L'architettura pubblica e del potere del mondo greco, etrusco-italico e romano

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

L'architettura pubblica e del potere del mondo greco, etrusco-italico e romano

Giorgio Rocco

Basileia e palazzi

Molto spesso all'architettura viene demandata una funzione rappresentativa i cui risvolti ideologici e propagandistici costituiscono una significativa manifestazione del potere politico che la ha promossa. In questo senso l'architettura palaziale costituisce senza dubbio l'espressione più tangibile del potere; il palazzo, inteso come residenza ufficiale del sovrano, deve assolvere a molteplici funzioni, di cui quella residenziale costituisce un aspetto meno rilevante: l'esigenza prioritaria è infatti quella rappresentativa a cui in qualche modo sono riconducibili gli aspetti ufficiali e cerimoniali e quelli più propriamente amministrativi. Spesso il palazzo racchiude anche edifici religiosi, a volte connessi al culto dei sovrani stessi, e strutture pubbliche come biblioteche, palestre, teatri, ippodromi. Nel mondo greco arcaico e classico la tipologia palaziale, specifica manifestazione di un potere centralizzato di tipo monarchico, non è documentata archeologicamente, né le indicazioni provenienti dalle fonti inducono a ritenere il contrario. Nonostante la diffusione delle tirannidi, in età arcaica non si conoscono basileia né ad Atene, a Samo o a Corinto, né nelle altre poleis governate da tiranni, la cui figura non è d'altronde in alcun modo riconducibile a quella di un monarca assoluto; quel che sembra più significativo è che il concetto stesso della rappresentatività della residenza, a differenza di quanto avveniva in età geometrica, non sembra aver rivestito particolari valenze sociali. I primi basileia greci documentati sono datati all'età tardoclassica ed ellenistica e sono in buona parte riconducibili ai monarchi macedoni e ai diadochi di Alessandro, salvo quello, noto solo dalle fonti, costruito in Ortigia (Siracusa) da Dioniso I. Il palazzo di Pella, capitale della Macedonia, è attestato sin dalla seconda metà del IV sec. a.C., ma le strutture giunte fino a noi, che coprono un'area di 60.000 m², sono attribuibili all'espansione del palazzo sotto Filippo V. Il complesso, sollevato su di una collina che dominava la città, presenta un prospetto porticato lungo 156 m, al centro del quale è un propileo monumentale che introduce, tramite un ampio corridoio, alle ali orientale e centrale, entrambe composte da numerosi ambienti di dimensioni variabili che si aprono su grandi peristili. Difficile appare l'identificazione dei vari ambienti salvo per quel che concerne gli hestiatoria. Nell'angolo nord-orientale del cortile nord dell'ala centrale, forse da identificare con una palestra, trova posto un complesso termale, mentre ad ovest si aggiungono altri ambienti, tra cui un enorme peristilio di 70 × 80 m, bordato a nord da un secondo balaneion, a sua volta posto in comunicazione con un'ampia corte. La presenza di un teatro ricavato sulle pendici orientali della collina e la sua integrazione con il complesso, attestata anche per il palazzo di Aigai (Verghina), non possono non far riflettere sull'articolazione funzionale del palazzo. I tratti emergenti dell'architettura palaziale macedone, così come si evince anche dai basileia di Aigai e Demetriade, sono dunque i seguenti: disposizione del palazzo, spesso raggiungibile attraverso ampie rampe, in alto su colline terrazzate, monumentalizzazione dei prospetti e degli accessi, planimetrie chiuse articolate attorno a peristili, integrazione nel palazzo di edifici di interesse pubblico, quali teatri e biblioteche e, forse in una fase più avanzata, introduzione di santuari dinastici. L'elevato dei prospetti principali e dei peristili era spesso a due piani con colonnati sovrapposti, dorico quello inferiore, ionico su un alto basamento quello superiore, secondo un uso tipicamente macedone rintracciabile anche nei prospetti delle grandi tombe a camera; altrettanto ricca era la decorazione interna, con pareti articolate da colonne a rilievo sollevate su podi, ad inquadrare esedre ricavate nelle pareti, e pavimentazioni con mosaici a ciottoli figurati. I palazzi dei sovrani attalidi dell'acropoli di Pergamo, seppure di minori dimensioni, presentano alcune affinità con quelli macedoni; i basileia identificati sono due, uno maggiore ed uno minore, molto vicini tra loro e con un impianto simile, che vede gli ambienti disporsi attorno ad un peristilio centrale. Entrambi gli edifici si datano all'età di Eumene II ed è possibile che nel minore dei due sia da identificarsi la residenza privata, mentre l'altro svolgesse funzioni di rappresentanza. Determinante appare il loro inserimento all'interno dell'acropoli, in un contesto unitario con il temenos di Atena e la relativa biblioteca e lo stesso teatro. Il basileion di Alessandria ci è noto solo dalle fonti, ma quanto emerge dalle descrizioni consente di ricostruire un enorme complesso che, oltre a strutture palaziali in senso proprio, comprendeva giardini attrezzati con fontane e diaitai, edifici sacri, quali il Sema, la tomba-heroon di Alessandro e poi dei Tolemei, ed edifici pubblici, quali il Mouseion con la biblioteca, il ginnasio con la palestra e il teatro, che sembrerebbero quindi integrati all'interno della residenza, la quale veniva così a costituire una città nella città. Certamente una parte significativa nella definizione dei basileia dei Tolemei e dei Seleucidi era debitrice dell'architettura palaziale dell'Oriente, prima fra tutte quella achemenide: la presenza del sacro, identificata nell'heroon del sovrano, di cui troviamo tracce nei palazzi di Alessandria e di Pergamo, e i giardini attrezzati di Alessandria, che hanno evidentemente origine nei paradeisoi persiani, ne sono forse i tratti più evidenti. La residenza di Augusto a Roma mostra di aver ben recepito i principi rappresentativi e simbolici posti in essere dai sovrani ellenistici. Se la residenza in se stessa consta dell'addizione di due ricche domus a peristilio, e non è quindi riconducibile ad un progetto unitario nonostante i prevedibili adattamenti e la monumentalizzazione della facciata settentrionale, ben più organico appare il programma politico-religioso che l'accompagna. In particolare, la dedica del tempio di Apollo Palatino all'indomani della vittoria di Azio e il trasferimento sul Palatino della residenza del pontifex maximus, dopo l'assunzione della carica da parte di Augusto nel 12 a.C., cui si lega la costruzione di una tholos dedicata a Vesta, avvolgono la Domus Augustana di una sacralità unita all'esaltazione del trionfo. Un'ulteriore monumentalizzazione doveva inoltre provenire dal cortile delle biblioteche subito a ovest del tempio e dal portico delle Danaidi forse subito davanti a questo, mentre è possibile che il palazzo si estendesse sulle pendici sud-ovest del Palatino, in una serie di terrazze sino a congiungersi al Circo Massimo, integrando edifici di spettacolo, tempio e residenza in un complesso concepito unitariamente. Assai scarsi sono i dati relativi alle trasformazioni della residenza palatina sotto gli imperatori che precedettero Nerone, ma di quest'ultimo sappiamo che si impegnò nella costruzione di ben due palazzi; del primo di questi, la Domus Transitoria, si sa relativamente poco se non che si doveva estendere al di là della collina della Velia sino sull'Esquilino, che doveva essere costituito da più strutture, solo poche delle quali identificate, un criptoportico e un ninfeo sul Palatino e parte del padiglione esquilino nel passato interamente attribuito alla Domus Aurea. Successivamente all'incendio del 64 d.C. il progetto di Nerone si fece più ambizioso: le distruzioni di buona parte dell'area centrale della città consentirono l'attuazione di un esteso piano di acquisizioni che permise all'imperatore di realizzare un complesso monumentale disperso su un'immensa area, la quale comprendeva, oltre al Palatino, il Celio, la Velia e ampia parte dell'Esquilino. Nella valle racchiusa tra questi realizzò un lago artificiale circondato da edifici e alimentato da un ninfeo monumentale ricavato nelle sostruzioni del terrazzamento del tempio del Divo Claudio sul Celio. L'intera superficie fu organizzata con giardini attrezzati, parchi, boschi arricchiti da fontane, padiglioni e tempietti, noti dalle fonti; a questi si affiancavano una serie di grandi strutture, come i complessi palatini, integrati da Nerone con numerose strutture. Tra queste sono i consistenti resti comunemente attribuiti alla cosiddetta Domus Tiberiana e l'edificio circolare al di sotto della Domus Flavia, il padiglione esquilino, che rappresenta una delle architetture più innovative del I secolo, con la sua lunga fronte articolata su due cortili pentagonali, l'uso generalizzato delle strutture voltate e la grande sala ottagona, il complesso del tempio del Divo Claudio, le terme e il grande atrio colonnato, una sorta di gigantesca sala ipostila che costituiva l'ingresso al grandioso complesso. All'interno della Domus Aurea erano naturalmente inseriti numerosi edifici sacri: oltre al già citato tempio di Claudio, i templi del Palatino, ma anche la Casa delle Vestali nel Foro, con il tempio di Vesta, ricostruiti da Nerone nell'ambito del riassetto dell'area orientale del Foro dopo l'incendio. I modelli della Domus Aurea vanno indubbiamente ricercati ad Alessandria o comunque nelle residenze seleucidi e prima ancora achemenidi, con le loro sale ipostile, cui è forse assimilabile la porticus triplices miliariae di Svetonio, e i padiglioni isolati sparsi negli estesi paradeisoi ricchi d'acqua. Il palazzo dei Flavi, secondo la terminologia tradizionale, oggi in discussione, costituito da una parte rappresentativa, la Domus Flavia, e una privata, la Domus Augustana, fu realizzato dall'architetto Rabirio in età domizianea, su entrambi i rilievi del Palatino, il Palatium e il Cermalus, e sulla depressione che li separava, colmata in questa occasione, cui si aggiungeva un monumentale vestibolo presso il Tempio dei Castori. Il complesso, che chiameremo nel suo insieme Domus Augustana, si configura come una struttura chiusa, articolata su più livelli e costituita da ambienti che si aprono su una serie di peristili interni, secondo una logica non dissimile da quella del palazzo macedone di Pella. La Domus Augustana è separata dalle altre residenze già realizzate sul Palatino, che vengono in parte conservate e alle quali si va quindi ad affiancare, ma, da Domiziano in poi, sarà in questo edificio, il cui nome popolare, Palatium, diverrà poi sinonimo di residenza monumentale, che risiederanno gli imperatori romani. Un'area settentrionale, organizzata intorno a due, o forse tre grandi peristili, si distingue per la particolare monumentalità dei vani che vi si aprono, come la cosiddetta Aula Regia, sul peristilio ovest, alta 30 m e coperta a capriata, con le pareti articolate da tre ordini sovrapposti; l'Aula, racchiusa tra la basilica e il lararium, era fronteggiata dal grande triclinium, a sua volta stretto tra due esedre porticate. In questi ambienti va identificata l'ala di rappresentanza del complesso, mentre l'insieme di ambienti a sud, aperti su di un più piccolo peristilio disposto su di un livello sfalsato e conclusi da un prospetto monumentale ad esedra verso il Circo Massimo, dovevano costituire la residenza privata dell'imperatore. Ancora a sud-est il complesso terminava in un giardino monumentale in forma di stadio, bordato lungo tutto il perimetro da un porticato su due livelli, mentre il prospetto orientale, rinvenuto nella Vigna Barberini, si presenta con un'esedra uguale a quella sud, impostata su di un asse ruotato rispetto a quello del corpo principale del palazzo. I caratteri principali del complesso sono soprattutto ravvisabili nella complessità dell'impianto planimetrico e delle soluzioni spaziali adottate, molto spesso basate sul ricorso a sistemi voltati, oltre che alla monumentalità dell'ala rappresentativa che doveva con i suoi volumi dominare l'intera collina. Le mutate condizioni militari ed economiche determinarono a partire dal III secolo un oggettivo spostamento del baricentro dell'Impero e una conseguente sempre più prolungata assenza da Roma degli imperatori, i quali, costretti a risiedere a lungo laddove era maggiormente richiesta la presenza imperiale, furono indotti a moltiplicare sul territorio le loro residenze, come testimoniano i palazzi tardoantichi di Milano (Massimiano), Treviri (Costanzo Cloro), Salonicco (Galerio), Nicomedia (Diocleziano), Nicea, Antiochia. Tra le residenze imperiali tardoantiche di cui si conservano resti consistenti è certamente il palazzo di Galerio a Salonicco. Situato sulla via Egnatia, la più importante arteria di collegamento tra Occidente ed Oriente, il palazzo si trova nella parte orientale della città e vi si accede attraverso l'arco tetrapilo, che costituisce al tempo stesso il raccordo con la grande corte antistante la Rotonda, situata a nord della via, in cui va probabilmente identificato un edificio di culto. L'asse nord-sud che attraversa l'arco costituisce una via processionale che mette in comunicazione la Rotonda con la cosiddetta "sala del mosaico" e, ancora più a sud, con il Kabeirion e la basilica del palazzo; di questo sono stati inoltre portati alla luce un insieme di ambienti che si sviluppano attorno a un peristilio e, più a sud, un complesso termale e un edificio ottagonale. Subito a nord del peristilio sono stati anche portati alla luce i resti di una struttura circolare, di 29 m di diametro, racchiusa all'interno di un peribolos quadrangolare, che potrebbe essere identificata con il mausoleo di Galerio. Lungo il lato orientale del complesso è stata inoltre rinvenuta parte dell'ippodromo che, situato tra le mura e il palazzo, costituiva con questo un insieme unitario. I caratteri dell'impianto rimandano a consuetudini consolidate: il rapporto con il circo, forse già emerso nella Domus Augustana e poi consolidatosi con gli imperatori successivi, è una costante nei palazzi tardoantichi, come attestano gli esempi di Milano, Treviri, Costantinopoli e Antiochia, ma anche l'integrazione del sacro nella residenza caratterizza sin dall'inizio le residenze imperiali. Un tratto peculiare delle residenze tardoantiche appare invece l'inserimento del mausoleo all'interno del palazzo, conseguenza di una orientalizzazione dei costumi che trova precedenti, oltre che nei palazzi achemenidi, anche nei basileia ellenistici tolemaici e seleucidi.

Archi

Un'altra significativa espressione dell'immagine del potere può essere riconosciuta nei fornices e negli archi onorari; la tipologia presenta sin dall'inizio varie finalità, ma la connessione più o meno diretta con la celebrazione del trionfo, cui si apparenta anche l'accezione votiva, sembra documentata sin dall'inizio. Il rapporto dei fornices con le celebrazioni dei trionfi degli imperatores repubblicani, seppure inizialmente indiretto, è sicuramente attestato a partire dall'erezione del fornix di Q. Fabio Massimo nel 120 a.C., a celebrazione della vittoria sugli Allobrogi, e non può non richiamare la porta con trofeo che dava accesso da nord all'Agorà di Atene dedicata, intorno al 304 a.C., a seguito della vittoria contro Plistarco. Architettonicamente i fornices repubblicani di II e I sec. a.C. presentano tipologie varie: isolati o inseriti in più ampi contesti, a una o tre arcate, con o senza inquadramento in un ordine, con una sensibile varietà nel corredo statuario e nella eventuale presenza di rilievi. Nonostante le numerose citazioni delle fonti, i dati archeologici a nostra disposizione sulla produzione antecedente Augusto sono estremamente scarsi; tra i pochi esempi documentati è l'arco di Aquino, datato intorno al 40 a.C., che presentava un'arcata singola impostata su colonne ioniche e inquadrata agli angoli da coppie di colonne corinzie. Le stesse connotazioni trionfali dell'arco fanno sì che all'instaurazione del principato l'edificazione di tali monumenti avvenga solo attraverso deliberazioni del Senato, accompagnate da precise disposizioni concernenti le forme e l'apparato decorativo, e che al tempo stesso la loro costruzione sia riservata all'esaltazione del princeps e della sua famiglia. Di notevole importanza appaiono gli archi fatti costruire da Augusto nel Foro Romano, eretto per celebrare la vittoria di Azio e la restituzione delle insegne romane sottratte dai Parti a Crasso, che costituiscono un importante precedente per la tipologia della prima età imperiale. Di numerosi altri archi trionfali di età augustea si ha notizia per Roma, ma nessuno di questi ci è giunto in condizioni tali da fornire utili contributi; fuori di Roma la diffusione della tipologia, che assume i connotati di un preciso progetto propagandistico e si estende anche nella periferia dell'Impero, consente però un'analisi più dettagliata del tipo; l'arco, che a volte si configura come porta urbica, altre volte ha collocazioni in zone suburbane, sia pure senza perdere il valore confinario, spesso contribuisce a monumentalizzare l'ambiente urbano, collocandosi in corrispondenza di ingressi ad aree centrali o di snodi stradali. Pressoché generalizzata fuori di Roma è la soluzione a fornice singolo, la cui forma molto semplice, come mostra ad esempio l'arco di Susa, vede semicolonne angolari su podio sorreggere la trabeazione che inquadra il fornice, a sua volta impostato su colonne più piccole, mentre un attico superiore iscritto fa da base al coronamento scultoreo, ma non mancano soluzioni più complesse come l'Arco dei Gavii a Verona, dell'età di Tiberio, caratterizzato da un impianto quadrifronte con quattro semicolonne per ciascun prospetto, che, sollevate su di un podio continuo, sostengono una trabeazione e inquadrano l'arco, cui corrisponde sull'attico superiore un frontone. Nonostante gli scarsi resti superstiti, il numero di archi onorari a Roma, alla fine del I sec. d.C., doveva essere molto elevato, ma nessuno degli archi neroniani si conserva e dell'età flavia sopravvive solo quello di Tito sul Palatino, mentre le dediche a Domiziano furono in gran parte distrutte in antico a seguito della damnatio memoriae. L'Arco di Tito è abbastanza convenzionale, ad un solo fornice inquadrato da quattro semicolonne, sollevate su di un podio continuo, e sormontato da un alto attico che reca in un pannello centrale l'iscrizione. Tra le poche innovazioni, la presenza dei rilievi all'interno del passaggio e i capitelli compositi, peraltro già documentati in età augustea nell'arco di Saintes in Aquitania, destinati a caratterizzare la monumentalità trionfale. Purtroppo perduti sono sia l'arco trifornice di Tito al Circo Massimo, sia l'Arcus ad Isis che costituiva il propileo del Serapeion del Campo Marzio, sia l'arco quadrifronte, sormontato da quadrighe di elefanti, ricostruzione domizianea della porta Triumphalis, pure attestati dalle effigi sulle monete e dalle fonti. Il II secolo vede una produzione più contenuta e una maggiore attenzione al ruolo di accesso monumentale, con l'integrazione degli archi in più ampi complessi, come nel caso dell'accesso monumentale al Forum Traiani o dell'arco di Camigliano, entrambi spariti, o anche della Porta di Adriano ad Atene. Un importante documento è rappresentato dall'Arco di Traiano a Benevento, strutturalmente simile all'Arco di Tito, del quale riprende anche i capitelli compositi, salvo per la presenza di un'estesa decorazione figurata che ne attenua il rigore formale; più consistente per l'età traianea e adrianea è la documentazione africana laddove Leptis Magna attesta un uso marcatamente urbanistico del tipo come si rileva dal tetrapilo di Traiano sulla via Triumphalis e dagli archi limitanei di Adriano e Antonino Pio sul decumano massimo. Un notevole rilievo riveste l'Arco di Settimio Severo nel Foro Romano: d'impianto tradizionale, presenta i tre fornici inquadrati da colonne composite libere, un carattere apparso nell'Arco di Nerone sul Campidoglio e ripetuto in altri monumenti successivi, con conseguente articolazione della trabeazione che si riflette nell'alto attico, stretto alle estremità da due avancorpi a racchiudere l'iscrizione dedicatoria; significativo anche l'apparato figurativo che prelude ai successivi sviluppi dell'arte tardoantica. All'attività severiana deve anche essere ricondotto l'arco tetrapilo posto all'intersezione della via Triumphalis con il decumano massimo di Leptis Magna: il monumento sollevato su di una crepidine, presentava paraste composite agli angoli e colonne libere che inquadravano i fornici e sostenevano particolari frontoni spezzati, mentre rilievi rivestivano i piloni e l'attico. Allo stesso periodo forse appartiene anche l'arco trifornice cosiddetto "di Traiano" a Timgad, particolare nelle edicole, poste al di sopra dei fornici minori, racchiuse dalle colonne libere che sostengono frontoni curvilinei spezzati. Frequente, a partire dalla seconda metà del III sec. d.C., il reimpiego di parti di precedenti monumenti, chiaramente documentato a Roma dall'Arcus Novus, sulla via Lata, e dall'Arco di Costantino, dove quest'uso riveste connotati politici. Una significativa realizzazione della produzione tetrarchica è rappresentata dall'arco quadrifronte di Galerio a Salonicco, costruito intorno al 305 d.C. su una diramazione della via Egnatia; il monumento, che si raccorda a quest'ultima attraverso la cosiddetta "sala del mosaico" e costituisce un propileo monumentale al recinto della Rotonda di Galerio, era ad un solo fornice ed era privo di un ordine architettonico. L'intera superficie dei piloni era decorata da rilievi e così forse la parte alta, mentre i passaggi interni erano voltati a botte e il vano centrale a vela. Un ultimo cenno infine deve essere fatto all'Arco di Teodosio nel Forum Tauri di Costantinopoli; il monumento, situato sulla mese quale monumentale accesso al foro, fu eretto negli ultimi anni del IV sec. d.C. con un solo fornice cui, pochi anni dopo, furono aggiunti i due laterali. I piloni erano sostituiti da gruppi di quattro colonne corinzie disposte in quadrato a sorreggere la trabeazione dalla quale si dipartiva l'arco, mentre un particolare interesse rivestono i fusti delle colonne, realizzati ad imitazione di tronchi di clava, con evidente richiamo ad Ercole.

L'architettura della politica e della giustizia

I luoghi della politica nel mondo antico sono numerosi e assai spesso poco o niente affatto caratterizzati; le riunioni politiche potevano coinvolgere gruppi ristretti o l'intera comunità e avvenire in ampi spazi scoperti o in ambienti coperti di diverso uso, come ad esempio le stoài; in senso più ampio il luogo però della politica e della giustizia, intesa come aspetto collaterale della politica stessa, era l'agorà (o il foro), che fondeva valenze sacre ‒ era infatti un temenos nel senso proprio ‒ e civili. Tutte le poleis greche, indipendentemente dalla forma di governo, si trattasse di una monarchia, un'aristocrazia, una oligarchia o una democrazia, dovevano possedere un prytaneion e un bouleuterion. Il prytaneion è un edificio destinato ad accogliere i pritani, magistrati preposti a presiedere la boulè e l'ekklesia, i quali vi consumavano il loro pasto principale insieme con quei cittadini ritenuti meritevoli dei più alti onori, come i vincitori olimpici, ed eventuali ospiti di riguardo; l'edificio funzionava anche da archivio e da sacrario della storia cittadina, ma soprattutto al suo interno era l'hestia della polis, che bruciava ininterrotta, e questo ne faceva in qualche modo, oltre che il cuore stesso della città-stato, un edificio di culto, nel quale alla stessa Hestia spesso si affiancavano altre divinità. Non vi è una tipologia univoca di prytaneion, questo poteva infatti configurarsi come quello tardoarcaico di Delo, con un portico tetrastilo in antis che introduce ad un cortile rettangolare sul quale si aprono, preceduti da vestiboli, un hestiatorion e il santuario di Hestia, o anche come il complesso tholosannessi di Atene. È però possibile isolare una tipologia relativamente diffusa che può essere ben rappresentata dal prytaneion di Kassope, nella sua fase di III sec. a.C. Il complesso è costituito da una corte porticata su tre lati, a sua volta aperta su di una stoà che delimita ad ovest l'agorà, sulla quale si aprono cinque stanze tra le quali sarebbero la sede dell'hestia, gli hestiatoria e una sala di culto, oltre ad un'esedra aperta verso la stoà, forse una piccola sala assembleare. Va ad ogni modo segnalata una tendenza che vede le forme relativamente semplici dell'età arcaica e classica divenire durante l'età ellenistica più articolate e più riccamente decorate. Tutt'altre esigenze rispecchiavano i bouleuteria, destinati alle sedute della boulè e quindi finalizzati ad accogliere parecchie centinaia di persone quasi certamente sedute. Nonostante una relativa varietà, che vede tipologie strette e allungate, con colonnati assiali, al fianco di impianti semicircolari o quadrangolari con gradinate interne, disposte su tre lati, gli edifici certamente identificati inducono a ritenere che si trattasse comunque di strutture coperte. I bouleuteria di età arcaica e classica seppure a volte non privi di una propria monumentalità non raggiungono comunque la rilevanza architettonica dei contemporanei edifici religiosi; indicativi in questo senso sono il bouleuterion clistenico di Atene, un semplice edificio quadrato di 23,8 × 23,3 m, con gradinate interne disposte su tre lati, forse preceduto sulla fronte da un semplice portico dorico, o anche quello di Olimpia, realizzato nella seconda metà del VI sec. a.C. A questo primo edificio ne fu affiancato, alla fine del VI sec. a.C. un secondo, uguale nell'impianto; successivamente, dopo il 374 a.C., fu inserito tra questi, alle spalle di un portico dorico che unificava il prospetto dell'intero complesso, un cortile quadrato e recintato con al centro un altare dedicato a Zeus Horkios, presso il quale prestavano giuramento gli atleti prima dei giochi. In età ellenistica la tipologia divenne più articolata e monumentale; il bouleuterion di Mileto in questo senso fornisce una documentazione interessante della produzione di quest'età. L'edificio, edificato nel secondo quarto del II sec. a.C., era costituito da un propylon prostilo tetrastilo con capitelli corinzi che introduceva in una corte porticata con colonnati dorici dalla quale, attraverso quattro porte, si accedeva ad un ampio vano quadrangolare coperto, di oltre 34 × 24 m, che conteneva un koilon semicircolare. A sostenere la copertura a due falde disposta trasversalmente contribuivano quattro colonne ioniche, mentre la sala esternamente si elevava al di sopra del portico, cui corrispondeva un ampio basamento pseudoisodomo, con un ordine di semicolonne doriche intervallate, verso il cortile, da finestre che davano luce all'interno. Al bouleuterion greco fa da riscontro nel mondo romano la curia, un edificio riservato appunto alle assemblee del Senato; è strettamente connessa, almeno nella fase iniziale, con il comitium, destinato alle più ampie assemblee popolari e all'attività giudiziaria, e quindi con il foro, di cui questo costituisce un elemento imprescindibile. La curia si configura sin dall'inizio come un edificio sacro, un templum, inaugurato ritualmente secondo l'uso etrusco-italico; da ciò consegue che, nell'impossibilità di riunirsi nella curia, il Senato avrebbe dovuto eventualmente convocarsi in un altro edificio sacro, quale ad esempio il Tempio dei Castori o quello della Concordia e, nell'età successiva, anche in un tempio di culto imperiale. A Cosa la struttura della curia della prima metà del III sec. a.C., tangente e disposta sull'asse del recinto quadrangolare del comitium, è rigorosamente rettangolare ed aperta verso di questo al di sopra di una breve scalinata, mentre all'interno una gradinata occupa tre lati del vano. Non dissimile appare l'impianto della curia di Paestum, pressoché coeva all'esempio precedente, e certamente simile doveva essere il complesso Curia Hostilia-comitium a Roma, con la prima inserita a nord nella cavea circolare del secondo. Le profonde modificazioni politiche dell'età di Cesare e poi del principato di Augusto si riflettono nella costruzione della Curia Iulia, questa volta organicamente connessa al Forum Iulium, celebrazione del potere personale e al tempo stesso santuario dinastico della gens Iulia, e nella parallela obliterazione della struttura del comitium avvenuta in quegli stessi anni. Il prospetto del nuovo edificio, rivolto verso il Foro repubblicano, come appare dalla documentazione numismatica era abbastanza semplice: un frontone con acroteri al di sopra di una parete piana traforata da tre grandi finestre e da un portale. L'istituzione di un ordo decurionis nelle amministrazioni locali determina una conseguente diffusione della tipologia nelle municipalità italiche e nelle colonie provinciali. Generalmente collocata in posizione dominante all'interno del foro, spesso a fronteggiare il Capitolium, la curia presenta comunemente una pianta quadrangolare, a volte absidata come a Pompei, ed è affiancata da alcuni annessi, il secretarium (l'ufficio degli edili e dei pretori), il tabularium (gli archivi) e a volte l'erarium. A Pompei l'edificio della curia, adiacente alla basilica e aperto sul portico sud del foro, è affiancato ad est da due costruzioni, la prima delle quali, con pareti interne scandite da nicchie rettangolari, potrebbe essere identificata con il tabularium, mentre nella seconda va forse riconosciuto il secretarium. La struttura della curia pompeiana con abside semicircolare sul fondo e nicchie alle pareti costituisce un interessante esemplare di una tipologia diffusa, dove l'abside era destinata ad ospitare la statua di culto della personificazione del Senato stesso (Dii curiales, Genius curiae, Genius decurionum) e le nicchie le immagini della famiglia imperiale e forse di importanti personaggi locali. D'altronde ad una tipologia prossima è riconducibile anche la ricostruzione dioclezianea della Curia Iulia; questa, che replicava l'impianto originale, prevedeva infatti nicchie sulle pareti dei lati lunghi racchiuse in edicole sollevate su mensole. A partire dall'età augustea la curia poteva anche non presentarsi come un edificio isolato, bensì essere integrata all'interno delle basiliche forensi, venendo così a far parte di un complesso funzionale più articolato dove attività giudiziaria e amministrativa erano poste sotto l'egida del potere imperiale, rappresentato dall'aedes Augusti, il santuario dedicato all'imperatore. Gli esempi di questa soluzione sono numerosi ed hanno nella basilica vitruviana di Fano un importante riscontro; la realizzazione più attinente alla descrizione di Vitruvio è quella di Roselle che, sull'asse del prospetto interno est della basilica, presenta un'ampia sala rialzata da identificarsi con il tribunal-aedes Augusti-curia. Ma tra le soluzioni architettonicamente più significative è certamente quella di Augusta Raurica, dove la curia è costituita da una struttura a pianta semicircolare oltrepassata addossata sull'asse del muro laterale nordest della basilica che, affrontata al Capitolium, occupa l'intero lato corto del foro; la struttura, di età antonina, modifica l'originario impianto della basilica traianea sostituendo una precedente esedra quadrangolare con l'elemento circolare configurato esternamente, dove il terreno scende rapidamente verso la valle, come una torre ritmata da una serie di contrafforti radiali. All'interno, la curia ospita una cavea a semicerchio oltrepassato, articolata su cinque gradoni e fronteggiata da un bema per gli oratori che in qualche modo richiama le soluzioni adottate in alcuni bouleuteria ellenistici. Altri edifici erano invece destinati a forme di riunione più estese; la partecipazione politica nel mondo greco aveva la sua massima espressione nell'ekklesia, l'assemblea popolare, il cui svolgimento richiedeva conseguentemente spazi molto ampi; vi sono attestazioni dell'uso delle agorài e dei teatri per lo svolgimento delle ekklesiai, tuttavia sono anche documentati in alcune poleis edifici specificamente costruiti per questo fine, gli ekklesiasteria, anche se non sono riconducibili ad un'unica tipologia. Il più noto è indubbiamente quello di Atene, collocato sulla collina della Pnice non distante dall'Agorà. L'edificio, del quale si riconoscono tre diverse fasi, datate tra l'inizio del V e la metà del IV sec. a.C., era costituito da un struttura di tipo teatrale, nelle ultime due fasi sostenuta da un ampio terrazzamento semicircolare in lieve pendenza verso la collina dove era il bema riservato agli oratori. Il diametro di 42 m del koilon originario, che, diversamente dai successivi, era orientato secondo la pendenza stessa della collina, fu portato nell'ultima fase del monumento a 62 m e fu diviso da un diodos intermedio accrescendo il numero dei posti dagli originari 6000 sino a oltre 13.000. Un esempio inconsueto della tipologia è costituito dal Thersilion di Megalopoli, una grande sala ipostila di oltre 66 × 52 m, realizzata nel 370 a.C. per accogliere l'assemblea federale dei Diecimila, che richiama da vicino la tipologia del Telesterion di Eleusi. La struttura, costruita nella prima metà del IV secolo, fu completata con l'inserimento di un portico dorico a sud, in diretto rapporto con il teatro, realizzato alla fine del IV secolo, del quale veniva a costituire il fondale scenico. La copertura, forse rialzata in corrispondenza della tribuna a costituire una lanterna, era sorretta da colonne disposte su cinque rettangoli concentrici attorno al bema, ma allineate su raggi che hanno origine dal centro di questo, di modo da consentire la visione dell'oratore da qualsiasi punto della sala. Anche nelle colonie occidentali sono stati rinvenuti ekklesiasteria, spesso riconducibili ad una tipologia definita. Un esempio significativo è costituito dall'ekklesiasterion di Metaponto, situato in prossimità dell'agorà; sul luogo di un più antico impianto, fu realizzato alla metà del VI sec. a.C. un edificio, poi trasformato nel V sec. a.C., costituito da un bema rettangolare posto al centro di due koila semicircolari contrapposti con un diametro complessivo di 62 m. Questi, separati tra loro dalle parodoi, erano suddivisi in quattro parti da passaggi radiali ed erano delimitati da un muro perimetrale esterno; i sedili erano realizzati in pietra e il loro sviluppo consente di stimare una capienza di circa 8000 persone, ma è probabile che l'edificio fosse utilizzato anche per rappresentazioni drammatiche. Quest'ultima tipologia ha probabilmente influenzato l'impianto del comitium della Roma repubblicana e di alcune sue colonie. Il comitium era la sede dei comitia curiata, dei comitia tributa e dei comitia centuriata, salvo a Roma, dove a questi ultimi erano deputati i saepta nel Campo Marzio. Più in generale, i comitia erano, al pari delle curie, dei templa e quindi rigorosamente orientati secondo i punti cardinali; essi erano costituiti da un'area scoperta circondata da gradinate, spesso posta in relazione diretta con l'edificio della curia. La struttura dei comitia di Roma, Paestum, Alba Fucens e Cosa, nella prima metà del III sec. a.C., è riconducibile ad un'orchestra circolare interamente racchiusa da una cavea, interrotta a volte da uno o più accessi; spesso un recinto quadrangolare racchiudeva l'insieme completato dalla curia. Nel comitium romano, posto nell'area centrale del Foro, si trovavano anche la Graecostasis, la tribuna per gli ambasciatori stranieri, e i tribunalia; l'attività giudiziaria infatti si svolse lì, almeno fino al secondo quarto del II sec. a.C. quando furono realizzate le quaestiones, prima di essere definitivamente trasferita nelle basiliche; anche i comitia tributa nel 145 a.C. furono spostati presso il Tempio dei Castori, contribuendo al progressivo declino della struttura definitivamente obliterata da Cesare nella ristrutturazione dell'area centrale del Foro. In molti casi lo svolgimento dell'attività politica e giudiziaria si è avvalsa delle stoài, che per la loro stessa natura si prestavano a molteplici attività. Le stoài sono una tipologia edilizia particolarmente rappresentata nell'architettura greca ed ellenistica; si tratta, nella forma più semplice, di edifici costituiti da uno spazio rettangolare fortemente allungato, coperto, chiuso su tre lati da un muro e aperto sul prospetto principale da un diaframma di colonne. Il tipo fece le sue prime apparizioni nei santuari, ma l'estrema versatilità favorì una rapida diffusione in contesti urbani, in particolare nelle agorài dove si prestò a molteplici utilizzazioni. Ad Atene un importante ruolo politico era assolto dalla Stoà Basileios, sede dell'archon basileus che, oltre a presiedere importanti culti religiosi, giudicava i reati di empietà e di omicidio; in questo edificio, realizzato subito dopo il 480 a.C., si riuniva a volte il consiglio dell'Areopago e sempre qui gli arconti nominati prestavano giuramento. La stoà, di piccole dimensioni (18 × 7,5 m), presentava sulla fronte otto colonne doriche racchiuse tra ante e una fila di colonne doriche interne a sostenere il trave di colmo. Due ali colonnate furono erette, in un momento successivo, alle estremità della facciata e tra le colonne furono poste delle stele iscritte con brani delle leggi della polis, mentre una statua di Themis, incarnazione della legge e protettrice dei giuramenti, fu eretta, nella seconda metà del IV sec. a.C., nello spazio antistante. Un notevole interesse riveste anche la stoà di Zeus Eleuthereos, costruita nell'ultimo terzo del V secolo; questa è soprattutto un edificio di culto, come è attestato dalla presenza di un altare e di una statua del Dio sull'asse dell'edificio subito davanti il prospetto, e in ciò risiede gran parte della sua importanza, ma il suo ruolo politico è anche significativo, al suo interno venivano infatti dedicati gli scudi dei guerrieri morti nella difesa della polis e qui, forse, si riunivano i sei thesmothetai per le necessarie deliberazioni e per i banchetti rituali. L'edificio presenta una planimetria a Π con due risvolti molto corti, conclusi da frontoni sormontati da acroteri figurati, e un prospetto colonnato di ordine dorico realizzato interamente in marmo pentelico. All'interno, un colonnato ionico sosteneva il trave di colmo e affreschi di Euphranor ne decoravano le pareti. La celebrazione dell'attività giudiziaria non si avvaleva però delle sole stoài, anzi, più in generale, questa si svolgeva invece nei dikastiria, strutture destinate, nel mondo greco, alla celebrazione dei processi, ma anche in questo caso difficilmente riconducibili ad una tipologia ben determinata. La maggior documentazione relativa allo svolgimento dell'attività giudiziaria proviene da Atene dove sappiamo che i tribunali si riunivano in edifici dedicati come l'Heliaia o il Parabyston, ma anche in strutture costruite per altri fini, come l'odeion di Pericle, la Stoà Poikile o, come si è visto, la stessa Stoà Basileios. Eccettuato l'odeion, tutte le altre strutture erano nell'Agorà dove, subito davanti all'Hephaisteion, sono anche i resti di cinque banchine lunghe circa 38 m, che potrebbero essere servite da sedili per i giudici. Se la struttura del Parabyston identificata nell'Edificio B dell'Agorà non è sufficientemente documentata, qualche dato in più invece si ha per l'Heliaia, l'antico Metiocheion. Situata all'estremità nord della Stoà di Attalo, era la maggiore delle corti di giustizia ed era costituita da un spazio rettangolare di 22 × 41 m delimitato da un muro e inizialmente scoperto, poi, nel terzo quarto del IV sec. a.C., modificato con l'inserzione all'interno di un portico a due navate; l'accesso avveniva da un piccolo propylon situato in posizione decentrata sul lato nord. Alla fine del IV sec. a.C. una più ampia corte quadrangolare porticata prese il posto dell'Edificio A; la sua costruzione non fu mai portata a termine, ma nonostante ciò funzionò come corte di giustizia fino alla prima metà del II sec. a.C., quando fu smantellata per fare posto alla Stoà di Attalo. I dati provenienti da altri centri sono scarsi, ma forniscono indicazioni concordi: si utilizzavano spesso per l'amministrazione della giustizia edifici destinati a fini diversi, quali teatri (come nel caso del teatro di Priene) o stoài e in qualche caso edifici dedicati, ma la genericità dei caratteri architettonici di questi è tale da renderne difficile l'identificazione in assenza di fonti esplicite. Nel mondo romano invece si ricorreva più frequentemente alla tipologia basilicale le cui origini risalgono alla media età repubblicana; questi edifici si componevano di una grande sala ipostila aperta sul foro e, al pari delle stoài greche di cui in qualche modo costituiscono un parallelo, si prestavano a molteplici usi, configurandosi in sostanza come un'espansione coperta dello spazio del foro. Il ruolo giudiziario delle basiliche si afferma in un momento successivo alla loro apparizione e non ne costituisce comunque la funzione primaria, che sembra piuttosto legata allo svolgimento di transazioni commerciali e finanziarie, oltre naturalmente a configurarsi come naturale luogo d'incontro. La prima basilica romana deve forse essere riconosciuta nell'Atrium Regium, situato sul luogo dove poi sorse la Basilica Aemilia; l'identificazione dell'edificio, che rimonterebbe all'età arcaica e si sarebbe conservato sia pure spogliato degli originari connotati regali sino all'incendio del 210 a.C., spiegherebbe d'altronde la scelta etimologica, in una fase di forte ellenizzazione della società romana, del termine basilica, evidente traslitterazione del greco basilikè. Ma gli atria publica, comuni a Roma e nelle colonie, anche se costituiscono i predecessori delle basiliche, sia funzionalmente che topograficamente, non sono tali sotto l'aspetto tipologico più chiaramente riconducibile invece alle domus ad atrio. Diversamente, la prima basilica in senso proprio, manifestazione di un evergetismo gentilizio emergente, è la Porcia, realizzata da Catone nel 184 a.C., subito a ovest del comitium, del quale possiamo presumere assorbisse parte delle funzioni giudiziarie. Anche le basiliche Sempronia e Aemilia, di poco successive, rispondevano alla stessa logica e dobbiamo presumere, soprattutto per la seconda, considerato il ruolo svolto da Emilio Lepido in Egitto, che avessero nelle sale ipostile ellenistico-orientali un referente tipologico importante. La struttura di queste prime basiliche non doveva ad ogni modo differire significativamente da quelle che alla fine del II sec. a.C. venivano realizzate in molti centri italici. Esemplificativa di questa tipologia è la basilica di Cosa, aperta sul lato orientale del foro, subito a sud del comitium, attraverso una fronte porticata, e organizzata internamente con una peristasi di 6 × 4 colonne a delimitare lo spatium medium; questo doveva emergere con un secondo ordine di colonne al di sopra della copertura dell'ambulacro e dare così luce all'interno, mentre sul muro di fondo in corrispondenza dell'asse trasversale era un'esedra rettangolare separata dall'ambulacro interno da un diaframma di colonne. Se questa soluzione richiama assai da vicino le successive prescrizioni vitruviane, sono però anche documentate in questa fase basiliche costituite da portici a due navate, di più diretta ascendenza ellenistica, e d'altronde in questo senso la tipologia veniva interpretata in ambiente greco dove era riferita alle stoài doppie o triple. Queste ultime, ampiamente diffuse in Asia Minore, hanno nella stoà basilikè di Efeso, datata ai primi anni del I secolo, un monumentale modello; posta a delimitare l'intero lato lungo nord dell'agorà civile, questa era costituita da una stoà tripla lunga circa 165 m, aperta verso il foro con 67 colonne ioniche e conclusa alle estremità con un chalcidicum a ovest e un aedes Augusti a est, mentre a nord vi si addossava il bouleuterion di impianto semicircolare. L'organizzazione dello spazio interno vedeva una navata mediana più ampia, delimitata da colonnati ionici con capitelli a protome taurina, emergere al di sopra delle navate laterali con un secondo ordine di colonne a giorno che dava luce all'interno. Le grandi basiliche monumentali romane di età imperiale hanno nella ricostruzione augustea della Basilica Aemilia un importante precedente, a cui non è estranea la grandiosità dell'impianto. La struttura, addossata alle tabernae novae, dissimulate nel prospetto verso il foro dalla realizzazione della Porticus Gai et Luci, non si apriva direttamente sul Foro, anche se una comunicazione indiretta era assicurata da tre passaggi che attraverso le tabernae la mettevano in comunicazione con il portico; lo spazio interno misurava 92,5 × 30 m e ospitava una peristasi di 20 × 4 colonne corinzie a separare lo spatium medium dall'ambulacro, a sua volta bordato a nord da un portico più stretto che si affacciava sull'area poi occupata dal Foro Transitorio e dal Templum Pacis. All'interno, l'area centrale si sviluppava per un'altezza di oltre 25 m ed era delimitata da un elevato articolato da tre ordini sovrapposti; al di sopra del colonnato corinzio un ordine di tribune scandite da pilastrini corinzieggianti era a sua volta sormontato da un colonnato libero corinzio destinato a sostenere il cassettonato della copertura; tre livelli si succedevano dunque sull'ambulacro interno, il più alto dei quali, aperto verso l'esterno con finestre e colonnati a giorno, dava luce all'ampio spazio interno reso più sontuoso dalla presenza di fregi figurati e statue e dall'ampio ricorso a marmi colorati quali il frigio, il numidico, i marmi di Teo e di Chio utilizzati sia per le colonne monolitiche che per i pavimenti e i rivestimenti delle pareti. La Basilica Iulia, dedicata da Augusto nel 12 d.C., replicava in buona parte i tratti dell'Aemilia e al pari di questa costituisce il fondamento di una profonda trasformazione della tipologia nell'ambito della quale lo spazio interno viene ad acquistare un'importanza preponderante rispetto al rapporto con l'esterno. Un'ulteriore tappa nell'evoluzione del tipo è costituita dalla realizzazione, nel primo quarto del II sec. d.C., della Basilica Ulpia che con le sue enormi dimensioni, 171 × 59 m, costituisce uno dei monumenti maggiori della città, oltre che il più significativo del Forum Traiani. L'edificio è costituito da un ampio spazio rettangolare delimitato da un muro e aperto sui lati maggiori verso il Foro e verso il cortile delle biblioteche attraverso ampi portali sottolineati a sud da avancorpi colonnati, mentre i lati brevi presentano ampie terminazioni absidate nelle quali erano i tribunalia, riconoscibili nelle esedre quadrangolari disposte assialmente. L'interno presenta un doppio ambulacro di colonne corinzie al di sopra delle quali era un secondo ordine ionico a racchiudere lo spatium medium che doveva così raggiungere i 25 m, emergendo al di sopra delle restanti coperture e dando luce all'interno. Al di sotto delle travature lignee, il soffitto degli ambulacri, dello spatium medium e delle absidi era costituito da cassettonati lignei, mentre l'elevato esterno presentava un ordine ionico arricchito da capitelli corinzi, sormontato da un attico decorato da statue, imagines clipeatae e fregi figurati destinati a celebrare la gloria militare dell'imperatore e delle sue legioni. Il modello della basilica traianea è destinato ad essere ripreso in numerosi altri esempi; infatti, anche se la tipologia biabsidata era diffusa già dal I sec. d.C., la fama della Basilica Ulpia favorì la ripresa e la vasta diffusione del tipo. La basilica di Leptis Magna, attribuita a Settimio Severo, si pone in continuità con il modello traianeo e costituisce al tempo stesso un riferimento per altre realizzazioni nordafricane. L'edificio, posto a fare da snodo tra due ampi piazzali, è costituito da un grande vano rettangolare delimitato da mura e diviso in tre navate da due file di 22 colonne corinzie; la navata centrale, più ampia e coperta con capriate e cassettonato ligneo, è conclusa alle estremità da due ampie absidi ed emerge al di sopra delle falde del tetto delle navate laterali, a loro volta articolate su due livelli. La basilica si affaccia ad est su di un ampio corridoio scoperto, che la separa dal piazzale adiacente, mentre ad ovest una serie di ambienti ricavati in una spina trapezoidale raccordano il limite ovest della basilica con il foro severiano, impostato su di una griglia lievemente ruotata. L'età tardoantica fornisce ulteriori importanti elementi di riscontro per quanto riguarda le trasformazioni tipologiche del tipo basilicale; se la basilica di Treviri esula in parte dalla tipologia, configurandosi piuttosto come basilica palaziale o aula palatina che come basilica forense, la Basilica Nova rappresenta invece una forte innovazione del modello medioimperiale dal quale si discosta soprattutto per l'abbandono degli spazi architravati in favore di soluzioni voltate più consone alla monumentalità della tarda architettura imperiale. Realizzata da Massenzio nei primi anni del IV secolo e parzialmente trasformata da Costantino, la Basilica Nova riprende l'impianto della basilica thermarum o dei grandi frigidaria così come si erano andati definendo a partire dalla metà del I secolo. Si tratta di una struttura costituita da un grande spazio centrale suddiviso in tre campate coperte da grandi volte a crociera alle quali fanno da riscontro su ciascun lato tre ambienti coperti con volte a botte, con generatrice trasversa all'asse longitudinale del complesso. La copertura degli ambienti laterali, illuminati da finestre aperte nel muro di fondo e posti in comunicazione tra loro da ampi passaggi, è tangente all'imposta delle crociere del vano centrale e consente a questo di emergere e di avere così luce adeguata. Una grande abside conclude a ovest l'ampio spazio centrale, mentre a est un vestibolo, poco profondo ma ampio quanto l'intera fronte dell'edificio, dava accesso alla basilica; Costantino trasformò l'edificio costruendo una nuova grande abside posta a nord, in corrispondenza dell'asse trasversale dell'edificio cui faceva da riscontro sul lato sud un nuovo accesso monumentale sottolineato da una fronte prostila aperta direttamente sulla Via Sacra. La novità del progetto è soprattutto riconducibile alla volontà di introdurre in una tipologia tradizionalmente conservativa una spazialità dell'interno che rinuncia alle più tradizionali coperture piane per un sistema voltato da tempo peraltro consolidato nell'architettura termale, e non solo, ma inconsueto nelle manifestazioni più ufficiali dell'architettura pubblica nonostante i precedenti adrianei e antonini cui fanno eco numerose le nuove costruzioni e ricostruzioni di età tardoantica. STADI Nel mondo greco lo stadio accoglieva le manifestazioni sportive connesse alle principali celebrazioni religiose. Il suo stesso nome ne indica la principale funzione, venendo ad identificare un'unità di misura definita, lo stadion, pari a 600 piedi, con valori che oscillano tra 178,35 e 191,27 m a seconda del piede utilizzato, che determina la lunghezza della pista destinata alla corsa. Ma se la struttura dello stadio era prevalentemente progettata per la corsa in tutte le sue varianti (stadion, diaulos, hoplites dromos), non bisogna dimenticare che ospitava anche tutte le principali gare di atletica (pentathlon), di lotta (pale e pankration) e di pugilato (pygme) e spesso anche agoni drammatici e musicali connessi ai giochi. Lo stadio richiedeva la presenza di un'area pianeggiante addossata alle pendici di un colle o racchiusa tra due pendii contrapposti, utilizzati come supporto naturale per le tribune degli spettatori; la struttura era composta da una pista, lunga uno stadio e con una larghezza variabile, in media 100 piedi; ad un'estremità era la linea di partenza (aphesis), talvolta duplicata in corrispondenza dell'arrivo (therma). Gli spettatori assistevano seduti su strutture provvisorie, a volte su gradini di pietra costruiti o tagliati nella roccia, mentre piattaforme spesso attrezzate con sedili erano riservate ai giudici di gara. Un interessante esempio del tipo è costituito dallo stadio di Olimpia: in origine situato ai piedi della collina di Kronos, all'interno del temenos, l'edificio fu in seguito traslato verso est. Nella sua fase di IV sec. a.C. consisteva di una pista di forma rettangolare, i cui lati lunghi erano per la verità lievemente convessi, racchiusa all'interno di bassi pendii; sul pendio nord, a circa due terzi dello stadio da ovest, erano l'altare di Demetra e il sedile dal quale la sacerdotessa della Dea assisteva ai giochi e, subito più in basso, alcune file di sedili destinati ai principali magistrati di Elis e delle altre poleis greche. Al di là della pista, sul pendio antistante, era una piattaforma, composta di due gradini e bordata su tre lati da una balaustra, sulla quale trovavano posto le sedie per i giudici di gara, gli hellanodikoi. La larghezza della pista variava tra 31,26 m a est e 30,74 m a ovest ed era lunga complessivamente 212,54 m; due file di lastre di pietra disposte trasversalmente, distanti tra loro 191,27 m, identificavano il percorso di gara. La linea di partenza era caratterizzata da due profonde incisioni parallele destinate a fornire un appoggio ai piedi dei concorrenti, l'equivalente dei moderni blocchi di partenza, e da paletti lignei a separare le corsie. In diversi stadi (Isthmia, Nemea, Epidauro, Corinto, Coo) è pure documentata la presenza dello hysplex, un sofisticato meccanismo di partenza che comandava l'apertura contemporanea di assicelle poste davanti ai concorrenti in modo da consentire una partenza simultanea. Lungo il perimetro della pista correva un canale intervallato a tratti da pozzetti di decantazione, destinato al drenaggio dell'acqua proveniente dai terrapieni adiacenti e, stando a quanto emerso a Nemea, dove il canale appare essere alimentato da un'apposita conduttura, forse anche a provvedere di acqua pulita pubblico ed atleti. Anche lo stadio di Nemea, datato al IV sec. a.C., presenta risvolti interessanti: la pista, lunga 178 m, ha una terminazione rettilinea a nord, mentre presenta una soluzione semicircolare a sud, la sphendone. Attorno alla pista, delimitata, come a Olimpia, da una canale con vaschette di decantazione, è un terrapieno destinato alle tribune, in legno salvo che per il tratto semicircolare dove i sedili erano direttamente tagliati nel banco roccioso; un tunnel voltato, che attraversa il terrapieno occidentale, costituiva l'ingresso principale per gli atleti e i giudici di gara. La larghezza della pista si amplia progressivamente dai 23,52 m a sud, presso l'aphesis, ai 26,93 m, 300 piedi più a nord, ed era scandita lungo i lati est ed ovest da paletti disposti a intervalli di 100 piedi che dovevano permettere ai concorrenti e agli spettatori di valutare lo spazio percorso; presso l'aphesis si conservano le tracce del meccanismo destinato a garantire la regolarità della partenza. Tribune interamente realizzate in pietra sono comunque attestate sin dal IV sec. a.C., come testimonia lo stadio di Coo, con gradinate, estese per tutta la lunghezza della pista, addossate al pendio naturale della collina dell'acropoli. L'età imperiale non vede sostanziali alterazioni nella tipologia, che ebbe poca fortuna a Roma per la scarsa popolarità di cui godevano i giochi di tradizione ellenica; lo stadio di Domiziano costituisce uno dei rari esempi attestati nell'Urbs e rappresenta il tentativo dell'imperatore di importare a Roma i giochi greci attraverso l'istituzione del certamen Capitolinum nell'86 d.C. L'edificio, con una terminazione rettilinea a sud e una sphendone a nord, era situato sul sito dell'attuale piazza Navona, che ripete nella planimetria l'antico impianto, e presentava una pista lunga 275 m per un'ampiezza di 54 m. Le tribune, interamente in pietra, correvano sui lati lunghi e sulla terminazione semicircolare ed erano organizzate su due maeniana per una profondità di oltre 26 m e con una capienza complessiva di circa 30.000 posti. Secondo una prassi ormai consolidata nell'architettura romana, la struttura gradinata era interamente sostruita ed era sorretta da volte impostate su pilastri e setti murari in opus testaceum; il prospetto esterno, di travertino, era articolato da arcate disposte su due livelli sovrapposti e inquadrate da ordini architettonici, ionico quello inferiore, presumibilmente con colonne corinzie quello superiore. L'accesso principale era a nord, sull'asse della sphendone, ed era preceduto da un protiro colonnato, ma altri ingressi erano al centro dei lati lunghi e forse anche a sud; numerose scale trovavano posto all'interno delle sostruzioni, subito al di là dell'ambulacro esterno e più internamente, quasi a ridosso del podio che delimitava la pista, di modo da consentire l'accesso ad entrambi i maeniana. Poco si sa della pista stessa, ma non doveva accogliere altro a parte l'aphesis, salvo il ricorso a strutture temporanee per occasionali diverse utilizzazioni del monumento. A parte le colonie greche, rari sono gli stadi in ambiente italico e, più in generale, nelle province occidentali dell'Impero; molto ricca è invece la documentazione archeologica per le province orientali, dove in età imperiale vennero costruiti monumenti anche di notevole rilievo. Indicativi in questo senso sono lo stadio di Aizanoi, di età adrianea, che nell'integrazione architettonica con il teatro, contrapposto a nord alla sphendone, viene a costituire un complesso monumentale di grande rilevanza, e lo stadio di Afrodisiade di Caria, il cui eccellente stato di conservazione ne fa uno degli esemplari più rappresentativi dell'Asia Minore. Datato ancora al I sec. d.C., questo vede la sphendone ripetuta su entrambi i lati brevi secondo un modello diffuso in ambiente asiatico nell'età imperiale, come attestano gli edifici di Nisa, Pergamo e di Laodicea al Lykos. La notevole diffusione degli stadi in Oriente si spiega certamente con il favore di cui godevano i giochi atletici nelle aree ellenizzate, ma l'alto costo di edifici di queste dimensioni faceva sì che si ricorresse a questi anche per altre esigenze: lo stadio di Laodicea al Lykos, con i suoi 370 m di lunghezza, poteva essere utilizzato anche come circo e, considerata l'estrema rarità degli anfiteatri nelle aree di cultura greca, non doveva essere infrequente il ricorso agli stadi per venationes e munera.

Ippodromi e circhi

La presenza di ippodromi nel mondo greco è ampiamente attestata nelle fonti a partire dall'età geometrica; quanto riportato nell'Iliade corrisponde abbastanza fedelmente alle corse di carri che si svolgevano nell'ambito delle celebrazioni religiose più importanti dell'età arcaica e classica. Si trattava di gare alle quali prendevano parte, come accadeva anche per le altre specialità sportive, singoli cittadini in rappresentanza delle poleis di origine. La particolarità della gara, almeno in un primo tempo, determinò l'estrazione prevalentemente aristocratica dei concorrenti, ma la partecipazione individuale faceva sì che il numero di questi si mantenesse spesso molto alto, certamente superiore a quei dodici partecipanti che caratterizzavano le competizioni nei circhi romani. Le gare comprendevano corse di cavalli, di quadrighe e, a partire dall'età tardoclassica, anche di bighe, ma purtroppo non vi è una documentazione archeologica per quanto riguarda gli ippodromi, sia perché molto spesso si trattava di apprestamenti temporanei, sia perché, pure considerando la loro scarsa consistenza materiale, una ricerca sistematica in tal senso non è mai stata svolta. Indicazioni interessanti sono pervenute relativamente all'ippodromo di Olimpia, realizzato nell'angolo sud-est del santuario in occasione dell'introduzione, nel 680 a.C., della corsa delle quadrighe. L'impianto prevedeva strutture di partenza e due nissai o kampteres (le metae dei Romani), distanti tra loro forse 2 stadi, attorno alle quali i carri compivano un numero determinato di giri. La linea di partenza, a partire dal V sec. a.C., prevedeva una disposizione dei cancelli sui due lati di un triangolo, posto ad un'estremità della pista, con il vertice rivolto verso l'interno di questa, mentre sul terzo lato, quello prossimo alla stoà di Agnaptos, erano gli altari di Poseidon Hippios ed Hera Hippia; un meccanismo di apertura differenziato scaglionava l'apertura dei cancelli, impedendo collisioni e false partenze ed evitando al tempo stesso situazioni di vantaggio all'avvio della corsa. I simboli di Zeus, l'aquila, e di Poseidone, il delfino, erano posti presso i cancelli di partenza e segnalavano in qualche modo l'avvio della gara agli spettatori, che trovavano posto su di un rilievo naturale presso la pista. I kampteres, attorno ai quali giravano i carri, erano costituiti da pali o pilastri, a volte decorati, infissi in basi più ampie che, fungendo da cordolo, li proteggevano dalle possibili collisioni. A lato della pista, in prossimità della svolta, era il taraxippos, un altare circolare dedicato a Poseidon Hippios presso il quale sacrificavano gli aurighi per ottenerne la protezione, che identificava il punto più pericoloso del percorso, dove maggiori erano i rischi di incidente, ma altrove questo poteva assumere aspetti differenti. La linea di arrivo, presumibilmente posta presso il primo kamptèr, era forse segnalata da una colonna e un'altra poteva trovarsi presso la partenza, mentre non vi erano strutture fisse per gli spettatori e per i giudici di gara. Gli altri ippodromi greci erano anche più semplici, con la linea di partenza costituita da una semplice fune segnalata da una colonna. A volte la stessa pista, nei lunghi periodi in cui non si svolgevano i giochi, poteva essere utilizzata per altri fini quando non addirittura destinata a coltivazioni, come nel caso dell'ippodromo di Delo. In Etruria si diffusero a partire dalla prima metà del VI sec. a.C. le corse dei cavalli e poi, nella seconda metà del secolo, quelle dei carri; furono quindi realizzati ippodromi dei quali, al pari di quelli greci, non si ha una documentazione archeologica: i principali indizi sono infatti costituiti da rappresentazioni iconografiche provenienti da rilievi, pitture vascolari e affreschi che attestano l'utilizzo di tali impianti anche per competizioni di atletica e combattimenti di pugilato, come d'altronde avverrà per i circhi romani. La struttura non sembra si discostasse da quella degli esemplari greci, salvo per l'assenza di meccanismi di partenza, sostituiti probabilmente da una semplice fune tesa; si trattava in sostanza di piste in terra battuta, di utilizzo forse temporaneo, presso le quali erano montate tribune lignee, sfruttando basse colline adiacenti, e piattaforme scoperte per i giudici, mentre colonne dovevano segnare, così come negli ippodromi greci, le linee di partenza e di arrivo; non si hanno indicazioni chiare sulla configurazione delle metae, anche se è possibile che fossero anch'esse costituite da colonne. È probabile una derivazione degli ippodromi etruschi dal mondo greco occidentale, anche se per alcuni tratti le manifestazioni dei primi sembrano differenziarsi, ad esempio, nell'uso delle trigae, limitate nel mondo greco ad impiego militare; l'uso fu ripreso invece a Roma, dove queste competizioni divennero popolari al punto da determinare la denominazione di uno dei più antichi ippodromi dell'Urbs, il Trigarium, destinato poi, in età imperiale, agli allenamenti. È indubbio che l'introduzione delle corse dei carri a Roma, come in Etruria, sia un portato della cultura greca. Ma se fino alla fine dell'età repubblicana le gare a Roma videro la partecipazione di privati cittadini, in seguito si affermarono le figure dei domini, imprenditori che, attraverso la costituzione di squadre di cavalieri e aurighi professionisti, le factiones, acquisirono il controllo delle competizioni, trasformando l'originario cimento sportivo in una manifestazione professionistica. Ne risultava così ridimensionata la valenza religiosa a tutto vantaggio degli aspetti spettacolari. Agli inizi del VI sec. a.C., la sistemazione del Circo Massimo, attribuita ai Tarquini, nella valle Murcia tra Palatino e Aventino, non differiva significativamente da quella degli ippodromi etruschi: si trattava infatti di una semplice pista, con le relative metae, cui facevano da riscontro sulle basse alture adiacenti i fori, le tribune lignee per i senatori e i cavalieri. Solo nel 329 a.C. furono realizzati i primi carceres, cancellate lignee con il relativo meccanismo di partenza, probabilmente ispirato a quello di Olimpia, anche se a Roma l'apertura dei cancelli doveva essere simultanea. I richiami al mondo greco erano d'altronde numerosi e coinvolgevano buona parte dei risvolti simbolici e religiosi legati alle corse. Nel tempo, la struttura del Circo Massimo si arricchì di sempre nuovi elementi: L. Stertinius, nel 194 a.C., costruì all'ingresso del circo un fornix trionfale, antesignano della porta Triumphalis, destinata a divenire una costante nei circhi di età imperiale; nel 174 a.C., M. Fulvius Flaccus e A. Postumius Albinus costruirono nuovi carceres in muratura e nuove metae, ma l'impianto d'insieme rimaneva in sostanza quello dell'ippodromo greco. Solo con Cesare ed Augusto la tipologia assunse connotati propri, costituendosi come un edificio unitario piuttosto che come un insieme di strutture indipendenti. Nei primi anni dell'Impero fu realizzata la spina, un muro che collegava tra loro le metae; la struttura, interamente rivestita di marmo, era riccamente decorata: Agrippa vi dedicò delfini di bronzo, Augusto vi fece erigere l'obelisco di Ramesse II da Heliopolis mentre sulle tribune, presso il traguardo, fece realizzare il pulvinar, santuario del culto imperiale oltre che tribuna riservata. Allo stesso imperatore si deve l'integrazione architettonica e soprattutto politico-religiosa e celebrativa del circo con la residenza imperiale sul Palatino e i relativi santuari. Ma ciò che più doveva colpire della sistemazione augustea del Circo Massimo era la cavea, realizzata in muratura lungo l'intero perimetro della pista, costituita da un lungo rettangolo concluso a sud-est da un raccordo semicircolare, la sphendone, che portava la lunghezza complessiva a 580 m; la cavea, interamente sostruita per un'altezza di 28 m, presentava una struttura interna costituita da ambulacri anulari a racchiudere una serie di setti murari radiali sui quali si impostavano le volte a botte a generatrice inclinata che si ripetevano uniformemente per tutta la lunghezza dei lati, salvo in corrispondenza della sphendone, dove assumevano una configurazione troncoconica. Le gradinate, divise in tre maeniana, di cui quello superiore ligneo e coronato da un portico, comprendevano una prohedria, destinata alle cariche più importanti, e potevano ospitare circa 150.000 spettatori. L'intervento ricostruttivo di età traianea, seguito alle distruzioni accidentali del 36 e 64 d.C. e dell'età di Domiziano, determinò la totale ricostruzione del monumento. Come già per l'edificio augusteo, il tratto più suggestivo del nuovo circo era la cavea, con il suo enorme prospetto monumentale lungo più di 600 m, articolato in tre ordini sovrapposti, che, ciechi e finestrati nei due livelli superiori, inquadravano arcate al livello inferiore. La capienza dell'edificio, portata a 250.000 persone già dall'età neroniana, ne faceva certamente il monumento più grande della città; la spina, sviluppata per oltre 340 m, era il luogo dove maggiormente si concentrò l'apparato decorativo, con sacelli, altari, gruppi statuari e ninfei, cui facevano da riscontro le metae che, decorate da bassorilievi bronzei, come ad Olimpia, qui erano costituite da triplici coni su di un alto basamento, una tipologia che richiama alcune soluzioni dell'architettura funeraria. A partire dall'età traianea vennero introdotti alcuni accorgimenti nella progettazione dell'impianto tra cui una disposizione della spina non parallela all'asse longitudinale, in modo da presentare una maggiore ampiezza della pista alla partenza; nel tratto iniziale infatti, quando i carri erano ancora raggruppati e maggiore era il pericolo di collisioni, era necessario che questi si mantenessero all'interno delle relative corsie sino alla linea di partenza. Il tratto tra i carceres e la linea di partenza era piuttosto lungo, intorno ai 150 m, e la necessità di garantire a tutti le stesse possibilità di vittoria determinò la disposizione dei carceres lungo un arco di cerchio piuttosto ampio, in alcuni casi, come a Leptis Magna, ruotato rispetto all'asse del circo di modo da allinearsi con la pista e assicurare a ciascuno una uguale percorrenza. Ulteriori evoluzioni della tipologia sono riconoscibili nel circo realizzato presso la villa di Massenzio sulla via Appia; l'edificio, caratterizzato da una notevole lunghezza, circa 520 m, presentava una cavea relativamente poco profonda, 7 m, costituita da una volta anulare a quarto di cerchio posta a sostenere le gradinate, distribuite su due maeniana e separate dall'arena da un alto podio. Non vi erano strutture radiali e nel muro di delimitazione esterno, alto 6,75 m, si aprivano irregolarmente finestre e porte che davano accesso alle scale situate subito a ridosso del podio; la volta era alleggerita mediante l'uso di tubi fittili e i gradini poco profondi prevedevano che gli spettatori non poggiassero i piedi sulla seduta sottostante, secondo la norma, ma su un gradino separato, il che comportava due gradini per ogni ordine di spettatori e una sensibile pendenza della cavea. Nell'insieme, la struttura poteva ospitare circa 10.000 persone, un numero certamente minore di quello degli altri circhi, ma comunque idoneo alle esigenze di un circo extraurbano riservato all'imperatore ed al suo vasto seguito. I tratti innovativi riguardarono soprattutto la pista, i cui limiti presentavano una serie di disallineamenti che, a partire dall'estremità dei carceres, vedeva l'ampiezza della pista aumentare sino alla prima meta, quindi restringersi sino alla seconda meta e, ancora, oltre la curva della sphendone, sino a circa un terzo della lunghezza, per poi riprendere ad allargarsi sino a ricongiungersi all'estremità opposta dei carceres. La planimetria risultante è chiaramente irregolare, ma attenta a mediare tra le esigenze di sicurezza e l'opportunità di favorire una visuale quanto più possibile ravvicinata agli spettatori. Un'altra innovazione riguardò i 12 carceres, che, interrotti al centro da un arco, qui, come in altri circhi tardoantichi, sono inseriti tra 2 torri, nelle quali trovano posto le rampe per accedere al livello superiore della struttura. In corrispondenza della linea di arrivo, poco oltre la metà della spina, sul lato meridionale, la cavea era interrotta per tutta la sua profondità dal tribunal iudicum, che doveva accogliere i giudici di gara. Le corse dei carri furono certamente tra le più antiche manifestazioni sportive documentate e, al tempo stesso, le ultime a sparire: i circhi, pure attraverso le profonde trasformazioni dell'età tardoantica, mantennero infatti la loro popolarità durante la prima età bizantina, costituendo un elemento di continuità tra l'Antico e il Medioevo; il circo di Costantinopoli, infatti, era ancora attivo agli inizi del XIII secolo, quando con l'impero latino le manifestazioni circensi vennero soppresse definitivamente.

Teatri

Le rappresentazioni drammatiche, ampiamente documentate sin dall'età arcaica, sono nel mondo greco riconducibili, al pari delle tipologie precedentemente analizzate, alla sfera del sacro. È certamente ad Atene che in età arcaica le forme della rappresentazione drammatica assumono una definizione compiuta e giungono a rivestire una rilevanza tale da divenire un momento fondamentale delle festività in onore di Dioniso. Alla fine del VI sec. a.C., le Grandi Dionisie, che si svolgevano in primavera, le Lenee, che si tenevano in inverno nel santuario del dio, presso il Leneo, e le Dionisie rurali che si svolgevano nei diversi demi attici erano importanti occasioni per le rappresentazioni di tragedie, drammi satireschi e commedie. La forma della rappresentazione prevedeva una zona, l'orchestra, su cui potessero agire il coro, che richiedeva un ampio spazio per danzare, e gli attori che con questo dialogavano; l'area per il pubblico era costituita dal theatron o koilon, gradinata di legno o di pietra dove gli spettatori prendevano posto seduti. Solo in una fase più avanzata a fare da sfondo all'orchestra fu posta la skenè, un edificio che costituiva al tempo stesso il fondale scenico della rappresentazione e una zona di servizio per gli attori. Le nostre conoscenze riguardo alle prime strutture teatrali provengono dai demi rurali dell'Attica: all'interno di un santuario dedicato ad Apollo Pythios e a Dioniso presso Ikaria, il demo di Tespi, è un teatro, i cui resti si datano alla fine del VI sec. a.C. Questo era costituito da un'orchestra terrazzata di forma trapezoidale delimitata da un muro di fondo e fronteggiata da un theatron, anch'esso trapezoidale, affiancato da un grande altare e ricavato da un pendio naturale; gli spettatori prendevano posto su sedili lignei salvo alcuni che, per la carica che ricoprivano, occupavano la prima fila, la prohedria, costituita da un filare rettilineo di sedili di marmo. La tipologia che emerge dall'esame dei resti di Ikaria non si discosta significativamente da quella di altri esempi coevi: il teatro di Thorikos, nella sua fase di fine VI sec. a.C., presentava un'orchestra quadrangolare terrazzata delimitata a sud da un muro di fondo e a nord dalla terminazione rettilinea del theatron, costituito dal pendio naturale sul quale erano ricavati i sedili per gli spettatori; le trasformazioni della metà del V sec. a.C. determinarono un ampliamento dell'orchestra e la realizzazione di un nuovo theatron di forma semiellittica, suddiviso in tre settori da due scalette di distribuzione, le klimakes; furono inoltre costruiti un altare presso la parodos orientale e un tempio dedicato a Dioniso in corrispondenza di quella occidentale. Nei demi attici, la sopravvivenza di questa semplice tipologia sino alla fine del IV sec. a.C. è attestata dai ritrovamenti di Ramnunte, dove una prohedria rettilinea delimitava a sud il theatron, costituito da un pendio naturale rivolto verso un'orchestra rettangolare, e soprattutto di Trachones, l'antico demo di Euonymon, dove l'eccellente stato di conservazione di un teatro di metà IV sec. a.C. consente di analizzarne nel dettaglio l'impianto. L'edificio, abbandonato alla fine del secolo, si presenta privo delle alterazioni che un più lungo utilizzo avrebbe comportato: l'orchestra, di forma trapezoidale, è racchiusa tra il pendio naturale del theatron e l'edificio scenico, che, nella presenza del proskenion, sulla cui sommità, il logheion, una sorta di palcoscenico alto e poco profondo, agivano gli attori in condizioni di migliore visibilità, mostra già i tratti delle trasformazioni dell'età ellenistica. La persistenza del tipo ad orchestra trapezoidale ancora alla metà del IV sec. a.C., in un periodo che vede l'apparizione del teatro ad orchestra circolare, attesta come a questa data la nuova tipologia non sia ancora generalizzata. Il nuovo modello potrebbe essersi evoluto ad Atene in un momento successivo alla trasposizione del teatro dall'Agorà alla precinzione di Dioniso Eleuthereus; è infatti noto dalle fonti che l'orchestra era nell'Agorà e vi rimase sino agli inizi del V sec. a.C., quando, a seguito del collasso dell'ikria, la struttura lignea provvisoria che accoglieva gli spettatori, fu trasferita presso il santuario di Dioniso alle pendici sud dell'Acropoli. Se appare dubbia l'esistenza di un apprestamento di età arcaica nell'area, la struttura del teatro del V sec. a.C. può essere dedotta almeno in parte dai resti di un tratto curvilineo di muro poligonale interpretabile come la delimitazione dell'orchestra, oltre che da un gradino rettilineo iscritto relativo alla prohedria, che inducono ad ipotizzare un theatron a gradini diritti, in parte ricavato nel declivio naturale e in parte costituito da impalcature lignee, cui faceva da riscontro un'orchestra terrazzata delimitata da un muro semicircolare, venendosi a configurare come una soluzione transizionale verso la tipologia ad orchestra circolare. Il Teatro di Dioniso di V sec. a.C. era comunque privo di un edificio scenico in muratura, anche se non si può escludere la presenza di strutture temporanee. L'apparizione della tipologia ad orchestra circolare e koilon a semicerchio oltrepassato alla metà del IV sec. a.C. coincide con l'introduzione di gradinate in pietra e di una skenè stabile. Tra i primi teatri riconducibili alle nuove forme è certamente il Teatro di Dioniso ad Atene, nella sua ricostruzione di età licurgea, secondo alcuni già delineata nella prima metà del secolo, il quale potrebbe aver svolto un ruolo fondamentale nell'elaborazione del tipo come sembrano attestare le stesse fonti, che fanno riferimento al teatro di Licurgo come alla prima struttura teatrale monumentale. Il koilon, a semicerchio oltrepassato da tratti rettilinei paralleli, era separato dall'epitheatron da un corridoio anulare (diodos), coincidente con un tratto del peripatos, la via che contornava a mezza costa le pendici dell'Acropoli, ed era suddiviso in 13 kerkides, o settori, da 14 klimakes. L'elaborazione del tipo deve ad ogni modo anticipare l'affermazione della skenè a proskenion, poiché la disposizione del koilon ad avvolgere l'orchestra ben al di là della semicirconferenza antistante la skenè rivela come la sostanza della rappresentazione non si svolgesse ancora sul logheion; ciò non esclude sporadiche apparizioni della skenè a proskenion, peraltro attestate da rappresentazioni vascolari di IV sec. a.C., prima dell'affermazione della commedia nuova, probabilmente in connessione con la rappresentazione di farse fliaciche. I dati relativi alla skenè del Teatro di Dioniso indicano l'introduzione, già nella seconda metà del IV sec. a.C., dei paraskenia, ovvero di due avancorpi che, posti alle estremità, racchiudevano uno spazio rettangolare, rialzato di un gradino rispetto all'orchestra e delimitato da un fondale articolato da un ordine architettonico, anticipatore dei prospetti colonnati ellenistici e delle scaenae frontes romane. Nella commedia nuova, la mancanza di interazione tra attori e coro, con l'apparizione di quest'ultimo ridotta agli intermezzi, favorisce l'affermazione del proskenion, la cui presenza nel III sec. a.C. diviene generalizzata. L'evoluzione della tipologia in età ellenistica è chiaramente deducibile dal teatro di Priene, in Asia Minore, datato agli inizi del III sec. a.C.; questo presentava il koilon inferiore a ferro di cavallo, suddiviso in 5 kerkides da 6 klimakes e separato da un diodos dall'epitheatron, mentre la prohedria, posta a ridosso dell'orchestra in terra battuta, era interrotta al centro dalla thymele, l'altare di Dioniso. La struttura rettangolare isolata dell'edificio scenico fu completata nel II sec. a.C. dal proskenion, che si presentava verso l'orchestra con un prospetto a semicolonne doriche addossate a pilastrini tra i quali prendevano posto le pinakes, tavole lignee dipinte; l'insieme era alto a sufficienza per consentire il passaggio del coro, ma poco profondo, per non impedire la vista dell'azione scenica dai filari più bassi del koilon. La skenè si ergeva al di sopra del logheion ed era articolata in tre ampi thyromata, le tre porte funzionali all'azione scenica, mentre l'accesso del pubblico all'orchestra avveniva attraverso le parodoi chiuse da ampi portali, i pylones. Nell'età ellenistica si manifestarono numerose innovazioni: infatti, oltre ai primi indizi di un'integrazione delle diverse parti del teatro, riconoscibili nei proskenia a pianta trapezoidale con i lati inclinati paralleli alle parodoi, non mancano koila di impianto semicircolare, più idonei al nuovo ruolo assunto dal proskenion, e una crescente attenzione per gli edifici scenici, dove assume una sempre maggiore rilevanza la decorazione architettonica. Gli edifici tardoellenistici in ambiente italico preludono in più di un caso agli sviluppi dell'età romana: in particolare, l'integrazione tra koilon e skenè trova un importante precedente nel teatro di Pietrabbondante e poi naturalmente a Pompei, mentre koila sostruiti sono documentati, oltre che nella Grecia propria, a Tegea, Mantinea ed Eretria, in centri dell'Italia meridionale come Metaponto e Teanum Sidicinum; non meno significative per l'origine della scaenae frons di età romana sono, oltre agli esempi greci, le soluzioni adottate per le skenès dei teatri di Iato, Tindari e Segesta. Nella sostanza, il teatro romano, nelle particolarità che lo distinguono dal teatro greco, cavea semicircolare e interamente sostruita, parodoi coperte a raccordare quest'ultima con l'edificio scenico, scena elevata su più livelli al di sopra del pulpitum, corrispettivo romano del logheion, non si contrappone a quest'ultimo, ma mostra una continuità con gli sviluppi dell'ultima età ellenistica, non solo italioti, che lo pone nell'ambito della stessa linea evolutiva. L'apparizione di teatri stabili in muratura a Roma è molto tarda, bisognò infatti attendere la costruzione del Teatro di Pompeo, inaugurato nel 55 a.C., perché venisse realizzato un edificio adeguato al nuovo ruolo assunto dall'Urbs alla fine dell'età repubblicana. Già a partire dal III sec. a.C. si tenevano a Roma rappresentazioni drammatiche di tradizione greca, ma queste si svolgevano in strutture temporanee, quali quelle realizzate per i ludi Megalenses, presso il tempio di Cibele sul Palatino, o per i ludi Apollinares, nell'area adiacente al tempio di Apollo in Circo, o sfruttavano strutture diverse attrezzate per l'occasione, come avveniva per i ludi Romani e i ludi plebeii, che si svolgevano rispettivamente nel Circo Massimo e nel Circo Flaminio. Teatri provvisori con tribune lignee e scene temporanee erano diffusi a Roma, soprattutto a seguito del divieto di edificare strutture teatrali in pietra nell'Urbs, disposto dal Senato, che aveva portato alla distruzione del theatrum lapideum iniziato a costruire da C. Cassius Longinus sulle pendici del Palatino; la complessità e ricchezza delle strutture temporanee si accrebbe in maniera significativa alla fine dell'età repubblicana, quando l'evergetismo crescente delle classi dominanti largamente ellenizzate si esplicò nella realizzazione di sfarzose scene teatrali arricchite da colonne in marmi colorati, statue di bronzo, decorazioni d'oro, avorio, argento. Il Teatro di Pompeo costituisce il punto di arrivo delle sperimentazioni attuate nell'ultima età repubblicana e al tempo stesso si pone nella linea evolutiva che ha nella produzione tardoellenistica i suoi diretti antecedenti. Oltre agli esempi già ricordati, gioverà infatti richiamare la suggestione dei santuari laziali che, nell'associazione tempio- teatro e nell'articolazione terrazzata degli elementi, costituiscono precedenti significativi le cui origini vanno rintracciate nelle poleis ellenistiche d'Asia Minore. Il monumentale intervento previde, oltre alla grandiosa cavea, di circa 150 m di diametro, interamente sostruita su volte in concreto e sormontata dal tempio di Venus Victrix, che si eleva a 45 m di altezza, un imponente quadriportico, la Porticus Pompeiana, che portava la lunghezza del complesso a oltre 320 m. Anche la realizzazione della porticus post scaenam appare desunta da precedenti già apparsi nei centri dell'Italia meridionale, come Pompei, e trae le sue origini dal mondo greco ellenistico; un significativo precursore in questo senso può essere riconosciuto nel proskenion del teatro di Delo che, avvolgendo interamente l'edificio scenico, si presenta alle spalle di questo con una stoà aperta verso il piazzale retrostante. I dati relativi all'edificio scenico del Teatro di Pompeo sono desumibili dalla Forma Urbis e quindi riferibili alle trasformazioni intervenute nei secoli successivi alla costruzione, ma è probabile che la scaenae frons fosse articolata da ordini sovrapposti di colonne, così come è attestato per gli edifici temporanei tardorepubblicani, ma anche per il teatro di Mitilene e per parte della produzione tardoellenistica delle poleis siceliote, quali Iato, Tindari, Solunto e Segesta. Ulteriori indicazioni sulla configurazione dei teatri romani alla fine del I sec. a.C. provengono dal Teatro di Marcello, inaugurato nel 13 a.C. L'edificio, più piccolo del Teatro di Pompeo ma pur sempre in grado di ospitare fino a 15.000 spettatori, sorse sul luogo del più antico Theatrum ad Apollinis, rinnovando la stretta interrelazione con il santuario di Apollo in Circo e integrando al suo interno, nelle basilicae poste in corrispondenza dei parascaenia, i templi di Diana e della Pietas. La correlazione con i complessi vicini si estese anche alla Porticus Metelli, divenuta Porticus Octaviae, che venne a costituire la porticus dello stesso teatro. La cavea, interamente sostruita da una struttura voltata, era suddivisa orizzontalmente in tre zone, una inferiore, il maenianum imum (ima cavea), una intermedia, maenianum medium (media cavea), di pietra, e una superiore, maenianum summum (summa cavea), di legno, separate tra loro dalle praecintiones, corridoi anulari, e ripartite verticalmente in cunei da scalette di servizio, scalaria. A causa della perdita dei livelli superiori non è noto se vi fosse quella porticus in summa cavea destinata a divenire caratteristica di molte delle architetture successive. Le sostruzioni erano costituite da un'alternanza di setti radiali, posti a sostegno di volte coniche a generatrice inclinata, e corridoi anulari concentrici all'orchestra; i più esterni, disposti lungo il perimetro, erano su due o tre livelli sovrapposti, cui corrispondevano nel prospetto semicircolare esterno due ordini di arcate sovrapposte, inquadrate da ordini architettonici, rispettivamente dorico e ionico, e forse un attico decorato da lesene corinzie. Il collegamento tra cavea ed edificio scenico, a realizzare un corpo unico, determinava la presenza di adytus maximi, corrispettivi romani delle parodoi ma coperti, che, essendo ricavati all'interno del semicerchio della cavea, comportavano l'eliminazione del corrispondente tratto inferiore delle gradinate e l'inserzione alla sommità di due terrazze, i tribunalia, destinate a personaggi di rango elevato; una seconda conseguenza dell'unitarietà architettonica dell'impianto era costituita dall'altezza uniforme del complesso, laddove la conclusione della cavea veniva a corrispondere alla sommità dell'edificio scenico; da ciò derivava un'altezza considerevole della scaenae frons, articolata su due o tre ordini di colonne sovrapposte. La scena dei teatri in età augustea sembra essere prevalentemente riconducibile alla tipologia a fronte rettilinea racchiusa da parascaenia, articolata da una ricca decorazione marmorea e, secondo l'uso tradizionale, scandita da tre porte, una centrale più ampia, la valva regia, e due laterali, gli hospitalia; tale era la scaenae frons del Teatro di Marcello come appare dalla Forma Urbis e non diversa doveva essere quella del Teatro di Pompeo prima delle più tarde trasformazioni che articolarono il muro di fondo con esedre rettangolari e semicircolari. Anche il pulpitum, corrispettivo del logheion greco, manifesta caratteri propri nella accresciuta profondità, fino a 10 m, e nell'altezza ridotta, mai superiore a 1,5 m, testimoniando, insieme con la forte riduzione dello spazio dell'orchestra, peraltro occupata dai subsellia dei senatori, una scarsa attenzione alle esigenze della tragedia; non mancava infine il velum che, costituito da vere e proprie vele tese su cavi retti da pennoni, era destinato alla protezione del pubblico dal sole. La grande diffusione della tipologia teatrale in Italia si verifica nel I sec. d.C. con una particolare concentrazione nell'ambito del principato di Augusto, evidentemente per una volontà riconducibile a scelte politiche laddove il teatro diviene un elemento essenziale degli impianti urbani della prima età imperiale e certamente, insieme al tempio, la tipologia di maggiore monumentalità. Le soluzioni adottate fuori di Roma risentirono solo in parte, soprattutto dove erano già presenti consolidate tradizioni, dei grandiosi modelli dell'Urbs: cavee interamente o parzialmente addossate a pendii naturali sono diffusamente attestate, ma certamente il sistema di sostruzioni apparve presto destinato a diffondersi, anche per la razionalizzazione che comportava nella distribuzione interna del pubblico; un sistema di scale consentiva infatti agli spettatori di raggiungere corridoi voltati disposti all'interno della cavea, parallelamente alle praecinctiones, alle quali si accedeva attraverso i vomitoria, appositi passaggi aperti nel muro del podio che le delimitava a monte, e, da queste, ai diversi cunei del rispettivo maenianum. Ad Augusto si deve anche l'apparizione e la diffusione del tipo nelle province occidentali fino ad allora rimaste escluse dal processo di ellenizzazione che aveva coinvolto la gran parte del Mediterraneo; la realizzazione di edifici teatrali nei principali centri si accompagnò soprattutto con la diffusione del pantomimo e del mimo che proprio in età augustea ebbero una prima consistente affermazione, mentre l'architettura rivela l'adesione ai modelli elaborati a Roma. In alcune delle province più periferiche della Gallia si diffonde però una tipologia differenziata, comunemente nota come "gallo-romana", i cui tratti principali sono riconoscibili nella cavea spesso eccedente il semicerchio, aditus assenti o disposti secondo il diametro maggiore, edificio scenico poco sviluppato e generalmente privo di una scaenae frons; tali particolarità sono in buona parte riconducibili ad esigenze di economicità, laddove l'edificio doveva far fronte ad un duplice utilizzo svolgendo nel contempo anche la funzione di anfiteatro, secondo un uso attestato, pure nella diversità delle soluzioni adottate, anche nelle province orientali. Se in Italia e in Occidente la fortuna di cui ha goduto la tipologia nel I secolo non prosegue inalterata nei secoli successivi e si estingue già nei primi anni del III sec. d.C., sia per il progressivo abbandono della commedia a favore del mimo e della pantomima, sia per l'affermazione di munera e venationes, oltre che per la crescente fortuna delle corse nei circhi, diversa appare la situazione nell'Oriente ellenizzato, dove le rappresentazioni drammatiche conservarono più a lungo la loro presa sul pubblico. Numerosi in Grecia e in Asia Minore le nuove costruzioni e i restauri nel II e III sec. d.C., i quali, pure nella varietà delle soluzioni adottate, rivelano forti tendenze conservatrici e una scarsa accettazione del modello occidentale, cui fanno eccezione pochi centri più direttamente legati a Roma, come Corinto o Argo e per altri versi Aspendos in Panfilia. In ambiente microasiatico le nuove costruzioni sono particolarmente numerose e le soluzioni architettoniche rivelano alcuni caratteri comuni: la cavea, salvo rare eccezioni a semicerchio oltrepassato, è sempre addossata ad un rilievo naturale e appare in molti casi solo parzialmente sostruita per la zona più elevata e per le cornua, dove pure non appare il sistema voltato che caratterizza i teatri occidentali se non che per la presenza di un ambulacro anulare e pochi corridoi radiali atti a garantire la distribuzione interna; le parodoi sono spesso scoperte e l'edificio scenico non è integrato; il logheion-pulpitum profondo, secondo l'uso romano, è combinato con un proscenium colonnato e alto secondo l'uso ellenistico; la scaenae frons, priva di parascaenia e articolata da più ordini architettonici sovrapposti, è generalmente rettilinea e fornita di cinque porte. Più fedeli al modello romano sono invece i teatri nordafricani, molti dei quali risalgono al II sec. d.C., e quelli dell'area siro-palestinese, che, nonostante il frequente ricorso a pendii naturali, rivelano nell'impianto generale i caratteri salienti della tipologia occidentale. Frequenti in Grecia e Asia Minore sono alcune parziali modifiche dell'orchestra per renderla idonea ad ospitare munera e venationes, i quali, vista l'estrema rarità di anfiteatri in quelle regioni, si svolgevano comunemente nei teatri; a partire dal III sec. d.C. e ancora nel IV e V sec. d.C. in queste aree, inoltre, si diffondono le rappresentazioni di balletti acquatici su tema mitologico, con le conseguenti alterazioni nella struttura dei teatri volte soprattutto alla trasformazione dell'orchestra in kolymbethra.

Odeia

In occasione delle principali festività religiose, insieme con le rappresentazioni drammatiche si svolgevano anche gli agones mousikoi, competizioni musicali e poetiche, quale lo stesso ditirambo, attestato sin dall'età arcaica; l'esigenza di ottenere un'acustica migliore condusse all'elaborazione di una tipologia specifica. Come di frequente in antico, si trattava spesso di strutture multifunzionali: gli odeia, infatti, caratterizzati da ampi spazi coperti, erano destinati alle competizioni musicali e poetiche in occasione delle principali celebrazioni religiose, ma si rivelavano del pari idonei alle esercitazioni dei retori, alle dispute dei filosofi o alle esigenze di assemblee politiche relativamente ristrette. Difficile l'identificazione su base archeologica in assenza di fonti esplicite, data la sostanziale identità, almeno in età ellenistica, con la tipologia dei bouleuteria, senza che si possa escludere la duplice funzione dell'edificio. Il primo edificio certamente documentato è l'odeion di Pericle ad Atene, una sala ipostila quadrangolare, addossata alle pendici sud dell'Acropoli di Atene subito ad est del teatro presso la precinzione di Dioniso Eleuthereus; 10 file di 9 colonne sorreggevano la copertura, forse piramidale, al centro della quale doveva elevarsi una lanterna che dava luce all'ampio spazio interno il quale prevedeva, stando alle fonti, la presenza di sedili. La struttura, che ricorda da vicino il coevo Telesterion di Eleusi e svolse certamente anche funzione di dikasterion e di sala assembleare, avrebbe dovuto imitare la tenda di Serse e, secondo Vitruvio, avrebbe fatto ricorso per le travature interne all'alberatura di navi persiane catturate a Salamina, qualificandosi in qualche modo come un monumento alla vittoria sui Barbari. Il successivo sviluppo della tipologia vede la progressiva integrazione del tipo a sala ipostila con il koilon di derivazione teatrale; il risultato, ampiamente documentato in età ellenistica quando il tipo appare prevalentemente destinato a bouleuterion, è costituito da un edificio quadrangolare coperto al cui interno è inserito un koilon generalmente semicircolare, solo parzialmente ostruito da un numero limitato di sostegni verticali che concorrevano a sostenere la copertura a falde. Gli odeia di età romana si pongono sulla stessa linea evolutiva, anche se la diffusione del tipo in Occidente non appare equiparabile a quella del teatro; la sua presenza è infatti attestata molto raramente e nella stessa Roma ne è documentato solo uno (odeion di Domiziano), mentre assai più vasta è la diffusione in Grecia e in Asia Minore, dove il tipo ha origine: Atene infatti arrivò a possederne tre e tutti di rilevanza monumentale. Il theatrum tectum di Pompei, datato all'età sillana, è tra i primi odeia realizzati in Italia ed è in qualche modo il discendente diretto della tipologia ellenistica microasiatica; l'edificio, nato forse prevalentemente come sede del Collegio dei Decurioni, fu definitivamente destinato a odeion dopo la realizzazione della curia; era costituito da una cavea semicircolare, racchiusa in un ambiente quadrangolare, fronteggiata da una scena rettilinea nella quale si aprivano i thyromata. La cavea era suddivisa in due zone delle quali quella inferiore era composta da quattro profondi gradini destinati ad ospitare i subsellia dei decurioni. Un notevole rilievo riveste tra gli esemplari della prima età imperiale l'Agrippeion di Atene, il quale, realizzato da Agrippa al centro dell'Agorà greca, andava ad affiancare l'odeion di Pericle ed è tanto più significativo in quanto precede di circa un secolo l'introduzione della tipologia a Roma. L'edificio, di forma quadrangolare, racchiudeva una cavea semicircolare, come a Pompei parzialmente decurtata delle gradinate laterali, e raggiungeva i 25 m di altezza dominando la gran parte dei monumenti circostanti; tutto attorno al nucleo principale correva una stoà a due navate articolata su due livelli, l'inferiore dei quali delimitato da un muro finestrato, mentre in corrispondenza del prospetto frontale si veniva a creare un monumentale vestibolo a doppia altezza preceduto da un propylon prostilo tetrastilo. La ricchezza del monumento si rivela anche nei materiali utilizzati: assai ampio è il ricorso ai marmi, grigio-azzurro dell'Imetto per la cavea, bianco del Pentelico per le paraste che scandiscono internamente ed esternamente il corpo centrale e in generale per gli elementi architettonici, verde di Karistos per la scaenae frons, mentre marmi policromi componevano pavimentazioni a disegni geometrici. Non meno ricco e per molti versi più monumentale è l'odeion fatto costruire da Erode Attico sulle pendici sud dell'Acropoli di Atene nel terzo quarto del II sec. d.C. Si tratta di una struttura teatrale coperta, dove però la cavea mantiene intatto il suo sviluppo semicircolare, sottolineato ritmicamente da contrafforti che dovevano contribuire a sostenere la copertura di legno di cedro. All'odeion fu volutamente integrata la Stoà di Eumene la quale, con i suoi oltre 160 m di lunghezza, contribuiva ad accentuare la monumentalità del complesso, attendendo al tempo stesso alla funzione di porticus post scaenam, che già da tempo svolgeva in rapporto al Teatro di Dioniso. Consistente la diffusione della tipologia anche in Asia Minore dove, in particolare nel II secolo, sono attestate sia soluzioni a cavea iscritta che a cavea semicircolare; come già in età ellenistica, nella gran parte dei casi si tratta di bouleuteria, ma una loro utilizzazione come sale di audizione sembra essere suggerita dalla presenza di vere e proprie scaenae frontes; il perdurare della tipologia in queste aree potrebbe avere d'altronde proprio nella stretta connessione con le rappresentazioni drammatiche una propria ragion d'essere.

Anfiteatri

I munera, i giochi gladiatori, sono documentati in ambiente campano ed etrusco almeno dal IV sec. a.C. e si configurano sin dalle origini come una componente importante dei ludi funebres, con il combattimento funerario che riveste il significato di manifestazione agonistica, sia pure cruenta, in onore del defunto. A Roma i giochi funerari sono certamente attestati a partire dal III sec. a.C. e godettero subito di grande popolarità; abbastanza presto, inoltre, già dal II sec. a.C., ai munera vennero ad aggiungersi le venationes, combattimenti di uomini contro animali selvaggi o di questi ultimi tra loro. Per tutta l'età repubblicana il luogo designato per i munera fu l'area centrale del Foro Romano, dove per l'occasione venivano erette tribune lignee temporanee, gli spectacula, mentre sono stati rinvenuti apprestamenti sotterranei certamente connessi con le manifestazioni. A partire dal 7 a.C., i giochi funebri non si tennero più nel Foro, la cui nuova pavimentazione obliterò tutti gli impianti precedentemente realizzati, e presero a svolgersi presso il Campo Marzio, dove già nel 29 a.C. era stato realizzato, sia pure in ritardo rispetto ad altri centri, il primo anfiteatro stabile di Roma, ad opera di Statilius Taurus, cui venne affiancato in alcune occasioni l'uso dei Saepta Iulia. Il ritardo nella realizzazione di un edificio stabile destinato ai munera si spiega con molteplici fattori tra i quali la lunga consuetudine a strutture provvisorie, l'atteggiamento conservativo del Senato, già evidenziatosi per le strutture teatrali, pure più facilmente riconducibili ad esigenze cultuali, ma anche con le scelte politiche del principato augusteo, che affidavano ai giochi dell'anfiteatro un ruolo di secondo piano ed escludevano di fatto le relative strutture dalla panoplia monumentale degli impianti urbani imperiali; solo con i Flavi Roma ebbe il suo primo anfiteatro monumentale e la tipologia divenne una componente stabile nel panorama architettonico dei grandi centri dell'Impero. Tra i primi anfiteatri deve essere certamente annoverato quello di Pompei, che, datato all'età sillana, attesta un evidente anticipo della città campana nell'evoluzione del tipo. L'edificio, realizzato nella zona sud-est della città, fu in parte addossato alle mura, per sfruttarne il terrapieno interno, e in parte sostenuto da un pendio artificiale appositamente realizzato, contenuto da un analemma a scarpa rinforzato con contrafforti sui quali si impostavano arcate cieche; la distribuzione degli spettatori avveniva soprattutto attraverso un ampio corridoio scoperto posto alla sommità della summa cavea, raggiungibile attraverso scale esterne addossate al perimetro dell'edificio, e dalla crypta, un ambulacro coperto, situato tra ima e media cavea, raggiungibile attraverso 4 corridoi voltati che si aprono nell'analemma esterno, 1 a nord e 3 a ovest, il primo e l'ultimo dei quali danno anche accesso all'arena. La cavea, di forma ellittica e suddivisa da praecinctiones in 3 maeniana, era separata dall'arena da un alto muro; l'ima cavea era destinata ai personaggi di maggior riguardo della città ed era divisa in 6 settori da transenne, mentre i maeniana medium e summum erano divisi da scalette di servizio rispettivamente in 20 e 40 cunei e prevedevano in origine sedili lignei, che furono poi progressivamente sostituiti con elementi di pietra. La struttura dell'anfiteatro appare così, già a partire dal I sec. a.C., chiaramente definita nelle varie parti, anche se un relativo attardamento rispetto alle soluzioni ormai consolidate nelle strutture teatrali si riscontra per le sostruzioni, che ricalcano a lungo un sistema basato sul ricorso a terrapieni artificiali compartimentati e in alcuni casi allo sfruttamento di pendii naturali. Nonostante alcuni significativi precedenti, l'estensione anche agli anfiteatri del complesso sistema di sostruzioni voltate e dei relativi impianti di distribuzione, cui fanno da riscontro i prospetti monumentali articolati da fornici e semicolonne, ormai consolidati nei teatri, si afferma soprattutto a partire dalla realizzazione dell'Anfiteatro Flavio; questo, che costituisce il massimo esempio del tipo, misura quasi 188 m sull'asse maggiore e oltre 155 m su quello minore e doveva ospitare non meno di 50.000 persone. Il monumento, che si insediò su di un'area acquisita da Nerone alla sua residenza, determinò profondi mutamenti nella destinazione d'uso delle aree circostanti: infatti, presso di esso sorsero in breve i quattro ludi (Dacicus, Gallicus, Magnus, Matutinus), le caserme di gladiatori, i Castra Misenatium, la caserma dei marinai della flotta di Miseno, incaricati della manovra del velum che copriva l'anfiteatro, l'armamentarium, l'armeria, il summum choragium, dove erano ospitate le attrezzature tecniche, il saniarium, l'infermeria, e lo spoliarium, una camera funeraria per le vittime dei giochi. La costruzione dell'anfiteatro comportò una complessa organizzazione di cantiere e il ricorso a tecniche costruttive e materiali differenziati; le sostruzioni, con 4 ambulacri anulari e 3 serie concentriche di setti murari radiali, sono racchiuse esternamente da un anello interamente di travertino articolato con ordini sovrapposti su 4 livelli, dei quali i 3 inferiori inquadrano 80 arcate e l'ultimo è costituito da un attico. La cavea, separata dall'arena da un alto muro, si articolava in 5 settori, il più basso dei quali, il podium, riservato ai senatori, prevedeva la presenza dei subsellia; seguivano poi i maeniana: primum, riservato ai cavalieri, secundum e summum e il più alto, ligneo (maenianum summum in ligneis), che, posto all'interno della porticus in summa cavea, era destinato ad accogliere gli spettatori di più basso rango e le donne, poiché i posti nell'anfiteatro rispecchiavano fedelmente la struttura classista della società e l'assegnazione degli stessi era molto rigida e inoltre regolamentata in modo da favorire una più efficiente distribuzione del pubblico. Il complesso sistema di circolazione interna si fondava sui 76 ingressi (i 4 corrispondenti agli assi principali erano riservati a personaggi privilegiati) e i relativi corridoi, rampe di scale e vomitoria che conducevano alle diverse praecinctiones e da queste a ciascun settore. L'arena era pavimentata con un tavolato ligneo e copriva un esteso sistema di corridoi sotterranei che ospitava tutte quelle attrezzature tecniche necessarie allo svolgimento dei giochi, oltre ad essere posto in collegamento diretto con il Ludus Magnus; non meno sofisticato infine era lo stesso velum, sorretto da 240 pennoni inseriti in mensole poste subito al di sotto della cornice dell'attico. La realizzazione dell'Anfiteatro Flavio non rappresenta solo un'impresa di grande monumentalità ‒ con i suoi quasi 50 m di altezza è infatti uno dei più grandi edifici mai realizzati a Roma ‒ ma segna una significativa modificazione nell'immagine stessa del potere: da questo momento in poi negli impianti urbani imperiali l'anfiteatro prende il posto che Augusto aveva assegnato ai teatri, facendo dei munera e delle venationes lo strumento di penetrazione della cultura romana. Tale situazione, iniziata con la fine del I secolo, si protrasse sino alla metà del III secolo e determinò una diffusione generalizzata della tipologia, oltre che in Italia, in larga parte delle province dell'Impero, con l'eccezione di quelle aree dove era più forte la cultura greca, da sempre restia ad accettare i giochi gladiatori. La sopravvivenza di una forte tradizione drammatica nell'Oriente ellenico contrastava infatti con il regolare svolgimento di munera e venationes, divenuti parte delle celebrazioni del culto imperiale; ne conseguirono da un lato un'estrema rarità di anfiteatri e dall'altro parziali trasformazioni delle strutture teatrali per renderle idonee anche a tali rappresentazioni. Ben diversa era la situazione delle province nord-occidentali e delle aree nordafricana e siro-palestinese, dove l'edificazione di anfiteatri rappresentò un fenomeno generalizzato, il cui modello di riferimento nella gran parte dei casi fu il grande monumento romano, fatta salva la modesta produzione di edifici misti o ibridi, cui si è già fatto cenno, per le zone rurali della Gallia nord-occidentale, contenuta peraltro entro la fine del II sec. d.C. Alla tipologia degli anfiteatri si fece occasionalmente ricorso anche per lo svolgimento delle naumachie, combattimenti navali simulati; tali manifestazioni, che si svolsero anche nell'Anfiteatro Flavio, prima naturalmente delle trasformazioni domizianee dell'arena, sono documentate anche in altri anfiteatri, come confermano le strutture di Verona e di Mérida, dove è attestata la presenza di ampi bacini con relative canalizzazioni di adduzione e scarico. È comunque nota l'esistenza di edifici specifici, le naumachie appunto, destinati a questi particolari spettacoli: tali strutture, a volte temporanee come quella fatta costruire nel 46 a.C. da Cesare nel Campo Marzio presso il Tevere, ma anche stabili come l'altra realizzata da Augusto per le celebrazioni del 2 a.C. sulla riva destra dello stesso fiume, dove i Regionari Costantiniani ne registrano ben 5, dovevano richiamarsi nella forma agli anfiteatri ma presentare dimensioni maggiori e probabilmente gradinate più basse. La crisi degli anfiteatri si data all'età tardoantica, quando lo svolgimento di munera e venationes, avversati dal cristianesimo ormai istituzionalizzato, fu in più occasioni osteggiato a tutto vantaggio dei giochi del circo, la cui popolarità era già da tempo in forte ascesa; la definitiva abolizione dei munera risale alla prima metà del V sec. d.C. e quella delle venationes circa ad un secolo dopo con la conseguente definitiva perdita della funzionalità primaria delle relative strutture.

Ginnasi, balnea e terme

I ginnasi costituivano l'ossatura del sistema educativo pubblico greco ed ellenistico; rette da un funzionario, il ginnasiarca, queste istituzioni, sacre ad Hermes e ad Eracle, a volte connesse a culti eroici, provvedevano all'educazione fisica e intellettuale e perciò, alle strutture per l'esercizio atletico, in primo luogo la palestra, si affiancavano spazi destinati a lezioni e conferenze, auditori e in alcuni casi biblioteche. La tipologia, che risale forse al VII sec. a.C., è attestata almeno dalla prima metà del VI sec. a.C. e risponde alle esigenze di una educazione atletica che assume nella polis un ruolo centrale nella formazione del cittadino ed ha un contraltare nei grandi concorsi panellenici; le prime strutture, quali il Liceo e l'Accademia ad Atene, consistevano prevalentemente di ampi spazi aperti, destinati all'esercizio della corsa, della lotta, del pugilato e più in generale dell'atletica, resi più confortevoli da giardini e fontane cui facevano da riscontro costruzioni leggere. Nel V sec. a.C. è sicuramente attestata una rilevante attività culturale cui non erano estranee le scuole filosofiche che in queste strutture trovavano l'ambiente naturale; gli impianti si arricchirono allora di portici ed ampie esedre che dovevano consentire lo svolgersi di lezioni e conferenze. Nella seconda metà del IV sec. a.C. la tipologia acquista maggiore rilevanza architettonica. Il ginnasio di Delfi ne costituisce un esempio indicativo: articolato su due terrazze strette e allungate, il complesso si situa a metà strada tra il santuario della Marmarià e quello di Apollo; la terrazza superiore era occupata dallo xyston, una stoà lunga 185,95 m, cioè uno stadio delfico, destinata alla corsa al coperto, cui si affiancava per tutta la sua lunghezza la paradromis, la pista scoperta in terra battuta delimitata dalle soglie in pietra dell'aphesis e della terma. La terrazza inferiore ospitava le strutture del loutròn (bagno) e della palestra; quest'ultima era costituita da un cortile, destinato agli esercizi all'aperto, circondato da un peristilio ionico, su due lati del quale si aprivano l'apodyterion e l'exedrion (o ephebeion), luoghi preposti al riposo, ma anche a riunioni e conferenze, oltre agli ambienti destinati alla lotta (konima) e al pugilato (sphairisterion). Il loutròn, adiacente alla palestra, era costituito da un ampio spazio poligonale scoperto e recintato, all'interno del quale era una piscina rotonda, destinata al nuoto, e 10 grandi vasche rettangolari per abluzioni alimentate da bocche poste in alto sul muro di sostruzione della terrazza superiore. L'ulteriore sviluppo dei ginnasi vede l'accentuarsi della monumentalità, sia in ragione del ruolo crescente che andavano assumendo nella società ellenistica, dove spesso erano duplicati o triplicati e destinati alle diverse classi di età della popolazione, sia per la maggiore specializzazione degli spazi in relazione alle attività che ospitavano. I loutrà presenti nei ginnasi, spesso a cielo aperto, erano generalmente riservati ad abluzioni con acqua fredda e al nuoto, ma non mancano esempi dove alle vasche fredde si affianca un ambiente (pyriaterion) fortemente riscaldato da un braciere, secondo una tendenza sempre più diffusa anche in considerazione della stretta interrelazione tra frizioni con olio e sudationes. La presenza di balaneia, bagni pubblici, è d'altronde attestata in Grecia almeno dal VI sec. a.C., ma la tipologia si diffonde notevolmente in età tardoclassica ed ellenistica con caratteri comuni: basse vasche individuali per le abluzioni, dove si prendeva posto seduti, vasche, sempre individuali, più profonde, ad immersione totale, e, a volte, piscine per il nuoto. Nei balaneia il ricorso a sistemi di riscaldamento dell'acqua si integra con la presenza di ambienti riscaldati destinati alle sudationes: generalmente di forma circolare, questi ambienti (tholoi) sono documentati sin dall'età classica e sono riscaldati tramite bracieri o, in un'età più avanzata, mediante il ricorso agli ipocausti. Il balaneion di Gortina d'Arcadia ne costituisce un esempio tra i meglio conservati; situata presso un torrente, la struttura, datata tra il IV e il III sec. a.C., costituiva la componente principale degli impianti curativi di un santuario di Asclepio. Il complesso, accessibile attraverso un propileo-vestibolo tetrastilo ionico, era contenuto in un edificio quadrangolare e comprendeva numerosi ambienti tra i quali l'apodyterion, una sala circolare biabsidata, parzialmente riscaldata e dotata di fontane, un vano con vasche per bagni ad immersione in acqua calda, una tholos, caratterizzata da una temperatura molto elevata e clima secco (laconicum), e una seconda sala circolare con nove vasche inserite in nicchie ricavate nella parete perimetrale, destinata alle abluzioni in acqua fredda. Vi erano poi altri ambienti di incerta destinazione e infine una piscina, poi trasformata in un vano di servizio. L'aspetto più interessante del complesso risiede nel sistema di riscaldamento ottenuto attraverso il ricorso agli ipocausti; questi, realizzati in mattoni cotti, erano costituiti da un'ampia canalizzazione che attraversava diagonalmente il complesso, mentre al di sotto della tholos si estendeva a formare un'ampia corona dalla quale una parte dell'aria calda risaliva verticalmente in un'intercapedine ricavata attorno al vano, riscaldandone le pareti sottili. La tecnica di riscaldamento si andò poi progressivamente perfezionando sino a giungere tra la fine del II e l'inizio del I sec. a.C. a soluzioni sofisticate come quella adottata nel balaneion di Olimpia, dove la sala principale, voltata e di forma rettangolare absidata, accoglieva un bacino alimentato da acqua fredda corrente e un'ampia vasca per immersione; il riscaldamento dell'ambiente era ottenuto attraverso una fornace che da un vano adiacente immetteva aria calda al di sotto del pavimento, interamente sollevato su pilastrini di mattoni. L'acqua della vasca, disposta a ridosso della parete di contatto con la fornace, era inoltre riscaldata mediante un'espansione costituita da un contenitore metallico ricavato nello spessore del muro e posto subito al di sopra del fuoco; l'impianto nel suo insieme appare sostanzialmente identico a quelli adottati successivamente nelle thermae tardorepubblicane e protoimperiali e attesta l'origine greco-ellenistica del sistema, poi diffusosi per il tramite dei centri ellenizzati dell'Italia meridionale. Lo sviluppo e le trasformazioni dei balaneia non mancarono di condizionare l'evoluzione dei ginnasi che si diffusero di concerto con l'ellenizzazione del mondo mediterraneo; questa struttura, infatti, soprattutto al di fuori della Grecia propria, tendeva a perdere alcuni connotati originari e a mostrare una sempre maggiore integrazione con i balaneia, laddove gli originari loutrà venivano ad accrescersi ed a specializzarsi sino ad alterare l'equilibrio tra le diverse funzioni. Il fenomeno è tanto più appariscente nell'Italia meridionale della tarda età repubblicana dove la tradizionale palestra lascia il posto ad impianti termali complessi. Le Terme Stabiane a Pompei, datate nell'impianto generale al II sec. a.C., ma di più antica fondazione e con restauri di età sillana e di seconda metà I sec. d.C., rispecchiano assai bene queste trasformazioni. La palestra era costituita da un ampio cortile trapezoidale, porticato su tre lati, con una piscina (natatio) sul lato lungo ovest, fiancheggiata da ambienti attrezzati con bacini per abluzioni e da un apodyterium; l'accesso avveniva da un vestibolo posto sul lato breve meridionale del portico, cui si venivano ad affiancare ad est i complessi termali maschile e femminile, la cui estensione era pari a quella dell'intero impianto ginnico. L'articolazione degli impianti era degna dei più evoluti balaneia pubblici: la parte maschile era costituita da un vestibolo sul quale si apriva il laconicum, di età sillana poi trasformato in frigidarium, e l'apodyterium, dal quale si accedeva alle sale calde; queste comprendevano un tepidarium e un caldarium che, dopo l'ultima ristrutturazione, riproduceva il tipo di Olimpia: una sala rettangolare voltata con un lato absidato, la schola labri, nella quale era un bacino circolare per abluzioni in acqua fredda (labrum), e sul lato opposto l'alveus, una vasca rettangolare per bagno ad immersione. Il riscaldamento dei vani caldi avveniva mediante il passaggio di aria calda sotto i pavimenti rialzati da pilastrini (suspensurae), integrati da intercapedini riscaldate nelle pareti, realizzate con elementi fittili (tegulae mammatae, tubuli), mentre l'acqua dell'alveus era riscaldata con lo stesso sistema (testudo alvei ) già descritto per Olimpia. Rilevante è il generalizzato ricorso, in questi impianti, a coperture voltate, rese necessarie dal particolare microclima interno, con una varietà di soluzioni tale da fare dei balnea importanti laboratori di sperimentazione. Nel I sec. d.C. si afferma la tipologia delle cosiddette "terme imperiali", caratterizzata da una rigorosa simmetria bilaterale, dove, mentre gli ambienti principali (natatio, frigidarium, tepidarium e caldarium) si distribuivano in successione lungo l'asse mediano, apodyteria, palestre e vani accessori, duplicati, erano posti ai lati del corpo centrale. Il primo esemplare deve essere riconosciuto nelle Terme Neroniane a Roma che, forse su ispirazione di modelli asiatici, fu poi ripreso e sviluppato dagli imperatori successivi a partire da Domiziano e Traiano sino a giungere ai grandiosi impianti di Caracalla e Diocleziano. Nell'ambito di questa tipologia una particolare rilevanza venivano ad assumere il frigidarium, alla cui funzione di snodo distributivo corrispondeva una marcata monumentalizzazione, e le palestre che, regolarmente reduplicate, rafforzano l'ipotesi di derivazione da modelli ellenizzanti del tipo. Il carattere più significativo deve però essere riconosciuto nella spazialità interna totalmente nuova: i volumi voltati, enormemente dilatati, erano pervasi da una luminosità resa possibile da ampie finestrature vetrate aperte nelle pareti e negli arconi delle grandi volte a crociera, mentre all'interno l'uso generalizzato dei marmi colorati orientali e nordafricani, i grandi colonnati, le immense vasche, i numerosi cicli scultorei facevano della tipologia termale una tra le manifestazioni più monumentali dell'architettura romana. Le Terme Antoniniane a Roma costituiscono uno tra gli esempi più grandiosi del tipo, con i loro 25.000 m² di impianto termale e gli oltre 110.000 m² di estensione complessiva; come già nelle Terme di Traiano, un ampio recinto, infatti, delimitato internamente da un portico, racchiudeva un'area di giardini che circondava il nucleo termale e accoglieva numerosi ambienti situati in parte in due grandiose esedre laterali, oltre ad un piccolo stadio e all'imponente complesso di cisterne che, alimentate dall'Aqua Antoniniana, garantivano una fornitura costante alle grandi vasche delle terme; nel sottosuolo dell'area interna, articolato su tre livelli sovrapposti, si nascondeva il complesso sistema distributivo dei servizi, cui si aggiungeva un mitreo che è tra i maggiori rinvenuti a Roma. Il nucleo centrale era costituito da un grande quadrilatero di 220 × 114 m dal quale aggettava a sud-ovest parte del corpo circolare del caldarium che concludeva, sull'asse mediano, la sequenza dei vani principali, aperta a nord-est dalla grandiosa natatio; le ali, rigorosamente simmetriche, erano occupate dalle palestre con le relative exedrae e da numerosi vani, molti dei quali riscaldati, cui facevano da riscontro altri ambienti situati al piano superiore del complesso. Ricchissima la decorazione interna ed estremamente articolato il sistema di copertura dei vani, tutti voltati, dalle grandiose crociere del frigidarium all'immensa cupola del caldarium, forse realizzata mediante il ricorso ad un complesso sistema di armature metalliche. La tipologia delle terme imperiali si diffuse ampiamente nelle diverse province dell'Impero, anche se fu adottata soprattutto nei complessi maggiori cui si affiancavano necessariamente impianti più semplici. Particolarmente rilevante è la diffusione in Africa settentrionale dove, tra II e III sec. d.C., vengono realizzati i complessi più grandiosi dopo quelli dell'Urbs; in particolare a Cartagine, le Terme di Antonino costituiscono un esempio rappresentativo della tipologia con la corona di caldaria esagonali posti a conclusione del percorso assiale, dominato dal grandioso frigidarium che raggiungeva alla sommità delle crociere quasi 30 m di altezza. Oltre ad una consistente diffusione del tipo, il mondo africano evidenzia comunque una ricca varietà tipologica dove soluzioni "semi-simmetriche" si affiancano alle planimetrie "circolari" o al più antico tipo campano o lineare, evidenziando nella vasta produzione la particolare importanza attribuita alle terme in quelle province. Tratti particolari assume invece l'evoluzione della tipologia nelle province greche, dove il prestigio di cui godevano i ginnasi sopravvisse immutato in età imperiale; se i complessi ginnasiali furono tutti dotati di impianti termali che alterarono in parte la destinazione d'uso, al tempo stesso la palestra con i suoi annessi mantenne sempre un ruolo primario. La tipologia delle terme-ginnasio, ben documentata nel I secolo, si diffuse largamente nel II secolo, spesso su planimetrie caratterizzate da simmetria assiale, e iniziò a declinare solo a partire dal III secolo avanzato, quando, con la progressiva contrazione degli impianti, le palestre andarono rapidamente fuori uso. Il Ginnasio del Porto ad Efeso costituisce un esempio rappresentativo del tipo; realizzato da Domiziano, si caratterizza subito per la marcata prevalenza delle palestre sul pure ragguardevole nucleo del balneum. La palestra orientale, più grande, misurava 200 × 240 m, era costituita da una grande corte bordata da un triplo colonnato; da questa si accedeva alla seconda palestra, sulla quale si aprivano una serie di ambienti, tra cui la sala di culto imperiale e il complesso termale di impianto rigorosamente simmetrico. Se le grandi terme entrano in crisi nell'età tardoantica, soprattutto per gli alti costi di gestione e manutenzione e poi, in Occidente, per la spesso traumatica interruzione degli acquedotti, la sopravvivenza della tipologia resta però assicurata dalla continuità dell'Impero in Oriente, dove i balnea pubblici e privati continuano a rappresentare una componente fondamentale del panorama urbano così come della vita quotidiana, con una persistenza di forme e tecniche senza soluzione di continuità anche oltre la caduta dell'Impero, laddove l'eredità bizantina veniva raccolta dagli ḥammām ottomani.

Bibliografia

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