L’aristotelismo radicale e le reazioni dei teologi

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luigi Catalani
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Muovendo dalla controversia sull’uso dell’aristotelismo come base per l’insegnamento universitario, si ricostruiscono qui le tappe salienti del contrasto dottrinale fra “artisti” e teologi, culminato nelle censure del 1270 e del 1277. Verrà poi sottolineata l’importanza della rivendicazione dell’autonomia del filosofare da parte dei maestri delle Arti, concentrandosi in particolare sulla loro interpretazione della libertas philosophandi e della felicità filosofica. Infine, accennando agli interessi linguistici e grammaticali di Boezio di Dacia, si collegheranno alcune di queste riflessioni a spunti essenziali della corrente “modista” nel contesto della cosiddetta grammatica speculativa.

L’affermazione dell’aristotelismo alla Facoltà delle Arti

Boezio di Dacia

Essere cristiano e filosofo Sull’eternità del mondo

In primo luogo bisogna considerare attentamente che non può esservi alcuna questione che possa essere discussa razionalmente che il filosofo non debba discutere e della quale non debba determinare ove risieda la verità, per quanto essa può esser compresa dalla ragione umana. Il motivo di quest’affermazione è che tutti gli argomenti portati nella discussione sono ricavati dalle cose; altrimenti sarebbero una finzione della mente. Ma il filosofo tratta della natura di tutte le cose. Infatti come la filosofia tratta dell’essere, così le parti della filosofia trattano delle parti dell’essere, com’è scritto nel IV Libro della Metafisica ed è di per sé evidente. Perciò spetta al filosofo determinare ogni questione che possa essere discussa razionalmente. Ora, il filosofo riflette sulla totalità dell’essere: naturale, matematico e divino. Perciò spetta al filosofo determinare ogni questione che possa essere discussa razionalmente; e chi dice il contrario sappia che non capisce quel che dice.

Perché dunque mormori contro il filosofo quando ammetti quello che lui stesso ammette? E non credere che il filosofo, che ha dedicato la sua vita alla ricerca della sapienza, abbia contraddetto in qualcosa la verità della fede, ma studia più a fondo perché capisci assai poco dei filosofi – che furono e sono i sapienti del mondo – così da poter comprendere quel che dicono. Infatti le parole dei maestri vanno interpretate nel senso migliore, e nulla vale quel che dicono alcuni maligni che si affannano per trovar[vi] argomenti che in qualche modo si oppongano alle verità della fede cristiana, ciò che è senza dubbio impossibile. Costoro dicono che il cristiano in quanto tale non può essere filosofo, perché è costretto dalla sua legge religiosa a distruggere i principi della filosofia. Ma ciò è falso, poiché il cristiano ammette che una conclusione raggiunta attraverso argomenti filosofici non può essere diversa, a partire dalle premesse dalle quali essa è ricavata. […] Ammette tuttavia che tale conclusione può essere diversa in virtù di una causa superiore, che è la causa dell’intera natura e di tutto l’ente causato. Perciò il cristiano che usa sottilmente il suo intelletto non è costretto dalla sua religione a distruggere i principi della filosofia, ma preserva la fede e la filosofia, senza recare danno né all’una né all’altra. Se tuttavia qualcuno – che sia o che non sia elevato a una carica – non è in grado di capire cose così difficili, obbedisca a chi è sapiente e creda alla religione cristiana.

Boezio di Dacia, Sull’eternità del mondo, trad. it. di L. Bianchi, Milano, Unicopli, 2003

Bonaventura da Bagnoregio

Cecità

Collationes in Hexäemeron

Infatti, alcuni negarono che nella causa prima siano gli esemplari delle cose; e sembra Aristotele il principe di costoro; infatti, e all’inizio della Metafisica, e alla fine e in molti altri luoghi, riprova le idee di Platone. Afferma, pertanto, che Dio conosce soltanto se stesso, e non ha bisogno della conoscenza di qualche altra cosa, e muove come ente desiderato e amato. Da questo sostengono che non conosca niente, o nessun particolare […]. 3. Da questo errore ne segue un altro; cioè che Dio non ha né prescienza né provvidenza, non avendo in se stesso le ragioni delle cose, onde poterle conoscere. […]. E da questo segue, che tutto avviene per caso o per necessità del fato. […]. Ma da ciò segue l’occultamento della verità intorno alle destinazioni della realtà del mondo secondo le pene e la gloria. […]. 4. Da questi errori segue la triplice cecità o la triplice caligine; e cioè riguardo all’eternità del mondo, […]. Da questa segue l’altra cecità, intorno all’unità dell’intelletto. […]. Da questi due errori [eternità del mondo e unità dell’intelletto] segue la terza cecità, e cioè che dopo questa vita, non ci sarà né felicità, né pena. […]. 5. Costoro, dunque, caddero negli errori e non furono separati dalle tenebre; e questi sono errori gravissimi. Né, ancora, sono chiusi con la chiave del pozzo dell’abisso.

V. C. Bigi, San Bonaventura. La sapienza cristiana. Collationes in Hexäemeron, Milano, Jaca Book, 1984

Boezio di Dacia

Ragioni della virtuosità del filosofo Sul sommo bene

Inoltre il filosofo è virtuoso, parlando da un punto di vista etico, per tre ragioni. La prima è che solo lui ha conoscenza piena della turpitudine e della nobiltà delle azioni nelle quali consiste rispettivamente il vizio e la virtù e quindi può facilmente scegliere le seconde ed evitare le prime […]. La seconda ragione è data dal fatto che chiunque ha provato un piacere più grande disprezza qualsiasi altro piacere inferiore; ora il filosofo ha assaporato il piacere intellettuale mentre si impegna ad indagare la verità delle cose e tale piacere è certamente di gran lunga più grande del piacere dei sensi, perciò finisce per disprezzare i piaceri sensibili. […] La terza ragione è data dal fatto che nell’uso dell’intelletto e nella speculazione non vi è alcuna colpa, poiché nelle cose per loro natura buone non vi è eccesso, né colpa. L’attività propria del filosofo è la speculazione della verità, quindi il filosofo è più facilmente virtuoso degli altri uomini.

Questo è il bene più grande che l’uomo può ricevere da Dio e che Dio può dare all’uomo in questa vita. A buona ragione un siffatto uomo desidera vivere a lungo, poiché lo desidera unicamente per diventare più perfetto [nell’acquisizione] di questo bene. Infatti, colui che diventa più perfetto in questa forma di felicità, che sappiamo essere raggiungibile dall’uomo in questa vita mediante la ragione, orbene tale uomo è anche più vicino alla beatitudine che attendiamo nella vita futura secondo la fede.

in F. Bottin, Ricerca della felicità e piaceri dell’intelletto, Firenze, Nardini, 1989

Nella prima metà del XIII secolo (1210-1255) a Parigi è in corso una complessa “battaglia” dottrinale sull’uso della filosofia di Aristotele come base per l’insegnamento universitario.

La prima censura antiaristotelica del Medioevo risale al Sinodo di Parigi del 1210, che decreta la riesumazione del cadavere e la scomunica di Amalrico di Bène – assertore di una forma di panteismo ispirata a Giovanni Scoto Eriugena –, il rogo dei Quaderni di Davide di Dinant – traduttore di Aristotele, difensore del materialismo e di un’interpretazione naturalistica dei miracoli biblici –, e la lettura, pubblica o segreta, delle opere naturali di Aristotele e dei loro commenti. Nel 1215 il legato pontificio Roberto di Courçon detta i primi statuti dell’università parigina e regolamenta l’insegnamento alla Facoltà delle Arti, mantenendo e precisando il divieto di far lezione sui libri naturali (tutte le opere non logiche, inclusa la Metafisica) di Aristotele. Nei giorni di festa è consentita la lettura dell’Etica Nicomachea e della logica vetus e nova. Nonostante il divieto di far uso didattico degli scritti aristotelici (la lettura personale non è invece proibita), qualcuno continua a far lezione clandestinamente. Nel 1231, con la Bolla Parens Scientiarum, papa Gregorio IX sostiene che la semplice conoscenza dei libri proscritti è assolutamente tollerabile perché non implica necessariamente la violazione dei decreti del 1210 e del 1215. Questi divieti provocano tuttavia un isolamento di Parigi dal resto del mondo intellettuale. Nel 1229 la situazione si aggrava ulteriormente a causa di uno sciopero, approfittando del quale l’Università di Tolosa cerca di attirare gli studenti parigini presso la propria sede, dove sono previste lezioni sulle opere aristoteliche. Allo scopo di porre fine allo sciopero, papa Gregorio IX nel 1231 intima la ripresa regolare delle attività parigine e conferma le disposizioni di Courçon, intimando di non far lezione sui libri proibiti finché non siano stati esaminati a opera di una commissione, incaricata di purgarli da ogni sospetto d’errore. La morte del suo presidente, Guglielmo d’Auxerre, determina il fallimento dell’operato della commissione d’inchiesta. L’intento effettivo di Gregorio IX non è quello di arginare la querelle sull’aristotelismo (di cui forse nemmeno sospetta l’esistenza), ma di garantire la pace all’Università di Parigi e di promuovere la riforma degli studi teologici, esortando i teologi a non "giocare a fare i filosofi". Regolamentando l’attività didattica della Facoltà delle Arti, in realtà, Gregorio IX mira a scoraggiare i teologi dall’addentrarsi nell’insegnamento della fisica e della metafisica (Luca Bianchi, Censure et liberté intellectuelle à l’Université de Paris (XIIIe-XIVe siècle), 1999).

Il divieto temporaneo di far lezione su Aristotele viene esteso anche a Tolosa nel 1245 ad opera di Innocenzo IV e poi rinnovato a Parigi nel 1263 sotto Urbano IV, ma già con la Parens scientiarum si creano le condizioni favorevoli per l’introduzione del corpus aristotelicum nel curriculum della Facoltà delle Arti. Nonostante il divieto di tenere corsi sulle opere aristoteliche non sia mai stato abrogato, la nazione inglese dell’Università di Parigi, nel 1252, decide che per diventare baccellieri alle Arti occorre obbligatoriamente seguire lezioni sul De anima. Nel 1255 uno statuto dell’intera Facoltà delle Arti impone l’insegnamento regolare di tutte le opere di Aristotele, eccettuata la Politica, non ancora tradotta. L’adozione di Aristotele come base per l’insegnamento all’università di Parigi segna non solo una svolta per il pensiero medievale, ma anche un cambiamento netto nella storia della cultura europea: dal 1255 fino al XVII secolo infatti l’aristotelismo cessa di essere una delle tante filosofie, per diventare la filosofia per eccellenza.

Ma l’aristotelismo non si afferma in maniera indolore: sin dal 1260 molti teologi (per lo più francescani) attaccano espressamente questa filosofia che, a loro avviso, propaga errori pericolosissimi per la fede cristiana. Un primo evento cruciale della "campagna antiaristotelica" è la condanna del 10 dicembre 1270, con cui il vescovo parigino Étienne Tempier censura 13 tesi (eternità del mondo, non ci fu mai un primo uomo, unità dell’intelletto, necessitarismo, determinismo ecc.), in odore di eresia. Nel 1272 alla Facoltà delle Arti i conflitti filosofici si intrecciano a quelli accademici: la maggioranza della Facoltà (avversa al "partito" di Sigieri di Brabantepromulga uno statuto che restringe la trattazione di argomenti al confine tra fede e ragione. Questa nuova limitazione della libertà di insegnamento degli "artisti" esaspera la polemica, che culmina con un’altra censura di capitale importanza per la storia del pensiero medievale. Il 7 marzo 1277 ancora il vescovo Tempier decreta la condanna di 219 tesi, ispirate al peripatetismo greco-arabo, e ne vieta – sotto pena di scomunica – la diffusione e l’insegnamento. La condanna del 1277 sfugge ad ogni tentativo di definizione: è infatti limitativo e fuorviante parlare di provvedimento "antiaverroista", improprio di reazione ecclesiastica alla nuova minaccia del paganesimo, generico di rivincita dell’agostinismo sull’aristotelismo. Più che l’accettazione o il rifiuto della filosofia aristotelica, sono in questione le (possibili e legittime) interpretazioni dei vari aristotelismi, la ricezione delle idee peripatetiche e i limiti e le forme di impiego di questa tradizione di pensiero. L’azione scoordinata e incoerente dei censori guidati da Tempier è ispirata al drastico rifiuto dell’ "imperialismo filosofico" (articolo 145) e di ogni forma di emancipazione dalla teologia: non si tratta di una rozza condanna della filosofia in quanto tale ma di un ammonimento volto ad evidenziare che la parziale verità della filosofia deve comunque risolversi entro l’assoluta verità del discorso teologico.

Il Sillabo di Tempier ha avuto vastissima circolazione manoscritta presso tutti i centri universitari europei: in molti autori scolastici si rileva un’altissima frequenza di citazioni e di riferimenti agli articoli censurati; diversi pensatori (Egidio Romano, Goffredo di Fontaines, Thomas di Sutton, Nicolas Trivet, Guglielmo di Ockham) sviluppano accurate riflessioni sulla legittimità dell’intervento di Tempier. I francescani, in particolare, giocano un ruolo di fondamentale importanza nell’assicurare risonanza agli articoli parigini. Vi intravedono infatti un criterio negativo di ortodossia – anche contro le deviazioni dottrinali di Tommaso d’Aquino – e li ritengono costrittivamente vincolanti, senza distinzioni geografiche, universalmente validi per tutti i membri dell’Ordine. La censura del 1277 resta in vigore per tutto il Trecento e oltre: l’annullamento ad opera di Stefano di Bourret degli articoli che coinvolgono Tommaso d’Aquino, spesso ignorato e talvolta contestato, non ne inficia l’autorità.

Verità razionali e verità di fede: oltre l’ancillarità della filosofia

Fra i tanti temi portati alla ribalta dalla condanna del 1277, quello dello statuto epistemologico del sapere razionale merita certamente un posto di spicco.

Quando, nella seconda metà del Duecento, la Facoltà delle Arti liberali diviene, di fatto se non di nome, una vera Facoltà di Filosofia, i maestri tentano di precisare il loro ruolo professionale e intellettuale rispetto ai colleghi delle altre facoltà. Ai fini dell’acquisizione della presa di coscienza delle differenze epistemologiche tra filosofia e teologia è decisivo il ruolo di Alberto Magno. Nelle sue parafrasi di Aristotele si avverte, forte, l’esigenza di distinguere l’indagine razionale dall’adesione sovrarazionale ai dogmi della fede e si considera fuori luogo qualsiasi appello al miracolo. Secondo Alberto, all’interno del suo ambito di discorso, la posizione di Aristotele è corretta: infatti, in rapporto ai problemi che si è posto e ai principi assunti, quasi tutte le sue conclusioni sono valide e derivano logicamente dalle premesse. Ciononostante, il suo pensiero non coincide con la verità assoluta, sia perché ci sono problemi (come la creazione o la felicità ultraterrena) che, in quanto estranei al suo contesto di riferimento culturale, Aristotele non ha affrontato; sia perché alcune sue dottrine, pur coerenti ai principi di partenza, sono false alla luce della fede. Alberto ritiene insomma che filosofia e teologia non forniscano risposte incompatibili alle stesse questioni ma risposte differenti a domande differenti: le conclusioni sono necessariamente diverse ma non per questo conflittuali.

L’atteggiamento albertino viene spinto alle estreme conseguenze dai maestri della Facoltà delle Arti attivi tra il 1265 e il 1277, come Boezio di Dacia e Sigieri di Brabante, filosofi di mestiere incamminati sulla strada della professionalizzazione della loro disciplina. Boezio di Dacia è il pensatore che a quell’epoca, meglio di chiunque altro, ha preso coscienza delle implicazioni epistemologiche della crescente specializzazione del lavoro intellettuale.

In questo contesto istituzionale emergono tensioni da tempo latenti sia sul piano sociologico sia sul piano epistemologico. Su questo secondo versante, la riflessione sul da farsi in caso di contrasto tra conclusioni filosofiche e verità cristiana scatena aspri conflitti tra “artisti” e teologi. Questi ultimi, nella convinzione che la condanna del 1277 debba colpire ogni esercizio autonomo della ragione naturale, richiamandola non solo a riconoscere ma anche a corroborare le verità di fede (dimostrabili e non), sono allarmati dal fatto che gli “artisti” non concepiscono più il loro lavoro filosofico come ancillare rispetto a quello dei teologi, ma si mostrano anzi insofferenti verso le loro pretese di ingerenza. Li ammoniscono pertanto a risolvere la parziale verità della filosofia entro la verità assoluta del sapere teologico. Secondo molti teologi del XIII secolo, infatti, una conclusione filosofica contraria alla fede è un errore perché la verità è una sola e ogni vero è consonante col vero. La verità di fede è sempre criterio di misura della verità o falsità delle conclusioni filosofiche ed è necessario che gli stessi filosofi si impegnino a confutare ciò che è in contrasto con le verità di fede. Allineandosi alle richieste dei teologi "conservatori", il 1 aprile 1272 la maggioranza della Facoltà delle Arti emana uno statuto che dispone che i baccellieri e i maestri non potranno sconfinare sul terreno teologico; che, nel caso in cui si affrontino temi al confine fra filosofia e teologia, chiunque sostenga tesi contrarie alla fede sarà considerato eretico e verrà radiato dall’università a meno che ritratti umilmente; che l’"artista" che si trovi a confrontarsi con passi difficili e apparentemente distruttivi della fede dovrà confutare gli argomenti contrari alla fede, oppure ammettere che quei passi sono "assolutamente falsi e totalmente erronei", oppure ancora omettere in toto tali passi. Alcuni "artisti" reagiscono polemicamente contro le disposizioni del 1272. Sigieri di Brabante rivendica il diritto-dovere di presentare il pensiero dei filosofi nella sua effettiva consistenza, senza edulcorarlo o alterarlo con astoriche letture concordiste e senza mutilarlo indebitamente. Boezio di Dacia, nel suo scritto Sull’eternità del mondo, teorizza l’estensione universale della filosofia; ritiene che rifiutare le conclusioni filosofiche in contrasto con le verità di fede non significhi falsificarle ma relativizzarle; rifiuta infine la strategia del silenzio, convinto che il credente debba studiare le prove a favore dell’eternità del mondo per saperle confutare.

In un periodo in cui è largamente diffusa la tesi della subordinazione della filosofia alla teologia, in cui domina il modello agostiniano secondo cui esiste un’unica forma di sapienza (quella cristiana) che abbraccia tutte le altre, in cui la Reductio artium ad theologiam di Bonaventura insegna che la filosofia è la tappa iniziale di un percorso di saggezza che culmina nella teologia e nella contemplazione mistica, molti teologi francescani (Bonaventura, Guglielmo di Baglione, Ruggero Bacone) attaccano gli "artisti", accusandoli più o meno apertamente di eterodossia. Nelle Collationes del 1267, 1268 e 1273 Bonaventura inveisce contro il distorto uso della pratica filosofica in voga alle Arti, asserendo che la filosofia è solo il primo gradino dell’ascesa verso la scienza gratuita e gloriosa che è la teologia: è via che conduce ad altre scienze, ma chi vi si arresta cade nelle tenebre. Nelle Collationes in Hexäemeron Bonaventura presenta il pensiero di Aristotele come una sequela di errori dedotti gli uni dagli altri: dalla negazione dell’esemplarismo seguono la negazione della scienza e prescienza divina, il determinismo, la negazione della responsabilità morale e della distinzione tra premi e pene ultraterrene. Di qui derivano poi altri tre gravi errori (la triplice caligine): l’eternità del mondo, l’unicità dell’intelletto, l’assenza di pene ultraterrene. Per rimediare a questi mali, secondo Bonaventura, è possibile una sola strategia: la filosofia può essere accettata solo se viene integrata entro un sapere superiore e posta sotto il controllo dei teologi.

La libertas philosophandi

Con il trattato Sull’eternità del mondo (1270-1277), Boezio di Dacia si pone quale massimo teorico della distinzione fra discorso filosofico e discorso teologico: muove da una particolare concezione della gerarchia delle discipline, ragiona sui metodi, gli oggetti e la funzione della ricerca e giustifica l’autosufficienza del mestiere del filosofo. Si oppone infatti alle pretese del controllo teologico, che giudica insensate poiché fede e scienza si collocano su due piani differenti e fra loro non interferenti. Varie clausole limitative (“parlando da fisico”, “parlando da filosofo naturale”, “secondo i filosofi”), oltre che come mezzo di dissociazione di responsabilità, fungono da precisa tecnica esegetica per valutare favorevolmente le dottrine di Aristotele e affermare l’autonomia del sapere filosofico rispetto alle verità di fede. Lo scopo di Boezio è di delimitare il territorio protetto entro cui la nuova figura dell’intellettuale specialista possa muoversi con piena indipendenza, rivendicando perentoriamente la propria libertà di filosofare.

A causa di uno strano meccanismo di trascinamento storicamente significativo, la censura di alcune tesi dei maestri delle Arti da parte di Tempier getta un alone di sospetto sull’insieme delle loro opere. Prima ancora di conoscere direttamente gli scritti boeziani, e quindi semplicemente arguendo dalle reazioni suscitate dal suo insegnamento, alcuni storici avevano già identificato Boezio con il principale leader del cosidetto "averroismo latino" o aristotelismo radicale. La qualifica di "radicale" attribuita a questo orientamento dottrinale non dipende dalla "purezza" dell’aristotelismo difeso dai maestri delle Arti, né tantomeno dal fatto che Averroè sia stato la fonte principale degli "artisti", quanto più dal fatto che essi si sono avvalsi del pensiero dello Stagirita senza troppo curarsi della sua compatibilità con la rivelazione cristiana. Proprio a partire da questi presupposti, essi hanno concepito la filosofia come disciplina autonoma, degna di essere praticata di per sé e non solo in quanto componente della sapienza teologica. Secondo certa storiografia, la corrente dell’aristotelismo radicale riprenderebbe dogmaticamente tutte le tesi di Aristotele e del suo empio commentatore Averroè, negando in particolare la provvidenza divina e la libertà umana e sostenendo l’unicità dell’intelletto e l’eternità del mondo. Per giungere a conclusioni di questo tipo, Boezio di Dacia si sarebbe trincerato dietro la facile scappatoia della "doppia verità": avrebbe cioè prospettato la possibilità di negare sul piano filosofico quelle verità rivelate che, per convenienza più che per convinzione, dichiarava di accettare come credente. Un vivace e prolungato dibattito fra i medievisti ha ormai dimostrato che nell’opuscolo di Boezio non è affatto possibile ritrovare questa famigerata teoria.

Nel suo scritto Boezio difende la creazione del mondo all’inizio del tempo; crede che sia verità cristiana e verità in assoluto che il mondo sia "nuovo" (che abbia cioè cominciato ad esistere) e confuta quindi tutti gli argomenti, a suo dire eretici, che affermano la coeternità del mondo e di Dio; insiste ripetutamente sul primato della verità rivelata, denunciando l’atteggiamento di chi rifiuta di credere ciò che non è razionalmente comprensibile; afferma che il mondo, sia o non sia eterno in durata, esiste ed è conservato in essere grazie all’intervento di un ente primo che ha i principali attributi del Dio cristiano (volontà, libertà, infinità, onnipotenza); conclude che il filosofo naturale non può prendere in considerazione la creazione ma non esclude che il metafisico possa invece guadagnare questo concetto. Convinto che il problema della durata temporale dell’universo non sia razionalmente decidibile ma che possa trovare una risposta definitiva solo grazie agli insegnamenti biblici, Boezio lavora entro una prospettiva concordista per scongiurare l’insorgere di conflitti fra sapere razionale e credenze religiose. La sua soluzione agnostica viene però clamorosamente fraintesa e considerata fonte dell’articolo 90 censurato da Tempier nel 1277. Al contrario di quello che gli mette in bocca Tempier, Boezio non dice affatto che il filosofo naturale deve negare assolutamente la novità del mondo perché si appoggia su cause naturali e che il fedele invece può negare l’eternità del mondo perché si affida a cause soprannaturali. Piuttosto, a suo avviso, è contemporaneamente lecito affermare la novità del mondo e del primo moto e la loro non novità per cause naturali; ed è contemporaneamente possibile che il mondo e il primo moto siano nuovi e che il fisico dica il vero quando nega che lo siano naturaliter loquendo. Boezio afferma insomma che la tesi dell’eternità del mondo è assolutamente falsa, ma logicamente corretta, e dunque relativamente vera, stando almeno ai principi fisici. Il cristiano allora è nel vero quando afferma le verità assolute ed è nel vero pure il filosofo naturale quando le rigetta a partire da cause naturali.

La categoria che meglio esprime il senso della soluzione boeziana è quella di "pluralismo epistemologico", etichetta con la quale si designa la constatazione che le scienze sono costruite su un insieme di principi che ne determinano tanto le potenzialità quanto i limiti. È così possibile assicurare la piena indipendenza della ricerca scientifica e al contempo evitare il rischio che essa possa entrare in conflitto con la religione cristiana.

Muovendo da questo "pluralismo epistemologico", Boezio trae le sue conclusioni agnostiche che mettono capo, in ultima analisi, ad un atteggiamento fideistico (laddove la ragione non arriva, supplisca la fede) e che conferma l’assenza di conflitto fra fede e filosofia in nome di un concordismo separatista. Nella chiusa dell’opuscolo, ribadendo che il vero filosofico e quello teologico sono due livelli di verità non comunicanti e proprio per questo mai contraddittori, Boezio si fa portavoce di una appassionata difesa della filosofia, reclamandone ripetutamente l’autonomia. Lancia infatti un’appassionata invettiva contro alcuni non meglio precisati non intelligentes che vedono insanabili conflitti fra ragione e fede, laddove il cristiano che usa sottilmente il suo intelletto non è costretto dalla sua religione a distruggere i principi della filosofia, ma preserva la fede e la filosofia, senza recare danno né all’una né all’altra. Se fra i non intelligentes Boezio colloca quasi certamente Tempier e i suoi collaboratori, che ritiene privi delle competenze intellettuali necessarie per intervenire nelle controversie filosofiche e teologiche, il maestro danese ha forse in mente anche altri obiettivi polemici: quei suoi colleghi "artisti" che il 1 aprile 1272 avevano promulgato uno statuto fortemente restrittivo per la libertà di insegnamento.

Vita filosofica e ricerca della "felicità mentale"

La caratterizzazione del sapere razionale proposta dai maestri delle Arti è volta a rivendicare alla filosofia un suo spazio specifico contro la teoria della subordinazione ancillare alla teologia. Questa difesa dell’autonomia della filosofia si collega con l’esaltazione dell’ideale della vita filosofica, che viene intesa come suprema forma di vita, occasione dell’unica vera felicità: quella “felicità mentale” intensa, ferma, prolungabile senza fatica, che, esaurendosi nell’orizzonte della contemplazione razionale, è foriera di appagamento assoluto e di un senso liberatorio di autosufficienza. Il concetto di filosofia assume così un significato più ristretto e più tecnico. Il filosofo di cui Aristotele ha proposto il ritratto nel X libro dell’Etica Nicomachea si reincarna nel magister artium: cultore professionale del vero, fornito di un suo linguaggio specialistico, di sue tecniche argomentative e dimostrative, di un preciso bagaglio concettuale, membro di una comunità scientifica che faticosamente elabora una sua identità culturale e corporativa e prende consapevolezza del proprio ruolo sociale.

Il testo nel quale l’ideale della vita teoretica trova la sua più completa e incisiva espressione è il trattato Sul sommo bene (1273-1274), in cui Boezio di Dacia compie un’indagine razionale sul sommo bene e sostiene che il filosofo eccelle in questa ricerca di perfezione morale e intellettuale, innalzandosi dalla considerazione delle cause seconde alla contemplazione della Causa Prima e candidandosi a modello di tutte le virtù. Secondo Boezio, poiché il piacere della contemplazione è commisurato alla qualità ontologica di quello che si contempla, il filosofo che si dedica alla contemplazione di Dio raggiunge la massima gioia possibile sulla terra. Questa conquista razionale del sommo bene non esclude la beatitudine attesa per la vita futura, dalla quale tuttavia prescinde, presupponendo quella netta distinzione fra discorso filosofico e discorso teologico di cui Boezio è il massimo teorico. In un solo passo dell’opera – ispirato al commento al X libro dell’Etica Nicomachea di Michele di Efeso – Boezio accenna al rapporto fra la felicità in via e in patria asserendo che chi è più perfetto nella felicità speculativa terrena è anche più vicino alla beatitudine eterna. Gli storici hanno proposto due possibili interpretazioni di questa tesi. Secondo una prima interpretazione (forte), se solo chi possiede le virtù intellettuali e morali è sufficientemente disposto alla felicità ultraterrena, allora il possesso delle virtù intellettuali è condizione necessaria e sufficiente per accedere alla beatitudine celeste. Secondo l’interpretazione più debole, il possesso delle virtù intellettuali è solo un’utile premessa e un’anticipazione della felicità ultraterrena. Nel primo caso, l’asserzione boeziana sarebbe chiaramente eretica, nel secondo caso invece perfettamente ortodossa perché il filosofo pregusta in terra una felicità contemplativa cui anche altri, nell’aldilà, avranno accesso.

I teologi "conservatori" e i censori del 1277 guardano allarmati a questo "disegno averroista" di riduzione naturalistica dell’esistenza entro una prospettiva tutta terrena, estranea al destino trascendente dell’uomo perché erge la filosofia a prospettiva unica e totalizzante, facendone il fine ultimo dell’esistere, o, peggio, secondo il dettato dell’articolo 171, la precondizione necessaria e sufficiente della salvezza ultraterrena. In realtà, fra etica filosofica ed etica teologica non si danno contrasti ma solo differenze di prospettiva: l’intento degli "artisti" è infatti soltanto quello di approfondire e sviluppare la morale aristotelica che essi sono tenuti a insegnare, per dovere professionale, nella piena consapevolezza della sua relatività e non esaustività.

Riflessioni sul linguaggio: la corrente “modista”

All’indomani della condanna del 1277 si perdono le tracce di Boezio di Dacia. Il De aeternitate mundi e il De summo bono hanno una circolazione molto limitata, se non anonima. Ciononostante, l’influenza di Boezio continua a estendersi sul pensiero del tempo con le sue Quaestiones super Priscianum Minorem (o Modi significandi), che offrono uno dei più rappresentativi esempi della tradizione di ricerca nota come grammatica speculativa. Stabilmente inclusa nei programmi universitari della Facoltà delle Arti, insieme alla logica e alla filosofia, essa si propone di indagare le proprietà semantiche e sintattiche più generali del linguaggio. Nella riflessione sulle categorie linguistiche, e soprattutto sulla sintassi, si distinguono in particolare alcuni maestri dell’Università di Parigi, detti “modisti”, perché tendono a mostrare la perfetta corrispondenza tra le parti del discorso (modi significandi), le categorie logiche (modi intelligendi) e le strutture della realtà (modi essendi). Questi tre modi sono connessi da una relazione di corrispondenza o di derivazione: le proprietà delle cose, comprese dall’intelletto, sono significate dalle parole. I modi significandi rappresentano però un livello di significazione diverso da quello lessicale: sono dei modi di presentare il significato delle parole. Servono quindi a definire, all’interno del linguaggio, quelle classi di parole (parti del discorso), che, al di là del loro specifico significato lessicale, consignificano le medesime proprietà; e a fornire i principi della coesione sintattica del linguaggio.

Attorno al 1270, la corrente modista si afferma all’Università di Parigi (e più tardi anche a Bologna e a Erfurt), nell’ambito dell’insegnamento grammaticale dove, in polemica con la precedente tradizione dei commenti alle Institutiones grammaticae di Prisciano, i modisti assumono l’ideale della scienza aristotelica (universale e a priori) come fulcro per una ridefinizione dello statuto conoscitivo della grammatica. Non estranei alla dottrina di Giovanni Duns Scoto, tra i maestri modisti (grammatici e logici) si annoverano Martino e Boezio di Dacia, Matteo da Bologna, Pietro d’Alvernia, Giovanni di Dacia, Michele di Marbais, Gentile da Cingoli, Simone di Faversham, Rodolfo il Bretone, Sigieri di Courtrai e Tommaso da Erfurt. Il loro contributo si rivela di fondamentale importanza in almeno due direzioni. Anzitutto, essi propongono programmaticamente una teoria della grammatica universale, valida per tutte le lingue (non solo per la lingua latina). In secondo luogo, essi collocano la grammatica all’interno del sistema medievale delle scienze come scienza speculativa e ausiliaria: speculativa, perché il suo scopo non è quello di insegnare la lingua ma di descriverla e di spiegarne la natura e l’organizzazione come il più vantaggioso strumento di comunicazione; ausiliaria perché la grammatica, come la logica, non riguarda direttamente il mondo, ma la riflessione su di esso nelle nostre descrizioni.

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