SENECA, L. Anneo

Enciclopedia Italiana (1936)

SENECA, L. Anneo (il Vecchio; il prenome Marco attribuitogli da Raffaele di Volterra appare arbitraria congettura)

Achille Beltrami

Nato a Cordova, capitale della Hispania Baetica, probabilmente fra il 58 e il 55 a. C. da ricca famiglia dell'ordine equestre (Tac., Ann., XIV, 53), dopo la prima istruzione in patria passò verso i quindici anni a Roma, dove frequentò in particolare le lezioni del retore Marullo e fu appassionato uditore degli oratori e declamatori più in voga e molti ne conobbe familiarmente. Dopo un lungo soggiorno nella capitale, ritornò, pare, verso l'anno 13 nella Spagna dove sposò una Elvia, di antico e austero casato, dalla quale ebbe i figli Novato, che poi, adottato da Giunio Gallione e chiamato L. Anneo Giunio Gallione, fu proconsole d'Acaia, L. Anneo Seneca il filosofo e L. Anneo Mela, padre del poeta Lucano. Verso il 3 o il 4 d. C. fece ritorno a Roma e non la lasciò più se non per brevi assenze, durante una delle quali lo sorprese la morte circa il 39 d. C. Come egli abbia occupato questa restante parte della lunga sua vita, poco sappiamo, nella perdita quasi totale della biografia composta dal figlio filosofo che in un frammento di questa conservato nel cod. Vaticano-Palat. 24 (cfr. O. Rossbach, De an. phil. librorum recens. et emend., pp. xxxi seg., 161 segg.; Fr. Haase, Seneca: supplem., fr. 98 seg.) accenna a molte opere lasciate dal padre, le quali, se pubblicate, gli avrebbero assicurato alta fama, e fra esse ricorda una storia di Roma dall'inizio delle guerre civili (Historiae ab initio bellorum civilium) sin quasi al giorno della morte dell'autore, cioè sino al principio del regno di Caligola (frammenti in H. Peter, Historicorum Rom. fragm., Lipsia 1883, p. 292). Doveva dunque essere di notevole ampiezza e importanza questa storia alla quale S. attendeva ancora nell'ultimo periodo di sua vita e che il tempo non ci ha conservata. In compenso possediamo la maggior parte dell'opera che rispecchia la passione in lui predominante per l'eloquenza, la più bella delle arti e l'unica veramente onorevole (Contr., I, praej., 8; II, praef., 5). A torto però egli viene spesso designato come "retore" per distinguerlo da S. il filosofo: sembra certo che non tenne pubblica scuola di tetorica né in patria né a Roma. Di questa disciplina, che era il fondamento dell'istruzione romana, fu precettore ai suoi figli e come tale si tenne lontano dalle discussioni teoriche allora accanite fra Apollodoro di Pergamo e Teodoro di Gadara e i rispettivi seguaci, e seguì invece un indirizzo pratico fondato su esempî desunti da ciò che in realtà avevano fatto i maestri migliori. Uomo di rigidezza antica, animato da ardente patriottismo e dalla più grande ammirazione per Roma e la sua lingua e letteratura, dotato di qualità intellettuali più solide che brillanti e di particolare buon senso, egli porta nei suoi giudizî un'equa valutazione di uomini e di cose e, pur amando le declamazioni e parlandone volentieri, non si illude sul valore di questi esercizî, scholasticorum studia (Contr., X, praef.,1), che sono un mezzo per formare le menti dei giovani, ma dai quali bisogna sapersi staccare presto e passare a cose più solide e serie (Suas., 6, 16) e che preparino meglio alla vita (Suas., 2, 15). Non ama l'eccessiva sottigliezza né i troppi luoghi comuni, specialmente filosofici (Contr., VII, praef., 1), né le argomentazioni troppo lunghe (ibid., 2) e le descrizioni troppo brillanti (Contr., II, praef., 1); il suo ideale resta Cicerone. Molto equilibrio egli mostra pure nel giudicare dei declamatori, rispetto ai quali si dichiara pronto a compatire i difetti, vitia, non però le mostruosità, portenta (Contr., X, praef., 10) e deplora ch'essi guardino non al giudice ma all'uditore mirando a piacere anziché a vincere, e avvezzino a discutere contro avversarî fittizî anziché alla vera lotta del foro. Donde il progressivo decadere dell'eloquenza dall'età di Cicerone, nella quale fiorì tutto ciò che la facondia romana può contrapporre o preferire all'orgogliosa Grecia. E di questa decadenza S. scorge due ragioni di carattere storico, il progredire della vita lussuosa e molle e l'essere venute meno all'oratore le ambite ricompense d'una volta; al che si aggiunge la legge comune a tutte le cose che, giunte alla perfezione, sono destinate a decadere, e più rapidamente di quel che siano ascese (Contr., I, praef., 6 seg.). Con questi sentimenti egli si accingeva negli ultimi anni di sua vita, verso il 37, a una raccolta di saggi di discorsi che aveva uditi dai più insigni oratori e retori nella trattazione dei temi consueti delle declamazioni. A quest'antologia intitolata Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores controversiarum, in dieci libri, aggiunse poi un altro libro con le sententiae e le divisiones di sette suasoriae, che abbiamo conservate; ma, essendo di queste la prima acefala, non sappiamo se il libro avesse una prefazione secondo il sistema dei libri delle controversiae. Di queste andarono perdute le prefazioni dei libri V, VI e VIII, è mutila alla fine quella del lib. IX, e i libri III, IV, V, VI e VIII ci sono noti solo per gli estratti (excerpta) fattine, sembra, nel sec. IV da un epitomatore che ci ha conservato anche le prefazioni dei primi due libri; sicché di 74 controversie ne restano solo 35, in condizioni lacunose.

Come S. ci dichiara (Contr., I, praef.,1), si accinse all'opera per soddisfare alla preghiera dei suoi figli che frequentavano le scuole di nuovi retori e desideravano conoscere ciò ch'egli pensava e rammentava dei declamatori da lui uditi negli anni giovanili durante il suo primo soggiorno a Roma e che essi non avevano potuto conoscere direttamente. Dotato di una memoria prodigiosa e rimastagli integra rispetto alle cose meno recenti, egli trae dal ricchissimo tesoro dei suoi ricordi quanto in varî luoghi e occasioni aveva inteso da quei retori romani e greci più antichi e, probabilmente anche con l'aiuto di appunti suoi e dei suoi amici e di scritti tecnici, imprende l'opera destinata ai figli che potevano così formarsi un giudizio su quelli affinando insieme il proprio gusto, e nello stesso tempo al pubblico in genere, cosi da preservare dall'oblio e dai plagi altrui i principali declamatori. Le controversiae, con le quali comincia la silloge, erano destinate a preparare all'eloquenza giudiziaria con la discussione di casi dubbî che si suppongono sottomessi alla decisione di un tribunale, mentre nelle suasoriae si trattava di indurre qualcuno a prendere una determinazione scegliendo tra due opposti partiti. A ciascuna precede una prefazione consacrata al ritratto vivace e interessante di uno o più oratori celebri e all'esame di questioni generali. Rispetto alla trattazione, S. ordina i suoi ricordi in tre gruppi:1. sententiae, pensieri, tratti perspicui e brillanti di coloro che discutono la causa sulla colpabilità o innocenza dell'accusato e sull'applicazione del testo di legge, se ve n'è, al caso proposto; 2. divisio, la traccia, in cui si distinguono le quaestiones e le tractationes, ossia i punti di discussione relativi rispettivamente al diritto (ciò che si ha diritto di fare) e all'equità (ciò che si sarebbe dovuto fare); 3. colores, considerazioni all'infuori della legge, destinate a dare ai singoli fatti e personaggi un particolare colorito, generalmente per mostrare sotto una luce favorevole gli atti del cliente e sfavorevole quelli dell'avversario. Questa terza parte non esiste nelle suasorie intese a consigliare a un personaggio, solitamente storico o mitologico, di fare o tralasciare una cosa. Ci sta così dinnanzi la trattazione di un numero cospicuo di temi che, per quanto in gran parte lontani dal semplice e dal naturale, con situazioni violente o inverosimili, e svolti con uno stile fiorito e sentenzioso e con abuso di espedienti retorici, nel fondo però rispondevano col loro contenuto non più strettamente romano ma umano e universale al nuovo indirizzo degli spiriti. E insieme con i temi anche coloro che partecipano alla trattazione di essi ci si presentano con saggi più o meno ampî della loro maniera di parlare e argomentare, che tutto induce a ritenere siano riprodotti fedelmente. Sicché l'antologia di S. ci rivela nei particolari cattivi e buoni l'essenza dell'insegnamento nelle scuole di declamazione dell'età sua, non solo preparatrici del futuro oratore ma anche formatrici delle basi della cultura generale e dell'espressione letteraria, e ci dà insieme un'immagine fedele dell'eloquenza nuova meno limpida e semplice della precedente ma conforme ai gusti della moltitudine ed è fonte preziosa, anzi quasi unica, per la conoscenza degli oratori e retori della fine della repubblica e dei primi tempi dell'impero. L'opera di S., il cui stile si manifesta nella parte originale, ossia nelle prefazioni, più vicino ai declamatori da lui spesso biasimati che a Cicerone da lui ammirato, dovette essere molto letta e messa a profitto. Nel sec. IV dell'era volgare, a quanto sembra, ne fu fatta l'epitome con intatte le prefazioni dei libri I-IV, VII e X e assai abbreviate le singole controversie. Questa epitome, commentata verso la fine del sec. XIII dal monaco Nicola di Treveth, era la sola nota alla fine del sec. XIV: il testo originale venne in luce per opera del vescovo Giov. Andrea Bussi e del Cusano. I casi poi di colore romanzesco che formano argomento di parecchie controversie offersero materia alla raccolta diffusa nel Medioevo sotto il nome di Gesta Romanorum; e nel Medioevo l'opera di S. padre fu attribuita al figlio filosofo e pubblicata in unione con gli scritti di questo nelle prime edizioni come quelle di Venezia del 1490 e 92. Solo per gli sforzi dei dotti Raffaele da Volterra e Giusto Lipsio le due individualità letterarie furono separate.

Per la costituzione del testo, nella sua parte originale, sono fondamentali tre codici del sec. X: il cod. di Bruxelles 9581 (B) e quello di Anversa 411 (A) da un lato, il Vaticano 3872 (V) dall'altro: una tradizione diversa dall'archetipo di questi codici era rappresentata dall'esemplare su cui fu fatta l'epitome conservataci in numerosi codici, tra i quali ha particolare importanza quello di Montpellier 126 (M) del sec. IX-X.

Ediz.: L'opera di S. il Vecchio apparve separatamente da quella di S. filosofo per la prima volta nell'ediz. di N. Faber (Parigi 1587); successivamente fu edita da A. Schott con un'append. de claris apud Senecam rhetoribus (Parigi 1603), da J.F. Gronov (Leida 1649; 2ª ed., Amsterdam 1672 con note di varî). In età più recente ne curarono edizioni critiche C. Bursian (Lipsia 1857), A. Kiessling (Lipsia 1872), H.J. Mueller (Praga-Vienna 1887), H. Bornecque (Parigi 1902, 2ª ed. 1932 con testo riveduto e traduzione).

Bibl.: H. Bornecque, Les déclamations et les déclamateurs d'après Sénèque le père, Lilla 1902; e nella copiosa bibliografia sulle scuole di retorica e sulle declamazioni toccano più o meno ampiamente di S. il Vecchio, E. Amiel, Histoire de l'éloquence sous les Césars, Parigi 1864; F. A. Aulard, L'éloquence et les declamations sous les premiers Césars, Montpellier 1879; V. Cucheval, Histoire de l'éloquence romaine depuis la mort de Cicéron jusqu'à l'avènement de l'empereur Hadrien, I, Parigi 1893, p. 261 segg. Fra gli studî particolari sopra S. padre, lo considerano in rapporto alla retorica tra gli altri J. Körber, Ueber den Rhetor S. und die römische Rhetorik seiner Zeit, Marburgo 1864; H. Buschmann, Charakteristik der griech. Rhetoren beim Rhetor Seneca, Parchim 1878; id., Die "enfants terribles" unter den Rhetoren des Seneca, ivi 1883; e ancora sui retori greci nelle contr. e suas. di S. cfr. W. Baumm, Kreuzburg 1885; e sullo stile delle declamazioni H. T. Karsten, Elocutio rhetorica qualis invenitur in Annaei Senecae suas. et controv., Rotterdam 1881. Prendono poi in esame le caratteristiche di S. come scrittore, oltre a Ed. Norden, Die antike Kunstprosa, I, Lipsia 1909, p. 300, anche M. Sander, Der Sprachgebrauch des Rhetors Ann. Sen., Waren 1877, A. Ahlheim, De Sen. rhet. usu dicendi, Giessen 1886; sulla sua grammatica cfr. M. Cerrati, La grammatica di A. S. il retore, Torino 1908.

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