più piccola, presenta una cupola e alcune nicchie. Essa potrebbe essere stata la tomba del santo fondatore o di alcuni abati più antichi. A D.D. è stato scoperto un tesoro di monete indiane di epoca Kushana (I-III sec. d.C.), che conferma l'esistenza di contatti tra Aksum e l'India.

Bibliografia

E. Littmann - S. Krencker - Th. von Lupke, Deutsche-Aksum Expedition, II, Berlin 1913; A. Mordini, Il soffitto del secondo vestibolo dell'Enda Abuna Aragawi in Dabra Damo, in RassStEtiop, 6 (1947), pp. 29-35; A. Mordini - D. Matthews, The Monastery of Debra Damo (Ethiopia), in Archaeologia, 97 (1959), pp. 46-48; G. Gerster, L'arte etiopica. Chiese nella roccia, Milano 1970.

Degum

di Rodolfo Fattovich

Località archeologica ubicata nell'Agamè (Tigrè, Etiopia settentrionale). Si tratta di uno dei pochi siti con chiese rupestri "a valle" finora noti in Etiopia.

Il sito è stato scoperto e descritto agli inizi degli anni Settanta del XX secolo dall'archeologo francese C. Lepage, che tra il 1970 e il 1974 ha condotto un rilevamento sistematico delle chiese rupestri del Tigrè. Qui sono stati segnalati tre ipogei distinti e una vasca battesimale scavati in una stessa collina rocciosa. Gli ipogei comprendono un monumento isolato la cui funzione è incerta (monumento A), una chiesa rupestre (monumento B) e una cripta con una tomba (monumento C). Il monumento A consiste in un vestibolo semirupestre e tre sale ipogee. La prima sala presenta lungo le pareti quattro pilastri scolpiti nella roccia e un soffitto scolpito a imitazione di cassettoni di legno. La seconda sala presenta quattro colonne agli angoli, che le danno un aspetto cruciforme, e quattro archi laterali. Questa sala serviva molto probabilmente da ciborio per l'altare o per la conservazione di reliquie. Da essa si accede a due locali quadrati sui lati nord e sud. Nel lato est si apre infine una finestra su un vano sotterraneo più profondo, che non è stato indagato.

Il monumento B è una chiesa rupestre con pianta simile a quella del monumento A. Essa presenta dopo il vestibolo un'aula a tre navate da cui si accedeva a un locale cruciforme (ciborio) con due vani quadrangolari laterali e a est di esso un altro vano quadrangolare. Il monumento C è una cripta da cui si accede lungo un corridoio a gradini a una tomba ipogea. Infine a nord-est del monumento C è scavata una vasca battesimale di tipo siriano. L'età di questi monumenti è incerta, ma non si può escludere che essi risalgano alla fine del regno di Aksum o ai primi secoli del periodo medievale.

Bibliografia

C. Lepage, Les monuments rupestres de Degoum en Ethiopie, in CahA, 22 (1972), pp. 167-200.

Dia

di Samou Camara

Città ubicata sul margine occidentale della pianura alluvionale del delta interno del Niger (Mali); le tradizioni orali la citano come una delle più antiche dell'area. Le prospezioni archeologiche intraprese nel 1998 da un'équipe multidisciplinare di ricercatori del Mali, dei Paesi Bassi e della Francia hanno identificato tre grandi tumuli, che occupano una superficie complessiva di 100 ha: il sito di Sahoma (49 ha), il sito di D. (23 ha) e la necropoli di Mara (28 ha).

Gli scavi si sono concentrati a Sahoma, a causa della sua estensione e degli abbondanti materiali di superficie (manufatti litici, microliti di quarzo, perle biconiche di pietra, ceramica e numerosi scarti della lavorazione del ferro). Il sito presenta inoltre in superficie alcune sepolture e resti di muri di abitazioni e di cinta, costruiti con mattoni rettangolari in banco (argilla). L'antichità della sequenza di occupazione è attestata dall'assenza di pipe e ceramiche decorate a stampo, manufatti generalmente associati all'ultima fase dell'antica occupazione del delta interno del Niger (prima metà XVII sec.). Durante gli scavi, realizzati tra il 1998 e il 2000, sono stati raccolti oltre 150.000 frammenti fittili, oggetti di ferro, fusaiole, collane, figurine di terracotta, punte d'osso, microliti e frammenti di osso lavorato. L'analisi stratigrafica dei depositi e alcune datazioni hanno evidenziato cinque fasi di occupazione, dal IX sec. a.C. al XVII sec. d.C. I livelli più antichi (orizzonte I) hanno portato alla luce suoli di abitazioni ricchi di carboni di legno di borasso, frammenti di ceramiche, argilla bruciata e quattro sepolture. Il materiale fittile dei livelli più antichi era formato da vasi attribuiti alla tradizione Kobadi (2200-800 a.C.), caratterizzata da decorazioni a stampo impresse a spugna e da decorazioni rotanti realizzate con pettine e spatola; nei livelli superiori sono stati rinvenuti esemplari simili alle produzioni del livello finale Late Stone Age del Mema, denominato anche "facies Faita" della tradizione Tichitt. Nei livelli antichi di D., datati tra l'800 e il 300 a.C., sono stati scoperti anche microliti di quarzo, bracciali e figurine di bovidi di terracotta e collane d'osso. Il materiale faunistico è composto da resti di buoi (Bos), cani (Canis familiaris), antilopi (Kobus) e pesci di acqua dolce (pesce-gatto, Tilapia); l'alimentazione dei primi occupanti del sito si basava anche sul riso africano.

Il secondo complesso stratigrafico (orizzonte II) corrisponde a un periodo di interruzione dell'occupazione permanente, testimoniato dall'assenza di suoli di abitazione e strutture; l'abbandono è da porre in relazione con il fenomeno climatico arido del Big Dry, che alcune ricerche hanno evidenziato in vari insediamenti del medio Niger e nelle regioni aride dell'Africa Occidentale. A D. questo periodo sarebbe stato segnato dall'esodo, probabilmente parziale, delle popolazioni che avevano occupato il sito per oltre 500 anni. I materiali di questo orizzonte sono ceramiche marroni a pasta fine cotte a temperatura elevata. Durante scavi precedenti, svolti in altri insediamenti della regione, esse furono identificate come "articolo cinese", terminologia che designava la tecnica e non il pezzo in sé e che gli autori delle ricerche su D. hanno suggerito di mutare in Delta Fabric Pottery. Nei livelli riferibili a questo orizzonte sono stati rinvenuti resti di buoi, animali selvatici (Kobus) e uccelli selvatici come anatre e faraone; i resti di pesci sono rari, mentre le pecore e le capre sono ancora assenti. Questa fase è datata tra il 300 a.C. e il 300 d.C. La terza e la quarta fase sono documentate da depositi di rifiuti e inumazioni primarie e secondarie. Si nota un calo nella produzione di ceramiche Delta Wares; al contrario esse rappresentano ancora la maggior parte della produzione a Djenné-Djeno, dove tali oggetti scomparvero dopo il 400 d.C. La ceramica è composta inoltre da vasi carenati, piatti con decorazioni a rotella e stoviglie marroni a ingobbio rosso. Sono stati ritrovati anche collane e oggetti di metallo. I reperti faunistici sono costituiti da resti di pesci (pesce siluro, Tilapia, Lates, Polypterus e Gymnarchus) e di coccodrilli. I dati ottenuti hanno permesso di datare l'orizzonte III dal 300 all'800 d.C. e l'orizzonte IV dall'800 al 1100 d.C.; tra il 1100 e il 1400 d.C. è presente una discontinuità nell'occupazione del sito. La quinta e ultima fase (orizzonte V) presenta soprattutto muri di abitazioni i cui resti sono visibili in superficie; essa è stata datata a meno di cento anni e non ha restituito alcun frammento di pipe di terracotta. La ceramica è generalmente di fattura rozza, con una rilevante frequenza di decorazioni a rotella, forme carenate e recipienti a bordi semplici. Il consumo di fauna subacquatica caratteristico dell'orizzonte precedente sembra diminuire, mentre si assiste a un deciso aumento nel consumo di buoi, pecore, capre e pollame addomesticato (Gallus, Numida meleagris). Quest'ultima fase è stata datata tra il 1400 e il 1700 d.C.

Bibliografia

S.K. McIntosh, Excavations at Jenne-Jeno, Hambarketolo and Kaniana (Inland Niger Delta, Mali). The 1981 Season, Berkeley 1995; R.-M.-A. Bedaux et al., The Dia Archaeological Project. Rescuing Cultural Heritage in the Inland Niger Delta (Mali), in Antiquity, 75 (2001), pp. 837-48.

Dithakong

di Peter J. Mitchell

Sito equidistante dai centri abitati di Kuruman e Vryburg, nella Provincia Nord-Occidentale della Repubblica Sudafricana. Le indagini stratigrafiche datano l'occupazione di D. ("luogo delle vestigia" in lingua Tswana) tra il 1500 e il 1830 d.C., un periodo in cui si assiste all'espansione occidentale delle società agricole Sotho-Tswana.

La cultura materiale rinvenuta comprende strumenti litici scarsamente diagnostici e ceramiche simili ai repertori vascolari provenienti da siti del tipo R nella valle del fiume Riet. Come in questi ultimi siti, gli scarsi resti faunistici attestano sia la caccia alla selvaggina, sia l'allevamento di bovini e caprovini. Il sito, in collegamento con diversi insediamenti sorti nelle vicinanze, include recinti murari primari e secondari; tuttavia non è possibile disporre di una ricostruzione completa della sua organizzazione spaziale.

Bibliografia

D. Morris, Dithakong. "The Place of Ruins", in P.B. Beaumont - D. Morris (edd.), Guide to Archaelogical Sites in the Northern Cape, Kimberley 1990, pp. 148-54.

Djenné (jenné)

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Importante città commerciale ubicata tra i fiumi Niger e Bani (Mali), fondata oltre 2000 anni fa. Sul suo mercato si concentrava il commercio di sale, oro e rame e famosi erano i suoi tessuti, specialmente una tela tinta di rosso che per la sua rarità divenne appannaggio dei capi e dei notabili. Ubicata tra i fiumi Niger e Bani, per sei mesi l'anno Dj. veniva isolata dalle piene e all'epoca (come accade ancora oggi) il trasporto delle merci si svolgeva con centinaia di piroghe: il sale proveniente dal Sahara giungeva a Timbuctù, dove le lastre venivano fatte a pezzi e caricate sulle piroghe; all'arrivo a Dj. il costo, in oro, era raddoppiato.

Della pluralità dei gruppi etnici che la popolarono, la tradizione locale ricorda in specie la figura del XXVI re, Komboro, che nel XIII secolo fu convertito all'Islam da un marabutto di passaggio di nome Ismailia. Alla domanda di Komboro su cosa dovesse fare per compiacere Dio, Ismailia rispose: "Pianta un albero, e per anni la gente che ne godrà l'ombra ti benedirà. Scava un pozzo, e anni dopo la tua morte chi attingerà l'acqua ti benedirà. Costruisci una moschea, la gente che vi pregherà benedirà il tuo nome per secoli". Il sovrano seguì i tre consigli e fece abbattere il suo palazzo per costruire al suo posto una moschea; il nucleo originario del più celebre monumento di Dj. venne dunque eretto nel XIII secolo. La sua struttura era probabilmente simile per forma e tecniche allo stile delle costruzioni locali (il cosiddetto "stile sudanese"); il successore di Komboro vi aggiunse le torri e la circondò di un muro. Nel XVI secolo as-Sadi magnifica le sue gallerie e colonnati, larghi a sufficienza per contenere l'intera popolazione, i suoi intonaci accuratamente rifatti ogni anno: orgoglio della città, la moschea era considerata "più bella della Kaaba". Seguirono secoli in cui Dj. fu al centro di conflitti, scorrerie e invasioni a opera dei Songhai, dei Bambara e dei Marocchini, che miravano al dominio e al controllo del principale crocevia dei commerci internazionali; tuttavia, proprio la centralità dovuta alla sua posizione sul Niger permise alla città di assorbire le varie dominazioni mantenendo e accrescendo la sua prosperità economica durante tutto il Medioevo e sino al XIX secolo. Nel 1818 Sekou Amadou, fondatore dell'impero di Macina e islamico fondamentalista, mosse una guerra santa contro Dj., che conquistò e annetté all'impero teocratico di Macina. Biasimando i costumi eccessivamente raffinati degli abitanti, Amadou fece chiudere tutte le moschee dei dintorni e, non osando infrangere la legge coranica che impedisce a un musulmano di distruggere una moschea, otturò i canali di gronda della Grande Moschea facendo sì che il peso dell'acqua piovana accumulata sul tetto provocasse il crollo dell'edificio. Negli anni 1834-36 ne fece erigere una nuova a est di quella in rovina, imponendo criteri di massimo rigore: senza torri, giudicate un'innovazione, e in sostituzione delle alte colonne di argilla a sostegno del soffitto furono posti semplici pali di legno dell'altezza di circa 3 m. Rispetto alla precedente, venne tuttavia aumentata la capienza dei fedeli precludendo l'accesso "... a donne, cammelli, scimmie, cani, conigli e cavallette".

Nel 1893 l'esercito francese sconfisse e occupò Dj. Con l'aiuto di antiche mappe (Dubois 1897; Monteil 1903, 1932), di fotografie, cartoline postali e di racconti di viaggio è possibile ricostruire un'immagine attendibile dell'assetto urbanistico della città all'inizio del 1900, ossia prima della definitiva ricostruzione dell'attuale moschea. Cinta da una fortificazione in cui si aprivano 11 porte, Dj. era suddivisa in 11 quartieri situati attorno a uno spazio centrale aperto su cui si trovavano le rovine dell'antica grande moschea, un mercato coperto e la moschea costruita da Sekou Amadou. A nord, in una zona sopraelevata, i Francesi avevano installato il loro campo cinto da un muro. Negli spazi tra un quartiere e l'altro vi erano pozzi, cimiteri e piccoli mercati (Maas - Mommersteeg 1992). Nel 1906-1907 vennero iniziati i lavori di ricostruzione della grande moschea del XIII secolo; l'opera, finanziata dalla Francia, fu eseguita da muratori locali, celebri per la loro abilità; l'altra moschea, costruita nel 1834, fu demolita e sostituita da una scuola. I primi rinvenimenti di reperti fittili, dovuti in parte all'erosione conseguente alle inondazioni dei toguere (isolotti di varie dimensioni emergenti dalle piene e sede di antichi insediamenti), sono stati segnalati da G. Veillard, che nel 1940 scoprì alcuni frammenti antropomorfi di terracotta tra cui due teste di piccole dimensioni (7 e 8 cm). Nel 1943 Th. Monod trovò nel sito di Kamania, dove già erano state rinvenute giare funerarie, una figurina rotta in tre pezzi e nel 1948 R. Mauny, nei pressi di Kami e Nantaka, portò alla luce alcune teste insieme a frammenti di sculture sulle quali si distingueva l'immagine di serpenti attorcigliati attorno al collo del personaggio raffigurato. Tra il 1950 e il 1961 G. Szumowski effettuò lavori di scavo in vaste aree della regione di Mopti e di Segou ritrovando, tra altri reperti, un cavaliere con cavallo, due teste e una figura femminile. Altri esemplari furono rintracciati presso gli abitanti della zona che tributavano loro culti, considerandoli immagini di antenati.

L'insieme delle sculture di terracotta, rinvenute accidentalmente o affiorate al ritirarsi delle acque, non consentiva alcuna ipotesi di datazione (se non quella di esito incerto mediante termoluminescenza), di origine o del contesto culturale di provenienza, ma solo considerazioni e raffronti stilistici. Tuttavia, il loro mercato si affermò rapidamente soprattutto a seguito dell'esposizione tenutasi a Lovanio nel 1980 della collezione appartenente al conte Baudoin de Grunne, i cui pezzi "provenivano in gran parte da scavi illeciti che costituiscono una maggioranza schiacciante rispetto a quelli autorizzati" (Panella 1993, p. 65). Il primo ritrovamento in situ avvenne nel corso di una campagna di scavo effettuata nel 1977 da R.J. McIntosh e S.K. McIntosh a Djenné-Djeno, sito di primo insediamento dell'attuale città. Sul terreno, centinaia di mattoni di argilla segnavano le fondazioni di antiche abitazioni affiorate per erosione insieme a numerose urne funerarie e a porzioni della cinta muraria. R.J. McIntosh e S.K. McIntosh procedettero allo scavo di diversi pozzi di 3 × 3 m, scoprendo depositi dello spessore di 5 m appartenenti all'età del Ferro; i primi risultati del radiocarbonio indicarono che il toguere di Djenné-Djeno si era formato per accumulo nel corso di oltre un millennio di occupazione umana continua e fu abbandonato attorno al 1500 d.C. Le fondazioni di una casa quadrata intersecate da quelle di una casa a pianta circolare e la presenza di un grande orcio sferico dipinto portarono a scoprire a meno di 1 m dalla superficie scavata una figura femminile tipica della statuaria di Dj.; accanto, vennero ritrovati un oggetto sferico con decorazione a rilievo di serpenti, un piccolo vaso simile ai boccali per l'acqua attualmente in uso, un mortaio e un pestello con tracce di ocra. Un grosso pezzo di carbone rinvenuto accanto alla statua è stato datato col radiocarbonio al 1150±140 B.P., dunque la figura femminile e il suo corredo furono probabilmente collocati in situ tra il 1000 e il 1300 d.C. forse nel corso di un rituale inerente al culto degli antenati.

Bibliografia

F. Dubois, Tombouctou la mystérieuse, Paris 1897; Ch. Monteil, Monographie de Djenné, cercle et ville, Tulle 1903; Id., Djenné. Métropole du Delta Central du Niger, Paris 1932; R.J. McIntosh - S.K. McIntosh, Terracotta Statuettes from Mali, in African Arts, 12, 2 (1979), pp. 51-53; J.L. Bourgeois, The History of the Great Mosques of Djenné, ibid., 20, 3 (1987), pp. 54-63; P. Maas - G. Mommersteeg, Djenné, chef-d'oeuvre architectural, Paris 1992; C. Panella, Le terrecotte antropomorfe di Jenné. Etica ed estetica (Tesi di Laurea, Università di Roma "La Sapienza"), Roma 1993.

Dhlo dhlo

v. Danangombe

Dunefield midden

di Peter J. Mitchell

Accampamento precoloniale su dune localizzato circa 2 km a nord di Elands Bay, sulla costa atlantica della Repubblica Sudafricana. Il sito è costituito da un chiocciolaio e da alcune strutture, tra cui focolari e fosse per l'arrostimento di cibi.

Grazie a scavi estensivi è stata riportata alla luce gran parte dell'area occupata (oltre 700 m2); sono stati inoltre compiuti numerosi studi sulla distribuzione e sul significato dei manufatti e dei resti faunistici rinvenuti. Il settore settentrionale del sito documenta con probabilità un unico episodio di occupazione, risalente a circa 650 anni fa; le altre testimonianze includono reperti riferibili a più occupazioni di breve durata databili ai secoli precedenti. Reperti assai più antichi, datati all'Olocene medio, sono stati ritrovati al di sotto dei materiali più recenti. Gli abitanti che occupavano il sito di D.M. del II millennio d.C., oltre a dedicarsi alla raccolta di molluschi, cacciavano antilopi alcine, catturavano rafigeri campestri mediante trappole e avevano a disposizione carne di cetacei, appartenente presumibilmente a esemplari spiaggiati. Resti di ovini e alcune caratteristiche dei repertori fittili indicano contatti con comunità di allevatori stanziati forse nelle vicinanze del sito.

Bibliografia

J.E. Parkington et al., Making Sense of Space at Dunefield Midden Campsite, Western Cape, South Africa, in Southern African Field Archaeology, 1 (1992), pp. 63-70; J. Orton, Patterns in Stone. The Lithic Assemblage from Dunefield Midden, Western Cape, South Africa, in SouthAfrAB, 57 (2002), pp. 31-37.

Esie

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Santuario o luogo di culto all'aperto degli Yoruba, ubicato nella Nigeria centrale, a circa 50 km da Ilorin.

Nel 1773 un cacciatore scoprì in una radura all'interno della foresta di E. una moltitudine di statue di pietra. La presenza sul volto delle sculture di scarificazioni (tre linee parallele orizzontali incise dall'occhio all'orecchio) consentì ai locali di riconoscerle come immagini di personaggi vissuti durante l'antico regno Nupe. Già da secoli gli Yoruba celebravano in quella foresta riti propiziatori alla fertilità e il ritrovamento in quello stesso luogo dei simulacri dei propri antenati ne accrebbe la sacralità. Secondo i dettami della tradizione, gli Yoruba circondarono la radura con piante di aloe e mantennero il luogo segreto sino al 1933, quando un missionario cattolico, sulla base di vaghi indizi, riuscì a localizzare il sito. Almeno sino al 1942, come attesta un articolo di M. Arcore pubblicato in Le vie del mondo dello stesso anno, le statue rimasero nella foresta e i rari visitatori potevano accedere al luogo sacro solo se accompagnati dal sacerdote responsabile e dopo aver ottenuto il permesso dalle autorità del villaggio.

Le sculture costituiscono una tra le più importanti collezioni di figure di pietra esistenti in Africa. Le 800 statue ritrovate, la cui altezza varia da 14 cm a 1 m, rappresentano un re attorniato da musicisti, guerrieri, uomini e donne ornati di copricapi simili a tiare, di preziose collane e di amuleti. Il solo elemento relativo alla loro epoca di produzione è una data attorno al 1100 d.C., ottenuta esaminando con la termoluminescenza un frammento di scultura di terracotta trovato all'interno del gruppo litico, sebbene non sia certo che le sculture di pietra risalgano alla stessa epoca (Willet 1984). Queste opere, che dal 1970 sono conservate nel museo di E., sono tuttora oggetto di culto, così come i monoliti di Ikom del XVI-XX secolo ritrovati nella regione del Cross River: un insieme di circa 300 sculture estremamente stilizzate, che secondo la tradizione locale raffigurerebbero gli antenati delle popolazioni Ekoi ed Ejaghan, attuali abitanti della zona.

Bibliografia

F. Daniel, The Stone Figures of Esie, Ilorin Province, Nigeria, in The Journal of the Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, 67 (1937), pp. 43-49; P. Allison, African Stone Sculpture, London 1968; Ph. Stevens, The Stone Images of Esie, Nigeria, Ibadan 1978; F. Willet, Arte nigeriana, in Tesori dell'antica Nigeria (Catalogo della mostra), Firenze 1984, pp. 19-39.

Gao

di Séverine Marchi

Città, una delle più antiche dell'Africa Occidentale, ubicata nel settore orientale del Mali, alla confluenza tra i fiumi Niger e Tilemsi.

Famosa capitale dell'impero Songhai fino al XVI secolo, G. viene citata per la prima volta nei testi di storici e geografi arabi a partire dal IX secolo sotto il nome di Kawkaw. L'importanza e la potenza del suo regno sono menzionati numerose volte, ad esempio nel 1353 quando Ibn Battuta descrisse una città di grande fama ubicata sul Niger. La prima informazione riguardante antiche strutture rinvenute nella città moderna di G. risale al 1854 con la descrizione di H. Barth di una torre ancora in piedi, conosciuta come la tomba dell'Askia Muhammad, e di necropoli. Nel 1939, J. Chambon evidenziò alcune stele incise in una struttura di mattoni cotti a Sané; in seguito a queste scoperte, le ricerche archeologiche furono condotte in modo discontinuo. A partire dal 1949, R. Mauny lavorò nella parte antica di G. e, dal 1972, C. Flight esplorò la zona di Sané; dalla metà degli anni Novanta nuove ricerche furono condotte da T. Insoll del Dipartimento di Archeologia dell'Università di Cambridge.

Due complessi archeologici principali possono essere localizzati nel sito: l'antica città di G., che si sovrappone e si estende a nord della città attuale, e la zona di Sané, ubicata a circa 4 km verso oriente. La parte centrale dell'antica G. è coperta da resti di mattoni crudi o cotti; un'importante moschea (45 × 25 m), probabilmente edificata dal sultano Mansa Musa nel 1324, fu scavata nel 1950. Numerose necropoli circondano queste antiche strutture e la maggior parte delle tombe presenta iscrizioni funerarie datate tra il XIII e il XIV secolo. In questa zona scavi recenti hanno permesso di evidenziare una successione di cinque fasi di occupazione, comprese tra il IX e il XX secolo. Il complesso archeologico di Sané è composto da uno spazio domestico delimitato da numerosi frammenti di ceramica che coprono una piccola collina e da una necropoli appartenente allo stesso periodo, dove sono state rinvenute varie pietre tombali coperte di iscrizioni cufiche. Gran parte di esse, datate tra il XII e il XIII secolo, venne realizzata di marmo o di cloritoscisto e commemora sovrani. In ragione del loro stile sembra che alcune siano state importate da Almeria, città spagnola conquistata dagli Almoravidi. Oltre che per le stele, la necropoli musulmana si caratterizza anche per le numerose strutture di mattoni cotti che corrispondono a edifici generalmente rettangolari, la cui datazione e funzione sono ancora indeterminate; i dati cronologici attuali collocano l'occupazione di Sané tra il X e il XIII secolo. Sané sembra essere stata una residenza del sovrano, come attesta l'importante necropoli, mentre l'antica G. doveva essere il centro di commerci, come documentano varie scoperte di materiali realizzate nel sito. Sono stati rinvenuti numerosi frammenti fittili di importazione (vasellame invetriato di origine nordafricana o spagnola), così come oggetti di vetro provenienti dall'Egitto. Un nascondiglio di avorio di ippopotamo, privo di funzioni funerarie, è stato scoperto nella parte più antica del sito; questa scoperta è stata datata tra il 727 e il 1153 d.C. (GX 20623: 1105±165 B.P.) e conferma l'esistenza di un commercio di avorio con le regioni settentrionali, legato a quello di oro e schiavi.

Le rovine e il materiale archeologico rinvenuto durante gli scavi di G. mostrano l'importanza acquisita da una città diventata un punto strategico nel commercio regionale e trans-sahariano e che controllava probabilmente le rotte commerciali verso lo Chott el-Jerid tunisino o l'Egitto.

Bibliografia

R. Mauny, Tableau géographique de l'Ouest africain au Moyen-Age, Paris 1961; C. Flight, Gao 1972. First Interim Report. A Preliminary Investigation of the Cemetery at Sané, in WestAfrJA, 5 (1975), pp. 81-90; Id., Excavations at Gao (Republic of Mali) in 1978, in Nyame Akuma, 14 (1979), pp. 35-36; J. Devisse - R. Vernet, Le bassin des vallées du Niger. Chronologie et espaces, in Vallées du Niger (Catalogo della mostra), Paris 1993, pp. 11-37; T. Insoll, Settlement and Trade in Gao, Mali, in Papers from the 10th Congress of Pan African Association for Prehistory and Related Studies, Harare 1996, pp. 663-69.

Gedi

di Andrea Manzo

Sito Swahili localizzato 16 km a sud di Malindi (Kenya), a circa 6 km dalla costa, immerso in una foresta lussureggiante che ne ricopre in parte le strutture. La frequentazione del sito è datata dall'XI al XVII sec. d.C.

Il sito si presenta come un insediamento fortificato circondato da altre aree funzionali, per una superficie complessiva di 30 ha. Nonostante le dimensioni suggeriscano la sua importanza nel contesto regionale, non è ancora stata possibile l'identificazione con qualche centro noto dalle fonti islamiche. Il sito è stato indagato dal 1948 in poi, prima da una missione britannica poi da una francese, attualmente ancora operativa. Benché frequentato almeno dall'XI sec. d.C., il sito conobbe un grande sviluppo nel XV secolo, fase in cui la sua floridezza era basata sul commercio a lungo raggio testimoniato dall'abbondanza dei materiali importati da Egitto, Yemen, Iran, Oman, India e Cina. Le esportazioni su cui si basava la ricchezza di G. dovevano essere costituite da materie prime quali l'oro, l'avorio, le resine e le gomme, in alcuni casi rinvenute anche nel corso degli scavi archeologici.

Della fase di XI secolo si sono conservate solo tracce di abitato e di una necropoli. Ben più consistenti sono i resti che risalgono al XV secolo, quando il sito si caratterizza per la presenza di edifici monumentali, quali ampie residenze e grandi moschee. Sondaggi stratigrafici condotti all'interno di una moschea dimostrano peraltro che essa venne costruita su moschee di epoca precedente: la più antica risale al XII secolo e rappresenta quindi uno dei primi esempi di moschee dell'Africa subsahariana. Intorno alle moschee e anche ad alcune residenze monumentali sono state rinvenute tombe rettangolari di pietra calcarea, in alcuni casi monumentalizzate dalla presenza di grandi pilastri monolitici che dovevano simboleggiare l'importanza del defunto. La stratificazione sociale era ben rappresentata anche dalla disposizione e tipologia delle abitazioni, con palazzi di pietra calcarea, con ampie corti e locali di rappresentanza riccamente ornati nel centro cittadino, abitazioni di terra e fango con piante rettangolari nelle zone più periferiche e abitazioni di materiali deperibili con piante spesso curvilinee ai margini dell'abitato. Entro certi limiti si può anche ipotizzare che, oltre a distinzioni sociali, queste diverse tipologie abitative rappresentassero distinzioni identitarie ed etniche della popolazione di G.

Nel XV secolo all'andamento irregolare delle strade più antiche si sovrappose un tracciato ortogonale, orientato secondo i punti cardinali, che rivela una vera e propria pianificazione dello sviluppo urbano. Le stesse fortificazioni, di blocchi irregolari di corallo, sembrano comparire nel XV secolo, quando fu costituita la cinta muraria più esterna che, oltre ad avere finalità difensive, voleva probabilmente rappresentare la potenza e l'importanza della città. Una cinta più interna fu costruita in un periodo che va dal XVI al XVII secolo. Il fatto che si sia passati da una cinta più ampia a una di estensione più limitata indica probabilmente una contrazione delle dimensioni della città nell'ultima fase del suo sviluppo. Il declino di G. potrebbe essere stato causato dall'ascesa di Mombasa nel panorama regionale e anche dal prosciugamento di un ramo del Sabati, che collegava il sito al mare e quindi al circuito commerciale dell'Oceano Indiano.

Bibliografia

J. Kirkman, The Arab City of Gedi. Excavations at the Great Mosque, Architecture and Finds, London 1954; Id., The Tomb of the Dated Inscription at Gedi, London 1960; Id., Gedi. The Palace, The Hague 1963; S. Pradines, Nouvelles recherches archéologiques sur le site de Gedi (Kenya, Mission de Juillet-Août 1999), in Nyame Akuma, 53 (2000), pp. 22-28; Id., Rituels funéraires Swahili: les sépultures islamiques du site de Gedi (Kenya), in Les recherches sur le monde arabe en France. Actes du 1er Colloque des Jeunes Arabisants (Toulouse, 1er-2 mars 2000), Toulouse 2000, pp. 167-93; Id., Une mosquée du XIIe siècle à Gedi (Kenya, Mission de juillet-août 2001), in Nyame Akuma, 56 (2001), pp. 23-28.

Giant's castle

di Peter J. Mitchell

Il sito di Main Caves a G.C., ubicato nel settore settentrionale dei Monti Drakensberg (KwaZulu-Natal, Repubblica Sudafricana), contiene numerose testimonianze di particolare valore dell'arte rupestre boscimana.

Tra le raffigurazioni dipinte predominano le immagini di diverse specie di antilopi, tra cui le antilopi alcine, di figure umane e terio-antropomorfe, di serpenti, di felini e disegni geometrici che potrebbero rappresentare i fenomeni endottici cui erano soggetti gli sciamani durante stati alterati di coscienza. Un approfondito studio cronologico effettuato sulle pitture di Main Caves North ha distinto sette fasi successive di attività pittorica, determinando la rispettiva posizione delle immagini, sovrapposte o soggiacenti ad altre. L'associazione dei risultati emersi in questo studio con quelli relativi ad altri siti dei Monti Drakensberg rafforza l'ipotesi dell'esistenza di una significativa evoluzione nel tempo dell'arte rupestre di questa regione. Tali ricerche, insieme alla datazione diretta dei pigmenti o del materiale organico recuperato sopra e/o sotto le superfici dipinte mediante la tecnica della spettrometria con acceleratore di massa (AMS), consentiranno probabilmente di costruire una sequenza cronologica per l'arte rupestre boscimana, permettendo agli archeologi di collegare in maniera più attendibile queste manifestazioni con altri tipi di testimonianze. Le datazioni provenienti da altre zone del KwaZulu-Natal indicano che alcune delle pitture ancora visibili potrebbero risalire a 3000 anni fa.

Bibliografia

A.R. Willcox, A Cave at Giant's Castle Game Reserve, in SouthAfrAB, 12 (1957), pp. 87-97; T. Russell, The Application of the Harris Matrix to San Rock Art at Main Caves North, KwaZulu-Natal, ibid., 55 (2000), pp. 60-70.

Gondar

di Rodolfo Fattovich

Località ubicata nel Begemder, a nord del Lago Tana (Etiopia centro-settentrionale).

Nel XVII e nel XVIII secolo G. fu la residenza stabile di alcuni sovrani e nobili (Fasilidas, Iyasu, Dawit II, Bacaffa, Mentewab, Ras Micael Sehul) che vi costruirono palazzi, chiese e altri monumenti. I palazzi reali, noti anche come "castelli", erano costruiti all'interno di una cittadella che dominava l'abitato. La capitale venne fondata nel 1635 da Fasilidas e divenne già nel XVII secolo un importante centro commerciale con un settore interamente riservato ai mercanti musulmani, mentre un altro quartiere era riservato agli artigiani (orafi, fabbri, vasai) Falasha di religione ebraica. La città venne visitata alla fine del XVII secolo da F. Poncet, che la vide al tempo del suo massimo splendore, e nuovamente nel 1771 da J. Bruce, che la descrisse all'epoca del suo declino. Nonostante i palazzi di G. costituiscano una testimonianza molto importante del patrimonio culturale etiopico e siano inseriti nella Lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO, essi non sono mai stati oggetto di uno studio approfondito, se si eccettuano le indagini condotte alla fine degli anni Trenta del XX secolo da A.A. Monti della Corte.

L'edificio di maggiore rilievo della cittadella imperiale è il castello di Fasilidas (1632-67). Si tratta di un edificio a due piani di circa 25 × 25 m, costruito con blocchi di pietra irregolari e con archi di tufo sopra le porte e le finestre. Esso presentava quattro torri circolari angolari e un torrione quadrato. Altri edifici importanti sono il castello di Iyasu I (1682-1706), di 24 × 14 m, a pianta rettangolare con torri su tre angoli; la sala del trono di Dawit II (1716-21), a pianta rettangolare con una torre rotonda sul lato sud-orientale; il castello di Bakaffa (1721-30), a un solo piano e pianta rettangolare, con un'unica grande sala cui si accedeva da tre entrate ad arco sul lato sud; il castello dell'imperatrice Mentewab, a due piani con un torrione quadrato sul lato occidentale, costruito verso il 1750. Fuori della cittadella era costruito il cosiddetto "bagno di Fasilidas", posto all'interno di un recinto di muratura e costituito da una torre quadrata a tre piani entro un bacino di 50 × 30 m, alla quale si accedeva mediante un ponte. In questa struttura viene tuttora praticata la cerimonia dell'immersione per l'epifania a metà gennaio. Oltre ai palazzi sorgevano a G. numerose chiese, molte delle quali tuttora in uso, tra cui va notata la chiesa di Debra Berhan Selassie, il cui soffitto è decorato con figure di cherubini che costituiscono uno degli esempi meglio conservati della tarda arte gondariana. Le pitture che decorano questa chiesa, datate inizialmente all'epoca di Iyasu I, sembrano infatti risalire agli inizi del XIX secolo.

Bibliografia

A.A. Monti della Corte, I castelli di Gondar, Roma 1941; S. Munro-Hay, Ethiopia. The Unknown Land, London 2003.

Great zimbabwe

di Peter J. Mitchell

Sito, probabilmente il più celebre dell'Africa Meridionale e il più vasto (720 ha di estensione) della tradizione Zimbabwe, ubicato nella regione di Masvingo (Zimbabwe).

La sua scoperta risale alle esplorazioni di C. Mauch nel 1871; il sito venne in seguito "saccheggiato" nel corso di scavi condotti con metodi scarsamente professionali, finalizzati a provare le sue connessioni con le civiltà arabe o fenicie. Gli studi archeologici sistematici, che hanno dimostrato l'infondatezza di tali ipotesi, hanno comunque risentito della distruzione dei dati e si sono concentrati sull'analisi dei recinti murari e delle evidenze in essi contenute. L'associazione di G.Z. con le popolazioni indigene Shona venne definitivamente chiarita negli anni Venti del Novecento.

Il sito fu occupato da comunità di agricoltori nel corso del I millennio d.C., mentre agli inizi del II millennio d.C. vi si stabilirono gruppi che fabbricavano ceramiche Gumanye. Questa fase di insediamento si sovrappose in parte con il periodo di influenza del centro di Mapungubwe nel bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo. Le prime strutture furono erette alla fine del XIII sec. d.C.; gran parte delle opere murarie è datata al XIV e agli inizi del XV sec. d.C., anche se l'occupazione di alcuni settori del sito si è protratta per almeno un altro secolo. Gli scavi compiuti nei settori periferici del sito hanno riportato alla luce aree abitative destinate con probabilità agli individui comuni e consentito di stimare una popolazione complessiva del sito intorno alle 18.000 unità. Il Complesso Collinare è costituito da diversi recinti murari uniti con massi di granito. Alcune di queste mura erano in origine associate a monoliti di steatite e sculture di uccelli. Il Complesso Vallivo include un numero maggiore di recinti, tra i quali il cosiddetto Renders Ruin che ha restituito una notevole quantità di manufatti di particolare interesse, in alcuni casi importati dalle coste dell'Africa Orientale. Nelle sue vicinanze il Grande Recinto fu costruito con oltre 5000 m3 di pietre e racchiude un'area di più di 6000 m2, al cui interno furono erette due torri monumentali.

Lo studio delle strutture murarie di G.Z. ha permesso di individuare tre tipi principali. I muri definiti con la lettera P hanno blocchi irregolari disposti in modo da creare un profilo irregolare; essi sono frequentemente utilizzati come strutture di sostegno o di contenimento e la maggior parte si trova tra massi o su affioramenti rocciosi. I muri del tipo Q sono costituiti da blocchi di forma regolare allineati in corsi; generalmente si presentano isolati e la gran parte poggia su fondazioni in trincea. I muri del tipo R sono in gran parte anch'essi privi di strutture di sostegno, non superano i 2 m di altezza e sono formati da blocchi irregolari sovrapposti. Le strutture P sono più antiche delle strutture Q, mentre i muri R sorgevano in aree occupate da gruppi di rango inferiore, come nel recinto Nemanwa alla periferia del sito, interpretato da T.N. Huffman come la residenza temporanea di un leader provinciale. Esperimenti effettuati indicano che i blocchi, ottenuti da granito locale, erano lavorati con il fuoco e per percussione.

Le interpretazioni di Huffman sull'organizzazione spaziale di G.Z. si basano sulle informazioni fornite dalle fonti etnografiche Shona e Venda, secondo le quali la sommità dell'altura era occupata dalla residenza del sovrano di G.Z., i recinti murari dagli alloggi delle sue mogli e dei servitori a lui più vicini, mentre nel Grande Recinto si sarebbero svolti riti pubblici di iniziazione. Nonostante la descrizione del sito sia estremamente accurata, questo modello è stato oggetto di critiche in quanto scarsa considerazione avrebbero avuto i mutamenti storici e le modificazioni della struttura sociale della comunità residente a G.Z., critiche sono state mosse, inoltre, all'interpretazione e all'uso delle fonti etnografiche e storiche.

Bibliografia

P.S. Garlake, Great Zimbabwe, London 1973; T.N. Huffman, Snakes and Crocodiles. Power and Symbolism in Ancient Zimbabwe, Johannesburg 1996; I. Pikirayi, The Zimbabwe Culture. Origins and Decline of Southern Zambezian States, Walnut Creek 2001.

Guaguala

di Samou Camara

Sito ubicato nella valle del Sankarani (Mali); gli scavi, condotti tra il 2000 e il 2003 da S. Camara e a tutt'oggi non pubblicati, hanno consentito di rilevare una lunga sequenza di occupazione, probabilmente legata al ruolo di villaggio-satellite o di villaggio-città che il sito ebbe nella valle.

Durante lo scavo sono stati identificati fondamenta di pietra e piccoli muri, che sembra corrispondano a delimitazioni degli spazi domestici. Nello strato VIII è stato scoperto, sotto lo strato datato al VII-XIII sec. d.C., un suolo rossastro associato a carboni, scorie e frammenti di ferro; questo spazio, probabilmente destinato a un'attività di forgiatura, può essere messo in relazione con due grandi laboratori di riduzione dei minerali di ferro ubicati a circa 300 m dalla zona di scavo. Sono stati inoltre rinvenuti vari oggetti metallici tra cui anelli, lame di coltello, punte di freccia e due punte di lancia. Il materiale rinvenuto è composto per circa l'80% da ceramica, ad attestare che G. fu un importante centro di produzione e consumo di materiale fittile nella valle del Sankarani. Le decorazioni vascolari sono ricche e variate, con netto predominio di impressioni a pettine, o realizzate a cordicella o con spighe di mais. In vari livelli sono stati rinvenuti vasi, alcuni dei quali contenenti resti di alimenti a base di Graminacee. Queste scoperte possono essere comparate con quelle realizzate a Niani, dove sono stati rinvenuti chicchi di sorgo in recipienti nello strato datato all'VIII sec. d.C. Per una delle ultime sequenze di occupazione di G. è stata ottenuta una datazione radiocarbonica a 1085±130 anni fa.

Nella valle del Sankarani sono presenti gruppi di tumuli di pietra (diam. 4-11 m, alt. 0,6-1,5 m), generalmente a forma piana, conica o a cupola; la loro densità può raggiungere in alcuni settori circa 100 strutture. Gli scavi in due strutture hanno accertato il loro carattere funerario. Lo studio della topografia di tali monumenti e del materiale ceramico rinvenutovi indica che la loro occupazione è probabilmente coeva ad alcune sequenze di occupazione di G.; essi sarebbero stati realizzati dagli abitanti di questo sito, anche se non doveva trattarsi dell'unico modo di inumazione praticato. La costruzione dei tumuli testimonia la presenza di una comunità strutturata, che godette di una grande stabilità durante l'occupazione della valle del Sankarani; è probabile anzi che il ruolo politico, economico e culturale del villaggio-città contribuì a favorire tale stabilità, fondata anche su fattori geografici favorevoli, quali l'esistenza di pianure alluvionali adatte all'agricoltura e all'allevamento di bestiame. Il potere di G. doveva basarsi anche sull'abbondanza d'oro nella regione: numerosi pozzi di estrazione sono ancora visibili lungo i rami fossili degli antichi corsi d'acqua. I villaggi-città di G. (VII-XIII sec. d.C.), di Welibala ‒ dove i cercatori d'oro segnalano la presenza di laboratori di lavorazione di tale metallo ‒ e di Niani (III-XVI sec. d.C.) mantenevano inoltre rapporti commerciali con le regioni boschive e con quelle del medio bacino del Niger.

Bibliografia

W. Filipowiak - S. Jasnosz - R. Wolagiewicz, Les recherches archéologiques polono-guinéennes à Niani en 1968, in MatZachPomor, 14 (1968), pp. 575-648.

Harar

di Rodolfo Fattovich

Località dell'Ogaden (Etiopia orientale); fu il più importante centro islamico del Corno d'Africa e la capitale di un emirato medievale.

Il primo viaggiatore europeo a entrare ad H. fu R.F. Burton, che la visitò nel 1855 e la descrisse come una città ormai in pieno declino in cui sorgevano numerose moschee. La città venne fondata presumibilmente nel IX secolo da gruppi musulmani provenienti dall'Hadramaut (Yemen meridionale). Essa è menzionata per la prima volta nelle cronache etiopiche nel XIV secolo, quando dipendeva dal sultanato di Ifat. La città venne conquistata dal re cristiano Amda Sion nella prima metà del XIV secolo, ma rimase sede di un emirato musulmano. Nel 1520 divenne la capitale di un emirato sotto l'imam Ahmad ibn-Ibrahim al-Ghazi, detto Gragn ("il Mancino"), che da qui mosse la sua invasione del regno cristiano.

Dopo la sconfitta di Ahmad ibn-Ibrahim, H. progressivamente declinò anche in seguito alle invasioni Oromo della seconda metà del XVI secolo. La città venne quindi inclusa nel sultanato dell'Hausa, ma mantenne una notevole indipendenza per oltre due secoli, diventando un centro di irradiazione dell'Islam tra le popolazioni Oromo circostanti. Nel XIX secolo H. venne occupata dagli Egiziani e successivamente conquistata dall'imperatore Menelik. Della città antica restano ancora visibili solo le mura di cinta con cinque porte sui lati occidentale, meridionale, sud-orientale, orientale e settentrionale. Finora, tuttavia, non è stato condotto uno studio sistematico di queste evidenze islamiche.

Bibliografia

J. Leroy, L'Éthiopie. Archéologie et culture, Paris 1973; S. Munro-Hay, Ethiopia. The Unknown Land, London 2003.

Harmuffo dildilla

di Rodolfo Fattovich

Località dello Shoa (Etiopia centrale). Si tratta di un'area archeologica estesa per circa 10 km tra il villaggio di Bantu e l'abitato di H.D., lungo il fiume Watira. Il sito è stato esaminato da F. Anfray negli anni Settanta del Novecento e rivisitato agli inizi degli anni Novanta da F. Dramis, R. Fattovich e K. Begashaw.

Il nucleo centrale dell'area, presso H.D., è costituito da una necropoli con stele antropomorfe, databili agli inizi del II millennio d.C., che costituiscono due gruppi posti a circa 100 m di distanza l'uno dall'altro. Le stele sono costituite da lastre di pietra scolpite in modo da rappresentare una figura umana molto schematica con la testa abbozzata e le braccia poste ad arco. Una stele presenta un motivo ovale scolpito a rilievo sul "tronco"; un'altra è decorata con un motivo scolpito a forma di croce, forse più recente. Nello stesso sito sono visibili anche alcune pietre squadrate di pietra non locale, attribuibili verosimilmente a una struttura databile al XIV sec. d.C. In superficie sono inoltre visibili alcune pietre sagomate a sommità circolare, di significato ignoto. Lungo il fiume verso Bantu si notano tracce di un insediamento con ceramica antica probabilmente contemporaneo alla necropoli, un sito con industria microlitica di ossidiana e amigdale acheuleane dilavate. Infine, lungo la falesia che limita la valle del Watira sono scavate nella roccia numerose abitazioni di tipo trogloditico di età incerta.

Bibliografia

F. Anfray, Les stèles du Sud. Shoa et Sidamo, in AnnEth, 2 (1982).

Igbo-ukwu

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Sito archeologico ubicato nella Nigeria sud-orientale e oggetto di scavi che rivelarono tracce di una civiltà risalente al IX sec. d.C. Il sito di I.-U. già intratteneva relazioni commerciali con gli Arabi, come attestato da resti di prodotti e mercanzie provenienti dalle regioni settentrionali.

Il primo ritrovamento avvenne in modo casuale: nel 1938, scavando una cisterna per conservare l'acqua, venne rinvenuta a circa 60 cm di profondità una serie di vasi e ciotole di bronzo finemente lavorate. Le indagini scientifiche iniziarono tuttavia solo nel 1959 su iniziativa di B. Fagg, che incaricò l'archeologo Th. Shaw di procedere agli scavi. Shaw lavorò nel sito per quattro mesi con l'accordo che tutti gli oggetti ritrovati restassero di proprietà del Dipartimento Federale di Antichità della Nigeria.

Gli scavi di I.-U. sono tra i più studiati e conosciuti di tutta l'Africa. Sono stati impiegati molti anni per mettere insieme tutte le prove con analisi chimiche e spettrografiche estese sui materiali stessi. Nel luogo del ritrovamento originario furono condotti scavi, come pure in un terreno adiacente di proprietà di un fratello del primo scopritore. Nel 1964, Th. Shaw effettuò un terzo ciclo di scavi in un'area confinante. Si poté stabilire che in origine i bronzi giacevano in uno spazio rettangolare, molto vicino alla superficie, in una piccola costruzione predisposta per ospitarli, forse un santuario o un deposito di oggetti cerimoniali (Eyo 1984). Le indagini hanno inoltre portato alla luce la camera sepolcrale di un personaggio importante che recava indosso una corona, un pettorale, braccialetti e, in mano, un ventaglio e uno scacciamosche; accanto sono stati rinvenuti un bastone-insegna, zanne di elefante e perle di vetro. Il complesso dei ritrovamenti è stato datato mediante analisi radiocarboniche: quattro datazioni rinviano al IX-X secolo e una, ottenuta da alcuni tessuti, al XIV-XV secolo.

Bibliografia

Th. Shaw, Igbo-Ukwu. An Account of Archaeological Discoveries in Eastern Nigeria, I-II, London 1970; E. Eyo, Archeologia nigeriana, in Tesori dell'antica Nigeria (Catalogo della mostra), Firenze 1984, pp. 19-39; F. Willet, Arte nigeriana, ibid., pp. 41-64.

Ile-ife

di Séverine Marchi

Sito ubicato nel Sud-Ovest della Nigeria, circa 80 km a est di Ibadan. Localizzato nel cuore della foresta tropicale, esso riveste un ruolo particolare nella religione Yoruba. La città è infatti tradizionalmente considerata come il centro del mondo, a partire dal quale Oduduwa, antenato della popolazione Yoruba, avrebbe inviato i suoi figli a fondare le altre città del Paese. Il sito rappresenta attualmente un importante luogo di culto, dove la gran parte delle 401 divinità conosciute è ancora venerata e dove l'Oni, sovrano del Paese, ha conservato il suo trono.

Storia delle ricerche

La presa di coscienza da parte degli Europei dell'esistenza a I.-I. di materiali archeologici e di manifestazioni artistiche ebbe inizio nel XIX secolo con la scoperta, avvenuta nel 1830 in un mercato di Katunga (l'antica città di Oyo), di un residuo di fusione del vetro proveniente dal sito. Successivamente, nel 1896, l'Oni di Ife donò ai rappresentanti dell'amministrazione coloniale britannica tre poggiapiedi scolpiti di granito, uno dei quali sarebbe stato inviato in Europa ed esposto al British Museum. Nel 1910 lo studioso tedesco L. Frobenius intraprese le prime ricerche a I.-I. e scoprì numerose terrecotte e sculture di bronzo, tra cui la celebre testa incoronata di Olokun, divinità del mare degli Yoruba. Sulla scia di quelle di Frobenius, sensazionali scoperte sarebbero state effettuate a Wunmonije, dietro il palazzo reale: 13 teste di ottone a grandezza naturale, realizzate nello stesso stile naturalistico del bronzo di Olokun, vennero alla luce nel 1938, mentre nel 1957 una figura intera che ritraeva un sovrano, associata a diversi oggetti di ottone, fu recuperata nel corso di lavori di costruzione a Ita Yemoo. Tali accidentali scoperte ebbero il merito di attirare l'attenzione degli studiosi sul sito archeologico di I.-I. e numerosi scavi si succedettero tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta: K.C. Murray, B. Fagg e W. Fagg e J. Goodwin lavorarono nei siti di Olokun, Osangangan Obamakin, Iwinrin e Olokun Walode; F. Willett riprese le ricerche a Ita Yemoo; E. Eyo intraprese importanti scavi nei quartieri di Odo Ogbe e Lafogido e P.S. Garlake studiò le zone di Obalara e Woye Asiri.

La cultura di ife

La cultura di Ife è nota soprattutto per le sculture di terracotta e di metallo che vi sono state scoperte. Ciò nonostante, essa non si limita a queste manifestazioni artistiche ed è caratterizzata anche da magnifici pavimenti di frammenti fittili, da poggiapiedi di pietra scolpita, da numerose ceramiche e da monumenti megalitici che si ergono nei dintorni della città.

Le terrecotte di Ife sono numerose e variate. Esse rappresentano essenzialmente esseri umani, ritratti in uno stile naturalistico, e possono raffigurare sia alcune parti anatomiche (testa, arti) che personaggi a figura intera, le cui dimensioni variano da qualche centimetro fino a quelle reali. La figura umana è sovente idealizzata, ma in numerosi casi soggetti deformi o affetti da malattie sono rappresentati con maggiore realismo. Sono inoltre note figure stilizzate di forma conica o cilindrica e a questo corpus andrebbero inoltre aggiunte alcune rappresentazioni di animali sacri (leopardo, antilope e camaleonte) oppure di vittime di sacrifici. Questi oggetti sono caratteristici della fase detta "classica", che corrisponde all'apogeo della cultura Ife. È dunque probabile che la tecnica di realizzazione delle terrecotte, simile a quella utilizzata per la ceramica domestica, sia stata in uso nel corso di un lungo periodo; è ugualmente possibile che alcuni esemplari documentino il perdurare di un'antica tradizione di sculture su legno, che non si sono conservate.

Gli esemplari di metallo generalmente definiti "bronzi" sono in realtà sculture di ottone o di rame realizzate secondo la tecnica della cera persa. Meno numerose di quelle di terracotta, anch'esse caratterizzano la fase classica e rappresentano esseri umani. Lo stile della rappresentazione, impregnato di naturalismo e di senso estetico, è del tutto analogo a quello delle figure di terracotta. A eccezione di alcuni esemplari di figure intere ritratte in piedi, le sculture sono costituite essenzialmente da teste dai raffinati tratti, a grandezza naturale, che in alcuni casi mostrano scarificazioni. Numerose teste provenienti da Wunmonije presentano una serie di perforazioni localizzate sulla fronte, nella parte bassa del viso o sopra la bocca. Tali perforazioni sono interpretate come punti di fissaggio di capelli, barba o baffi posticci. Tracce di piccole perle incrostate nel metallo attestano peraltro che alcuni esemplari recavano vere parrucche di perle o di tessuto e addirittura corone. La funzione o la destinazione delle teste di Ife, siano esse di terracotta o di metallo, sono ancora relativamente oscure. Si tratta verosimilmente di ritratti di individui noti o venerati, di personaggi reali o di divinità, sebbene sia stata considerata anche l'ipotesi che le teste costituiscano rappresentazioni simboliche di personaggi sacrificati. La loro funzione era probabilmente legata al culto, in quanto esse sono spesso associate a tombe o ad altari, sui quali potevano essere deposte. Queste figure potevano inoltre essere applicate a corpi di legno, come lasciano supporre i fori praticati all'altezza della nuca in alcuni esemplari.

I suoli pavimentati rappresentano una parte importante delle scoperte effettuate nel corso delle ricerche. Si tratta di zone costituite da frammenti di ceramiche disposti di taglio, a formare motivi geometrici più o meno elaborati. Le composizioni possono essere varie: file lineari di frammenti fittili disposti gli uni a fianco degli altri, motivi a spina di pesce o alternanza di frammenti fittili e di ciottoli bianchi. Talvolta linee curve sono utilizzate per demarcare uno spazio vuoto riservato a una struttura non conservatasi o al luogo in cui era stato collocato un vaso, rimasto in situ. In quest'ultimo caso, lo spazio riservato si situa generalmente al centro della composizione. Sembra che tali pavimenti abbiano avuto la funzione di proteggere corti interne di edifici di destinazione probabilmente cultuale, ma forse anche domestica.

I principali scavi

La maggior parte degli oggetti della cultura di Ife proviene da scoperte di superficie, prive di contesto archeologico. Ciò nonostante, gli scavi archeologici intrapresi in alcuni importanti siti hanno permesso di integrare questa visione parziale, mettendo in luce manufatti e strutture in posizione primaria, vale a dire nel loro contesto originario. Datazioni basate principalmente sul metodo radiocarbonico hanno inoltre consentito di ubicare cronologicamente i siti e di contestualizzare in senso più generale la cultura di Ife.

Nel quartiere di Ita Yemoo, situato a nord della città di I.-I., sono stati individuati pavimenti composti di frammenti di ceramica, integri o parzialmente distrutti. Su due di essi erano deposte sculture di terracotta, verosimilmente in situ. Datazioni radiocarboniche permettono di collocare queste strutture tra l'XI e il XIV sec. d.C. La scoperta realizzata a Ita Yemoo ha consentito per la prima volta di rilevare l'associazione tra sculture appartenenti alla fase classica di Ife e strutture in posizione primaria, corrispondenti ad altari circondati da muri. Nella via Odo Ogbe, dopo la scoperta fortuita realizzata nel 1967 di una magnifica testa di terracotta, gli scavi hanno consentito di individuare due livelli di occupazione separati da uno strato sterile. Lo strato superiore conteneva un allineamento di 18 ceramiche sferiche a pasta fine, mentre nel livello inferiore sono state identificate due fosse contenenti ceramiche e ossa umane. Tali fosse sono state interpretate come tombe, la cui localizzazione doveva essere segnalata da un vaso. Nel sito è stata dunque rilevata un'antica occupazione, caratterizzata da sepolture rituali, la cui collocazione cronologica tra l'XI e il XIII sec. d.C. è precisata da una datazione all'855±95 B.P., ottenuta da un carbone di legno recuperato in una delle fosse. La figura di terracotta della fase classica scoperta in superficie e proveniente da uno strato recente sembra appartenente a un contesto secondario, poiché nessun elemento permette di attestare la sua provenienza da uno dei due strati archeologici messi in evidenza nel corso degli scavi.

Come a Odo Ogbe, anche a Lafogido la presenza di strutture archeologiche fu accertata dopo le scoperte, effettuate nel 1963 e nel 1969 dietro il palazzo reale, di una testa di elefante e di una testa di toro di terracotta. Secondo la tradizione, questa zona era utilizzata nel corso di rituali legati a un antico re, chiamato Lafogido e sepolto in questa zona. Gli scavi hanno consentito di recuperare numerose ceramiche inserite in un pavimento costituito da frammenti fittili. Tali ceramiche, rinvenute in posizione primaria, possedevano coperchi modellati in forma di teste di animale, raffiguranti un montone, un leopardo e un'antilope. In questo complesso venne rinvenuta anche una testa umana di piccole dimensioni e di stile classico, che recava sottili strie verticali. Il pavimento presentava al centro una zona riservata, a suggerire che qui fosse collocata una struttura circolare interpretata come una capanna. Fu anche individuata, ma non sottoposta a scavi, una depressione che indicava la probabile localizzazione della sepoltura di Lafogido, rivendicata dall'attuale Oni di Ife. Le scoperte realizzate in questa zona e datate tra l'XI e il XIII sec. d.C. confermano, come a Ita Yemoo, il carattere in situ di certe manifestazioni artistiche di stile classico.

Nel 1970-71 numerosi frammenti di sculture di terracotta e parti di pavimenti di cocci e pietre furono rinvenuti in una cava nei pressi della muraglia occidentale di I.-I. Le ricerche successivamente realizzate portarono alla scoperta di un complesso di pavimenti di forma generalmente rettangolare che presentavano motivi particolari. A questi pavimenti erano associate ceramiche e, come a Lafogido, al centro di due di essi erano incassate ceramiche. Una di tali ceramiche, deposta verosimilmente prima della realizzazione del pavimento, presenta una decorazione estremamente interessante: diversi oggetti cultuali e un serpente vi sono raffigurati, insieme a un piccolo altare che sostiene una testa di stile classico circondata da due teste stilizzate di forma troncoconica e cilindrica. Questa decorazione attesta la contemporaneità delle figure classiche e di quelle stilizzate e documenta la deposizione di sculture sugli altari. Nel sito è stata inoltre individuata un'importante concentrazione di reperti: crani interi e frammentari, teste umane di terracotta, vasi che contenevano a volte figurine di terracotta, così come numerosi chiodi di ferro che attestano certamente la presenza di una costruzione di legno. Si ritiene che questa zona, isolata rispetto a quella dei pavimenti, fosse occupata da un altare. D'altro canto, l'orientamento dei pavimenti, corrispondente probabilmente a corti interne aperte, documenta un unico progetto di costruzione di uno o più edifici. Il complesso delle scoperte effettuate nel sito di Obalara suggerisce quindi una sola fase di occupazione attribuibile, sulla base di una serie di datazioni radiocarboniche, alla prima metà del XIV secolo.

Il sito di Woye Asiri fu scoperto durante lavori lungo la strada di Ibadan, 100 m a sud-ovest della zona di Obalara. Qui vennero individuati 11 pavimenti che presentano zone semicircolari risparmiate e motivi geometrici. Il complesso era separato in due gruppi e uno dei pavimenti era associato a ceramiche (giare e ciotole) e a chiodi di ferro, così come a coti, percussori e asce di pietra. La dislocazione di questi pavimenti e gli spazi risparmiati per eventuali muri testimoniano l'uso di tali zone come corti interne. È stata inoltre rinvenuta un'importante concentrazione di dischi di ceramica, interpretati come elementi decorativi applicati alle pareti oggi distrutte. Le costruzioni di Woye Asiri possono essere datate tra il XIII e il XIV sec. d.C.

Datazione

Le datazioni assolute effettuate sulle strutture e le sculture di terracotta rinvenute nei vari siti Ife permettono di collocare la fase principale di sviluppo di questa cultura tra l'XI e il XV sec. d.C. Non è stato possibile ottenere datazioni assolute per le sculture di ottone o rame perché nessuna di esse proviene da strutture in situ suscettibili di datazione. Questo dato di fatto può essere spiegato con l'ausilio della tradizione religiosa, secondo la quale durante le feste rituali annuali le teste erano riesumate e quindi reinterrate fino alla cerimonia seguente, rendendo in questo modo impossibile definire il contesto di origine. I manufatti di metallo sono comunque più recenti di quelli di terracotta; sembra che l'arte di Ife si sia in primo luogo espressa attraverso opere di terracotta per essere successivamente trasposta su esemplari di metallo in seguito all'introduzione della tecnica della cera persa e della fusione in lega. La lavorazione del metallo sembra essere perdurata dopo il XV secolo e fino alla metà del XIX secolo.

Economia e religione

La prosperità e la potenza della città di I.-I., tra l'XI e il XV sec. d.C. sembrano legate alla sua capacità di attirare e di concentrare le ricchezze della regione e forse dell'intero Paese, attraverso l'intermediazione del potere reale. La sua ubicazione geografica ha certamente coinvolto la città in un sistema di scambi commerciali con le zone settentrionali e in particolare con il mondo islamizzato, così come con i grandi imperi dell'Africa Occidentale quali l'impero del Mali o l'impero Songhai. È probabile che queste relazioni commerciali siano state legate al traffico di schiavi, principale fonte di reddito del regno di I.-I. Tuttavia questo mercato non doveva essere l'unico e anche altri prodotti, quali l'avorio, le perle di vetro e il rame (quest'ultimo indispensabile alla realizzazione dei "bronzi" ma assente nei suoli della Nigeria), dovevano essere presenti in questo commercio lungo l'asse nord-sud. È molto probabile che il rame e la stessa tecnologia della fusione siano stati importati dal Nord dell'Africa attraverso il deserto. L'importanza economica della cultura di Ife sembra inoltre strettamente legata alle sue attività religiose: i numerosi altari e i resti materiali associati attestano il suo ruolo nell'organizzazione dei culti destinati a preservare la prosperità dell'Oni e a proteggere la popolazione.

Prima dell'arrivo degli Europei nel 1485, il regno di Ife seppe sviluppare un'arte di corte che rifletteva la struttura politica e religiosa della città. Le statue e le teste di Oni simboleggiano la preminenza dell'amministrazione reale, mentre i numerosi resti di santuari e luoghi di culto attestano l'importanza della religione in seno alla mitica capitale della Nigeria. Dall'inizio del XVI secolo, I.-I. perse il suo potere politico per essere sostituita dalla città di Oyo, ubicata più a nord, in prossimità del fiume Niger. Oyo ne prese rapidamente il posto nel controllo degli scambi trans-sahariani, ma quest'ultima avrebbe comunque conservato fino all'epoca attuale la sua importanza religiosa.

Bibliografia

F. Willet, Ife in the History of West African Sculpture, London 1967; Th. Shaw, Nigeria and Early History, London 1978; E. Eyo - F. Willet, Treasures of Ancient Nigeria, Detroit 1980.

Ingombe ilede

di David W. Phillipson

Sito archeologico ubicato nella valle dello Zambesi (Zambia meridionale), nei pressi della confluenza con il Lusitu, a poca distanza a valle della diga Kariba.

Il sito venne scoperto nel 1960 e nello stesso anno vi vennero condotti scavi di salvataggio da J.H. Chaplin; ulteriori ricerche furono realizzate nel 1961 e nel 1962 da B.M. Fagan. Gli studi realizzati nel 1968 da D.W. Phillipson, che portarono all'individuazione di due distinte fasi di occupazione, hanno prodotto una migliore comprensione della cronologia.

La prima occupazione, datata intorno all'VIII sec. d.C., è documentata da un villaggio in cui era praticata un'agricoltura mista, la cui tecnologia e i cui modi di vita non erano sostanzialmente diversi da quelli di gruppi coevi stanziati in altri settori dell'Africa centro-meridionale, quali quelli portatori della cultura Kalomo. Nel XIII-XIV sec. d.C. il sito venne rioccupato da una popolazione diversa, che era certamente coinvolta in commerci a lunga distanza tra le regioni interne dell'Africa e la costa dell'Oceano Indiano, presumibilmente attraverso la valle dello Zambesi. All'interno dei depositi appartenenti alla fase di occupazione più antica venne scavata una serie di inumazioni in cui i defunti erano accompagnati da ricchi corredi funerari comprendenti grandi quantità di perle d'oro e altri ornamenti, conchiglie e centinaia di perle di vetro, lingotti di rame a forma di croce che erano stati avvolti in tessuti e moltissimi fili di rame insieme con lo strumentario utilizzato per la loro realizzazione. Erano inoltre presenti gong di ferro saldati ai bordi, appartenenti a una tipologia che presso i gruppi di lingua Bantu occidentale simboleggiavano l'autorità politica. Le raffinate ceramiche rinvenute in queste sepolture e l'occupazione associata sono di un tipo del tutto distintivo che è stato identificato anche in siti coevi di aree adiacenti dello Zimbabwe. Non vi è dubbio che quest'area più meridionale sia stata il luogo di provenienza dell'oro rinvenuto a I.-I.: il suo uso per adornare i defunti attesta che esso era altamente apprezzato dalle società locali e non solo come bene di esportazione.

Bibliografia

B.M. Fagan et al., Iron Age Cultures in Zambia, II, London 1969; D.W. Phillipson - B.M. Fagan, The Date of the Ingombe Ilede Burials, in Journal of African History, 10 (1969), pp. 199-204.

Inyanga

v. Nyanga

IRODO, Baia di

di Zoe Crossland

Baia localizzata nell'estremità nord-orientale del Madagascar; deve la sua importanza alla presenza di un gruppo di siti archeologici datati tra il IX e il X sec. d.C.

Concentrazioni di conchiglie associate a ceramica locale e di importazione sono state rinvenute in gruppi lungo la baia, presso tre siti distinti. Scavati per la prima volta da P. Vérin e successivamente oggetto delle ricerche condotte da H.T. Wright, i siti della Baia di I. hanno documentato la presenza di ceramica simile per forma e decorazione a quella identificata a Maore, nelle Isole Comore. Diversità di inclusi all'interno dell'argilla e lievi differenze negli stili decorativi consentono di ipotizzare che i vasi fossero in ogni caso prodotti localmente, sebbene compartecipassero a una tradizione fittile condivisa. Una quantità ridotta di vasellame importato appare simile alla produzione ceramica identificata in siti della costa dell'Africa Orientale, come Manda, ma, a differenza di tali siti, nella Baia di I. non sono state individuate vestigia architettoniche. Differenze nella localizzazione dei siti nella baia di I., il loro accesso alle risorse idriche e le conchiglie rinvenutevi suggeriscono che essi fossero occupati stagionalmente e che probabilmente rappresentino i resti di piccole comunità del litorale, la cui economia era fondata sulle attività di raccolta e sulla pesca e che partecipavano in forma limitata all'ampia rete commerciale dell'Oceano Indiano.

Bibliografia

H.T. Wright, Early Communities on the Island of Maore and the Coasts of Madagascar, in C.P. Kottak et al., Madagascar: Society and History, Durham 1986, pp. 53-88.

Ivuna

di David W. Phillipson

Sito archeologico ubicato sulle rive del Lago Rukwa (Tanzania sud-occidentale), celebre per i suoi giacimenti di sale. Nella pianura sono localizzati stagni salati prodotti dalla ritirata delle acque del lago. Le evidenze archeologiche consentono di ipotizzare che essi vennero sfruttati per l'ottenimento di sale tra l'XI e il XV sec. d.C. La tradizione orale indica che tale pratica potrebbe essere proseguita fino a epoche più recenti. È interessante rilevare che non vi sono evidenze dello sfruttamento dei bacini di salina di I. prima dell'XI sec. d.C., nonostante la presenza di gruppi agricoli nell'area nel corso della maggior parte del I millennio d.C.

Nei bacini di salina la crosta terrestre era mescolata ad acqua per produrre acqua salata che successivamente evaporava. Depositi di terra si accumularono nei pressi dei bacini fino a una profondità di oltre 6,5 m; essi contengono ceramica che sembra presentare affinità con quella di aree localizzate più a sud piuttosto che con il vasellame, generalmente decorato mediante rotelle dentate, comune nel corso di quest'epoca in altre regioni dell'Africa. La tecnologia mediante cui a I. veniva estratto il sale appare sostanzialmente diversa rispetto alle pratiche coeve documentate in siti più settentrionali, quali Uvinza e Kibiro. Gli operai addetti all'estrazione di sale di I. coltivavano il sorgo; essi erano inoltre allevatori di bovini e di capre e possedevano galli e cani. Le perle di vetro, che potrebbero provenire dalla costa dell'Oceano Indiano, erano insolitamente abbondanti per un sito di questo periodo ubicato nell'entroterra, a indicare la prosperità che dovette derivare a esso dal controllo e dallo sfruttamento dei bacini di salina, il cui prodotto potrebbe essere stato distribuito su un'ampia area.

Bibliografia

B.M. Fagan - J.E. Yellen, Ivuna. Ancient Salt-Working in Southern Tanzania, in Azania, 3 (1968), pp. 1-43.

K2 (bambandyanalo)

di Peter J. Mitchell

Sito archeologico, il più antico di due importanti insediamenti ubicati nella tenuta di Greefswald, nel bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo (Prov. di Limpopo, Repubblica Sudafricana). Noto anche con il nome di Bambandyanalo, il suo periodo di occupazione più intensa è datato tra il 1030 e il 1220 d.C.; nelle fasi successive si assistette allo sviluppo del vicino centro di Mapungubwe.

K2 si estende su un'area di 5 ha circa e la sua organizzazione corrisponde allo schema del cosiddetto central cattle pattern. Nelle fasi più tarde della storia del sito, un enorme deposito di rifiuti (6 m di spessore) invase il recinto centrale per gli armenti, costringendo a costruire altrove nuove strutture per il bestiame. L'importanza delle mandrie bovine è testimoniata dalle sepolture di diversi animali; erano allevate tuttavia anche pecore e capre ed era praticata l'agricoltura. In seguito al declino di Schroda, il sito divenne il principale centro per i commerci con le coste dell'Africa Orientale, come documentano soprattutto i rinvenimenti di perle di vetro, alcune delle quali vennero lavorate nuovamente in loco. I braccialetti di avorio costituivano uno dei principali prodotti esportati dal sito come merce di scambio.

Bibliografia

A. Meyer, The Archaeological Sites of Greefswald, Pretoria 1998; M. Leslie - T.M.O'C. Maggs (edd.), African Naissance. The Limpopo Valley 1000 Years Ago, Cape Town 2000.

Kaditshwene

di Peter J. Mitchell

Importante insediamento Tswana, capitale del chiefdom (dominio) degli Hurutshe booMenwe tra il 1790 e il 1823 circa, situato nella Provincia Nord-Occidentale della Repubblica Sudafricana.

Le fonti storiche forniscono una descrizione accurata del sito, costituito da un complesso murario edificato su un'altura pressoché inaccessibile, nelle tenute di Bloemfontein e Kleinfontein, a nord-est di Zeerust. Le sue rovine coprono oggi un'area di oltre 3 km2. Le prospezioni confermano che l'area centrale dell'insediamento rispettava il tipico disegno tripartito dei siti Tswana e lo schema del cosiddetto central cattle pattern. Il cuore dell'insediamento era occupato dai settori destinati al leader della comunità (kgosing) e comprendeva un vasto recinto per il bestiame, un'area per le riunioni dell'élite, gli alloggi del sovrano e quelli del personale amministrativo e di servizio. La restante popolazione risiedeva in due settori separati, a nord e a sud. Il sito fu evacuato nel corso del periodo Mfecane (termine utilizzato dagli storici in riferimento alle guerre e alle migrazioni che ebbero luogo agli inizi del XIX sec.), a cui fece seguito l'espulsione degli Hurutshe a opera dei gruppi Ndebele di Mzilikazi.

Bibliografia

J.C.A. Boeyens, In Search of Kaditshwene, in SouthAfrAB, 55 (2000), pp. 3-17.

Kame

v. Khami

Kano

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Città della Nigeria fondata, secondo la tradizione, alla fine del I millennio d.C. da una casta di fabbri il cui capostipite, Kano, diede nome alla città.

Come in ogni altro nucleo abitato dell'epoca, lo sviluppo di K. si fondò su tre criteri essenziali: la difesa, l'organizzazione economica e la strutturazione sociale. La collina di Dalla e la vicina collina di Goron Dutse sono due alture isolate che emergono nella vasta area urbana pianeggiante, e a questi due punti era affidato l'avvistamento dei nemici e il controllo delle vie carovaniere. Nel XV secolo venne costruita una prima muraglia a difesa del centro abitato, che includeva anche la moschea, il palazzo dell'emiro e le abitazioni dei notabili, tra cui il Gidan Makama (residenza di un alto dignitario dell'emirato). Questo edificio, costruito tra il XVI e il XVIII secolo, occupava originariamente un'area di circa 15.000 m2. Una parte delle costruzioni della zona occidentale, che hanno mantenuto le tradizionali strutture di terra, ospita dal 1958 il Kano Museum.

Nel 1516 così Leone Africano parla di K.: "E nel mezzo della provincia è la città la quale gli dà il nome: è d'intorno murata di pali e di creta, e cotali sono le case. Gli abitatori sono civili artigiani e ricchi mercatanti" (Ramusio 1978, p. 38). Il mercato principale, costruito nella seconda metà del XV secolo, venne così descritto da H. Clapperton nel 1822: "... invero non esiste in Africa un mercato così organizzato, appropriati quartieri per distinguere i diversi articoli; all'interno, le merci più piccole in mucchi, all'esterno, i prodotti per il bestiame". H. Barth, che visitò il mercato 25 anni più tardi, riferisce in dettaglio il settore per la vendita dei cammelli e l'angolo di nord-ovest riservato al commercio degli schiavi. La gran parte degli edifici ancora esistenti nel settore più antico conserva l'impronta di uno stile architettonico preislamico (ossia anteriore al XVI sec.), con coperture a volta ribassata costruite con mattoni arrotondati e sostenute da colonne e archi, porte lavorate e ornate da placche di metallo e da elaborate serrature. Ovviamente l'uso di un materiale facilmente deperibile come l'argilla cotta al sole, oltre all'antica usanza di abbandonare una dimora alla morte del proprietario, hanno comportato continue ricostruzioni. Nel 1960, secondo Z.R. Dmochowski i tipici chioschi di vendita, formati da due lunghe ali laterali e coperti da un tetto piatto, conservavano le tre file parallele di pilastri, ma non vi era più traccia delle ricche decorazioni geometriche a rilievo nell'intonaco visibili nelle fotografie degli anni Venti.

A differenza dei grandi imperi che traevano l'essenziale delle loro risorse dai tributi versati dagli Stati vassalli, i piccoli Stati agricoli si sono dapprima concentrati sulla propria crescita regionale, sviluppando un artigianato altamente specializzato: tessitori, muratori, carpentieri, fabbri, pellai, fabbricanti di armi, decoratori, musicisti: una manodopera composta da schiavi e da stranieri assimilati, su cui dominava la classe dei mercanti, che consentì a K. di inserirsi nei circuiti del commercio internazionale.

Bibliografia

H. Clapperton, Journal of a Second Expedition in the Interior of Africa from the Bight of the Benin to Sokoto, London 1829; H. Barth, Voyages et découvertes dans l'Afrique septentrionale et centrale, Paris 1861; G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi (ed. M. Milanesi), I, Torino 1978; Z.R. Dmochowski, An Introduction to Nigerian Traditional Architecture, I-III, London 1990.

Kansanshi

di Andrea Manzo

Sito archeologico ubicato nella regione metallifera dello Shaba (Zambia) e caratterizzato dalla presenza di una miniera di rame.

La miniera di K. presenta vene verticali all'interno di fessurazioni della roccia; lo sfruttamento è quindi avvenuto attraverso gallerie con un'inclinazione assai accentuata e profonde più di 30 m, che venivano scavate con picconi e pale di ferro. Una prima separazione tra il minerale e le altre componenti della roccia metallifera avveniva in superficie, dove la roccia estratta era ridotta per martellamento in frammenti più piccoli. Lo sfruttamento della miniera di rame di K. si intensificò nel XIV-XV sec. d.C. (proseguendo fino all'epoca odierna), ma i suoi esordi si datano a diversi secoli prima. La più antica attestazione di attività metallurgiche a K. è infatti rappresentata da un crogiolo contenente resti di scorie, di rame e carbone e datato radiometricamente al V secolo. L'alta antichità delle prime fasi di sfruttamento minerario dei giacimenti di K. ha costretto a rivedere l'ipotesi secondo cui l'introduzione delle tecnologie di estrazione e lavorazione dei metalli sarebbe avvenuta in quest'area grazie ai contatti con commercianti arabi o Swahili.

La principale fase di sfruttamento minerario di K., al pari di quello della vicina miniera di Kipushi e Bwana Mkubwa, sembra attribuibile a una popolazione archeologicamente caratterizzata dalla ceramica detta "di tradizione Luangwa", prodotta a partire dall'XI sec. d.C. La presenza di questa popolazione nella regione va considerata come un episodio di discontinuità rispetto alle più antiche culture archeologiche locali. Anche in questo caso, come notato per le altre miniere della medesima regione, l'intensificazione dello sfruttamento minerario coincise con la formazione e il consolidamento delle prime formazioni statali. Il fatto che l'estrazione del minerale e il suo scambio rivestissero un'importante funzione sociale ed economica è d'altro canto evidenziato dalla presenza di caratteristici lingotti di rame cruciformi e dal peso standardizzato in contesti cimiteriali come quello di Sanga (Repubblica Democratica del Congo), in cui alla consistenza e alla qualità dei corredi funerari era affidata la rappresentazione del rango del defunto. I lingotti avevano un'ampia circolazione, costituendo probabilmente un mezzo di scambio e di quantificazione standardizzato in un'economia premonetale.

Bibliografia

D.W. Phillipson, Iron Age History and Archaeology in Zambia, in Journal of African History, 15 (1974), pp. 1-25; M.S. Bisson, Copper Currency in Central Africa. The Archaeological Evidence, in WorldA, 6 (1975), pp. 276-92; Id., Trace Element Analysis of Prehistoric Copper Samples from Kansanshi and Kipushi, in Nyame Akuma, 12 (1978), pp. 49-51.

Kasteelberg

di Peter J. Mitchell

Grande collina di granito localizzata nella Penisola di Vredenburg, nella Provincia Occidentale del Capo (Repubblica Sudafricana), in cui sono stati rinvenuti numerosi siti occupati da cacciatori-raccoglitori e da comunità di allevatori dal I millennio a.C. alla metà del II millennio d.C.

All'epoca dei primi scavi si riteneva che tali siti fossero facilmente caratterizzabili e che potessero fornire dati sostanziali per l'individuazione delle evidenze archeologiche prodotte nella Provincia Occidentale sia dai cacciatori-raccoglitori sia dai gruppi di allevatori. Indagini più recenti hanno fatto emergere un quadro assai più complesso. Alcuni siti datati agli inizi del I millennio d.C. sono stati interpretati come accampamenti temporanei occupati da gruppi che praticavano la pastorizia e la raccolta di vegetali edibili in zone dell'entroterra. Un secondo gruppo di siti datato alla fine del I millennio d.C. documenta le attività di gruppi più sedentari orientati maggiormente allo sfruttamento delle risorse costiere; nel complesso denominato Kasteelberg B le comunità pastorali del II millennio integravano consistentemente la loro alimentazione con carne di foche. Solo le ceramiche di questo periodo sono provviste di prese. La loro presenza su questo vasellame, originariamente inornato, potrebbe indicare l'ingresso in questi territori di gruppi di lingua Khoi in una fase a cavallo del 1000 d.C. Il rinvenimento di solchi in fondi rocciosi utilizzati per frammentare l'ocra, di ossa di mangusta e di uno scheletro di agnello tinto di ocra attesta pratiche cerimoniali che trovano parallelismi nelle fonti etnografiche sulle popolazioni Khoi.

Bibliografia

R.G. Klein - K. Cruz-Uribe, Faunal Evidence for Prehistoric Herder-forager Activities at Kasteelberg, Western Cape Province, South Africa, in SouthAfrAB, 44 (1989), pp. 82-97; A.B. Smith et al., Excavations in the South-Western Cape, South Africa, and the Archaeological Identity of Prehistoric Hunter-gatherers within the last 2000 Years, ibid., 46 (1991), pp. 71-90; K. Sadr et al., Herders and Foragers on Kasteelberg. Interim Report of Excavations 1999-2002, ibid., 58 (2003), pp. 27-32.

Khami (kame)

di Peter J. Mitchell

Capitale dello Stato Torwa tra la metà del XV e la metà del XVII sec. d.C., situata nei pressi di Bulawayo (Zimbabwe sud-occidentale).

Il sito copre un'area di 40 ha circa e, secondo le stime, ebbe una popolazione complessiva di 7000 individui. Il suo assetto ricorda quello di Great Zimbabwe e di altri centri di élite della tradizione Zimbabwe. Il settore centrale è occupato dalla cosiddetta Hill Ruin, un complesso di piattaforme disposte in file sovrapposte e ricoperte di fango pressato. Le piattaforme erano sostenute da muri di pietra, ornati frequentemente con disegni a scacchiera e a spina di pesce, interpretati come simboli reali o dello status di altre categorie sociali. Si trattava probabilmente dell'area palaziale del sito, all'interno della quale è stata rinvenuta una collezione di oggetti di prestigio, fra cui punte di lancia di bronzo e dadi di avorio utilizzati nelle pratiche divinatorie. Al di là di questo settore vi sono altri recinti murari, tuttavia scarse sono state le indagini effettuate nei settori destinati alla popolazione comune. A Hill Ruin furono rinvenuti principalmente resti di bovini, insieme a una vasta gamma di specie carnivore e di altri animali associati ai riti degli indovini Shona.

Bibliografia

K.R. Robinson, Khami Ruins, Cambridge 1959; T.N. Huffman, Snakes and Crocodiles. Power and Symbolism in Ancient Zimbabwe, Johannesburg 1996; I. Pikirayi, The Zimbabwe Culture. Origins and Decline of Southern Zambezian States, Walnut Creek 2001.

Kilwa

di Andrea Manzo

Sito archeologico Swahili, uno dei principali dell'area, localizzato su una penisola del settore nord-occidentale dell'isola di Kilwa Kisiwani (costa meridionale della Tanzania).

Come altre città Swahili, la sua prosperità era basata sull'esportazione di avorio, legno pregiato e oro e sul suo inserimento nel circuito commerciale dell'Oceano Indiano. Secondo quanto desumibile dalla datazione dei materiali importati, K. fu fondata intorno all'800 d.C. Non si può però escludere che siano presenti anche alcune fasi più antiche, la cui esistenza sembra essere suggerita da una datazione radiometrica ma resta per il momento controversa. Inizialmente l'insediamento era costituito da strutture di materiali deperibili che vennero in seguito affiancate ma mai completamente sostituite da strutture di roccia corallina, tra cui spicca la Grande Moschea. Benché intorno al 1000 vi sia evidenza di un consistente allargamento dell'insediamento, ancora nel XIV secolo Ibn Battuta descrisse K. come una città di case di fango, con tetti di frasche e con un'unica moschea di pietra. Le indagini archeologiche hanno confermato che gli edifici di pietra furono costruiti a partire dal XV sec. d.C., con la sola eccezione della Grande Moschea, la cui costruzione iniziò intorno al 1300. Benché non sia stato possibile ricostruire la pianta della città nel dettaglio, pare che le strade fossero strette e ad andamento irregolare, senza alcuna evidente pianificazione del tracciato.

L'isola di Kilwa Kisiwani è formata da roccia corallina con solo poche aree caratterizzate da terreno adatto all'agricoltura, e la gran parte delle risorse alimentari doveva quindi essere portata dalla costa tanzaniana. Il rinvenimento di grandi quantità di ossa di pesce e in particolare di conchiglie di molluschi edibili in contesti databili fin dalle prime fasi di frequentazione del sito suggerisce che anche le risorse marine abbiano rivestito una grande importanza nella sussistenza della popolazione di K. Fin dalle prime fasi di occupazione del sito sono documentate svariate attività artigianali, quali la lavorazione del ferro e del rame e la produzione di pendenti di conchiglia. Proprio un tipo di conchiglia, il cauri (Cypraea moneta), sembra sia stato utilizzato come mezzo di scambio prima dell'introduzione della monetazione. In queste fasi più antiche non esistono evidenze circa la presenza di musulmani a K., ma le perline di vetro importate e la ceramica persiana indicano che il sito era comunque pienamente inserito nel circuito commerciale dell'Oceano Indiano. Ben presto a queste ceramiche persiane si affiancarono anche porcellane cinesi e i vaghi di collana di vetro sembrano essere divenuti sempre più comuni.

La documentazione archeologica e le fonti storiche indicano concordemente che K. raggiunse una posizione di primato tra gli altri centri della regione nel XIV secolo, soprattutto in virtù del suo ruolo nel commercio dell'oro, probabilmente proveniente dalle miniere di Zimbabwe. La sua importanza è tra l'altro confermata dal fatto che K. batté moneta a partire dalla fine del XII sec. d.C. Tale primato durò fino al XVI secolo, quando fu compromesso dall'intervento portoghese nel commercio dell'oro. L'economia della città si riconvertì allora al commercio degli schiavi, fonte di ricchezza che venne anch'essa compromessa agli inizi del XIX secolo dall'intervento nella regione dei mercanti omaniti che controllavano Zanzibar.

Bibliografia

N. Chittick, Kilwa. An Islamic Trading City on the East African Coast, London - Nairobi 1974; J.E.G. Sutton, Kilwa. A History of the Ancient Swahili Town with a Guide to the Monuments of Kilwa Kisiwani and Adjacent Islands, in Azania, 33 (1998), pp. 113-69.

Kingany

di  Zoe Crossland

Sito archeologico localizzato in dune boscose nei pressi della Baia di Boeny (Madagascar nord-occidentale). Occupato nel corso del XIV e del XV sec. d.C., esso è rivolto verso il canale del Mozambico e un muro corre alle sue spalle, isolandolo dall'entroterra. P. Vérin ritiene che K. sia la città attaccata dai Portoghesi nel 1506.

Le vestigia archeologiche più imponenti sono concentrate in tre gruppi. Esse comprendono due probabili moschee e costruzioni di pietra con suddivisioni interne, oltre che una varietà di tombe risalenti a epoche diverse, le più antiche delle quali presentano pannelli di pietra corallina scolpiti, bugne e iscrizioni arabe. In associazione a tali sepolture sono stati rinvenuti ceramica importata e manufatti di vetro, insieme a frammenti di cloritoscisto e vasellame locale. Alla base di una delle abitazioni di pietra sono state inoltre identificate evidenze della lavorazione del ferro. Tra i beni importati figurano frammenti di porcellane smaltate verdi e pietra provenienti dall'Asia orientale e ciotole monocrome e policrome dell'Asia sud-occidentale, simili ai materiali comunemente rinvenuti in siti dell'Africa Orientale di epoca coeva. La ceramica di produzione locale comprende giare globulari e ciotole dall'orlo spesso e carenato, tutte frequentemente decorate con triangoli impressi. Tra i motivi ornamentali figurano anche bande in appliqué e impressioni ovali e a pettine. Le ciotole sono talvolta rivestite di un ingobbio di ocra rossa.

Una coppia di piccoli villaggi localizzati nella Baia di Boeny condivide la stessa ceramica di produzione locale, ma complessivamente sono a tutt'oggi scarse le evidenze che possono essere utilizzate per chiarire la relazione di K. con il suo hinterland. H.T. Wright ritiene che, sebbene la presenza di moschee e necropoli suggerisca l'esistenza di qualche forma di differenziazione sociale all'interno del sito, sia poco probabile che altri centri rurali o villaggi della regione fossero dipendenti da K., o che esso abbia svolto il ruolo di centro amministrativo di una più vasta entità regionale.

Bibliografia

P. Vérin, The History of Civilisation in North Madagascar, Rotterdam 1986; H.T. Wright et al., The Evolution of Settlement Systems in the Bay of Boeny and the Mahavavy River Valley, Northwestern Madagascar, in Azania, 31 (1996), pp. 37-73.

Kipushi

di Andrea Manzo

Sito archeologico della Repubblica Democratica del Congo, costituito da una miniera di rame il cui sfruttamento intensivo avvenne a partire dal XIV-XV sec. d.C., su una scala così ampia da destare la meraviglia e l'ammirazione dei primi prospettori minerari europei che giunsero nella regione.

Le prime fasi di sfruttamento risalgono però almeno al IX-XII secolo, secondo quanto evidenziato da alcune datazioni radiometriche ottenute da cumuli di scorie di lavorazione del metallo. Nella miniera di K. il minerale di rame è originato da una vena idrotermale e forma un'ampia massa irregolare. Lo sfruttamento è quindi avvenuto attraverso lo scavo di due ampi pozzi con pareti inclinate.

Lo sfruttamento minerario di K., come pure quello di altre miniere della medesima regione quali Kansanshi e Bwana Mkubwa, sembra attribuibile a una popolazione archeologicamente caratterizzata dalla ceramica detta "di tradizione Luangwa", che si diffuse a partire almeno dall'XI sec. d.C. e che probabilmente era di origine esogena, vista la discontinuità che è stata notata tra la sua cultura materiale e le più antiche tradizioni della regione. Non è certamente un caso che le attività di estrazione e scambio di metalli si siano sviluppate su larga scala contemporaneamente ai primi Stati nel settore sud-orientale della Repubblica Democratica del Congo. Il rame estratto a K. era fuso e forgiato in caratteristici lingotti a forma di croce dal peso standardizzato. Questi lingotti conobbero un'ampia diffusione e rappresentarono probabilmente un mezzo di scambio standardizzato, quasi una forma di moneta. Tra i siti in cui è stata segnalata un'ampia diffusione di questi manufatti va ricordato quello di Sanga, sulle rive del Lago Kisale (Repubblica Democratica del Congo).

Bibliografia

D.W. Phillipson, Iron Age History and Archaeology in Zambia, in Journal of African History, 15 (1974), pp. 1-25; M.S. Bisson, Copper Currency in Central Africa. The Archaeological Evidence, in WorldA, 6 (1975), pp. 276-22; Id., Trace Element Analysis of Prehistoric Copper Samples from Kansanshi and Kipushi, in Nyame Akuma, 12 (1978), pp. 49-51.

Komaland

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Zona archeologica ubicata nel Nord del Ghana, nei pressi del villaggio di Koma.

Negli anni Ottanta del Novecento, J. Anquandah e L. van Ham condussero una campagna di scavi di tumuli funerari localizzati su un'altura a 200-300 m s.l.m. lungo le rive dei fiumi Gongonwu e Kodage. In un centinaio di tumuli delimitati da pietre, di diametro variabile tra 4 e 20 m e dell'altezza tra 1,5 e 3 m, è stato ritrovato un gran numero di statue di terracotta, vasellame decorato, pietre da macina, dischi lavorati di argilla, oggetti di rame, ferro e bronzo, oltre a scheletri umani e animali. Già prima di questa ricerca, altri esemplari della cultura di K., probabilmente frutto di scavi illeciti, circolavano sui mercati antiquari locali e nel 1987 una galleria d'arte di Zurigo presentò un'ottantina di pezzi recuperati negli anni Settanta. Le analisi effettuate con la termoluminescenza sugli oggetti portati alla luce da Anquandah e van Ham hanno fornito datazioni tra il 1300 e il 1600 d.C. Un'indagine condotta da H. Tavernier su circa 1200 pezzi ne dettaglia in percentuale i soggetti rappresentati: 59,6%, teste semplici o picchetti; 16,7%, figure antropomorfe complete; 14,3%, figure bifronti o policefale; 3,7%, figure di animali; 5,7%, terrecotte funerarie di forme diverse.

F. Broggini e R. Broggini hanno esaminato 200 reperti del K. tentando di identificarne caratteristiche e funzioni nei riti funerari. Una prima evidenza è la coesistenza di inumazioni e di incinerazioni, dimostrate dal ritrovamento di scheletri interi e di urne funerarie; l'ipotesi formulata è che le statue fossero considerate "oggetti da nutrire" versando una libagione nella bocca o nella cavità ricavata sulla testa della figura, deduzione derivata dall'osservazione che le teste che presentavano la cavità avevano le labbra serrate, mentre quelle che ne erano prive erano raffigurate con la bocca aperta. La presenza di statue raffiguranti serpenti, coccodrilli o ippopotami sembra testimoniare un clima maggiormente umido dell'attuale. Inoltre, l'estensione del sito e la differenziazione per dimensione e ricchezza delle sepolture portano a ritenere che la necropoli facesse parte di un importante insediamento che possedeva precise strutture gerarchiche e che, per la sua posizione geografica, fosse inserita nel circuito commerciale carovaniero che collegava l'Egitto e il Nord Africa ai territori del Golfo di Guinea.

Bibliografia

J. Anquandah - L. van Ham, Discovering the Forgotten Civilisation of Komaland, Northern Ghana, Rotterdam 1985; H. Tavernier, Terres cuites Koma du nord-Ghana, étude archéométrique et classification, in Arts d'Afrique Noire, 74 (1990); F. Broggini - R. Broggini, Per un'ulteriore interpretazione delle terrecotte del Komaland (Nord-Ghana), in G. Pezzoli (ed.), Dall'archeologia all'arte tradizionale africana. Atti del ciclo di incontri (ottobre-novembre 1991), Milano 1992.

Kumbi saleh

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Sito archeologico ubicato nell'estremo Sud della Mauritania al confine con il Mali; K.S. o "Kumbi la Santa" fu l'antica capitale dell'impero del Ghana.

Nel 1916 M. Delafosse, in seguito a un approfondito studio dei testi di geografi, astronomi, letterati e cronisti arabi che tra il IX e il XV sec. d.C. percorsero quei territori registrandone gli eventi storici, giunse alla conferma che gli scavi compiuti nel 1914 da A. Bonnel de Mézière in quella località erano l'evidenza archeologica della capitale del primo impero dell'Africa subsahariana. Quella campagna mise in luce il basamento di cinque edifici di pietra, sei tumuli e una grande tomba ai cui vertici del quadrato di base si ergevano quattro colonne; il nucleo centrale era perimetrato da muri di scisto lavorato. Gli scavi furono ripresi nel 1939 da D. Lazartigue e Th. Monod, che rilevarono altri due edifici di pietra e procedettero all'inventario dei primi materiali raccolti: mole rotanti di grandi dimensioni, fusaiole e strumenti di lavoro tra cui alcune zappe a lama rotonda di ferro fissata con manicotti semicilindrici. Nel 1949 il Centro IFAN (Institut Français d'Afrique Noire) del Sudan promosse la campagna di P. Thomassey che interessò la parte alta della città. Attraverso un'indagine stratigrafica che raggiunse la profondità di 7 m venne evidenziata una sovrapposizione di interventi che consentì di datare al X secolo i primi insediamenti in quella zona. Dagli scavi dei vari livelli sono emersi grandi perle di pietra a lunga perforazione, braccialetti, perle di vetro e agata e ceramiche smaltate di colore verde, bianco e giallo datate al XII secolo. I lavori furono ripresi l'anno successivo nel nucleo della città islamica su un edificio di pietra a due piani; tra i materiali raccolti figurano ceramiche smaltate di provenienza andalusa, pesi di vetro con incisioni (la cui fabbricazione iniziò nel mondo musulmano attorno al VII sec.), pesi di pietra a forma di sfera tronca del diametro di 23 mm e pesi di ferro troncoconici da 20 g.

Nel 1951 venne effettuata una rilevazione fotogrammetrica aerea e fu inoltre elaborata una prima planimetria della zona da cui apparivano con evidenza la città di pietra nella parte alta e, circa 10 km a nord, oltre la palude e il bosco, i tumuli dell'insediamento preislamico. Quello stesso anno, R. Mauny e G. Szumowski proseguirono i sondaggi in più punti del centro urbano medievale, rilevando un sistema di spazi, piazze, ampie strade e una vasta area cimiteriale che sembrava avere nella "tomba a colonne" l'elemento direzionale di orientamento. Venne inoltre portato alla luce il muro orientale della moschea e il mirḥāb (nicchia di preghiera), che testimonia una straordinaria abilità nel taglio delle lastre di scisto (di dimensione costante: 42,94 × 21,43 × 2,8 cm) che compongono una raffinata decorazione ad alveoli triangolari accostati e sovrapposti. Dopo una lunga pausa, le indagini archeologiche furono riprese nel 1972 a opera di D. Robert e S. Robert, quindi proseguirono a fasi alterne nel 1976 per chiudersi con la campagna di scavo del 1982-84. Questa fase riveste particolare importanza in quanto sono stati rilevati nella zona nord, oltre la necropoli, diffusi livelli di occupazione risalenti al V-VI secolo, testimonianza della presenza di una città di grandi dimensioni già in periodo preislamico, che corrisponde alla descrizione che ne diede al-Bakri nell'XI secolo: "... è una grande città che ne contiene due. Una delle due è abitata dai musulmani".

Bibliografia

A. Bonnel de Mézière, Recherches sur l'emplacement de Ghana et de Takrour, Paris 1920, pp. 227-73; P. Thomassey - R. Mauny, Campagne de fouilles de 1950 à Koumbi Saleh, in BIFAN, 18 (1956), pp. 117-40; I. Robert - D. Robert-Chaleix, Sondage en bordure de la grande place de Koumbi Saleh (dattiloscritto IMRS), Nouakchott 1973; I. Evin - S. Robert, Etude de datation 14C d'époque médiévale. Site de Koumbi Saleh, in Records on Datation 14C, New York 1982; J.E.G. Sutton, Archaeology in West Africa. A Review of Recent Works and a further List of Radiocarbon Dates, in Journal of African History, 23, 3 (1982), pp. 291-313; A. Robert et al., Recherches archéologiques en République islamique de Mauritanie, in Journal des Africanistes, 54, 2 (1984), pp. 115-32.

Lalibela

di Rodolfo Fattovich

Località archeologica ubicata nel Lasta (Wollo, Etiopia settentrionale). L'area archeologica di L. comprende il più importante complesso di chiese rupestri monumentali dell'Etiopia ed è inserita nella Lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO. In prossimità di questo complesso di chiese rupestri si trovavano le residenze dei re cristiani Zaguè (XII-XIII sec. d.C.), che qui avevano stabilito la capitale del loro regno. Purtroppo le aree di abitato, di cui sono state rilevate tracce in superficie, non sono mai state scavate.

Benché noto fin dal XVI secolo, il complesso di chiese rupestri a L. è stato finora oggetto soltanto di indagini sporadiche. Queste chiese vennero descritte per la prima volta dal sacerdote portoghese Francisco Alvarez, che le visitò tra il 1520 e il 1527. Successivamente esse furono esaminate da A. Raffray e G. Simon, che pubblicarono nel 1882 la prima descrizione dettagliata, anche se incompleta, di questi monumenti, da loro erroneamente datati al VI sec. d.C. Alla fine degli anni Trenta del XX secolo le chiese di L. vennero rilevate sistematicamente da A.A. Monti della Corte e dall'architetto L. Bianchi Barriviera, cui si deve una serie di litografie che tuttora costituisce uno strumento fondamentale per lo studio di questi monumenti. Nella seconda metà del XX secolo il complesso di L. è stato visitato da un numero crescente di studiosi, viaggiatori e turisti, ma non è stato più oggetto di ricerche accurate. A partire dagli anni Venti sono stati comunque condotti vari interventi di restauro per conservare queste chiese, talvolta con risultati fuorvianti. Tra i vari interventi particolarmente impegnativo è stato quello eseguito per conto dell'UNESCO dall'architetto F. Angelini negli anni Sessanta. Attualmente le chiese si presentano in uno stato di grave deterioramento che ne minaccia seriamente la conservazione.

Il complesso di L. è costituito da 11 chiese rupestri, di cui tre monolitiche (Beta Medhane Alem, Beta Maryam, Beta Amanuel, Beta Giyorgis) e sette semimonolitiche (Beta Masqal, Beta Denagel, Beta Golgota, Beta Debra Sina, Beta Gabrael, Beta Merkurios, Beta Abba Libanos). Esse sono distribuite in modo da riprodurre la topografia simbolica di Gerusalemme. Beta Medhane Alem (Casa del Salvatore) è la più grande chiesa monolitica in Etiopia, con dimensioni di 33,5 × 23,5 × 10 m. Essa riproduce una chiesa a pianta basilicale con cinque navate, dotata di un tetto a spioventi decorato con elementi architettonici e di un peristilio esterno a pilastri quadrangolari. Molto probabilmente questa chiesa riproduceva quella aksumita di Maryam Sion ad Aksum, distrutta nel XVI secolo. Beta Maryam (Casa di Maria) è una chiesa a pianta basilicale di 15 × 11 × 10 m, con tre navate e un santuario a volta e una galleria superiore. Beta Masqal (Casa della Croce) è una chiesa ipogea a due navate divise da quattro pilastri. Beta Denagel (Casa delle Vergini) è una semplice aula con quattro pilastri cruciformi di 9,88 × 8,77 × 4,17 m.

Beta Debra Sina (Casa del Monte Sinai) e Beta Golgota (Casa del Golgota) sono due chiese gemelle. La prima è una chiesa a tre navate separate da pilastri rettangolari di 9,73 × 8,9 × 4,6 m. La seconda è il monumento più interessante di tutto il complesso. Si tratta di un'aula rettangolare di 10,3 × 6,42 × 4,6 m, divisa al centro da una fila di pilastri quadrangolari mediante cui si accede a una cappella che rappresenta il Santo Sepolcro e da questa a una cappella della Trinità con tre altari scolpiti nella roccia. Le pareti di questa chiesa inoltre sono decorate con bassorilievi rappresentanti santi. Beta Amanuel (Casa di Emanuele) è una chiesa a pianta basilicale con tre navate e un santuario con soffitto a volta, a tre piani, di 17,5 × 11,5 × 11 m; essa riproduce in modo più accurato delle altre gli elementi caratteristici dell'architettura aksumita più antica. Beta Merkurios ("Casa di Mercurio") ha pianta irregolare di 31 × 25 m, con pilastri molto rozzi, ed è assai mal conservata. Beta Abba Libanos ("Casa di Padre Libanos") ha pianta rettangolare di 9 × 7 × 7 m e riproduce tutti i principali elementi dell'architettura aksumita. Beta Gabrael ("Casa di Gabriele") ha pianta rettangolare di 19,5 × 17,5 m, divisa da pilastri. Beta Giyorgis ("Casa di Giorgio") è una chiesa a pianta cruciforme di 12,5 × 12 × 12 m e molto probabilmente riproduce il manbar, ossia il supporto su cui viene deposto il tabot che replica l'Arca dell'Alleanza conservata secondo la tradizione ad Aksum. Anche questa chiesa comunque può essere ricondotta a prototipi aksumiti.

Nel loro insieme queste chiese si ricollegano alla tradizione architettonica aksumita del I millennio a.C. Esse riproducono infatti vari elementi di epoca più antica, quali le piante perimetrali a sporgenze e rientranze e le caratteristiche "teste di scimmia" alle porte e alle finestre. Secondo la tradizione etiopica, l'intero complesso andrebbe attribuito al re Lalibela, la cui tomba si troverebbe in Beta Golgota. Non è escluso tuttavia che esse siano state scolpite e scavate in tempi diversi, in quanto presentano differenze stilistiche con un progressivo allontanamento dai prototipi aksumiti.

Bibliografia

A.A. Monti della Corte, Lalibela, Roma 1940; L. Bianchi Barriviera, Le chiese in roccia di Lalibela ed altri luoghi del Lasta, in RassStEtiop, 18 (1962), pp. 5-77; Id., Le chiese in roccia di Lalibela ed altri luoghi del Lasta, ibid., 19 (1963), pp. 5-118; S. Munro-Hay, Ethiopia. The Unknown Land, London 2003.

Lamu

di Andrea Manzo

Arcipelago localizzato 250 km a nord di Mombasa (Kenya), formato da numerose isole e isolotti che rappresentano probabilmente i resti del delta del fiume Tana, oggi spostatosi più a sud, sulla costa del Kenya.

L'arcipelago, con le sue innumerevoli possibilità di approdo e insenature protette, ha costituito un'area di insediamento ideale per città ed empori connessi con il commercio praticato lungo la costa dell'Africa Orientale soprattutto da mercanti musulmani. Alcuni dei più antichi siti con evidenze di presenza islamica nell'area sono stati rinvenuti proprio sull'arcipelago. Su una delle sue isole, Pate, è infatti localizzato l'importante sito di Shanga, mentre sull'isola di Manda è localizzato il sito omonimo. L'isola da cui l'intero arcipelago prende il nome, Lamu, ospita il sito omonimo e quello di Shella, che fino a epoche recenti sono stati i principali centri della regione.

Il sito di L., fondato nel XII sec. d.C. ma forse frequentato anche in epoche anteriori, era inizialmente formato da due insediamenti circondati da mura, a nord e a sud della cittadina attuale. Come molti dei centri urbani della regione, L. fu probabilmente originata dall'incontro della popolazione Bantu locale e dei mercanti provenienti dalla Penisola Arabica, dal Golfo Persico e dall'Estremo Oriente. L. si sviluppò grazie all'esportazione di legni pregiati e avorio dall'entroterra verso la costa in cambio di spezie, porcellane e di oggetti di artigianato; a partire dal XIII secolo fu una delle più fiorenti città-stato della costa dell'Africa Orientale. A questa fase risale la costruzione di alcuni edifici di pietra, tra cui l'Aula del Consiglio e la Grande Moschea del Venerdì, nella parte settentrionale della cittadina, e, più a ovest, il grande mercato. In seguito lo sviluppo urbanistico continuò e l'abitato si estese più a sud rispetto al nucleo originario.

Nel 1506, L. fu occupata dai Portoghesi e perse il suo ruolo di rilievo nei commerci dell'Oceano Indiano. Dopo alcune scorrerie turche e alcune ribellioni sedate dai Portoghesi, il sultanato di Oman ne guadagnò il controllo nel 1698, dando inizio a un nuovo periodo di prosperità caratterizzato dalla costruzione di numerose abitazioni e moschee di blocchi di pietra corallina e legno di mangrovia. Questo sviluppo urbanistico fu reso possibile non solo dalla prosperità economica della cittadina, ma probabilmente anche da un'estesa utilizzazione di manodopera servile. In questa fase le abitazioni dei ricchi mercanti erano decorate con porcellane cinesi e si articolavano intorno a cortili porticati. Fu costruito allora anche un bazar e si sviluppò l'area lungo la costa. Le zone periferiche intorno al nucleo cittadino con le costruzioni di pietra restarono comunque caratterizzate da strutture di fango e materiali deperibili. In questa fase intorno alla città sorsero anche grandi piantagioni coltivate da schiavi. I contrasti con Mombasa e Pate nel XVIII secolo ebbero un immediato riflesso sul piano urbanistico nel rafforzamento delle mura e nella costruzione di un forte nella parte meridionale della cittadina. Nel 1890, L. fu assegnata alla Imperial British East Africa Company. Tale atto segnò l'inizio del suo declino a fronte dell'ascesa di Mombasa e Nairobi.

Bibliografia

J. de V. Allen, Lamu Town. A Guide, Mombasa 1974; U. Ghaidan, Lamu. A Case Study of the Swahili Town, Nairobi 1975; J. de V. Allen - T.H. Wilson, Swahili Houses and Tombs of Kenya, Art and Archaeology Research Papers, London 1979; R.L. Fleming, Lamu, Kenya. A Special Islamic Townscape with no Conservation Plan and no Policy, in Monumentum, 26, 1 (1983), pp. 71-77; J.E.G. Sutton, A Thousand Years of East Africa, Nairobi 1990; P.W. Romero, Lamu. History, Society, and Family in an East African Port City, Princeton 1997.

Leopard's kopje (nthabazingwe)

di Peter J. Mitchell

Piccola collina localizzata nello Zimbabwe sud-occidentale, nei pressi di Khami, in cui sono state individuate evidenze di occupazioni successive verificatesi nel corso del II millennio d.C., la più antica delle quali è divenuta il sito-tipo della tradizione omonima.

In questo sito sono state rinvenute evidenze di abitazioni che presentano spesse pavimentazioni di fango pressato e un'armatura di fango e travi di legno; esso era probabilmente organizzato secondo il modello noto come central cattle pattern. L'importanza del bestiame è attestata non solo dalla sua ricorrenza nei complessi faunistici e dagli estesi depositi di letame, ma anche dalle numerose figurine fittili recuperate. La tradizione ceramica Leopard's Kopje è caratterizzata dalla presenza di triangoli incisi, di motivi arcuati e di chevrons sul collo dei vasi. Possono essere distinte due facies, il confine tra le quali è rappresentato approssimativamente da una linea che taglia i Monti Matopo. A sud di tale linea sono presenti dapprima ceramiche K2 e successivamente ceramiche Mapungubwe, mentre a nord vasellame affine è stato definito rispettivamente come Mambo e Woolandale. La ceramica di L.K. sembra derivare dalla tradizione Kalundu del I millennio d.C., diffusa nel settore settentrionale della Repubblica Sudafricana; verosimilmente essa documenta lo spostamento verso nord di gruppi di lingua Shona, fino al bacino dei fiumi Shashe e Limpopo e successivamente allo Zimbabwe sud-occidentale.

Bibliografia

K.R. Robinson, The Leopard's Kopje Culture. Its Position in the Iron Age in Southern Rhodesia, in SouthAfrAB, 21 (1966), pp. 5-51; T.N. Huffman, Leopard's Kopje and the Nature of the Iron Age in Bantu Africa, in Zimbabwea, 1 (1984), pp. 28-35; Id., Mapungubwe and the Origins of the Zimbabwe Culture, in South African Archaeological Society. Goodwin Series, 8 (2000), pp. 14-29.

Lohavohitra

di Zoe Crossland

Imponente affioramento granitico localizzato nella regione del Vonizongo, a nord-ovest di Antananarivo (Madagascar). Noto attraverso le tradizioni orali come la capitale del Vonizongo, datazioni radiometriche consentono di ipotizzare che esso venne occupato tra il XVI e il XVIII sec. d.C. I resti archeologici sono distribuiti in cinque località distinte sopra la collina. I materiali recuperati appaiono simili a quelli rinvenuti a Fanongoavana e Angavobe.

R. Andrianaivoarivony effettuò una ricognizione nel sito e recuperò la più cospicua raccolta di reperti nella "cittadella" ubicata sulla sommità della collina. Piattaforme residenziali e terrazze vennero identificate qui e in una località isolata ubicata nelle vicinanze. Furono individuati resti di abitazioni, consistenti in allineamenti di pietre rettangolari con ambienti interni di terra pressata e focolari associati. Il lato lungo di tali strutture era orientato in direzione nord-sud, conformemente con un modello di organizzazione spaziale a tutt'oggi rilevabile presso le comunità dell'altipiano. Nel sito più elevato sono state inoltre rinvenute numerose vaste tombe costruite con pietre e terra pressata, contenenti interramenti multipli. Fossati poco profondi localizzati tra i due siti residenziali d'altura sembrano suddividere lo spazio tra di essi.

Nei restanti tre raggruppamenti di vestigia sono predominanti i recinti di pietra, probabilmente associati con la cura del bestiame. A L. sono state individuate numerose fonti sopraelevate e resti di cordoli di pietra costituiscono evidenze di attività per il controllo delle acque a opera degli abitanti del sito. Sui versanti orientali sono stati identificati terrazzamenti agricoli e risaie abbandonate. Gli scavi hanno consentito di recuperare resti di legumi come Voandzeia subterranea, Vigna sinensis e alcune varietà di fagioli (Phaseolus vulgaris, Ph. lunatus). È stata inoltre identificata una significativa quantità di riso (Oryza sativa comunis e Oryza sativa brevis). Non sono state individuate evidenze della lavorazione di metalli o aree adibite alla produzione ceramica, sebbene siano stati recuperati scorie di ferro e blocchi di argilla carbonizzata, oltre che sfere di grafite e pietre per la levigatura che potrebbero essere state utilizzate per ottenere le lucenti superfici grigie del vasellame datato a questo stesso periodo.

Bibliografia

R. Andrianaivoarivony, Contribution à la connaissance de l'histoire du Sud Vonizongo, in Taloha, 10 (1986), pp. 73-114; Id., Les fouilles de Lohavohitra. Contribution à l'étude des aménagements d'un site ancien fortifié et perché du Vonizongo (Centre ouest), in Omaly sy Anio, 29-32 (1990), pp. 57-70.

Mahilaka

di Zoe Crossland

Sito archeologico che ospita le vestigia di una città cinta da apparati murari, localizzata dietro le paludi di mangrovie della Baia di Ampansindava, nel settore settentrionale del Madagascar; quest'area è stata oggetto di molte ricerche archeologiche, tra le quali occorre citare il dettagliato studio condotto da C. Radimilahy.

Datazioni radiocarboniche e ceramiche importate hanno consentito di collocare l'occupazione del sito tra il X e il XV sec. d.C., indicando che M. si sviluppò in epoca coeva ad alcune importanti città della costa dell'Africa Orientale quali Kilwa, Manda e Shanga. Allo stesso modo di questi siti, essa venne probabilmente frequentata da mercanti islamizzati. La maggior parte degli abitanti potrebbe avere risieduto in abitazioni costruite con materiali vegetali, ma una moschea di pietra, un imponente "forte" di forma trapezoidale, anch'esso di pietra, e strutture più piccole dello stesso materiale vennero anch'essi edificati all'interno dello spazio di circa 70 ha delimitato da un muro perimetrale. Il "forte", che ha un'estensione di 1,9 ha, è stato parzialmente scavato, ma la sua esatta funzione resta sconosciuta. Attraverso gli scavi sono stati identificati muri divisori interni e alcune evidenze di produzione specializzata. Buchi di palo individuati all'interno di questa struttura consentono di ipotizzare che essa potrebbe avere costituito un'area residenziale e/o di immagazzinamento, riservata forse ai più ricchi mercanti della città.

Accurati carotaggi del sito hanno permesso di stabilire l'estensione areale di M. nel corso di differenti periodi, da cui si rileva che agli inizi essa fu probabilmente uno dei tanti piccoli villaggi della regione, che si ampliò con relativa lentezza fino al periodo tra il XIII e il XIV sec. d.C., quando l'insediamento iniziò a espandersi velocemente, raggiungendo un'estensione massima di 70 ha. Evidenze di una varietà di materiali importati dal Golfo Persico e dall'Asia Orientale sono presenti già nei livelli più antichi, a documentare l'importanza del commercio nella crescita della città nel corso del tempo. Questi beni importati sono stati rinvenuti anche in siti costieri dell'Africa Orientale, ma la ceramica di produzione locale mostra maggiori affinità con i materiali provenienti dalle Isole Comore e da altri siti del Madagascar che non con quelli dell'Africa Orientale. Sono state rinvenute evidenze della manifattura di perle e della lavorazione di ferro e rame. Nella città circolava anche una grande quantità di vasi di cloritoscisto, anche se sembra che essi fossero prodotti in altre località del Madagascar. È probabile che gli abitanti di M. commerciassero inoltre animali e prodotti vegetali provenienti dall'hinterland della città. M. sembra essere stata abbandonata in qualche momento del XV sec. d.C.

Bibliografia

C. Radimilahy, Mahilaka. An Archaeological Investigation of an Early Town in Northwestern Madagascar, Uppsala 1998.

Main caves

v. Giant's Castle

Manda

di Andrea Manzo

Sito localizzato sull'omonima isola dell'arcipelago di Lamu (Kenya). Si tratta senz'altro del più notevole sito antico dell'isola, nella cui parte meridionale sorsero nel XVI e XVII sec. d.C. anche gli insediamenti di Takwa e Kitau.

Il sito di M. non è identificabile con alcun toponimo menzionato in documenti scritti precedenti l'arrivo nell'area dei Portoghesi. Nella cronaca di Kilwa, degli inizi del XVI sec. d.C., era menzionato un luogo chiamato Mandakha, identificabile forse proprio con M. Di lì a poco M. sarebbe entrata nella sfera d'influenza portoghese, tanto da essere attaccata per il mancato pagamento del tributo. La descrizione dell'attacco portoghese suggerisce che sull'isola fosse allora presente un insediamento consistente, visto che menziona la distruzione di abitazioni e l'abbattimento di 2000 palme. La cronologia del sito, largamente basata su ceramiche importate e su monete rinvenute nel corso degli scavi, suggerisce una sua origine nel IX sec. d.C. e attesta una continuità d'uso dell'insediamento fino al XVII sec. d.C., estendendo quindi la storia del sito anche a fasi più antiche di quelle attestate nelle fonti storiche scritte. I materiali importati rinvenuti nel corso degli scavi indicano inoltre l'importanza commerciale di M., che ebbe rapporti diretti o mediati con il Vicino Oriente, la Persia e la Cina, e il suo inserimento nel circuito commerciale dell'Oceano Indiano.

Fin dalla sua prima fase il sito sembra caratterizzarsi per la presenza di strutture di mattoni cotti con fondazioni di pietra che si affiancavano a edifici costruiti con piccole pietre e fango e a strutture leggere di materiali deperibili, sorrette da pali di legno. In seguito, M. conobbe uno sviluppo urbanistico notevole, con la costruzione di edifici pubblici, come la Moschea Settentrionale, case monumentali articolate intorno a cortili e la formazione di aree artigianali, come quella per la lavorazione del ferro, indicata da una concentrazione di scorie e dalla presenza di una fornace metallurgica. Nel XVII secolo l'insediamento di M. si spostò a sud rispetto alle fasi precedenti. In quest'epoca l'insediamento era circondato da un muro di fortificazione al cui interno sorgevano edifici pubblici, come la Moschea Meridionale, e privati, come le case, caratterizzate da due o tre piani e concentrate intorno alla moschea. Alcune strutture di pietra di questa fase sono ancora conservate anche in alzato. Anche in questa fase M. continuò a caratterizzarsi per la presenza di un nucleo centrale di strutture costruite con pietra corallina e legno, cui si affiancavano a nord-ovest alcuni quartieri interamente costruiti con fango e materiali deperibili. Il reticolo stradale, che è stato ricostruito solo per quest'ultima fase, appare irregolare e non rivela alcuna pianificazione nello sviluppo dell'abitato.

Bibliografia

J.S. Kirkman, Men and Monuments on the East African Coast, London 1964; P.S. Garlake, The Early Islamic Architecture of the East African Coast, London 1966; H.N. Chittick, Discoveries in the Lamu Archipelago, in Azania, 2 (1967), pp. 37-67; Id., Manda. Excavations at an Island Port on the Kenya Coast, Nairobi 1984; J.E.G. Sutton, A Thousand Years of East Africa, Nairobi 1990; P.W. Romero, Lamu. History, Society, and Family in an East African Port City, Princeton 1997.

Manyikeni

di Peter J. Mitchell

Sito archeologico, uno dei più importanti della tradizione Zimbabwe, ubicato nell'entroterra, a circa 50 km di distanza dalla Baia di Vilanculos (Mozambico meridionale).

La posizione e la distanza di M. da altri madzimbabwe (siti con recinti murari) testimoniano la rilevanza di questo sito. Le abitazioni, alcune delle quali sono realizzate con daga (fango pressato), si trovano all'interno di un recinto murario di forma ellittica realizzato con pietre calcaree provenienti dalla zona. Al di là del recinto vi sono altre abitazioni, occupate probabilmente dagli individui comuni. Queste evidenze e i legami con la tradizione Zimbabwe documentati dal vasellame trovano riscontro nelle fonti orali, che riportano l'insediamento a M., nel XV sec. d.C., di sovrani dissidenti provenienti da Great Zimbabwe. L'espansione dei gruppi Shona nei bassopiani del Mozambico era tuttavia già in atto, in quanto l'occupazione iniziale di M. risale al XIII sec. d.C. I ritrovamenti di diverse centinaia di perle di vetro e di due frammenti di porcellana cinese blu-su-bianco confermano l'inserimento di questo sito nella rete di commerci che interessava le coste orientali dell'Africa. L'importanza di M. potrebbe essere stata in parte determinata dall'ubicazione lungo rotte che collegavano Great Zimbabwe al mare non soggette al flagello delle mosche tse-tse, così come dalla disponibilità locale di risorse-chiave, come l'avorio o il sale, o dalla sua collocazione in una zona prevalentemente piovosa, ideale per la coltivazione di cereali. Il bestiame rinvenuto in questo sito, a meno che non fosse importato da altre zone, costringeva gli allevatori a transumanze stagionali in territori più interni, allo scopo di evitare i disagi derivanti dalla malattia del sonno, dalla siccità e dalla penuria invernale di pascoli. La distribuzione nel sito dei resti faunistici consente di ipotizzare che, a differenza della popolazione comune, che si alimentava soprattutto con le carni di caprovini, gli occupanti del recinto centrale potessero disporre di carne bovina.

Bibliografia

G.W. Barker, Economic Models for the Manekweni Zimbabwe, Mozambique, in Azania, 13 (1978), pp. 71-100; P.J.J. Sinclair, Space, Time and Social Formation. A Territorial Approach to the Archaeology and Anthropology of Zimbabwe and Mozambique, c. 0-1700 AD, Uppsala 1987.

Mapungubwe

di Peter J. Mitchell

Sito archeologico ubicato nel Transvaal (Repubblica Sudafricana). Il sito, che ha un'estensione di circa 10 ha, divenne dopo il declino di K2 il centro principale del potere economico e politico nel bacino formato dai fiumi Shashe e Limpopo, raggiungendo nelle fasi di occupazione più intensa una popolazione totale vicina alle 5000 unità.

Testimonianze di un'occupazione di modesta entità rinvenute sulla collina di Mapungubwe e nell'adiacente Terrazza Meridionale vengono datate al XII sec. d.C.; tuttavia, le strutture murarie tipiche della tradizione Zimbabwe fanno la loro comparsa a partire dal 1220 circa. La costruzione di tali opere sulla sommità della collina costituisce la testimonianza più antica in Africa Meridionale della consuetudine di far risiedere i sovrani in aree dell'insediamento separate da quelle occupate dal resto della popolazione. In quest'area furono riportate alla luce anche le tombe di oltre venti individui, tre dei quali accompagnati da corredi con oggetti d'oro. Di questi, due furono sepolti in posizione seduta, una postura associata, secondo le fonti etnografiche, a individui di alto rango. M. era il maggiore tra i numerosi insediamenti sorti in quel periodo nei territori del Nord della Repubblica Sudafricana e del Sud dello Zimbabwe. La sua rilevanza era legata in parte alla posizione strategica che occupava nella rete di commerci con le coste dell'Africa Orientale, come testimoniano i rinvenimenti di oggetti esotici, tra cui migliaia di perle di vetro, ottone, ceramiche cinesi, e l'adozione delle tecniche di tessitura del cotone. Intorno al 1290, M. perse la sua preminenza a causa dell'ascesa di Great Zimbabwe, anche le aree circostanti continuarono a essere occupate per qualche tempo, sebbene su scala assai più ridotta.

Bibliografia

E.A. Voigt, Mapungubwe. An Archaeozoological Interpretation of an Iron Age Community, Pretoria 1983; T.N. Huffman, Snakes and Crocodiles. Power and Symbolism in Ancient Zimbabwe, Johannesburg 1996; A. Meyer, The Archaeological Sites of Greefswald, Pretoria 1998; M. Leslie - T.M.O'C. Maggs (edd.), African Naissance. The Limpopo Valley 1000 Years Ago, Cape Town 2000.

Marandet

di Samou Camara

Sito archeologico ubicato alle falde della falesia di Tigidit, a sud di Agadez (Niger).

Il nome di M. è citato da numerosi autori arabi già dal IX-X sec. d.C.; al-Masudi lo impiega nel 944 per designare il popolo nero discendente di Gham che, assieme agli Zaghawa, alle genti di Kawkaw (Gao) e di Ghana, abitava le regioni occidentali del Sudan. Nel 1154 al-Idrisi descriveva M. come una città popolata, ma raramente visitata dai viaggiatori a causa della sua povertà in materia di produzione e commercio. Il sito archeologico fu visitato per la prima volta nel 1952 dal luogotenente Prautois, comandante del plotone meharista di Agadez, su richiesta di R. Mauny, membro dell'Institut Français d'Afrique Noire di Dakar. Gli scavi condotti in diverse zone dell'insediamento permisero di rinvenire numerosi focolari, frammenti di vasi, ossa calcinate e soprattutto migliaia di piccoli crogioli di terra refrattaria sparsi su una superficie corrispondente a quella di un centinaio di laboratori. Di forma troncoconica, alti 8,5 cm e con un diametro di 4,5 cm, questi piccoli vasi recano tutti tracce di rame. Nello stesso luogo sono stati rinvenuti alcuni lingotti di rame lunghi 27 cm e larghi 1,5 cm. Una moneta araba d'oro, del diametro di 1,8 cm, è stata scoperta in un insediamento vicino; essa reca su una delle facce la data 1200 dell'Egira (1785 d.C.). Tra il 1971 e il 1972 un'équipe guidata da H. Lhote, P. Colombel e B. Gado rinvenne nel sito 42.500 crogioli, alcuni dei quali contenenti residui di argento o rame associati a frammenti fittili, frammenti di scorie e ugelli per la forgiatura. Nel 1981 D. Grébénart intraprese ulteriori ricerche nella regione allo scopo di delimitare e datare gli antichi insediamenti e definirne le attività artigianali.

Gli studi condotti nel più importante degli insediamenti (Marandet 1), un agglomerato di oltre 1 ha di superficie e con più di 2 m di deposito ubicato lungo un corso d'acqua, hanno permesso di rinvenire fosse colme di frammenti di ceramica, detriti metallici e migliaia di piccoli crogioli conici, alcuni dei quali contenevano residui di rame e di piombo. I risultati delle datazioni radiometriche indicano che i metallurghi che realizzarono i crogioli di M. occuparono il sito nella seconda metà del I millennio d.C. Quanto all'origine del rame fuso a M., i dati non consentono ancora di formulare conclusioni precise: poiché sinora non sono stati scoperti siti di estrazione nella regione, è possibile ipotizzare che il metallo venisse importato mediante le carovane sahariane dirette verso le regioni meridionali e boschive. La città di M. rappresentava dunque una tappa probabilmente tecnologica e di scambio in questo circuito.

Bibliografia

R. Mauny, Découverte d'un atelier de fonte du cuivre à Marandet (Niger), in Notes africaines, 58 (1953), pp. 52-57; H. Lhote, Une étonnante découverte archéologique au Niger, in ArcheologiaParis, 51 (1972), pp. 63-67; D. Grébenart, Les premiers métallurgistes en Afrique occidentale, Paris 1988.

Mgoduyanuka

di Peter J. Mitchell

Villaggio agricolo, uno dei tanti sorti nelle praterie degli altipiani del bacino del Thukela, nel KwaZulu-Natal (Repubblica Sudafricana).

Il sito è costituito da alcuni nuclei insediativi piuttosto distanziati tra di loro, ciascuno dei quali comprendeva un recinto ovale per il bestiame con o senza strutture murarie annesse, intorno al quale si disponevano le abitazioni. Alcune abitazioni avevano pavimentazioni di pietre, tuttavia la loro intelaiatura, realizzata con materiali organici, non si è conservata. Tra gli elementi di rilievo osservati a M. e negli insediamenti a esso collegati si segnalano gli accessi al recinto principale per il bestiame, rivolti costantemente in direzione del pendio e spesso pavimentati con pietre piatte. È stato inoltre rilevato il frequente utilizzo di terra in sostituzione delle pietre per la costruzione del recinto e delle strutture murarie secondarie. Raramente sono stati rinvenuti depositi di ceneri e di altri rifiuti domestici, diversamente da quanto avviene in molti insediamenti con opere murarie, come Ntsuanatsatsi, identificati negli highveld (altopiani privi di alberi nella Repubblica Sudafricana), lasciando ipotizzare l'esistenza di differenti consuetudini all'interno della comunità di M. Il sito fu probabilmente occupato tra il XVII e il XVIII sec. d.C.; il vasellame recuperato appartiene alla fase recente della tradizione Blackburn, pur essendo privo di elementi, come le protuberanze applicate, tipici della ceramica coeva rinvenuta più a nord nello Zululand. Analogamente, il modello insediativo è difforme da quello osservato tra i gruppi Zulu del XIX/XX sec. d.C. Dai depositi faunistici emerge che si praticava l'allevamento soprattutto di bovini e, in misura minore, di caprovini. Il sito ha prodotto alcune tra le più antiche testimonianze della presenza di mais nella Repubblica Sudafricana, mentre il ritrovamento di cucchiai da fiuto di osso potrebbe testimoniare indirettamente l'uso di tabacco.

Bibliografia

T.M.O'C. Maggs, Mgoduyanuka. Terminal Iron Age Settlement in the Natal Grasslands, in Annals of the Natal Museum, 25 (1982), pp. 85-113.

Mgungundlovu

di Peter J. Mitchell

Capitale del regno Zulu e residenza del re Dingane dal 1829 al 1838, situata nell'area centro-settentrionale del KwaZulu-Natal (Repubblica Sudafricana).

Il settore centrale è occupato da un vastissimo recinto utilizzato per il bestiame, per parate militari e danze. Intorno a esso sorgevano quartieri militari con alloggi di dimensioni standardizzate e distanziati in maniera regolare che accoglievano diverse migliaia di guerrieri; tra le abitazioni si trovavano capanne sostenute da pali dove si custodivano le armi. Nella zona più elevata del recinto principale vi era l'isigodlo, un'area che comprendeva un altro settore per il bestiame e il quartiere residenziale della famiglia reale e del suo seguito. La residenza personale di Dingane corrisponde alla descrizione fornita dalle fonti storiche; si tratta di una struttura monumentale sostenuta da 22 travi decorate con modanature e dotata di un focolare dalla particolare forma a sei punte. All'interno dell'isigodlo, e nei settori retrostanti, sono stati rinvenuti fosse utilizzate per l'immagazzinamento delle granaglie, tracce della produzione di ottone e materiali collegati con i riti di iniziazione di adolescenti di sesso femminile. Il sito venne intenzionalmente distrutto dopo che l'esercito Zulu fu sconfitto dagli immigrati Boeri nella battaglia del Blood River. L'incendio del sito e il divieto di riutilizzare i centri degli antichi regni consentirono la parziale preservazione di M., di cui sono stati ricostruiti alcuni settori nell'ambito degli interventi previsti per il recupero del patrimonio storico indigeno.

Bibliografia

J.E. Parkington - M. Cronin, The Size and Layout of Mgungundlovu 1829-1838, in South African Archaeological Society. Goodwin Series, 4 (1979), pp. 133-48; I. Plug - F. Roodt, The Faunal Remains from Recent Excavation at Mgungundlovu, in SouthAfrAB, 45 (1990), pp. 47-52; F. Roodt, Evidence for Girls' Initiation Rites in the Bheje Umuzu at Mgungundlovu, in South African Journal of Ethnology, 15 (1992), pp. 9-14.

Moloko, tradizione

di Peter J. Mitchell

Tradizione ceramica a cui appartengono le produzioni fittili realizzate dalle popolazioni moderne dell'Africa Meridionale di lingua Sotho e Tswana.

Le decorazioni sono costituite da bande multiple distanziate, generalmente riempite con triangoli, archi e chevrons incisi o impressi con denti di pettini. Gli spazi tra le bande decorate sono spesso dipinti nei colori rosso o nero. Diverse varianti della tradizione M. possono essere correlate, grazie alla documentazione etnografica e alla loro distribuzione sul territorio, con i gruppi Sotho-Tswana, per quanto la fase Icon, datata nella valle del Limpopo e nel Botswana sud-orientale al XIV e agli inizi del XV sec. d.C., sia anteriore alle epoche cui risalgono le tradizioni orali. Facies successive sono note in Botswana, nella Provincia Nord-Occidentale della Repubblica Sudafricana e nella catena del Magaliesberg dal XV al XVII sec. d.C., precedendo la comparsa in queste aree di insediamenti con strutture murarie nei luoghi in cui si ritrovano in seguito. La ceramica rinvenuta in siti del tipo N, come Ntsuanatsatsi e negli insediamenti successivi sorti negli highveld (altopiani privi di alberi nella Repubblica Sudafricana) tra il XVII e il XIX sec. d.C. presenta decorazioni impresse con pettini, applicate o pizzicate in sostituzione delle bande multiple. Si presume che tali elementi abbiano un'origine distinta dalla fase Icon, per quanto siano a questa collegata. Ceramica della tradizione M. è stata recuperata anche in siti agricoli datati alla metà e alla fine del II millennio d.C., nelle province di Limpopo e di Mpumalanga e nello Swaziland, e occupati dai gruppi di lingua Sotho Settentrionale. Dai repertori fittili e dalle evidenze linguistiche risulterebbe che la tradizione M. non abbia avuto origine in Africa Meridionale, ma provenga forse dallo Zambia o dalla Tanzania, in quanto non vi sarebbe una filiazione diretta con le produzioni fittili del I millennio d.C.

Bibliografia

T.M. Evers, 'Oori' or 'Moloko'? The Origins of the Sotho-Tswana on the Evidence of the Iron Age of the Transvaal, in SouthAfrJSc, 79 (1983), pp. 261-65; T.N. Huffman, Regionality in the Iron Age. The Case of the Sotho-Tswana, in Southern African Humanities, 14 (2002), pp. 1-22; J.C.A. Boeyens, The Late Iron Age Sequence in the Marico and Early Tswana History, in SouthAfrAB, 58 (2003), pp. 63-78.

Mouyssam ii

di Samou Camara

Tumulo ubicato circa 10 km a ovest di Soumpi (Mali), scavato nel 1985-86 da un'équipe composta da M. Raimbault, K. Sanogo, M. Dembélé, T. Togola, N. Coulibaly e V. Chieze.

Il materiale di superficie è costituito da resti di strutture di argilla cotta, accumuli di ceneri, blocchi di gres, ossa animali e importanti concentrazioni di frammenti fittili. I sondaggi hanno evidenziato una stratigrafia comprendente dotti di terracotta, evidenze di lavorazione del ferro, strutture di pietra, focolari e depositi di ceramica. È stata inoltre rinvenuta la sepoltura di un bambino in decubito laterale destro; accanto alle ossa parietali e all'altezza del bacino sono state identificate perle di gusci di uova di struzzo. È stato inoltre individuato un suolo di abitazione su cui erano presenti un deposito di ceneri, frammenti fittili, ossa calcinate e un muro di mattoni crudi, forse corrispondente a una costruzione circolare di 6,7 m di diametro. Un'altra superficie abitativa conteneva alcuni vasi interi e un focolare con depositi di ceneri. Per le prime fasi di occupazione del tumulo è stato rinvenuto materiale fittile in quantità relativamente scarsa, oltre a scorie e a un frammento di ugello di bassoforno, che costituiscono probabili indizi di rapporti tra i primi occupanti e la metallurgia del ferro. Le occupazioni di M. II sono datate tra il 240-540 d.C. e il 605-680 d.C.

Bibliografia

M. Raimbault - K. Sanogo, Les données de la fouille sur la butte de Mouyssam II (KNT 2). Campagnes de 1985 et 1986, in Recherches archéologiques au Mali, Paris 1991, pp. 301-23.

Naletale

di Peter J. Mitchell

Sito appartenente alla fase Khami, ubicato circa 25 km a est di Danangombe (Zimbabwe occidentale); è localizzato su una collina, in posizione dominante sul territorio circostante, e presenta gli apparati murari di pietra con le più elaborate decorazioni dell'intero Zimbabwe, comprendenti chevrons e motivi a lisca di pesce e a scacchiera.

Le prime ricerche a N. vennero condotte da D. Randall-MacIver agli inizi del XX secolo; la pianta del sito è organizzata secondo il modello Zimbabwe studiato da T. Huffman. Oltre agli apparati murari di pietra, le strutture architettoniche in buono stato di conservazione comprendono piattaforme costruite con pietre e fango, abitazioni di daga (fango pressato) e monoliti di pietra collocati nei muri. Frammenti di avorio di elefante sono stati rinvenuti nei buchi di palo al di sotto di una delle abitazioni. Storicamente parte dello Stato Torwa, secondo quanto lasciano ritenere le sue ridotte dimensioni e l'assenza di citazioni del sito come capitale, N. fu probabilmente un centro reale secondario rispetto alla capitale dello Stato Torwa localizzata a Khami, avendo forse controllato il settore orientale del regno.

Bibliografia

D. Randall-MacIver, Medieval Rhodesia, London 1906; T.N. Huffman, Snakes and Crocodiles. Power and Symbolism in Ancient Zimbabwe, Johannesburg 1996; I. Pikirayi, The Zimbabwe Culture. Origins and Decline of Southern Zambia States, Walnut Creek 2002.

Niani

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Sito archeologico e città-capitale dell'antico impero del Mali (XIII-XV sec. d.C.); oggi è un villaggio di 800 abitanti ubicato nel Nord della Repubblica di Guinea ai confini con il Mali (11° Lat. N, 9° Long. O.), sulla riva sinistra del fiume Sankarani.

"Se vuoi sale, vai a Niani perché Niani è l'accampamento delle carovane del deserto / Se vuoi oro, vai a Niani perché Buré, Bambugu, Wagadu lavorano per Niani / Se vuoi bei tessuti, vai a Niani perché la strada della Mecca passa per Niani / Se vuoi pesce, vai a Niani è là che i pescatori di Muti e Jeno [Mopti e Djenné] vengono a vendere le loro prede / Se vuoi carne, vai a Niani il paese dei grandi cacciatori, dei buoi e dei montoni / Se vuoi vedere l'armata, vai a Niani è là che risiede il figlio della donna bufalo, l'uomo dai due nomi". Questa è l'immagine di N. che vive nelle parole dei cantori tradizionalisti.

Ricercatori, storici, antropologi e archeologi si sono da tempo interrogati sull'esatta posizione della capitale dell'antico impero del Mali. Varie ipotesi sono state avanzate: nel 1922, J. Vidal indicò un villaggio lungo il fiume Niger, nella zona di Segou; nel 1924 M. Delafosse, basandosi su Vidal, si concentrò su alcuni siti tra i fiumi Niger e Sankarani nei pressi di Kangaba, attuale centro storico-religioso sede di rituali in onore degli imperatori del Mali. M. Gaillard nel 1923, recuperando le indicazioni dei tradizionalisti, sostenne che N. fosse di fatto la capitale, distrutta in seguito dall'esercito dei Bambara. Nel 1958 R. Mauny effettuò una rilevazione aerea della zona di confluenza

dei due fiumi e notò la presenza di diversi tumuli risultanti da rovine di costruzioni di terra. Tra il 1965 e il 1975 una campagna di scavo promossa dall'Istituto Nazionale di Ricerca della Guinea, diretta da D.T. Niane e da W. Filipowiack, archeologo dell'Università di Varsavia, ha condotto a termine una prima indagine sul sito di N. La zona della ricerca ha interessato un'area di 3000 ha a nord del fiume Sankarani, divisa in sei stazioni: 1) la città dei re, dove sono state rilevate fondazioni di case di pietra, le rovine di una moschea accanto alle radici di un baobab (la tradizione orale afferma che tale albero era il punto di riferimento della moschea); 2) la città nuova, più volte distrutta nel 1545 dall'Askia Ishaq I, e di nuovo nella seconda metà del XIX secolo ‒ questa città fu ricostruita nel XVIII secolo a nord del primo insediamento utilizzando i materiali di recupero dalle rovine; 3) vasti tumuli denominati Larabon-so, "la città araba"; in questa stazione gli scavi hanno raggiunto la profondità di 6,7 m identificando diversi livelli abitativi del VI-XII secolo. Il nucleo medievale, risalente al XII-XVI secolo, corrisponde al secondo e terzo livello; 4) nelle zone periferiche, i borghi di tessitori, fabbri e pescatori chiudono il disegno della città nella zona est verso le alture di Kourou; 5) 3 km a nord, le aree cimiteriali dove nella stazione b sono state rinvenute ceramiche votive a stelo decorato, datate al 14C al 915-960 d.C.; 6) cumuli di pietre in posizione di barriera difensiva sbarrano l'accesso alla città da nord e da est dove scorre il fiume Sarkolé. A 2 km di distanza è stato inoltre localizzato l'antico porto sul fiume.

Il materiale archeologico messo in luce a N. non corrisponde, secondo alcuni studiosi tra cui M. Cornevin, alle descrizioni dei testi arabi evocanti i fasti di corte degli imperatori del Mali; tuttavia, i numerosi interventi di storici e tradizionalisti raccolti nei quattro volumi della Fondation SCOA (Société Commerciale de l'Ouest Africain) pour la Recherche Scientifique en Afrique Noir dedicati alla storia dell'impero Mandingo confermano N. come città-capitale.

Bibliografia

W. Filipowiak - S. Iasnoz - R. Wolaiewicz, Les recherches archéologiques polono-guinéennes à Niani en 1968, in Materiały Zachodniopomorskie, 12 (1970), pp. 575-648; J. Suret-Canale, La République de Guinée, Paris 1970; D.T. Niane, Le Soudan occidental au temps des grands empires, Paris 1975; W. Filipowiak, Études archéologiques sur la capitale du Mali, Szczecin 1979; M. Cornevin, Archéologie africaine à la lumière des découvertes récentes, Paris 1993.

Nthabazingwe

v. Leopard's Kopje

Ntsuanatsatsi

di Peter J. Mitchell

Prominente collina nel Nord-Est del Free State (Repubblica Sudafricana), collegata tradizionalmente con le origini dei gruppi meridionali Sotho del Free State e del Lesotho.

Gli scavi effettuati in quest'area, nel sito di OU1, hanno consentito di riportare alla luce un esempio classico del cosiddetto "modello di insediamento del tipo N", una delle numerose varianti del central cattle pattern identificato nei villaggi agricoli con strutture di pietra sorti nel II millennio d.C. nell'interno della Repubblica Sudafricana. OU1 viene datato al XV sec. d.C. e rappresenta uno dei più antichi insediamenti agricoli a sud del fiume Vaal. Tali evidenze concordano con la cronologia riportata dalle fonti orali riguardo la presenza in questi territori di gruppi Fokeng, tuttavia OU1 e il sito di OU2 costituiscono gli unici siti agricoli di questo periodo rinvenuti sugli highveld (altopiani privi di alberi della Repubblica Sudafricana). Vi è quindi la necessità di ulteriori ricerche che possano confermare la loro antichità.

Dopo le fasi iniziali di occupazione, il sito fu interessato da mutamenti e potrebbe essere stato ancora in uso agli inizi del XIX sec. d.C. La cultura materiale rinvenuta comprendeva essenzialmente, invece che ceramiche, oggetti d'osso e metallo, pipe di pietra utilizzate forse per il consumo di Cannabis e una conchiglia di Cypraea, probabile testimonianza dei contatti esistenti con le coste dell'Oceano Indiano. Gli abitanti di N. allevavano soprattutto bovini, e in misura minore caprovini; era praticata inoltre la caccia a gnu e alcefali.

Bibliografia

T.M.O'C. Maggs, Iron Age Communities of the Southern Highveld, Pietermaritzburg 1976.

Nyanga (inyanga)

di Peter J. Mitchell

Area localizzata nel settore orientale dello Zimbabwe, in cui dal XIV al XIX secolo si verificò un peculiare sviluppo culturale.

L'area di N., che è stata oggetto di numerosi progetti archeologici, i più recenti dei quali condotti dal British Institute e dalla Università dello Zimbabwe, ha fornito uno degli esempi meglio conservati di un paesaggio agricolo precoloniale a tutt'oggi esistente in Africa Meridionale. I tratti principali comprendono terrazze, canali d'acqua e depressioni cinte da muri di pietra, che avevano le funzioni di preservare i suoli, disboscare i terreni, facilitare il drenaggio e fornire ricovero agli armenti (al fine di concentrare il letame per fertilizzare i campi). Congiuntamente, tali infrastrutture documentano alcune delle strategie adottate per mantenere in efficienza i terreni agricoli ubicati ad altitudini elevate e marginali per la coltivazione. Possono essere distinte tre fasi di occupazione, ciascuna delle quali differenziata sul piano spaziale e altitudinale: mutamenti delle condizioni climatiche ed effetti delle attività umane di disboscamento probabilmente spiegano alcuni di questi modelli. Relazioni reciproche di scambio tra le comunità delle regioni montuose e quelle dell'adiacente bassopiano potrebbero avere costituito un'altra componente del sistema economico. Oltre alle evidenze di attività agricole, sono stati identificati "forti" con muri di pietra, che potrebbero essere stati utilizzati come centri di capi locali. Comunque, l'area di N. sembra avere partecipato in misura molto ridotta alle reti commerciali a lunga distanza e non avere ospitato complesse gerarchie sociali, anche se parte di essa cadde sotto il controllo dei Rozvi nei secoli XVII-XVIII. Sono necessarie ulteriori ricerche per chiarire le origini del complesso Nyanga ‒ che sono chiaramente distinte da quelle della tradizione Zimbabwe ‒ e le ragioni soggiacenti al suo abbandono definitivo, avvenuto probabilmente agli inizi del XIX secolo.

Bibliografia

R. Summers, Inyanga. Prehistoric Settlements in Southern Rhodesia, Cambridge 1958; R. Soper, Nyanga. Ancient Fields, Settlements and Agricultural History in Zimbabwe, Nairobi 2002.

Oosterland

di Peter J. Mitchell

Vascello della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) naufragato presso Milnerton Lagoon, nelle acque di Table Bay (Repubblica Sudafricana) nel 1697. Rinvenuto nel 1988 da M. Barchard, un subacqueo dilettante, è stato oggetto di uno dei primi scavi scientifici di archeologia subacquea effettuati in Africa Meridionale.

Tra i ritrovamenti vi sono spezie, cesti di vimini che potrebbero avere contenuto indaco (impiegato come tintura), legni duri tropicali e conchiglie di Cypraea utilizzate come beni di scambio nell'acquisto di schiavi in Africa Occidentale. Tra gli oggetti di uso personale si segnala un gruppo di strumenti probabilmente appartenenti a un chirurgo o a un barbiere. Di particolare interesse è il rinvenimento di porcellane cinesi e giapponesi in settori del vascello diversi da quelli solitamente destinati al trasporto di tali oggetti. I documenti della Compagnia indicano tuttavia che il commercio di porcellana non era di particolare rilievo all'epoca del naufragio in ragione degli scarsi profitti. Tali ritrovamenti potrebbero invece testimoniare il commercio illegale di questi manufatti a opera di singoli individui impiegati nella Compagnia.

Bibliografia

B.E.J.S. Werz, Diving up the Human Past. Perspectives on Maritime Archaeology, with Special Reference to Developments in South Africa until 1996, Oxford 1999.

Ouara

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Capitale del sultanato del Wadai, localizzata nell'odierno Ciad orientale e fondata dal capostipite della dinastia, Abd al-Karim, che regnò dal 1635 al 1665.

A questo sultano si devono alcune tra le più importanti costruzioni: la massiccia muraglia di cinta, il piccolo edificio quadrato detto "casa del marabutto", al centro del quale si erge un pilastro che materializza il centro fisico e metafisico del regno; alcuni settori del palazzo (in specie gli appartamenti privati) e, all'esterno delle mura, la prima moschea. La sua opera venne continuata dal figlio Harot (1655-78), che assunse un architetto egiziano per realizzare un piano grandioso. Il progetto richiese una cospicua manodopera composta da prigionieri di guerra, di schiavi e da un gran numero di cittadini reclutati a forza; la cottura di milioni di mattoni spogliò quasi totalmente il paese della sua vegetazione, le popolazioni nomadi fornirono i buoi e i dromedari il cui grasso, mescolato all'argilla, aumentava la resistenza dell'impasto per i mattoni; le pietre vennero trasportate da lontani rilievi rocciosi, i tronchi e le canne di bambù dalle zone meridionali. Al termine dei lavori, l'architetto fu messo a morte per impedirgli di realizzare in altro luogo un'impresa simile e perché le tecniche usate nella costruzione di O. restassero per sempre segrete.

Attorno al 1845 la capitale del sultanato venne spostata a Abéché e O. fu abbandonata al declino. Dall'inizio del XIX secolo diverse segnalazioni di queste splendide rovine attirarono l'attenzione di studiosi e visitatori. Negli anni Sessanta del Novecento la grande muraglia difensiva, alta circa 4 m e larga 3, aveva ancora in parte resistito a oltre un secolo di incuria, e così il palazzo reale, la residenza della madre del sovrano, la sede del tribunale, la moschea e le abitazioni dei dignitari e dei capi militari. Attorno alla sala centrale del consiglio, alta oltre 8 m e dai muri costruiti con mattoni disposti a contrasto senza traccia di malta, erano ancora visibili le quattro stanze destinate alla guardia personale del sultano. La stessa altezza dei soffitti è stata rilevata nei resti dell'edificio a due piani che ospitava le spose e le concubine reali. Presso la moschea, in uno spazio esagonale delimitato da un basso muro, si trova il cimitero che ospita le salme di 19 sovrani dove le tombe ricoperte dalla sabbia portata dal vento si distinguevano appena. Nel 1963 la Divisione del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO incaricò J.-P. Lebeuf di una missione esplorativa in prospettiva del restauro di questo sito, giudicato "il più bel complesso architettonico antico del territorio nazionale del Ciad". Gli avvenimenti politici avrebbero in seguito vanificato questo progetto; di fatto, il resoconto della missione archeologica, edito nel 1989, venne significativamente intitolato Ouara, città perduta.

Bibliografia

J.-P. Lebeuf - J.H. Immo Kirsch, Ouara, ville perdue, Paris 1989.

Oudepost 1

di Peter J. Mitchell

Avamposto militare della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) edificato a Langebaan Lagoon, a nord di Città del Capo (Repubblica Sudafricana).

Fondato nel 1669 per contrastare gli interessi coloniali dei Francesi nella regione del Capo, O. 1 divenne più tardi una stazione per l'approvvigionamento delle navi e per il commercio con le locali popolazioni Khoikhoi. Fu abbandonato nel 1673, dopo gli scontri che opposero gli Europei con i gruppi indigeni, per essere più tardi rioccupato e infine, nel 1732, ricostruito in un'area vicina. Gli scavi hanno riportato alla luce testimonianze dell'occupazione coloniale distribuite su un'area di oltre 2500 m2 e concentrate intorno a un forte poligonale e a due edifici minori. Le strutture furono edificate con materiali locali; presentavano tetti di canne e muri di pietre intonacati. L'esame della stratigrafia e di gran parte dei manufatti non consente di distinguere le due fasi di occupazione, anche se dall'analisi delle pipe di terracotta è stato possibile ricostruire una sequenza cronologica che copre il periodo di occupazione attestato dalle fonti storiche.

Rinvenimenti di rilievo sono costituiti da ceramiche di produzione locale, da ceramiche cinesi ed europee, da pietre focaie adoperate negli acciarini delle armi da fuoco (alcune delle quali lavorate in loco) e da un timbro utilizzato per una spedizione di tessuti. Il deposito faunistico indica il consumo delle carni di ovini e di bovini, che erano anche oggetto di commerci con i gruppi Khoikhoi, così come la caccia a specie selvatiche. Poiché le fonti documentarie riferiscono che i gruppi Khoikhoi furono gli unici gruppi a visitare il sito, si è ipotizzato che i manufatti litici rinvenuti siano da attribuire a queste genti, e non a gruppi di cacciatori-raccoglitori. Tale evidenza confermerebbe quindi la tesi secondo cui dalla documentazione archeologica disponibile nella Provincia Occidentale del Capo non sarebbe possibile distinguere i gruppi di allevatori dalle bande di cacciatori-raccoglitori, anche perché con probabilità non vi furono due gruppi distinti. Questa interpretazione non è stata comunque unanimemente accettata, in quanto non è ancora del tutto chiaro se la cultura materiale della Later Stone Age sia stata lasciata nel sito prima dell'occupazione iniziale o nell'intervallo tra le due occupazioni olandesi del sito.

Bibliografia

C. Schrire - J. Deacon, The Indigenous Artefacts from Oudepost 1, a Colonial Outpost of the VOC at Saldanha Bay, Cape, in SouthAfrAB, 44 (1989), pp. 105-13; C. Schrire - K. Cruz-Uribe - J. Klose, The Site History of the Historical Site at Oudepost 1, Cape, in South African Archaeological Society Goodwin Series, 7 (1993), pp. 21-32; C. Schrire, Digging through Darkness. Chronicles of an Archaeologist, Richmond 1995.

Oulata

v. Walata

Phalatswe

di Peter J. Mitchell

Capitale tra il 1889 e il 1902 delle società Bangwato, un chiefdom (dominio) Tswana sorto nell'odierno Botswana e governato alla fine del XIX sec. d.C. dal re Khama III.

Il sito è stato oggetto di indagini estensive; le ricognizioni hanno interessato anche i settori periferici dell'abitato, caratterizzati da una modesta densità abitativa. Ulteriori ricerche hanno esaminato l'impatto sull'ambiente del sito, che raggiunse nel periodo di maggiore sviluppo una popolazione complessiva di 30.000 abitanti, e il potenziale agricolo del territorio circostante. Le indagini sul campo compiute a Ph. e a Ntsweng, centri abitati dalla tribù Bakwena, hanno posto in risalto come i nativi incorporassero attivamente nelle loro comunità gli elementi di derivazione europea che avessero una certa rilevanza. A Ntsweng le abitazioni a pianta rettangolare sono rare e rispecchiano evidentemente la ricchezza dei rispettivi proprietari, ma a Ph. la loro costruzione venne proibita nelle zone esterne all'area occupata dall'insediamento europeo. Al contrario, la chiesa della Missione di Ph. è situata in una posizione dominante nel centro abitato, a sottolineare la conversione del re Khama III e l'uso che egli fece del cristianesimo per aumentare il suo potere nei confronti dei gruppi tradizionalisti Bangwato. Il signore dei Bakwena, Sechele I, ebbe un atteggiamento più ambiguo nei riguardi della nuova religione; da un lato espresse un certo interesse, tentando di assorbirne gli elementi che avrebbero accresciuto la sua autorità, dall'altro non rinunciò né alla poligamia né ai riti tradizionali per propiziare le piogge. Conseguentemente, la chiesa, dalla quale venne respinto, era situata a diversi chilometri di distanza da Ntsweng.

Bibliografia

D.A.M. Reid et al., Tswana Architecture and Responses to Colonialism, in WorldA, 28 (1997), pp. 370-92.

Pitsaneng

di Peter J. Mitchell

Piccolo riparo sotto roccia situato 1 km circa a monte del sito di Sehonghong, nelle montagne del Lesotho; in esso furono rinvenute pitture rupestri, oggi scomparse, il cui significato fu reso noto nel 1873 da informatori boscimani Qing.

È ipotizzato che i soggetti dipinti potessero rappresentare individui impegnati nelle cerimonie di iniziazione Sotho, a testimonianza forse di una parziale fusione dei sistemi di credenze boscimani con quelli delle comunità di agricoltori negli ultimi secoli del II millennio d.C. Nonostante la scarsa profondità del deposito, gli scavi hanno riportato alla luce la sepoltura di un individuo khoisanide, l'unica conosciuta in Lesotho, e hanno consentito di datare gran parte delle tracce di occupazione ai secoli che precedono la Little Ice Age. Gli oggetti esotici rinvenuti, tra cui un frammento di ceramica Moloko e perle di vetro (alcune delle quali simili a quelle rinvenute nel bacino del Limpopo), suggeriscono che gli occupanti di P. avessero contatti e scambi, in forma diretta o indiretta, anche su distanze considerevoli, con le comunità di agricoltori. Il numero estremamente elevato di resti di ovini presenti nel deposito faunistico consente inoltre di ritenere che gli abitanti del riparo integrassero la caccia e la raccolta con le pratiche di allevamento, seppure su scala limitata.

Bibliografia

L.G.A. Smits, Rock-Painting Sites in the Upper Senqu Valley, Lesotho, in SouthAfrAB, 28 (1973), pp. 32-38; J.H. Hobart, Forager-Farmer Relations in South-Eastern Southern Africa. A Critical Reassessment (PhD Diss., University of Oxford), Oxford 2003.

Rezoky

di Zoe Crossland

Sito archeologico del Madagascar meridionale, indagato per la prima volta da P. Vérin nel 1970. L'odierno villaggio di R. è localizzato nei pressi del fiume omonimo, nelle regioni interne sud-occidentali, e il sito si trova 1400 m a nord.

Non esistono tradizioni orali locali associate a R., a eccezione di un mito secondo cui molto tempo fa il villaggio sarebbe stato sommerso da un'inondazione e i suoi abitanti trascinati via. Il sito è localizzato su un lieve declivio e i processi di erosione hanno prodotto una distribuzione in superficie, su una vasta area, dei resti culturali. Le trincee di scavo vennero in un primo momento aperte sul lato settentrionale del sito, dove i solchi prodotti dai fenomeni erosivi avevano consentito di recuperare ossa, conchiglie, ceramica e scorie di ferro. Gli scavi portarono inoltre al rinvenimento di perle di vetro, quarzo e osso e a oggetti di osso e ferro. I complessi faunistici erano costituiti essenzialmente da bestiame domestico, oltre che da resti di ricci del Madagascar e da molluschi di acqua dolce, a suggerire che le attività di caccia e quelle di raccolta avessero importanza pari al pastoralismo. Tra i resti faunistici era presente anche il cane domestico; si tratta della più antica evidenza di questo animale a tutt'oggi identificata nel Madagascar. Una trincea di scavo ha permesso l'identificazione di un'area che potrebbe essere stata adibita essenzialmente all'abbattimento del bestiame: qui è stata infatti recuperata una vasta quantità di ossa di bovini, molte delle quali presentavano tracce di macellazione, insieme a coti e a frammenti di ferro. Come in altri siti simili di epoca coeva identificati nell'Androy da M. Parker Pearson e da altri ricercatori, a R. sono state recuperate numerose scorie di ferro.

Una vasta percentuale dei frammenti raccolti era decorata con una varietà di disegni, comprendenti linee parallele incise, in alcuni casi con un andamento a zig-zag, triangoli impressi e bande in appliqué. Le forme dei vasi erano costituite da giare globulari e da ciotole aperte. È stato inoltre rinvenuto un numero ridotto di frammenti di vasi di importazione, tra cui alcuni esemplari di vasellame verde invetriato proveniente dall'Est asiatico e ceramiche sgraffiate. Sebbene per il sito non siano state ottenute datazioni assolute, R.E. Dewar e H.T. Wright hanno rilevato che i materiali importati indicano una data tra il XIII e il XV sec. d.C. e che la maggior parte della ceramica locale è simile ai materiali della fase Ambinanibe del XIV sec. d.C. identificata nella regione dell'Anosy, nel settore sud-orientale del Madagascar.

Bibliografia

P. Vérin, Les anciens habitats de Rezoky et d'Asambalahy, in Taloha, 4 (1971), pp. 29-45; R.E. Dewar - H.T. Wright, The Culture History of Madagascar, in JWorldPrehist, 7, 4 (1993), pp. 417-66.

Sandwich harbour

di Peter J. Mitchell

Una delle due baie (la seconda è Walvis Bay) che si aprono alla foce del fiume !Khuiseb, sulla costa centrale della Namibia.

Le ricerche condotte in quest'area hanno riguardato l'impatto delle attività di Europei e Americani, quali la pesca, la caccia alla balena e il commercio, sugli allevatori indigeni di lingua Khoi, ma si sono interessate anche alla preistoria più antica dell'area, in cui l'allevamento venne introdotto probabilmente intorno al 1500 d.C. Dopo alcune visite episodiche, questo settore della costa della Namibia iniziò intorno al 1770 ad attrarre seriamente gli interessi degli Occidentali. Ai balenieri e ai cacciatori di foche e di altri mammiferi marini seguirono mercanti interessati allo sfruttamento delle risorse dell'entroterra; questi instaurarono rapporti commerciali con i gruppi locali Khoikhoi, ricevendo bestiame in cambio di tabacco, perle di vetro e altri beni. L'area fu colonizzata dalla Gran Bretagna e dalla Germania tra il 1878 e il 1894.

Lungo il litorale settentrionale della Namibia, gli Europei e gli Americani scambiavano perle di vetro, tabacco e oggetti di metallo ottenendo in scambio bovini, avorio e altri prodotti. Le ricognizioni, gli scavi e le fonti storiche documentano come la progressiva perdita di bestiame utilizzato dagli indigeni per fini commerciali portò all'interruzione degli scambi e dei sistemi di accumulazione di ricchezza basati sullo scambio e sulla tesaurizzazione di grani di rame, conchiglie di mare e bestiame. Tale fenomeno portò a un generale impoverimento e a un aumento della dipendenza da risorse marine e da piante selvatiche in sostituzione del bestiame, nonché al recupero e al riciclaggio di ceramiche, oggetti di vetro e di metallo provenienti da insediamenti europei. Il sito di ‒//Khîsa-//gubus si data alle fasi iniziali del periodo del contatto con l'Occidente.

Bibliografia

J.H.A. Kinahan, Cattle for Beads. The Archaeology of Historical Contact and Trade on the Namib Coast, Windhoek 2000.

Sanga

di Andrea Manzo

Sito archeologico localizzato sulle rive del Lago Kisale, nell'odierna Repubblica Democratica del Congo, caratterizzato da un'ampia necropoli con circa 7000 inumazioni e databile grazie a determinazioni radiometriche tra il VII e il XVII sec. d.C.

Le tombe contengono corpi in posizione sia distesa sia contratta e sono, salvo rare eccezioni, individuali. Il corredo funerario era notevolmente ricco e comprendeva oggetti di rame e ferro, strumenti agricoli, ornamenti personali, perline di vetro importate, conchiglie marine, lingotti di rame a forma di croce simili a quelli prodotti nelle miniere di rame di Kipushi e Kansanshi, rari esempi di punte di freccia e di lancia di metallo e contenitori ceramici. Un oggetto caratteristico e particolarmente diffuso nelle tombe più ricche è un gong di ferro. La popolazione che produsse questa cultura materiale così ricca e articolata doveva praticare l'agricoltura, la metallurgia e scambiare prodotti con i gruppi vicini, come suggerito dagli oggetti esotici rinvenuti nei corredi. La differenziazione dei corredi della necropoli testimonia una struttura sociale articolata, in cui singolare importanza sembra fosse assegnata anche ad alcuni bambini, evidentemente in ragione dei loro legami familiari.

Le tombe più antiche di S. sono collegabili al complesso Chifumbaze, caratterizzato dall'uso del ferro e dalla pratica dell'agricoltura e databile tra il II e il IV sec. d.C. Per le fasi seguenti, lo studio dei contenitori ceramici ha permesso di distinguere due fasi culturali di sviluppo, denominate Kisaliano e Kabambiano e databili su base radiometrica a partire rispettivamente dall'VIII e dal XIV sec. d.C. Le tombe più recenti del sito di S. datano invece agli ultimi due secoli e sono attribuite alla popolazione Luba. L'evidenza funeraria di S. suggerisce quindi uno sviluppo culturale continuo dal complesso Chifumbaze fino a oggi.

Bibliografia

J. Nenquin, Excavations at Sanga, 1957. The Protohistoric Necropolis, Tervuren 1963; Id., Congo (Léopoldville), CL1-CL5. Kisale Ware from Sanga. CL6-LC9. Mulongo Ware Sanga, Tervuren 1964; J. Hiernaux - E. de Longrée - J. de Buyst, Fouilles archéologiques dans la vallée du Haut Lualaba, I. Sanga, 1958, Tervuren 1971; P. de Maret, Sanga. New Excavations, More Data and Some Related Problems, in Journal of African History, 18 (1977), pp. 321-37; J. Nenquin, Fouilles archéologiques dans la vallée du Haut Lualaba, Zaïre, II. Sanga et Katongo, 1974, Tervuren 1985.

Sao, cultura

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Cultura sviluppatasi in un'area dell'attuale Repubblica del Ciad che occupava solo la metà orientale della depressione del lago omonimo, condiviso con la Nigeria e il Niger e, in minima parte, anche con il Camerun. Le ricerche archeologiche sugli antichi insediamenti Sao hanno dunque dovuto superare gli odierni confini politici al fine di rintracciarne le varie fasi di espansione.

Si tratta di un'area di antica occupazione umana, come testimonia il ritrovamento ‒ effettuato da Y. Coppens nel 1961 nella regione dell'Angamma ‒ del cranio di un preominide risalente a circa un milione di anni fa e denominato Tchadanthropus uxoris. Il prosciugamento del grande "mare" per effetto del progressivo inaridimento del clima nel periodo neolitico spinse le popolazioni a installarsi sulle rive del lago rimasto e lungo le sponde dei fiumi. I reperti ritrovati dimostrano la conoscenza della lavorazione della terracotta e l'uso di utensili perfezionati: arponi, asce, zappe con manico, pietre da macina. Si trattava di un popolo di coltivatori che avevano domesticato il bue, il montone e il cane, come si vede nei dipinti rupestri del Tibesti e dell'Ennedi. La zona sud dei fiumi Chari e Logone è dal punto di vista archeologico una delle più note dell'Africa Occidentale grazie alle ricerche e agli scavi effettuati a partire dal 1937 da M. Griaule e, soprattutto, da J.-P. Lebeuf e A. Lebeuf, che alla cultura S. hanno dedicato oltre cinquant'anni di studi.

Dalle zone fluviali sino ai bordi del Lago Ciad, lungo oltre 200 km, centinaia di tumuli di grandi dimensioni, in alcuni casi cinti da mura, segnalano i siti di insediamento degli antichi villaggi. Altri tumuli di dimensioni più ridotte, sempre in collegamento con quelli maggiori, sono stati identificati come sedi di riti iniziatici. Gli scavi condotti hanno permesso di ricostruire i differenti tipi di abitazioni e di assetto urbano, oltre a consentire il recupero di migliaia di vasi e statuette di terracotta, a forma umana o animale, oggetti di culto e d'uso comune, attrezzi da pesca, gioielli, ecc. La datazione del materiale raccolto indica tre principali fasi di produzione: una prima del X sec. d.C., corrispondente all'arrivo dei Sao (antenati dei Kotoko, attuali abitatori della zona), di cui sono state ritrovate solo alcune sepolture a fossa; una seconda, risalente all'XI-XVI secolo, cui appartengono le città murate, il palazzo reale, i quartieri di abitazione e le necropoli dove i defunti venivano sepolti in giare di argilla decorate, accompagnati da ricchi corredi funebri composti da statuette, vasi, piastre decorative e gioielli di bronzo realizzati mediante fusione a cera persa, perle di vetro o quarzo e una serie di giocattoli riproducenti figure umane, animali e oggetti domestici in miniatura. Il declino della cultura S. corrisponde all'avvento dell'Islam, che in quell'area si impose attorno alla fine del XVI secolo.

La datazione dell'eccezionale raccolta di reperti (oggi esposti nei musei di Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna) è stata resa più difficile dal fatto che i Kotoko, successori dei Sao, hanno continuato ad abitare i tumuli e le zone sopraelevate, sovrapponendo le proprie città agli antichi insediamenti per difendersi dalla piena dei fiumi che ogni anno inonda la pianura per circa quattro mesi. Tra gli oggetti ritrovati negli scavi vi sono infatti alcuni tipi di perle risalenti a non prima del 1500 e alcune pipe sicuramente attribuibili a un'epoca più tarda del 1600.

Bibliografia

J.-P. Lebeuf, Archéologie tchadienne, Paris 1962.

Séguié

di Samou Camara

Area localizzata nella regione di Agboville (Costa d'Avorio), dove le prime ricerche archeologiche svolte nel 1941 permisero di individuare fossi circolari sepolti sotto strati boschivi, che vennero identificati come fossati di cinta.

Tra il 1968 e il 1971, a causa degli estesi lavori di disboscamento necessari alla creazione di superfici coltivabili ‒ in particolare per la coltura del caffè e del cacao ‒ che mettevano a rischio questi siti, B. Holas, R. Mauny e B. Soisson avviarono alcune campagne di ricerca archeologica nella regione di S. Le prospezioni identificarono su un perimetro di 4 × 6 km varie decine di strutture, per la maggior parte ubicate lungo il crinale di basse colline (alt. circa 100-125 m) o sui loro pendii. Gli Abé, che popolano ancora oggi la regione dal XVIII secolo, attribuiscono la costruzione di queste strutture a occupazioni precedenti il loro stanziamento. I fossati sono larghi circa 5 m, profondi da 1 a 4 m e con una sezione a V; hanno una pianta ovoidale regolare provvista, a seconda dei siti, di un asse lungo che misura da 200 a 400 m di lunghezza e di un asse corto la cui misura va da 100 a 300 m.

Durante le ricerche archeologiche non sono state rinvenute tracce di abitazioni, salvo qualche focolare e depositi di rifiuti nei quali sono stati trovati frammenti fittili. Le raccolte di superficie hanno consentito di recuperare frammenti di ceramica (vasi a piede circolare, pentole senza piede, brocche), fusaiole, macine, raschietti, perle di quarzo, asce levigate, pipe, scorie e un pezzo di bronzo decorato da fini modanature. Quanto alla datazione del materiale raccolto, gli autori delle ricerche ritengono che alcune pipe presentino affinità con esemplari ritrovati ad Accra (Ghana), e datati attorno al 1640-1650 d.C. Ciò permette di datare provvisoriamente questi recinti a un periodo compreso tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo.

Bibliografia

E. de Billy, Sites anciens en Côte-d'Ivoire, in Notes Africaines, 10 (1941), pp. 7-8; B. Holas, Note préliminaire sur les vestiges d'un peuplement ancien dans la région d'Aboudè (cercle d'Agboville). Aspect d'une première prospection archéologique, Paris 1951; J. Polet - B. Saison, Enceintes fortifiées de la Séguié. Côte d'Ivoire, in Recherche. Pédagogie et Culture, 52 (1981), pp. 53-55.

Sehonghong

di Peter J. Mitchell

Riparo sotto roccia di notevole ampiezza che si affaccia su un tributario del fiume Orange, nei territori montuosi del Lesotho.

Il sito era occupato da gruppi di cacciatori-raccoglitori almeno a partire da 70.000 anni fa, nel corso della Middle Stone Age e successivamente nella Later Stone Age. Evidenti sono le tracce di occupazione del riparo nel II millennio d.C., fino al 1872, quando le ultime comunità boscimane di una certa consistenza subirono le scorrerie dei gruppi Sotho; un piccolo gruppo di Boscimani continuò infatti a vivere in questo sito verso la fine del XIX sec. d.C., contemporaneamente all'insediamento dei gruppi Sotho in villaggi poco distanti. Le testimonianze archeologiche risalenti al II millennio d.C., ascrivibili alla fase ceramica dell'industria Wilton, comprendono repertori litici in cui predominano raschiatoi e asce. I ritrovamenti di grani lavorati con le conchiglie di ostriche lasciano presupporre contatti con aree più occidentali; tuttavia, se si considerano le fasi più antiche di occupazione del sito, scarsi sono gli indizi di scambi con le coste dell'Oceano Indiano. Il vasellame si presenta costantemente inornato. Il deposito faunistico suggerisce la caccia, anche con l'uso di trappole, di un vasto repertorio di faune, mentre i residui botanici rinvenuti negli scavi del 1971 attestano lo sfruttamento di diversi tipi di piante edibili, tra cui in particolare specie con parti sotterranee commestibili, quali Moraea tritia, Cyperus usitatus, Watsonia sp. e Kniphofia sp.

Le pareti di S. sono ricoperte da pitture rupestri che ritraggono scene con bestiame e di altro genere e che sono da attribuire a fasi cronologiche piuttosto recenti. Una di esse, la cui lettura fu interpretata da un informatore boscimano Qing nel 1873 e pubblicata da J. Orpen l'anno successivo, costituisce un documento di particolare importanza per l'interpretazione dell'arte rupestre. La pittura, oggi fortemente sbiadita, ritrae un gruppo di uomini che guidano due "animali della pioggia"; senza dubbio la scena è da porre in relazione con le credenze sul potere degli sciamani di propiziare la pioggia, un'interpretazione confermata dai gruppi boscimani /Xam, ai quali venne mostrata una riproduzione del dipinto.

Bibliografia

P. Vinnicombe, People of the Eland, Pietermaritzburg 1976; P.L. Carter - P.J. Mitchell - P. Vinnicombe, Sehonghong. The Middle and Later Stone Age Industrial Sequence at a Lesotho Rock-shelter, Oxford 1988; P.J. Mitchell, Sehonghong. The Late Holocene Assemblages with Pottery, in SouthAfrAB, 51 (1996), pp. 17-25.

Shanga

di Andrea Manzo

Sito localizzato sull'isola di Pate, nell'Arcipelago di Lamu, 250 km a nord di Mombasa (Kenya).

I resti di edifici di S. sono databili per la maggior parte al XIV sec. d.C., ma gli scavi hanno evidenziato una continuità di occupazione a partire almeno dall'VIII sec. d.C. In particolare, alla prima fase di frequentazione del sito risalgono i resti della più antica moschea dell'Africa subsahariana. Questa moschea poteva inizialmente ospitare solo una piccola parte della popolazione e fu in seguito rimpiazzata da strutture analoghe sempre più capienti. Benché questo fenomeno sia un chiaro riflesso del successo del proselitismo e anche della crescente presenza di mercanti musulmani, le moschee di S. non hanno mai raggiunto dimensioni tali da suggerire che l'Islam fosse la religione maggioritaria della popolazione del sito. La presenza di una comunità musulmana a S. va senz'altro messa in relazione al suo ruolo commerciale, confermato dal rinvenimento di materiali importati, tra cui ceramica di origine persiana databile a partire dal IX sec. d.C. e porcellane cinesi, anch'esse databili a partire da fasi antecedenti al 1000 d.C.

S. si caratterizza non solo per i legami con l'Oceano Indiano, ma anche con l'entroterra africano. Alcune ceramiche qui rinvenute suggeriscono infatti relazioni con la costa continentale e in particolare con il bacino del fiume Tana. Questa ceramica potrebbe essere riconducibile a gruppi pastorali la cui presenza a S. potrebbe essere confermata anche da un'area libera da costruzioni al centro del sito, che è stata interpretata come recinto per il bestiame. Nella medesima area sono stati rinvenuti resti di escrementi e ossa di bovini e di cammello. In un altro settore del sito sono invece presenti concentrazioni di ossa di caprovini, fauna selvatica e resti di pesce; esso era forse abitato da una componente agropastorale sedentaria che praticava anche la caccia e la pesca. Il settore, interpretato come abitato di un gruppo di pastori, pare invece caratterizzato da una singolare scarsità di resti di pesce, che potrebbe rappresentare una traccia archeologica del tabu di nutrirsi di pesce diffuso presso numerose popolazioni pastorali. In ogni caso, i gruppi pastorali eventualmente presenti a S. cambiarono rapidamente le loro abitudini, visto il rapido incremento di resti di pesce riscontrato nel medesimo settore per le fasi più tarde.

Bibliografia

M. Horton, Early Muslim Trading Settlements on the East African Coast. New Evidence from Shanga, in AntJ, 67 (1987), pp. 290-323; Id., Shanga. The Archaeology of a Muslim Trading Community on the Coast of East Africa, London 1996.

Shungwaya

di Rodolfo Fattovich

Località ubicata presso Bur Kawo (Somalia meridionale), in cui l'etnologo italiano V.L. Grottanelli individuò i resti di una vasta città antica.

Le vestigia comprendevano tracce di una possibile cinta muraria di pietra madreporica e tre antichi monumenti funebri, due dei quali sormontati da pilastri filiformi di un tipo ben noto lungo la costa e attribuito agli Shirazi (nome con cui vengono indicati i mercanti arabi e persiani che colonizzarono la costa nel I millennio d.C.). L'età di queste rovine è incerta: esse potrebbero risalire al X-XV sec. d.C. Questa città potrebbe corrispondere alla regione di origine dei Bagiuni, popolazione dedita prevalentemente alla pesca, che abita un gruppo di isole situate in prossimità della costa dell'Oltregiuba somalo tra Chisimaio e Bur Kavo, note anche con i nomi di Isole Durnford o Isole Giuba. Questa popolazione, stanziata anche lungo la costa, è oggi molto dispersa, ma godette in passato di una notevole ricchezza dovuta al commercio, di cui sono testimonianza numerose rovine e tombe antiche visibili sull'isola maggiore, Coiama. I Bagiuni discenderebbero da una tribù Bantu, i Wagunya, che insieme ad altre dello stesso ceppo avrebbe occupato inizialmente gran parte della Somalia meridionale e del Kenya settentrionale, già in epoca medievale se non più antica.

Bibliografia

V.L. Grottanelli, A Lost African Metropolis, in Afrikanistische Studien Dietrich Westermann zum 80. Geburtstag gewidmet, Berlin 1955, pp. 231-42.

Silte

di Rodolfo Fattovich

Località ubicata nella regione del Soddo, nello Shoa (Etiopia centrale). In questo sito sono state segnalate e descritte cinque stele antropomorfe erette in una piccola necropoli a sud del fiume Gorore. Il sito è stato descritto negli anni Venti del Novecento da due studiosi francesi, F. Azaïs e R. Chambard, e successivamente riesaminato negli anni Settanta da F. Anfray.

Attualmente soltanto una stele è ancora eretta sul sito. Quattro stele sono state trasportate ad Addis Abeba e sono visibili nel parco dell'Istituto di Studi Etiopici. Le stele sono di tipo antropomorfo e rappresentano una figura umana con testa resa in modo molto schematico, le braccia scolpite a rilievo sulla faccia anteriore, tutti i principali elementi dell'abbigliamento e simboli. L'età di questi monumenti è ancora incerta, ma probabilmente essi risalgono al XII-XIII sec. d.C. La più grande di queste stele, oggi ad Addis Abeba, era alta in origine oltre 2 m sopra la superficie del suolo e larga circa 1 m, con uno spessore di 30 cm. Essa è decorata su entrambe le facce con una treccia scolpita sul dorso, pendenti paralleli obliqui, simboli (due dischi simmetrici; motivi "vegetali" ramificati), personaggi con le braccia alzate e numerosi altri motivi (per lo più animali) scolpiti a rilievo sulla faccia anteriore; eccezionalmente, le braccia non sono rappresentate su questa stele. Un'altra stele è alta 1,95 m dalla superficie del suolo, misura una larghezza di circa 85 cm e uno spessore di 18 cm. Essa è decorata con motivi scolpiti a rilevo (dischi, segni "vegetali" ramificati, ornamenti, forse armi) e riproduce su entrambe le facce alcuni elementi dell'abbigliamento. Le braccia sono riprodotte sulla faccia anteriore. Una terza stele più piccola, alta 1,24 m, larga 54 cm e spessa 13 cm, oggi ad Addis Abeba, riproduce una figura umana molto schematica con le braccia, due dischi simmetrici, un pettorale appuntito e un segno "vegetale" ramificato scolpiti sulla faccia anteriore. Saggi di scavo condotti ai piedi di due di questi monoliti da Azaïs e Chambard hanno messo in evidenza tracce di tombe delimitate da pietre rotonde con qualche frammento di ceramica, ma nessuna evidenza di resti umani.

Bibliografia

F. Azaïs - R. Chambard, Cinq années de recherches archéologiques en Ethiopie, Paris 1931; F. Anfray, Les stèles du Sud. Shoa et Sidamo, in AnnEth, 12 (1982), pp. 43-71.

Simunye

di Peter J. Mitchell

Sito ubicato nel settore nord-orientale dello Swaziland e datato a un periodo compreso tra la fine del XVII sec. d.C., il XVIII e forse il XIX sec. d.C.; è stato oggetto di recenti scavi.

Gli scavi hanno riportato alla luce diversi recinti per il bestiame, nelle vicinanze di uno dei quali sono state rinvenute numerose ceramiche, piattaforme utilizzate forse come granai e la sepoltura di un adolescente deposto all'interno di un vaso. Sebbene deposizioni analoghe siano note in altri contesti dell'Africa Meridionale, questa tipologia funeraria suggerirebbe, insieme a elementi degli stili vascolari, l'occupazione di S. da parte di gruppi di lingua Tsonga. Inoltre, la scoperta di ceramiche simili alle produzioni fittili di S. nei bassopiani orientali e nei Monti Lubombo dello Swaziland estende l'area di diffusione degli Tsonga più a ovest dei settori meridionali del Mozambico e del KwaZulu-Natal settentrionale in cui essi sono oggi stanziati. Non meno significativo è il fatto che per la prima volta in Africa Meridionale la documentazione archeologica ha permesso di attribuire siti a tali popolazioni. Ulteriori scavi potrebbero rivelare se la variante del central cattle pattern documentata etnograficamente presso i gruppi Tsonga (in cui è assente la bipartizione in destra e sinistra all'interno delle abitazioni) possa essere riconosciuta anche a S.

Bibliografia

F. Phinata - M. Steyn, Report on Human Skeletal Remains from a Later Iron Age Site at Simunye (Swaziland), in SouthAfrAB, 56 (2001), pp. 57-61; F. Phinata, The Beginning of 'Tsonga' Archaeology. Excavations at Simunye, North-Eastern Swaziland, in Southern African Humanities, 14 (2002), pp. 23-50.

Sine-saloum

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Estesa vallata (13° Lat. E, 16° Long. O e 13° Lat. E - 14° Long. N, un'area di 350 km in direzione est-ovest e di 170 km in direzione nord-sud) ubicata nella zona di confine tra il Senegal e il Gambia.

Già nel 1892 l'amministratore francese E. Noirot aveva segnalato la presenza in tale area di oltre 1000 cerchi megalitici e redatto un inventario di 28.000 pietre. Una prima fase di rilevamenti sul terreno venne intrapresa da J.W. Maxwell e da J.W. Carrol negli anni 1898-99; in seguito, tra il 1916 e il 1930, P. Jouenne condusse una campagna di scavo in 12 siti archeologici, lavoro che sarebbe stato ripreso in fasi successive nel 1939 da J. de Saint Seine, da R. Mauny tra il 1956-58 e, di nuovo, nel 1974 da M. Posnansky e R.J. McIntosh, che effettuarono analisi radiocarboniche dei reperti.

Tra i vari siti, Diallouberé è stato oggetto di una campionatura esaustiva: un'area di 220 m in direzione nord-sud e di 70 m in direzione est-ovest, con 54 cerchi composti da 900 megaliti. I megaliti di questa zona sono blocchi di laterite tagliati in varie forme: quadrangolari, cilindrici, a fuso tronco e, in alcuni casi, a forma di lira, con due braccia aperte fuori terra. Ogni cerchio comprende da 10 a 24 pietre erette, la cui altezza dal suolo varia da 50 cm a 3 m e il cui diametro interno è compreso tra 4 e 7 m. È stato inoltre identificato un allineamento di 3-4 pietre ubicate a est, in asse perpendicolare al diametro del cerchio; al centro, una pietra a lira conclude il disegno del nucleo.

I diversi scavi condotti in questo sito hanno portato alla luce inumazioni isolate o multiple, mole fisse, ceramiche rosse a ingobbio, braccialetti di rame di raffinata lavorazione e biglie di quarzo. Tali materiali hanno posto problemi di fondo quanto alla funzione di queste costruzioni e al periodo in cui furono realizzate. La datazione al 14C che indica l'VIII-IX sec. d.C., se rapportata agli eventi storici che hanno interessato questa zona dell'Africa in quel periodo, precede di poco la costituzione dell'impero del Ghana ed è probabilmente anteriore al commercio arabo nell'area aurifera del Bambouk. Per quanto attiene alla loro funzione, sono state avanzate alcune ipotesi: Jouenne formulò l'ipotesi di un orologio solare, Mauny sostenne il loro uso come necropoli di villaggi Wolof installati ai margini di luoghi ricchi d'acqua e di terre coltivabili. Altre interpretazioni, derivate da tradizioni locali, attestano che, sebbene i megaliti del Senegambia siano precedenti al commercio arabo, in loco l'esportazione dell'oro verso il Nord già esisteva e dunque questi monumenti avrebbero avuto una funzione strategica come segno di potere e controllo da parte degli abitanti della regione sulla rotta del commercio di questo metallo prezioso.

Bibliografia

J.W. Carrol - J.W. Maxwell, Sacred Stones in West Africa, in The Geographic Journal, 12 (1898), pp. 522-33; P. Jouenne, Les mégalithiques du Sénégal, Paris 1920, pp. 309-99; H. Bessac, Contribut à l'étude des buttes de coquillages du Saloum (Sénégal), in Notes Africaines, 57, 1 (1953), pp. 1-5; R. Mauny, Pierres sonnantes d'Afrique occidentale, ibid., 75, 8 (1957), p. 73; M. Posnansky - R.J. McIntosh, New Radiocarbon Dates for Northern Western Africa, in Journal des Africanistes, 17, 2 (1976), pp. 161-95; S. Pradines, Essai de synthèse sur les tumulus funéraires sénégambiens, Paris 1995.

SINTIOU BARA (Sincu Bara)

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Sito archeologico di vaste dimensioni ubicato in Senegal e costituito da un centinaio di aree ovali o circolari, disseminate di ghiaie lateritiche e di frammenti fittili.

La fortuita scoperta di un grande disco di metallo a base di rame, decorato con motivi a sbalzo, ha dato origine a una campagna di scavi effettuata tra il 1973 e il 1978 da G. Thilmans e A. Ravisé. L'insieme dei sondaggi ha fornito un materiale straordinario per qualità, quantità e fattura: dischi simili a quello ritrovato per primo, finimenti per cavalli comprendenti placche, sonagli, anelli di catene, elementi di briglie, per un totale di oltre 300 oggetti in lega di rame. Una prima ipotesi indicava che l'area sarebbe stata occupata in un periodo compreso tra l'inizio del V e l'XI secolo, datazione che avrebbe fatto risalire la lavorazione del rame al V secolo. Ulteriori indagini compiute da H. Bocoum e S.K. McIntosh nel 1991 in diverse parti del sito allo scopo di una nuova valutazione della stratigrafia e della cronologia hanno permesso di stabilire una datazione più precisa, all'XI sec. d.C., sia del sito oggetto degli scavi precedenti sia del materiale di rame lavorato.

Podor, analogamente al sito di S.B., rappresenta un'ulteriore conferma degli antichi rapporti commerciali lungo la direttrice nord-sud e apre nuove prospettive sulle comunicazioni trans-sahariane nell'XI-XII secolo lungo percorsi diversi dai più noti itinerari carovanieri. Anche in questo caso un primo ritrovamento casuale di oggetti di rame, materiale di importazione, ha indotto a una serie di indagini archeologiche al fine di identificarne la provenienza. Bracciali, anelli, bobine, sonagli e perle, sottoposti ad analisi, hanno rivelato una composizione costante analoga alla lega del metallo trasportato dalle carovane provenienti dal Marocco.

Bibliografia

B. Chavane, Le site protohistorique de Podor (Mém. de maîtrise, Univ. de Dakar), 1976, p. 100; G. Thilmans - A. Ravisé, Protohistoire du Sénégal, II. Sintiou Bara et les sites du fleuve, Dakar 1980; H. Bocoum - S.K. McIntosh - R.J. McIntosh, The Middle Senegal Valley Project. Preliminary Results from the 1990-91 Field Season, in Nyame Akuma, 38 (1992), pp. 47-61; S.K. McIntosh - H. Bocoum, New Perspectives on Sincu Bara, a First Millennium Site in the Senegal Valley, in AfrAR, 19, 1 (2000), pp. 124-78.

Smithfield

di Peter J. Mitchell

Termine originariamente utilizzato per designare un repertorio di manufatti della Later Stone Age assai più ampio di quello a cui si riferisce oggi. Oggi la denominazione S. fa riferimento a un insieme di manufatti molto recenti rinvenuti nel settore centrale della Repubblica Sudafricana, in particolare nel Free State e a Karoo.

Noti soprattutto grazie ai lavori di C.G. Sampson lungo le valli del medio corso dei fiumi Orange e Seacow, tali repertori sono caratterizzati da raschiatoi di dimensioni superiori a quelle degli esemplari tipici degli strumentari Wilton, dall'uso della cornubianite come materia prima e da ceramiche assai peculiari con inclusi vegetali, decorata spesso da elaborati motivi impressi. I repertori S. si datano a un periodo compreso tra il XV e il XIX sec. d.C. Gli elementi che giustificherebbero la classificazione di questi strumenti in un complesso distinto dall'industria Wilton sono discutibili, al punto che alcuni archeologi preferiscono inserirli all'interno di quest'ultima tradizione.

Bibliografia

C.G. Sampson, The Smithfield Industrial Complex. Further Field Results, in Memoirs of the National Museum (Bloemfontein), 5 (1970), pp. 1-172; J. Deacon, Patterning in the Radiocarbon Dates for the Wilton/Smithfield Complex in Southern Africa, in SouthAfrAB, 29 (1974), pp. 3-18; C.G. Sampson, Atlas of Stone Age Settlement in the Seacow Valley, in Memoirs of the National Museum (Bloemfontein), 20 (1985), pp. 1-116; Id., Stylistic Boundaries Among Mobile Hunter-Foragers, Washington (D.C.) 1988.

Takkeda

v. Azelik

Tegdaghost

v. Awdaghost

Thulamela

di Peter J. Mitchell

Importante sito con strutture murarie della tradizione Zimbabwe, localizzato nell'estremo Nord del Kruger National Park (Prov. di Limpopo, Repubblica Sudafricana).

Ubicato sulla sommità di una collina, il sito copre un'area di circa 9 ha; i recinti murari si concentrano intorno a un settore centrale nella parte più elevata del sito. Le aree residenziali, prive di strutture murarie, circondano il settore occupato dai recinti. Una prima fase di occupazione del sito è datata agli inizi del XV sec. d.C. ed è contrassegnata da una produzione fittile che mostra affinità con quella identificata nel sito di K2. Intorno al 1440 d.C. furono realizzate numerose strutture murarie e ceramiche analoghe a quelle recuperate a Khami, rinvenute in associazione a perle di vetro, conchiglie di molluschi marini e tracce della lavorazione dell'oro e dell'avorio: indizi questi ultimi della presenza di individui di alto rango e di contatti con le coste dell'Africa Orientale. Questo periodo, attribuibile alla fase Khami, si protrasse fino al 1640 circa, quando il sito venne abbandonato.

Nel settore in cui sorgono i recinti murari sono state scavate due tombe di élite. Una sepoltura maschile si presentava chiaramente come una deposizione secondaria, uniformandosi al trattamento riservato dalle popolazioni Venda agli antenati di rilievo. Il defunto, accompagnato da monili d'oro e di conchiglie di ostriche, era stato deposto su un "letto" di pietre e ricoperto in seguito da una struttura circolare di argilla cinta da un muro di pietre. La seconda sepoltura accoglieva i resti di una donna, deposta nella posizione assunta dalle donne Venda in segno di rispetto verso gli uomini. Tali concordanze giustificano l'utilizzo delle fonti etnografiche Venda nell'interpretazione dei dati archeologici relativi alla tradizione Zimbabwe. Per la prima volta nella Repubblica Sudafricana, i resti di entrambi gli inumati sono stati di nuovo seppelliti, dopo essere stati studiati, in risposta alle richieste della comunità locale. Alcuni settori del sito di T. sono stati inoltre ricostruiti e restaurati a scopo turistico.

Bibliografia

U.S. Küsel, A Preliminary Report on Settlement Layout and Gold Smelting at Thulamela, a Late Iron Age Site in the Kruger National Park, in Koedoe, 35 (1992), pp. 53-64; M. Steyn et al., Late Iron Age Gold Burials from Thulamela (Pafuri Region, Kruger National Park), in SouthAfrAB, 53 (1998), pp. 73-85.

Tiebala

di Samou Camara

Termine con cui si designa un complesso di siti archeologici ubicati in prossimità della città omonima (Mali) e noti grazie alle ricerche svolte nel 1964 da A. Gallay, nel corso delle quali vennero identificati tumuli abitativi e necropoli.

Le necropoli sono caratterizzate dalla presenza di inumazioni terragne entro grandi giare in cui il corpo dei defunti veniva deposto in posizione contratta, con la testa verso l'apertura del recipiente; successivamente la giara era chiusa da un coperchio formato da una scodella o da un'altra giara e infine seppellita. Le analisi hanno dimostrato che nello stesso recipiente potevano essere inumati vari individui. In alcuni insediamenti i corpi sono affiorati in superficie dalle inumazioni terragne; essi sono distesi e orientati verso sud. I siti identificati si caratterizzano per la presenza di strutture circolari di mattoni crudi e per un'abbondante materiale archeologico di superficie, composto da scorie e da frammenti di ceramica. Nel corso dei due sondaggi (rispettivamente F1 e F2) realizzati presso un tumulo abitativo (sito FII) localizzato a nord di T. sono stati scoperti in superficie fusaiole, ami di ferro e pesi per reti da pesca; indagini stratigrafiche hanno invece consentito il recupero di frammenti fittili e di carboni. Questi livelli di occupazione sono stati datati rispettivamente al 510±120 d.C. (Gif/383, strato superiore) e al 550±120 d.C. (Gif/384, strato inferiore). Lo scavo di un altro insediamento nelle vicinanze (sito G) ha permesso di scoprire alcune giare funerarie, spesso incastrate le une nelle altre e fissate nelle rispettive fosse con frammenti fittili; in una di esse è stato rinvenuto un corpo inumato in posizione contratta, che indossava braccialetti di ferro.

Dal punto di vista cronologico i livelli di occupazione del tumulo FII sono coevi a quelli di Djenné-Djeno, sito ubicato qualche centinaio di chilometri a est di T. L'analisi del materiale ceramico di T., composto da un campione di 400 frammenti di fondi arrotondati e 200 frammenti di bordi, ha permesso di osservare che le caratteristiche tecnologiche di questo sito presentano grandi affinità con quelle della fase III di Djenné-Djeno (400-900 d.C.); ad esempio, le ceramiche evidenziano con molta frequenza decorazioni impresse con uno strumento cilindrico, anche se la loro manifattura si differenzia morfologicamente da un sito all'altro. Tali risultati hanno anche permesso di ipotizzare che la tipologia ceramica di Djenné-Djeno possa essere estesa a tutta la zona compresa tra i fiumi Niger e Bani. Allo stato attuale delle ricerche è difficile stabilire una relazione o una continuità culturale tra queste produzioni ceramiche e quelle attualmente fabbricate dalle popolazioni Sarakole e Bozo dell'area.

Bibliografia

P. Curdy, Tiébala (Mali). Un complexe céramique du 6e siècle après J.-C., in ArchSuissesAnthrop, 46, 2 (1982), pp. 183-98.

Timbuctù

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Importante città ubicata nell'odierno Mali, che secondo as-Sadi sarebbe stata fondata alla fine del V secolo dell'Egira, nel 1106 d.C., dai Tuareg Maghcharen che nella stagione estiva venivano ad accamparsi sulle rive del Niger per far pascolare le loro mandrie. Sempre secondo questo autore la città avrebbe preso nome da uno schiavo, Tombuctu (nome che significa "la veglia"), incaricato di sorvegliare le mercanzie depositate dalle carovane di passaggio. Lo storico I.B. Kaké sostiene al contrario che nel XII secolo i Tuareg invasero una città preesistente e che il toponimo derivi da Tinbuktu ("il pozzo di Buktu"), a indicare una cavità tra le dune mobili dove vennero costruite le prime abitazioni.

La storia accertata di T. è scandita da continue lotte di conquista tra Tuareg, Songhai e Mandingo che si alternarono al potere; nel 1336 la città fu annessa all'impero del Mali, mentre nel 1546 i Songhai ripresero il potere e lo mantennero sino al 1591, quando subirono la sconfitta da parte dei Marocchini: T. entrò a far parte dell'impero del Marocco. Attorno al 1650 i Tuareg riconquistarono la città e il controllo dei commerci, che avrebbero conservato fino alla vittoria dell'esercito coloniale francese del 1893.

Nella visione occidentale, T. restò per secoli una sorta di miraggio, "una metropoli i cui tetti erano fatti d'oro, che custodiva preziosi manoscritti di indicibile sapienza". Un miraggio che si trasformò in sfida: nel 1824 la Società Geografica di Parigi istituì un premio di 10.000 franchi per il primo Europeo che, dopo aver visitato T., fosse riuscito a tornare in patria per raccontarlo. La storia ricorda alcuni Europei, catturati dai corsari o approdati sulla costa dopo un naufragio, venduti come schiavi sul mercato locale, ma nessuno di loro fece mai ritorno. Nel 1826 lo scozzese G. Laing raggiunse, primo Europeo, T. ma venne trucidato all'uscita dalla città. Nel 1828 l'esploratore francese R. Caillé, travestito da arabo, riuscì a soggiornarvi per due settimane e a lui si devono uno schizzo della città e la descrizione dell'assetto urbanistico: "La città può avere tre miglia di perimetro, le case sono grandi, a un solo piano, costruite con mattoni tondeggianti arrotolati con le mani e seccati al sole (...). Tombouctou racchiude sette moschee, di cui due grandi, sormontate ognuna da una torre di mattoni alta 50-55 piedi su cui si sale attraverso una scala interna (...). Non vi è alcuna cinta di chiusura, vi si può penetrare da ogni lato" (Caillé 1979, pp. 219-20). Il pellegrino viaggiatore rileva anche che l'unica risorsa è il commercio del sale, poiché il suolo sabbioso non consente alcuna coltivazione salvo qualche pianta di tabacco, e l'acqua viene conservata in grandi cisterne profonde 35-40 piedi cui si accede mediante una scala scavata nelle pareti; tutte le merci necessarie provengono da Djenné.

La grande moschea sita a ovest della città (Djinguereber, già esistente nel 1325 poiché Mansa Musa contribuì alla sua edificazione, o al suo restauro) apparve a Caillé degradata, con gli intonaci scrostati e i muri pericolanti sostenuti da contrafforti; a suo giudizio, il lato occidentale doveva essere molto antico, con arcate a volta e intonaci fatti di sabbia a grana grossa mista a gluma di riso, mentre il resto dell'edificio gli sembrò più recente e di fattura scadente rispetto al nucleo originario. All'interno vi erano tre gallerie, ognuna sostenuta da 10 arcate di 6 piedi di larghezza e 10 di altezza; i muri esterni erano coronati da merlature su cui venivano posati vasi di terracotta. La moschea a est della città, Sankore, data anch'essa all'epoca Mandingo ma fu ricostruita nel 1580 e ha subito in seguito numerosi restauri; le più antiche parti rimanenti sono attribuibili al XVI-XVIII secolo. Di una terza moschea, Sidi Yahia, si dice sia stata costruita nel 1440, ma la sua posizione ‒ che marca il centro della città, mentre le altre due sono periferiche ‒ induce a ipotizzare che il sito ospitasse già un edificio più antico restaurato nel XV secolo. Recentemente, l'Organizzazione per il Patrimonio Mondiale ha segnalato che i tre monumenti, iscritti nella lista dei beni di interesse mondiale in pericolo, versano in cattive condizioni a causa delle violente tempeste di sabbia e delle piogge torrenziali dello scorso agosto. Una campagna è stata promossa al fine di preservare le moschee oltre ad altri pregevoli esemplari di architettura di terra.

Il secondo Europeo che giunse a T. e poté scrivere il resoconto del suo viaggio fu il viaggiatore tedesco H. Barth nel 1853; la casa in cui alloggiò è oggi diventata museo. Da sempre metropoli religiosa e intellettuale del Sudan, T. possedeva nel XVI secolo oltre 80 scuole coraniche e un'università che attirava gli studenti dell'intera Africa musulmana. Nel 1973 è stato creato il centro studi Ahmed Baba (eminente studioso e patriota vissuto dal 1556 al 1622), che raccoglie circa 15.000 manoscritti, alcuni risalenti al XIII secolo, corani miniati in oro, trattati e varie opere di Avicenna.

Bibliografia

H. Barth, Voyages et découvertes dans l'Afrique septentrionale et centrale, Paris 1861; as-Sadi, Ta'rīḫ al-Sūdān [Storia del Sudan] (trad. O. Houdas), Paris 1900; I.B. Kaké, Mémoires d'Afrique. Les villes historiques, Paris 1976; R. Caillé, Voyage à Tombouctou (1824-1828), I-II, Paris 1979; M. Aime, Le radici nella sabbia, Torino 1999.

Tiya

di Rodolfo Fattovich

Località ubicata nel Soddo settentrionale (Etiopia centrale). Si tratta di un'area archeologica localizzata presso il villaggio omonimo, comprendente una necropoli a stele scolpite, un abitato contemporaneo alle stele, due siti della Middle Stone Age, tre siti con strumenti bifacciali databili all'Early Stone Age e una cava da cui venivano estratti i blocchi usati per le stele. L'area archeologica di T. è inserita nella lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO.

La presenza di stele è stata segnalata per la prima volta da due studiosi francesi, V. Chollet e H. Neuville, agli inizi del Novecento. Successivamente le stele sono state esaminate e descritte da F. Azaïs e R. Chambard negli anni Venti e da F. Anfray negli anni Settanta. Scavi sistematici sono stati infine condotti negli anni Ottanta e Novanta da una missione archeologica francese, diretta da R. Joussaume, che indagò principalmente le tombe associate ai monoliti. Le stele di T. appartengono quasi tutte a uno stesso tipo presente anche in altri siti del Soddo settentrionale. Sono monoliti, alti fino a 5 m e decorati con spade di forma simile a daghe in numero variabile e simboli (dischi, un segno a forma di sigma maiuscolo o di X, un segno simile a una pianta ramificata) scolpiti sulla faccia anteriore. Alla base vi sono spesso due fori di significato incerto. Due monoliti sono colonne cilindriche e una stele è antropomorfa. Questi monoliti formavano originariamente due allineamenti con asse approssimativamente sud-est/nord-ovest, di cui il più lungo con 33 stele e il più breve con sole 5 stele. Ai piedi delle stele erano deposte le sepolture in fosse circolari delimitate da pietre, con i corpi in posizione contratta sul fianco all'interno di strutture circolari o rettangolari costruite con lastre di pietra o legno e coperte con altre lastre o rami. Le sepolture erano in genere accompagnate da vasellame comprendente piatti, scodelle e giare emisferiche a collo cilindrico. Alcune sepolture contenevano anche bracciali di bronzo e ferro e pendenti di vetro e corniola. L'età di questi monumenti sembra risalire al XIV sec. d.C. A questa necropoli corrispondeva un vasto abitato, purtroppo ancora non indagato. Nella stessa area è stata raccolta anche un'industria microlitica di ossidiana su lama e scheggia con grattatoi, punte ovoidi e pezzi a dorso ritoccato.

Bibliografia

V. Chollet - H. Neuville, Note préliminaire sur les mégalithes observés dans le Soddo (Abyssinie méridionale), in Bulletin de la Société Philomatique de Paris, 1905, pp. 86-100; F. Azaïs - R. Chambard, Cinq années de recherches archéologiques en Ethiopie, Paris 1931; F. Anfray, Les stèles du Sud. Shoa et Sidamo, in AnnEth, 12 (1982); R. Joussaume, Yiya. L'Éthiopie des mégalithes, Poitiers 1995.

Tondidaru

di Samou Camara

Sito (Toondi-Daaru in lingua Songhai) ubicato circa 2 km a sud-est del villaggio omonimo nel Nord-Est di Niafunké (Senegal). Dopo le prime ricerche, condotte tra il 1905 e il 1950, il sito fu considerato uno dei più importanti complessi megalitici africani.

Il sito è diviso in tre gruppi, formati da varie decine di monoliti scavati nel gres; il primo è composto da 150 pietre erette e dista circa 200 m dal secondo, formato da una trentina di monoliti; il terzo, con una decina di monoliti, si trova 275 m a oriente del primo. T. fu segnalato per la prima volta dal capitano J. Brévié nel 1904 e visitato due anni più tardi da L. Desplagnes, che ne diede una prima descrizione nella sua pubblicazione del 1907, Le plateau central nigérien. Une mission archéologique et ethnographique au Soudan français. Tra il 1910 e il 1930 numerosi specialisti, tra cui J. Decorse (1906), G. de Gironcourt (1920) e E. Maes (1924), si interessarono al sito, pubblicando descrizioni dei monoliti e del contesto stratigrafico degli insediamenti; successivamente la sua configurazione sarebbe stata sconvolta dagli scavi condotti nel 1931-32 dal giornalista H. Clérisse. Tra gli ultimi studi dedicati a T. prima degli anni Sessanta vanno segnalati quelli di R. Mauny, che realizzò un rilevamento cartografico dei monoliti conservatisi. Nel 1979, e in seguito nel 1980 e nel 1984, il sito fu oggetto di studi nell'ambito dei programmi dell'Istituto di Ricerca in Scienze Umane del Mali. Un sondaggio realizzato alla base di un megalito isolato ha permesso di rinvenire frammenti fittili datati al radiocarbonio a 1300±120 anni fa. Le indagini hanno inoltre portato alla luce un altro sito megalitico a Tioubel.

È probabile che i monoliti di T. ‒ per lo più di forma fallica, spesso levigati o incisi ‒ avessero varie funzioni: alcuni sono decorati da simboli sessuali incisi (seni, triangoli pubici), altri da forme geometriche e scanalature. Essi erano probabilmente fabbricati nella falesia di gres che domina il sito, dove sono stati identificati frammenti di ceramica ed esemplari sbozzati; in seguito erano trasportati nel sito ed eretti in cerchi, a gruppi, allineati o isolati. Gli insediamenti ubicati in prossimità dei gruppi megalitici presentano in superficie frammenti di ceramica, residui di metallurgia, ossa di animali, megaliti rotti, utensili di pietra scheggiata o levigata e macine. Gli scavi condotti nel 1980 dall'équipe di P.B. Fontes, A. Person e J.F. Saliège in un tumulo del diametro di 150 m hanno permesso di osservare nella stratigrafia livelli di argilla cotti a una temperatura superiore a 900 °C. Alcuni campioni di carboni di legno rinvenuti negli strati di cenere sono stati datati a un periodo compreso tra il VII e l'VIII sec. d.C. Durante questi sondaggi sono inoltre state rinvenute spine di pesce; le specie più rappresentate sono pesci siluro (Bagrus sp., Heterobranchus sp.), oltre a Ciprinidi (Barbus sp.), Ciclidi (Tilapia sp.) e Gimnarchidi (Gymnarchus niloticus).

T. presenta affinità stratigrafiche con gli insediamenti di El-Oualadji, scavati da Desplagnes nel 1951, e con quello di Kouga, scavato da R. Mauny nel 1961; è stato inoltre ipotizzato che la costruzione dei tumuli sarebbe stata ultimata già all'epoca della prima incursione musulmana di Habib ibn Ubi'Ubaida nelle zone limitrofe all'odierno Mali (734 d.C.). I monoliti di T. sono stati oggetto di numerose interpretazioni. Secondo C.A. Diop si tratta di testimonianze della migrazione dei popoli Sereer verso la valle del Senegambia, dove sono stati identificati numerosi siti megalitici. Tuttavia i siti del Mali differiscono da quelli del Senegal per le dimensioni, il carattere rituale e la presenza di simboli sessuali incisi, e sono inoltre più alti (1,5 m in media) e di stili diversi. I siti megalitici del Mali e del Senegal sono caratteristici di una particolare cultura dell'Africa Occidentale, indipendente da influssi islamici. Per T. è ancora incerta l'attribuzione dei megaliti a culti di fecondità, culti agrari, funerari o di divinazione.

Bibliografia

H. Clérisse, Les gisements de Tondidaro (Soudan français) et les tumulus échelonnés le long du Niger de Niafunké au lac Débo, in 15. Congrès International d'Anthropologie et d'Archéologie Préhistorique. Compte-rendu de la 5ème Session (Paris, 20-27 septembre 1931), Paris 1933, pp. 273-78; L. Desplagnes, Fouilles du tumulus d'El Ouladji (Soudan), in BIFAN, 13, 4 (1951), pp. 1159-173; R. Mauny, Tableau géographique de l'Ouest africain au Moyen Age d'après les sources écrites, la tradition et l'archéologie, Dakar 1961; J. Gallais, Le Delta intérieur du Niger. Étude de géographie régionale, Dakar 1967; M. Dembélé - A. Person, Tondidaru. Témoin spectaculaire d'une civilisation protohistorique de l'Afrique de l'Ouest, in Jamana. Revue Culturelle Malienne, 12 (1987), pp. 23-28; P.B. Fontes - A. Person - J.-F. Saliège, Prospection de sites archéologiques de la région des lacs et du delta intérieur du Niger (1980), in M. Raimbault - K. Sanogo (edd.), Recherches archéologiques au Mali, Paris 1991, pp. 27-46; M. Dembélé - A. Person, Tondidaru, un foyer original du mégalithisme africain dans la vallée du fleuve Niger au Mali, ibid., pp. 47-58; S.K. McIntosh - R.J. McIntosh, Autres missions de recherches régionales. Reconnaissances archéologiques le long du Moyen Niger, ibid., pp. 99-120.

Toutswe

di Andrea Manzo

Importante sito di abitato dell'età del Ferro localizzato nella regione centrale del Botswana, circa 50 km a nord del villaggio di Palapye; esso si è sviluppato sulla sommità del colle Toutswemogala, che è di forma allungata e a sommità piatta ed è alto circa 50 m rispetto alla piana circostante.

Le date radiometriche per questo insediamento vanno dal VII al XIX sec. d.C., indicando quindi un'occupazione complessiva di oltre mille anni, nel corso della quale sono forse distinguibili due diversi momenti di occupazione, il primo e più importante dei quali terminò nel XIII sec. d.C. I resti dell'insediamento di T. consistono in suoli di abitato riferibili a pavimentazioni di capanne, mentre l'elemento architettonico più notevole è rappresentato da un muro di fortificazione di pietra. La sommità del colle Toutswemogala ospita anche sepolture. Le strutture più caratteristiche del sito sono però alcuni recinti per il bestiame, la cui presenza è oggi rivelata ancor prima dello scavo dalla concentrazione di piante erbacee (in particolare appartenenti alla specie Cenchrus ciliaris) in alcune aree. La vegetazione infatti prospera, favorita dal terreno a elevata componente organica prodotto dalla prolungata presenza delle mandrie e delle greggi in spazi limitati.

Il sito di T. ha anche dato il nome alla cultura omonima, definita in particolare sulla base di una peculiare produzione ceramica e diffusa nel Botswana orientale. La cultura Toutswe è caratterizzata da siti di abitato costruiti in genere su ampie colline dalla sommità pianeggiante, quindi simili per disposizione topografica al sito eponimo, dalla pratica dell'agricoltura del sorgo e del miglio, dall'allevamento e dall'inserimento in reti di contatti e scambi esterni che si estendevano fino all'Oceano Indiano. I contatti con l'Oceano Indiano sono infatti evidenziati dalla presenza in contesti Toutswe di conchiglie marine, usate forse come mezzo di scambio, che, almeno a partire dall'VIII sec. d.C., sono attestate a ovest fino a Tsodilo. I contatti e gli scambi che coinvolgevano la cultura Toutswe sono indicati tra l'altro anche dalle somiglianze stilistiche tra la sua ceramica e quella dello Zimbabwe e del Transvaal settentrionale. La cultura Toutswe doveva infatti agire da intermediario lungo le direttrici che facevano affluire verso i siti costieri dell'Oceano Indiano il rame e l'avorio dell'entroterra.

Lo studio della disposizione dei siti della cultura Toutswe ha evidenziato come il modello di insediamento sia intimamente legato a un orientamento pastorale dell'economia in un ambiente semiarido. Alcuni siti recentemente individuati nella regione dei Monti Tsawapong, a est, sembrano invece caratterizzati da attività specializzate di estrazione e lavorazione del ferro, testimoniate da fornaci metallurgiche e miniere a cielo aperto, finora ignote negli altri siti della cultura Toutswe. Le dimensioni differenziate dei siti Toutswe e la disposizione dei siti di maggiori dimensioni al centro di un reticolo di insediamenti più piccoli suggeriscono che questa cultura abbia conosciuto una certa gerarchizzazione sociale. In effetti, il sito eponimo ha svolto un importante ruolo nello sviluppo dei primi Stati dell'Africa Meridionale. T. è stato infatti sede di un principato i cui sovrani governarono l'area circostante tra il VII e il XIII sec. d.C. Uno degli elementi determinanti nello sviluppo della gerarchizzazione e nella manifestazione del rango dovette essere il controllo del bestiame, come suggerito dalla localizzazione dei siti più importanti ed estesi proprio in aree a prevalente sfruttamento pastorale e dalla presenza di diversi recinti per bestiame nello stesso sito di T.

Il principato di cui T. fu capitale scomparve traumaticamente nel XIII secolo a causa della conquista da parte del vicino Stato Mapungubwe, sviluppatosi grazie al commercio dell'oro con la costa dell'Oceano Indiano. Allora il sito di T. venne abbandonato, forse proprio perché collegato alla memoria del precedente potentato. Altri siti della cultura Toutswe, come Bosutswe, sopravvissero, forse anche in relazione alla loro funzione economica ai margini di ricchi territori di caccia, e alcuni mantennero un'identità culturale Toutswe fino al XV secolo. Sempre da un punto di vista culturale, va infine notato come la presenza della cultura Toutswe a est, nella regione dei Monti Tsawapong, suggerisca la possibilità che apporti Toutswe abbiano contribuito alla definizione e all'origine della cultura e dello stesso Stato Zimbabwe.

Bibliografia

J.R. Denbow, The Toutswe Tradition. A Study in Socio-Economic Change, in R.R Hitchcock - M.R. Smith (edd.), Settlement in Botswana, Johannesburg 1982, pp. 73-86; Id., Cow and Kings. A Spatial and Economic Analysis of a Hierarchical Early Iron Age Settlement System in Eastern Botswana, in M. Hall et al. (edd.), Frontiers. Southern African Archaeology Today, Oxford 1984, pp. 24-39; D. Kiyaga-Mulindwa, The Iron Age Peoples of East-Central Botswana, in Th. Shaw et al. (edd.), The Archaeology of Africa. Food, Metals and Towns, London 1993, pp. 386-90.

Tranovato

di Zoe Crossland

Sito archeologico da cui prende nome la fase ceramica dell'Anosy (Madagascar), datata tra la metà del XV e il XVII sec. d.C., e che i viaggiatori europei del XVI e XVII secolo attribuirono ai Portoghesi.

Il termine T. significa "casa di pietra" e fa riferimento alla costruzione di pietra ubicata sul fiume Efaho, a circa 5 km di distanza dalla costa, nel punto in cui il fiume dà origine alla laguna di Andriambe. Il sito è quasi circondato dall'acqua, e dunque facilmente difendibile. La costruzione di pietra destò la meraviglia dei viaggiatori europei e degli abitanti del luogo, in quanto essa differiva dalle abitazioni di materiali vegetali solitamente costruite dai gruppi dell'area. La struttura è localizzata nel punto più alto dell'"isolotto", ergendosi fino a un'altezza di 3 m, e ha pianta quadrangolare, con nicchie interne ricavate nei muri di pietra intonacati che misurano uno spessore di oltre 1 m. Due gruppi di pietre erette si ubicano a sud-est della costruzione. Una relazione portoghese datata al 1613-14 descrive la struttura, in disuso già all'epoca, e una croce e una stele di pietra su cui era stato inciso lo stemma reale portoghese, ad attestare le fasi iniziali della presenza europea nel luogo. Gli scavi condotti da P. Vérin e G. Heurtebize nella struttura non sono stati in grado di accertarne l'antichità, in quanto l'area sembra essere stata livellata e terrazzata prima della sua costruzione, tali attività distruggendo ogni possibile traccia di preesistenti abitazioni. Recenti progressi nello studio delle relazioni commerciali tra le regioni meridionali del Madagascar e la costa dell'Africa Orientale hanno consentito a J.-A. Rakotoarisoa e C. Radimilahy di reinterpretare la costruzione di pietra come un'attestazione di influssi Swahili e di ipotizzare che i marinai portoghesi avessero rioccupato il sito in un'epoca successiva. Le tradizioni orali indigene citano T. come la residenza di un locale lignaggio reale, e la sua localizzazione vicino a un'importante necropoli d'élite menzionata da E. de Flacourt nel XVII secolo potrebbe confermare questa interpretazione.

Bibliografia

P. Vérin - G. Heurtebize, La tranovato de l'Anosy: première construction érigée par des Européens à Madagascar. Descriptions et problèmes, in Taloha, 6 (1974), pp. 117-42; J.-A. Rakotoarisoa - C. Radimilahy, Impacts on the Environment in Southern Madagascar. An Archaeological Perspective. Paper Given in the Urban Landscape Dynamics and Resource Use Symposium (Uppsala University, 28-31th August 2003), in c.s.

Tuto fela

di Rodolfo Fattovich

Località ubicata nella regione di Gedeo, nel Sidamo (Etiopia meridionale). Il sito consiste in un tumulo approssimativamente ovale, lungo circa 50 m e largo 20 m, costruito con pietre vulcaniche che coprivano alcune centinaia di sepolture e su cui erano erette oltre 350 stele con caratteri antropomorfi ben marcati. Il sito, segnalato da M. Azaïs negli anni Venti del Novecento e descritto da F. Anfray negli anni Settanta, è stato oggetto di indagini sistematiche negli anni Novanta da parte di una missione archeologica francese diretta da R. Joussaume.

Lo scavo del sito ha messo in evidenza due fasi di uso del tumulo. La fase più antica era caratterizzata dalla presenza di sepolture in fossa a pozzo riempito con pietre e coperto da una lastra di pietra e con una camera sepolcrale alla base. La fase più recente era rappresentata da sepolture alla base di stele erette sulla sommità del tumulo. Le stele erano del tipo cosiddetto "fallico", secondo la definizione di Azaïs, e consistevano in monoliti cilindrici su cui erano scolpiti un volto umano tondeggiante e motivi a bande rettilinee incrociate, forse rappresentanti elementi dell'abbigliamento. Nelle sepolture della prima fase, poste alla base del tumulo, singoli individui erano deposti in posizione contratta su un fianco. Le sepolture associate alle stele più recenti potevano essere singole o multiple con i resti di due, tre o quattro individui, in posizione fortemente contratta. I corredi associati a queste sepolture erano molto poveri e consistevano quasi esclusivamente in ornamenti personali di vetro e ferro. Tra le pietre con cui era stato costruito il tumulo sono stati anche raccolti numerosi resti di vasi a decorazione impressa, schegge di ossidiana, frammenti di asce levigate, macine e macinelli. Le sepolture più antiche sono state datate all'XI-XII sec. d.C.

Bibliografia

M. Azaïs - R. Chambard, Cinq années de recherche archéologique en Ethiopie, Paris 1931; C. Bouville - J.-P. Cros - R. Joussaume, Étude anthropologique du site à stèles de Tuto Fela en pays Gedeo (Éthiopie), in AnnEth, 16 (2000), pp. 15-24.

Vergelegen

di Peter J. Mitchell

Tenuta privata di W.A. van der Stel, governatore della Colonia del Capo dal 1699 al 1707 per conto della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC), situata circa 50 km a est di Città del Capo (Repubblica Sudafricana).

L'area centrale era occupata da una grande casa padronale e dalla residenza del custode, edificate ai lati opposti di un giardino simmetrico a pianta ottagonale. Ai fianchi di tali edifici vi erano una cantina per i vini, gli alloggi degli schiavi, una piccionaia e un mulino ad acqua adibito anche a stalla. La tenuta venne confiscata dalla Compagnia quando van der Stel cadde in disgrazia. Gli scavi archeologici hanno interessato gli alloggi per gli schiavi, il mulino e la cantina. Tutti e tre gli edifici presentano una struttura tipicamente nord-europea, a pianta rettangolare e con tre navate, ma con i montanti di legno sostituiti da pilastri di mattoni a causa della penuria locale di legname. Tra i ritrovamenti si segnalano porcellane orientali, terrecotte, ceramiche e vasi di pietra dalla forma simile al vasellame da cucina prodotto in India e in Indonesia, da cui provenivano molti schiavi. Negli alloggi destinati agli schiavi furono rinvenuti anche utensili di ferro e diversi oggetti personali, oltre alla sepoltura di un'anziana donna. La pianta della tenuta enfatizza la simmetria nord/sud del progetto, diversamente dalle architetture della maggior parte delle residenze coloniali del Capo. Tale schema e il disegno regolare del giardino indicano il desiderio di van der Stel di riproporre in Africa Meridionale i modelli architettonici rinascimentali, esattamente come avveniva per i suoi pari nelle residenze di campagna nei Paesi Bassi. L'insolita presenza di alloggi per gli schiavi e l'impianto ottagonale del giardino lasciano presumere la precisa intenzione del governatore di ostentare potere, status e ricchezza, in un periodo nel quale la sua autorità stava per divenire oggetto di contestazioni da parte dei liberi cittadini della colonia.

Bibliografia

Y. Brink, The Octagon. An Icon of Willem Adriaan van Der Stel's Aspirations?, in South African Archaeological Society Goodwin Series, 7 (1993), pp. 92-97; J.C. Sealy et al., An Historic Skeleton from the Slave Lodge at Vergelegen, ibid., pp. 84-91; A.B. Markell - M. Hall - C. Schrire, The Historical Archaeology of Vergelegen. An Early Farmstead at the Cape of Good Hope, in Historical Archaeology, 29 (1995), pp. 10-34.

Vohemar

di Zoe Crossland

Necropoli localizzata sulla costa nord-orientale del Madagascar; oggetto di grande interesse archeologico, agli inizi del XX secolo essa ottenne notevole fama grazie agli studi qui intrapresi da numerosi ricercatori. Le più importanti attività di ricerca vennero comunque realizzate nel sito da P. Gaudebout ed E. Vernier nel 1941-42, epoca in cui essi scavarono praticamente l'intera necropoli, individuando circa 500 tombe.

Localizzata su una lieve altura sabbiosa, la necropoli occupava un'area di varie centinaia di metri, sviluppandosi approssimativamente in direzione nord-sud. Le sepolture erano concentrate in sei gruppi e generalmente i defunti avevano la testa orientata verso est. Numerose tombe erano segnalate da due o quattro grandi lastre di pietra collocate all'estremità, e molte presentavano incensieri di cloritoscisto sulla sommità di depositi e che originariamente dovevano essere stati collocati sopra le tombe. La grande maggioranza delle sepolture conteneva inumazioni in posizione estesa, giacenti sul lato destro e rivolte verso nord. Venne recuperata una vasta gamma di manufatti associati, che variava da un vaso capovolto, collocato ai piedi delle sepolture più semplici, a ceramica e oggetti di vetro islamici e del Sud-Est asiatico; occorre inoltre citare il rinvenimento di lame di ferro, manufatti di rame e argento comprendenti anelli, bracciali e catene, oltre a perle, cucchiai e altri articoli. I beni funerari più ricchi vennero generalmente recuperati nelle tombe localizzate a est, in posizione più vicina al mare; tale elemento ha indotto P. Vérin a formulare l'ipotesi secondo cui ciascun gruppo di sepolture rappresenterebbe una distinta unità sociale.

Sfortunatamente, sebbene fosse stata compilata una lista relativamente dettagliata dei beni funerari recuperati, i materiali non vennero resi disponibili allo studio di altri ricercatori. La ceramica di produzione locale non fu inoltre inventariata, e le associazioni tra gli scheletri e i corredi funerari non furono annotate o conservate; ciò limita il potenziale informativo dei dati provenienti da questo importante sito.

Bibliografia

P. Gaudebout - E. Vernier, Notes sur une campagne de fouilles à Vohemar, Mission Rasikajy 1941, in Bulletin de l'Académie Malgache, 24 (1941), pp. 100-14; P. Vérin, The History of Civilisation in North Madagascar, Rotterdam 1986.

Vungu-vungu

di Peter J. Mitchell

Sito archeologico ubicato nelle vicinanze di Rundu (Namibia settentrionale), uno dei pochi insediamenti di questo Paese associati a comunità agricole a essere stato oggetto di scavi.

Un'unica datazione al radiocarbonio indica che il sito venne occupato nel XVII-XVIII sec. d.C. I ritrovamenti comprendono ceramiche in cui predominano motivi ornamentali incisi a tratteggio incrociato. Queste ceramiche mostrano chiare affinità con il vasellame attualmente prodotto nella regione dai vasai Shambyu, Kwangali e Mbukushu. Scarse sono le informazioni sull'economia di sussistenza degli abitanti del sito, anche se con molta probabilità si praticavano la caccia e la pesca, oltre all'allevamento e alla coltivazione di cereali. Sono stati rinvenuti anche pipe di argilla, grani di vetro lavorati, gusci di ostriche, ferro e rame. Le pipe e le perle di vetro documentano rispettivamente il consumo di tabacco, un prodotto importato in Africa Meridionale dagli Europei, e gli scambi su lunghe distanze che potrebbero avere messo in contatto gli abitanti del sito con i gruppi che rifornivano la colonia portoghese dell'Angola. Repertori di cultura materiale in gran parte simili sono stati riportati alla luce nei livelli superiori del sito di Kapako, a ovest di Rundu, da cui provengono analoghe testimonianze attribuite a comunità agricole e datate al I millennio d.C.

Bibliografia

B.H. Sandelowsky, Kapako and Vungu Vungu. Iron Age Sites on the Kavango River, in South African Archaeological Society Goodwin Series, 3 (1979), pp. 52-61.

Walata (oulata)

di Giovanna Antongini, Tito Spini

Città archeologica che sorge alla base di un'alta falesia ubicata nel Sud-Est della Mauritania tra Tichitt e Nema (17° Lat. N., 7° Long. O).

L'insediamento di W. è sito tra il deserto e la savana, in una posizione privilegiata che per secoli ne ha consentito la difesa dagli attacchi nei periodi vacanti tra il succedersi dei regni di Awdaghost, Ghana e Mali. Oggi la parte più antica, quella arroccata alla falesia, appare in rovina e gli abitanti, circa 2000, vivono nei quartieri a sud, oggetto di recenti restauri e ristrutturazioni. Quando nel 1912 il colonnello Ruelet delle truppe di occupazione francesi entrò a W., annotò nel suo diario: "È una città aperta come Nema, le sue 600 case sono tutte merlate e costruite in pietra e formano un recinto solo interrotto dalle imboccature delle strade. Ci sono 650 abitanti e potrebbe ospitarne 5000. In parte è arrampicata sulla montagna di Gedunke, ultimo contraf-forte del dhar di Tichitt; le case, più di un quarto in rovina, sono in stile arabo".

Non vi è una data certa per i primi insediamenti in questa zona. P.J. Munson (1989) registra tre cambiamenti fondamentali nelle postazioni residenziali: nel 1000 a.C. i villaggi sono costruiti in alto sulla falesia; attorno al 400 a.C. non si può più parlare di villaggi, e le abitazioni sono nascoste nelle grotte; in seguito, avviene l'abbandono definitivo, verso il 200 a.C., a causa del deterioramento meteorologico che impedisce la coltivazione del miglio e l'allevamento degli animali. Per un arco di otto secoli non si ha notizia di comunità residenti in zona, sino a una cronaca di Ibn Abd al-Hakan (803-871) che riporta la conquista di Kawar avvenuta nel 666 d.C. a opera di Ukba Nafi, che dopo la vittoria si spinse sino ai piedi della falesia di Hodh, dove incontrò un insediamento di agricoltori neri e commercianti ebrei che convertì all'Islam, costruì una moschea e qui morì nel 675: "in un posto chiamato in lingua Hassania, Oualata, 'luogo del raduno'". Due chilometri a sud-ovest di W. si trova la necropoli di Tizert dove le tombe sono suddivise nei tre cimiteri secondo i lignaggi; qui la tradizione afferma si trovi la sepoltura di Ukba, il fondatore.

Nel 1975 fu iniziata, e in seguito interrotta, una campagna di scavi che interessò anche un complesso di opere murarie difensive erette su un ammasso di pietre alto 10 m (già rilevato nel 1961 da R. Mauny), apparente punto di vedetta della necropoli. La ripresa degli scavi in questo sito, così come nella zona nord della città inglobata nella falesia attualmente in rovina e parzialmente sepolta dalla sabbia, fa parte di un piano organico previsto a partire dagli anni Ottanta del Novecento dall'Istituto di Ricerche della Mauritania, che include la rilevazione stratigrafica dei terreni e delle costruzioni al fine di una lettura cronologica delle complesse sovrapposizioni e integrazioni dell'habitat di W. Il declino di Awdaghost e la distruzione di Kumbi Saleh fecero di W. un porto franco, rifugio dei ricchi mercanti sfuggiti ai saccheggi, approdo delle carovane dal Marocco che abbandonarono le piste divenute insicure all'ovest di Tagant, punto di incontro politico e religioso di intellettuali e notabili provenienti da Djenné, Timbuctù e dalle città Hausa. Il tracciato di 800 km che da Sigilmasa conduce a W., lungo il quale i fratelli al-Maqqari di Tlemcen fecero scavare pozzi alla distanza di tre giorni di cammino, si affermò quale asse fondamentale dei rapporti nord-sud. L'importanza di questo centro è ulteriormente confermata dal progetto, non realizzato, di un collegamento con Timbuctù mediante un canale navigabile di 250 km.

W. divenne luogo di sedimento ed elaborazione delle più diverse esperienze politiche, culturali e religiose. L'impianto urbanistico già denota sostanziali differenze rispetto ad altre città mauritane: i nuclei di quartiere sono definiti da strade strette e tortuose, gli isolati chiusi tra alti muri definiscono le unità familiari ma, insieme, un disegno comunitario, diversamente dal ritmo schematico degli assi perpendicolari di Wadan o l'esplicita separazione di Tichitt. Gli scavi effettuati nei quartieri a nord, a contatto con la falesia, hanno rivelato tipologie edilizie di piccole dimensioni, prive di cortile, utilizzate dai Mehajib, popolazioni seminomadi giunte dal deserto attorno al 720, che rappresentano il più antico modello di abitazione stabile nel territorio di W. La moschea, primo elemento dell'impianto urbano, oggi in parte sepolta dalle sabbie e danneggiata dalle alluvioni del 1914, è stata oggetto di un rilievo per definirne gli spazi originari: un muro di cinta, la sala di preghiera (35 × 15 m), con quattro navate trasversali parallele al muro della qibla (direzione della Mecca), dove ancora affiorano i contorni delle porte gemellate che immettevano nella residenza dell'imam, soluzioni che testimoniano un notevole dominio della statica.

L'area della falesia sovrastante W. fa parte delle grandi erosioni del bacino del Taoudenni, da cui proviene gran parte dei materiali di costruzione: calcare bianco di Amojjar, scisti, gres, quarziti verdi e grigi di Sérize, graniti grigio scuro di Awasah, laccoliti vulcaniche e argille rosse infracambriane. Pietre che, oltre che base strutturale, sono state sollecitazioni per scelte formali e cromatiche nell'architettura della città. I compatti nuclei familiari interdipendenti sono a forma di rettangolo irregolare di circa 50 × 30 m, le pareti curvilinee del perimetro di pietra seguono il percorso sinuoso della strada; al piede del muro, una panca continua è luogo di incontro e di sosta lungo il cammino. Su queste pareti la luce diventa protagonista della forma, moltiplicando l'effetto d'ombra sulle modanature delle porte, strutturate con archi a volta falsa e mensole a sei gradini realizzate con pietre di diverso colore, corrispondente al grado di resistenza del materiale, sino al calcare bianco finale usato come elemento decorativo.

Dalla prima corte attraverso passaggi coperti si raggiunge la zona della cucina e dei magazzini, mentre la seconda conduce a due sale (una per l'inverno e l'altra per la torrida estate) e una scala di terra battuta reca al piano superiore. Esterno all'abitazione ma incluso nel recinto, vi è un grande cortile per gli animali. Nelle murature esterne e interne, alte 5-6 m, sono inseriti alveoli triangolari di gres o scisto in lastre sottili intercalate da vasi di ceramica allo scopo di ventilare gli ambienti e alloggiare lampade e oggetti votivi. La struttura dei solai e la loro coibentazione sono affidate a un sofisticato sistema di costole

di tronchi di palma poggiati su telai d'angolo che ne ampliano la portata, realizzando una decorazione geometrica a valore centrale. Molte delle case sono rivestite da un intonaco bianco e ocra su cui spicca una ricca decorazione che contorna porte, finestre e nicchie. La realizzazione di questo straordinario apparato decorativo è ruolo riservato alle donne che preparano gli intonaci con impasto di oligisto, acqua e gomma di acacia su cui eseguono con terre rosse, gialle e tintura di indaco elaborati elementi segnici derivati dalle diverse esperienze culturali che si sono confrontate a W.

J. Corral, nel suo approfondito esame degli elementi decorativi di questa città, ne sottolinea alcune derivazioni: le doppie palme delle qubba di Marrakesh, il grande rosone della moschea di Cordoba, la porta della moschea funeraria di Sidi'Uqba, le cimase della Madinat al-Zahra, le palme intrecciate di Kairouan. Nelle rovine del più antico nucleo abitativo non è stato ritrovato alcun riferimento che possa far risalire a una datazione delle decorazioni. Ibn Battuta, che visitò la città nel 1353, non vi fa accenno; negli anni 1960-76 J. Gabus fotografò le pareti interne decorate dell'abitazione di Sidi Yahya e ipotizzò una improbabile datazione all'VIII secolo. Unico elemento che potrebbe indicarne la provenienza, e di conseguenza l'epoca, è il ritrovamento a Kumbi Saleh di numerosi frammenti di scisto decorati con rosoni e palme dipinti in bianco, nero, rosso e giallo utilizzando tinture composte di caolino e gomma di palma; Thomassey e Mauny hanno datato tali reperti al XIII secolo.

Bibliografia

A. Bonnel de Mezières, Recherches sur l'emplacement de Ghana et de Takrour, Paris 1920; D.-J. Meunié, Cités caravanières de Mauritanie. Tichite et Oualata, in JSocAfr, 27, 1 (1957); R. Mauny, Tableau géographique de l'Ouest africain au Moyen Age d'après les sources écrites, la tradition et l'archéologie, Dakar 1967; J. Ki-Zerbo, Histoire de l'Afrique noire, Paris 1972 (trad. it. Milano 1987); J. Corral, Ciudades des las caravanas. Alarifes del Islam en el desierto, Madrid 1985.

Wilton

di Peter J. Mitchell

Termine, derivato da quello del riparo eponimo sotto roccia della Provincia Orientale del Capo (Repubblica Sudafricana), con cui generalmente si designano le industrie microlitiche oloceniche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori che occupavano le regioni a sud dello Zambesi.

Elemento caratteristico è la presenza di grandi quantità di piccoli raschiatoi, spesso a forma di unghia di pollice, e di segmenti a dorso, per quanto vi sia una notevole variabilità riguardo alla cronologia e, in un certo grado, alla distribuzione spaziale di tali manufatti. I repertori attribuibili all'ultimo millennio rientrano nella cosiddetta "fase postclassica" dell'industria Wilton, in cui i segmenti sono notevolmente più rari rispetto ad altri tipi di microliti a dorso, i raschiatoi a volte di dimensioni leggermente superiori e le asce (utilizzate con probabilità soprattutto nella lavorazione del legno) relativamente comuni. Molti degli strumentari Wilton datati agli ultimi due millenni sono associati anche con vasellame, da cui il termine "ceramica W.". Una significativa variante regionale è rappresentata dall'industria Swartkops della Provincia Settentrionale del Capo, associata ai gruppi boscimani /Xam, in cui tra gli strumenti ritoccati predominano le lame a dorso. Alcuni studiosi vedrebbero nell'industria Smithfield l'espressione recente della tradizione W.

Bibliografia

J. Deacon, Wilton. An Assessment after 50 Years, in SouthAfrAB, 27 (1972), pp. 10-45; Ead., Patterning in the Radiocarbon Dates for the Wilton/Smithfield Complex in Southern Africa, ibid., 29 (1974), pp. 3-18; L. Wadley, The Wilton and Pre-Ceramic Post-Classic Wilton Industries at Rose Cottage Cave and their Context in the South African Sequence, ibid., 55 (2000), pp. 90-106; T. Cleaveland, Becoming Walata. A History of Saharian Formation and Transformation, Portsmouth 2001.

/xam

di Peter J. Mitchell

Gruppo etnico boscimano; si tratta degli ultimi cacciatori-raccoglitori dei territori centrali della Provincia Settentrionale del Capo (Repubblica Sudafricana), noti soprattutto grazie agli accurati resoconti raccolti da W. Bleek e L. Lloyd a Città del Capo negli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo.

Le fonti etnografiche, comprendenti biografie, descrizioni della produzione di manufatti e di attività legate alla sussistenza, così come numerosi racconti e accenni alla mitologia, hanno avuto un ruolo determinante per lo sviluppo delle conoscenze sull'arte rupestre boscimana. Agli stessi gruppi gli archeologi attribuiscono la lavorazione degli strumenti dell'industria Swartkops. A partire dalla metà del XIX sec. d.C. molti componenti di questa etnia vennero catturati, man mano che la frontiera coloniale europea avanzava in direzione del basso corso del fiume Orange.

Le indagini effettuate in siti identificati grazie ai materiali raccolti da Bleek e Lloyd confermano molte delle fonti fornite dai loro informatori, ad esempio in merito alle differenze nella cultura materiale appartenente a gruppi /X. distinti su basi linguistiche, oppure all'organizzazione degli spazi insediativi, che evidenzia differenziazioni di carattere sessuale per quanto concerne i settori destinati alla preparazione dei cibi e alla lavorazione delle materie prime. L'area da cui provengono gli informatori è ricca di incisioni rupestri, alcune delle quali potrebbero essere collegate a specifiche tradizioni /X. a tutt'oggi perduranti tra i loro discendenti nella Provincia Settentrionale del Capo, nonostante l'idioma /X. sia scomparso agli inizi del XX secolo.

Bibliografia

J. Deacon, "My Place Is the Bitterputs". The Home Territory of Bleek and Lloyd's /Xam San Informants, in African Studies, 45 (1986), pp. 135-56; J. Deacon - T.A. Dowson (edd.), Voices from the Past. /Xam Bushmen and the Bleek and Lloyd Collection, Johannesburg 1996; J.D. Lewis-Williams, Stories that Float from Afar. Ancestral Folklore of the San of Southern Africa, Cape Town 2000; A. James, The First Bushman's Path. Stories, Songs and Testimonies of the /Xam of the Northern Cape, Pietermaritzburg 2001.

Zimbabwe, tradizione

di Peter J. Mitchell

Termine utilizzato per descrivere un caratteristico modello di insediamento, la cultura materiale e le istituzioni politiche associati ai siti con recinti murari rinvenuti nello Zimbabwe e nelle adiacenti aree del Botswana, del Mozambico e della Repubblica Sudafricana e datati al II millennio d.C.

Possono essere distinte tre fasi principali: la prima ha come centro di riferimento Mapungubwe, la seconda il sito eponimo di Great Zimbabwe e la terza gli Stati di Mutapa, Torwa, Rozvi e Venda documentati dalle fonti storiche. Si ritiene che una delle caratteristiche fondamentali di queste società sia stata la loro bipartizione in aristocratici e popolazione comune. T. Huffman ha dimostrato come tale divisione sia espressa nell'organizzazione degli insediamenti di Great Zimbabwe, Khami, Mapungubwe e di altri madzimbabwe (siti con recinti murari) mediante la segregazione rituale dei capi sulla sommità di colline e su altri settori, al di sotto dei quali si trovavano le abitazioni dei servitori e delle mogli, uno spazio pubblico per dirimere questioni e alloggi destinati ai guerrieri e agli specialisti nei riti.

All'interno dei recinti murari le residenze aristocratiche erano spesso costruite con daga (fango pressato), diversamente da quelle della popolazione comune, realizzate con cannicciate ricoperte di fango. All'interno dei recinti murari è stata rinvenuta una quantità assai ridotta di vasellame e praticamente nessuna macina, ciò che attesta come la preparazione degli alimenti avvenisse in altri settori. In alcuni siti, come a Manyikeni, vi sono indizi relativi al consumo preferenziale di carne bovina, invece che di altre carni, da parte della classe aristocratica. Gli insediamenti della popolazione comune, al contrario, continuarono a rispettare l'organizzazione tipica del cosiddetto central cattle pattern; un sito che documenta questa tipologia insediativa è rappresentato da Vumba (Botswana orientale), attribuibile alla fase Khami. Una variante della tradizione Z. e del suo caratteristico modello di insediamento sopravvive oggi presso i gruppi Venda, nell'estremo Nord della Repubblica Sudafricana.

Bibliografia

J.N.H. Loubser, The Ethnoarchaeology of Venda-speakers in South Africa, in Navorsinge van die Nasionale Museum (Bloemfontein), 7 (1991), pp. 146-464; T.N. Huffman, Snakes and Crocodiles. Power and Symbolism in Ancient Zimbabwe, Johannesburg 1996; I. Pikirayi, The Zimbabwe Culture. Origins and Decline of Southern Zambezian States, Walnut Creek 2001.

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