L'Asia islamica. Subcontinente indiano

Il Mondo dell'Archeologia (2005)

L'Asia islamica. Subcontinente indiano

Laura E. Parodi
Alessandra Bagnera

Subcontinente indiano

di Laura E. Parodi

La conquista musulmana del Subcontinente indiano fu lenta e complessa: iniziò già nell'VIII secolo con l'invasione del Sind e proseguì con le dinastie dei Ghaznavidi (977-1186) e dei Ghuridi (ca. 1000-1215); questi ultimi imposero l'egemonia islamica sull'India del Nord sino ai confini del Bengala.

Un "generale-schiavo" dell'ultimo sovrano ghuride fondò la prima dinastia islamica del Subcontinente indiano, quella mamelucca (1206-1290), dando origine al cosiddetto "sultanato di Delhi". Con la successiva dinastia Khalgi (1290-1320) proseguì la politica di espansione verso il Deccan. I Tughluq (1320-1414), oltre a consolidare la sovranità, per primi cercarono di diffondere l'Islam presso la popolazione locale, ma l'adesione massiccia alla nuova fede, riscontrata in altre aree conquistate dall'Islam, nel Subcontinente indiano non si verificò mai. Alla morte del sovrano Tughluq Ghiyath al-Din Muhammad (1325-1351) il sultanato si sfaldò, dando origine a una serie di Stati indipendenti. Di tale debolezza approfittò Timur (Tamerlano) che saccheggiò Delhi nel 1398 e ne affidò il governo ai Sayyid (1414-1451), cui successero i Lodi (1451-1526). Questi ultimi ‒ che nel 1479 avevano conquistato il vicino sultanato di Jaunpur ‒ furono a loro volta sopraffatti da un discendente di Timur, Babur (1526-1530). Alla sua stirpe, passata alla storia come dinastia Moghul, toccò il compito di riunificare il Subcontinente indiano, sul cui territorio erano sorti più sultanati: Bengala (1336-1576), Gujarat (India occidentale: 1391-1583), Kashmir (1346-1589), mentre il sultanato del Malwa (India centrale: 1401-1531) era già stato assorbito dal Gujarat. Più laboriosa fu la conquista dei sultanati del Deccan, eredi del primo Stato resosi indipendente dai Tughluq, quello bahmanide (1347-1527): Khandesh (1384-1601), Bidar (1542-1619), Ahmadnagar (1490-1631), Bijapur (1489-1686) e Golkonda (1512-1687). Salvo il breve interregno degli afghani Sur (1540-1555), i Moghul (1526-1858) rimasero al potere a Delhi sino all'occupazione britannica.

La storia dell'archeologia islamica nel Subcontinente indiano è, fino a tempi recenti, storia di una quasi totale assenza. Le vicissitudini di questa disciplina si intrecciano strettamente, fin dagli esordi, con le vicende politiche, a partire dall'annessione all'impero britannico (1857) fino alla partizione tra India e Pakistan (1947) e quindi all'indipendenza del Bangladesh (1973), e a tutt'oggi appaiono condizionate non soltanto dalle difficoltà di ordine economico, comuni a molti Paesi asiatici, ma anche dal ruolo che all'Islam viene assegnato nella definizione dell'identità delle tre nazioni moderne.

Archeologia e conservazione sono, nel Subcontinente indiano, discipline di importazione: i primi cenni ad "antichità indiane" si trovano nei resoconti dei viaggiatori europei sin dal XVI secolo e sono gli Inglesi a istituire a Calcutta, nel 1784, l'Asiatic Society che pubblica dal 1788 l'annuario Asiatick Researches e fonda la prima istituzione museale del Subcontinente indiano (1814). A quegli anni datano anche i primi volumi di documentazione grafica di monumenti: Oriental Scenery (1795-1808) e Monuments anciens et modernes de l'Hindoustan (1821), ma l'interesse è a lungo catalizzato dalla ricerca di antichità di sapore "classico", come le monete romane e indo-greche e l'arte del Gandhara, mentre l'Islam sembra essere percepito piuttosto come attualità. Sarà A. Cunningham, già esploratore nel genio militare, a proporre (e vent'anni dopo, nel 1861, a inaugurare e dirigere) il primo Archaeological Survey of India (ASI). Il suo approccio, soprattutto storico, numismatico ed epigrafico, raccolto in un Memorandum stilato per i suoi assistenti, farà scuola; e proprio l'epigrafia (con la creazione nel 1881 di un Epigraphical Survey, la realizzazione di un Corpus Inscriptionum Indicarum e la nascita della rivista Epigraphia Indica, nel 1888) vedrà un crescente coinvolgimento di studiosi locali, anche musulmani. Tra il 1886 e il 1902 l'ASI è diviso su base territoriale e affidato a diversi responsabili, fra i quali si distingue J. Burgess. I suoi rilievi, pubblicati come ASI Reports nella New Imperial Series da lui creata, sono più tardi raccolti in volumi tra cui spicca The Muhammadan Architecture of Ahmadabad (1896). Un primo tentativo di inquadramento dell'architettura islamica del Subcontinente indiano, definita Indo-Saracenic, si ha con History of Indian and Eastern Architecture (1876) dell'autodidatta J. Fergusson. Anche i volumi di E. Smith The Muhammadan Architecture of Fatehpur Sikri (1895-97) segnano un cambio di rotta; ma nella mole di lavori pubblicati l'Islam ha uno spazio a conti fatti esiguo.

L'arrivo del viceré Lord Curzon inaugura una nuova era: nel 1902 la carica di Direttore Generale dell'ASI è reistituita e affidata a J. Marshall. Molto di ciò che si vede e si visita oggi nel Subcontinente indiano, dai giardini storici (soprattutto Moghul) ai siti archeologici e ai musei, si lega a questi due nomi. Viene introdotto lo scavo stratigrafico e nascono gli ASI Annual Reports (1904), affiancati da volumi monografici, ASI Memoirs; l'ASI diventa istituzione permanente (1906) e sono sanciti principi fondamentali come l'eccezione all'esproprio nel caso di oggetti sacri e l'esclusione degli archeologi stranieri dagli scavi (ciò che fa dell'India, tuttora fedele a questa impostazione, un caso a sé nel panorama mondiale). Nel 1923 Marshall stila un Conservation Manual di notevole sensibilità e competenza per l'epoca. Il primo studioso musulmano di spicco è Gh. Yazdani, cui si devono una serie di lavori sul Deccan (islamico e non); tuttora fondamentale è la sua monografia Bidar - Its History and Monuments (1947). Dal 1928 all'indipendenza succedono a Marshall alla guida dell'ASI cinque studiosi, tra cui per la prima volta due indiani. Negli anni Trenta, con la Depressione, l'attività di scavo è interrotta e le pubblicazioni riguardano quasi solo siti della Civiltà dell'Indo, prefigurandosi quella preminenza pressoché assoluta dell'archeologia protostorica che caratterizzerà l'India dopo l'indipendenza. Gli Annual Reports saranno pubblicati sino al 1938, i Memoirs fino al 1942.

Con la Partizione (1947) le strade dell'approccio all'archeologia e, più in generale, alla storia dei nuovi Stati nazionali divergono, tanto sul piano organizzativo quanto su quello ideologico. In India l'ASI mantiene la propria struttura e una posizione preminente nella ricerca archeologica, mentre in Pakistan e, più tardi, in Bangladesh la direzione archeologica è affidata a un Dipartimento governativo. Con la guerra che porterà all'indipendenza il Bangladesh e il conseguente esodo degli intellettuali bengalesi, il Dipartimento di Archeologia del Pakistan perde buona parte del proprio staff. A fronte di un potenziale archeologico (anche, ma ovviamente non solo, islamico) notevolissimo, il Pakistan soffre a tutt'oggi la mancanza di una classe di funzionari atta a tutelarlo, esplorarlo, valorizzarlo, cui si aggiunge un'agenda politica condizionata dal peso della politica estera e dai conflitti sociali interni (situazione solo in parte compensata dalla meritoria opera sul campo di équipes straniere, anche italiane). Per contro il Bangladesh, fra le tre realtà la più difficile, non ha visto alcun ricambio generazionale (un quarto dei posti nel Dipartimento di Archeologia sono vacanti) e per la crescente carenza di fondi vede oggi una qualche attività archeologica quasi solo grazie all'UNESCO, cui si deve nel 1984 il censimento dei principali monumenti islamici, The Islamic Heritage of Bengal, a cura di G. Michell, e più di recente l'impegno sul sito di Bagerhat (XV sec.). Quanto all'India, nel vuoto di ricerche sul fronte islamico sino agli anni Ottanta spicca l'eccezione del Deccan, dove operano sia i Dipartimenti di Stato (ad es., Golkonda) sia il Deccan College di Puna (ad es., Daulatabad), assai più puntuale nella pubblicazione dei dati.

Un fondamentale contributo, interrottosi però da un paio di decenni, è quello del Dipartimento di Archeologia della Maharaja Sayajirao University di Baroda, cui si devono Baroda through the Ages (1953), dell'allora direttore Bendapudi Subbharao, spartiacque metodologico per la capacità di coniugare i dati di scavo con i monumenti superstiti e le fonti storiche, e una serie di successivi lavori su altre città storiche (Surat, Cambay, ecc.), nonché Mediaeval Archaeology, di R.N. Mehta, del 1979, prima sintesi anche metodologica dedicata ai resti materiali dal XII al XVIII secolo (in senso ampio ma, anche in questo caso, con grande attenzione per gli insediamenti). In India, tuttavia, l'archeologia islamica fatica ancora a ottenere cittadinanza, nel dibattito intellettuale come nella prassi: numerosi sono i testi, anche recenti, che neppure vi fanno cenno, mentre nell'ultimo quarto di secolo gli scavi si contano ancora sulla punta delle dita: oltre a Fatehpur Sikri (v.) e Daulatabad (v.) non vi sono che un progetto su Gaur e Pandua sotto l'egida della Direzione Archeologica del West Bengal, uno studio topografico su Shahgiahanabad e qualche altra ricerca archeologica a Delhi (ASI), scavi dell'Università di Baroda (Champaner, Baroda), studi miscellanei dell'Aligarh Muslim University e poco altro. Interessanti i risultati degli scavi compiuti verso la fine degli anni Sessanta da parte del Dipartimento di Stato (Khan 1970) a nord-est di Golkonda, nell'area delle tombe dei sovrani Qutb Shahi (1512-1687), in cui sono stati rinvenuti i resti di due strutture (metà XVI sec.): un palazzo (di mattoni, rivestito da mattonelle policrome invetriate e stucchi, con ambienti rettangolari ospitanti cisterne e fontane, forni e pozzi contenenti reperti ceramici, in particolare porcellane cinesi bianche e blu) e la cosiddetta Casa d'Estate (struttura sotterranea quadrata utilizzata nella stagione calda, composta da quattro gallerie voltate, scandite da nicchie, con una piscina e una fontana al centro). Da ricordare anche il progetto di documentazione delle stazioni di posta (serāī) delle strade imperiali Moghul, cominciato nel 1977 a cura del Centre of Advanced Studies in History e sotto la direzione di I.A. Khan, che coniuga ricerca archeologica (soprattutto analisi dei materiali), lavoro di conservazione e studio storico dei graffiti antichi lasciati dai viaggiatori.

In Pakistan, oltre agli scavi di Banbhore (v.), Mansura (v.) e Udegram (v.), ricerche archeologiche sono state condotte dalla University of Michigan (Abdi 1999) nella piana di Islamabad (fine anni Novanta) e in particolare nei siti di Chogha Khesht (resti di una struttura, presumibilmente una moschea, rivestita con mattonelle di tipo selgiuchide), Choga Gavaneh nel cuore della città di Islamabad (ceramica invetriata safavide) e nella vasta area a sud del villaggio di Firuzabad (evidenze di una probabile città protoislamica). Grazie a un sopralluogo effettuato alla fine degli anni Ottanta nella regione di Multan (Sharif 1989), il Dipartimento di Archeologia del Pakistan ha effettuato ricognizioni in più di trenta siti, databili tra l'VIII e il XVI-XVII secolo, ricavandone materiale ceramico di superficie (per lo più ceramica acroma rosso chiaro o rosso opacizzato, ma anche invetriata e a stampo). Grazie a queste ricerche sono stati inoltre individuati resti di pozzi (a Garrian Wala e Tibbi Basti Dad), di due moschee (una presso Tibbi Basti Dad, l'altra conosciuta come Dukran Wali Masgid, del XVI-XVII sec.) e di tombe (a Tibba Shah Musa, Raj Bir).

In generale, le ricerche nel Subcontinente indiano paiono tuttora concentrarsi nel campo della documentazione topografica e urbanistica. Ultimamente, però, gli interessi dell'Università di Baroda, a suo tempo pioniera in questo campo, sono rivolti altrove, mentre in Karnataka e Andhra Pradesh i dipartimenti di stato scavano molto ma non pubblicano con uguale regolarità. A ciò si aggiungano il peso dei conflitti religiosi (come la distruzione della moschea di Ayodhya nel 1992, che ha visto prevalere le "ragioni" della fede sulla conservazione di un monumento del XVI sec.) e la difficoltà di apprezzamento del proprio patrimonio storico-archeologico in un contesto in cui l'educazione delle classi elevate si affida sovente a curricula occidentali.

Bibliografia

M.A.W. Khan, Excavation of a Medieval Site near Quṭb Shāhi Tombs (Golconda), in Islamic Culture, 44, 4 (1970), pp. 227-32; D.K. Chakrabarti, A History of Indian Archaeology from the Beginning to 1947, New Delhi 1988; M. Sharif, Archaeological Exploration around Multan 1989, in PakA, 24 (1989), pp. 195-221; K. Abdi, Archaeological Research in the Islamabad Plain, Central Western Zagros Mountains: Preliminary Results from the First Season, Summer 1998, in Iran, 37 (1999), pp. 33-43; D.K. Chakrabarti, Archaeology in the Third World. A History of Indian Archaeology Since 1947, New Delhi 2003.

Banbhore

di Alessandra Bagnera

Le rovine di Bhambur/B., 62 km circa a sud-est di Karachi (Pakistan), sorgono su un pianoro roccioso sulla sponda settentrionale del Gharo, un tempo canale principale del delta dell'Indo.

Sembra probabile (Ashfaque 1969, pp. 182-85) che in esse vada riconosciuto l'antico porto di Daybul/Debal, luogo in cui nel 711 sbarcò l'esercito musulmano al comando del generale Muhammad Ibn Qasim, avviando la lunga conquista islamica del Subcontinente indiano. L'attuale posizione, leggermente elevata e non bagnata dal mare, si è creata nel corso del tempo a causa di uno spostamento della linea di costa di circa 80 km e di insabbiamenti e terremoti che hanno deviato il corso dell'Indo in differenti canali. Qualità e quantità dei materiali restituiti dagli scavi indicano che la città era al centro di fiorenti scambi commerciali sia con i principali centri dell'Islam occidentale sia con l'Estremo Oriente. Indagini archeologiche (1958-65) del Dipartimento di Archeologia del Pakistan, dirette da F.A. Khan, hanno individuato tre periodi (scito-partico, indo-buddhista e islamico: I sec. a.C. - fine XIII sec.).

La parte principale del sito medievale è compresa entro una cinta fortificata. Sono inclusi nella cinta i resti di una moschea approssimativamente quadrata (39,5 × 37,5 m) di blocchi di arenaria gialla. Risalente all'VIII secolo, come la cinta muraria, è la più antica a oggi conosciuta nel Subcontinente indiano. Ha una corte porticata su tre lati e, a ovest, una sala di preghiera ipostila, con tre navate parallele al muro qiblī, privo del miḥrāb. Le coperture, a tetto piano, erano rette da pilastri di legno su basi di pietra, alcune delle quali, decorate, provenivano da monumenti preislamici. Nell'angolo nord-est una piccola zona provvista di un sistema di canalizzazioni per l'acqua costituiva forse il dispositivo per le abluzioni rituali e per le latrine. Un minareto quadrato era probabilmente collocato nell'angolo sud-est. Vi erano due ingressi, il principale a est e l'altro a nord; un terzo, a ovest, era collegato all'esterno tramite una piccola scala (le sue dimensioni ridotte e la collocazione lungo il muro qiblī indurrebbero a considerarlo un ingresso privato, ma gli scavi non hanno verificato la presenza di un eventuale dār al-imāra).

Sono state identificate quattro fasi di costruzione e restauri; la più antica si imposterebbe su livelli di occupazione preislamici. La fondazione è stata attribuita al periodo omayyade, probabilmente durante gli ultimi quattro anni (712-715) di al-Walid I (Ashfaque 1969, pp. 201-202; Creswell 1989). Si registrano due interventi di restauro in periodo abbaside, distinti per tecniche costruttive e materiali di qualità progressivamente inferiore e associabili con uno o più livelli stradali ma anche con alcuni dei sei livelli pavimentali della sala di preghiera; a essi si riferiscono con ogni probabilità due iscrizioni in cufico (239 a.E. / 853/4 d.C. e 294 a.E. / 906 d.C.) rinvenute fuori contesto. Il primo intervento è relativo alla ricostruzione del muro meridionale e all'edificazione di un contrafforte nell'angolo nord-est; il secondo, oltre a riparazioni dei muri d'ambito, all'aggiunta della scala al piccolo ingresso privato e probabilmente a una maggiore monumentalizzazione dei due ingressi principali. In prossimità del lato settentrionale della moschea è un importante edificio pubblico (la cd. "casa F").

La cinta fortificata, anch'essa in blocchi di arenaria, ha mura larghe più di 3 m con bastioni semicircolari a intervalli regolari e tre ingressi: la porta principale a sud, verso il canale; le altre due, a nord ed est, conducono a un lago (la principale risorsa idrica dell'insediamento). La città era ben pianificata: i settori residenziali erano divisi in blocchi da strade e viali ben orientati e lastricati; le abitazioni più ricche erano in blocchi di pietra e in qualche caso in mattoni cotti, con muri rivestiti di stucco e pavimenti in battuto; i muri delle case più umili erano di mattoni crudi su fondazioni di pietra e rivestiti da fango lisciato. Sono segnalati anche resti di bagni e, nella zona settentrionale del sito, un'antica cisterna, numerosi altri resti di strutture e tombe. Le ricerche ancora in corso indicano inoltre la presenza di altri tumuli nel versante sud (Alfieri 1994, pp. 27-28). Nel X secolo B./Debal era ricordata ancora come un attivo porto commerciale, benché molto danneggiato da terremoti che probabilmente indussero ai restauri della moschea. La sua importanza andò progressivamente diminuendo. All'ultima fase di vita del sito (fine del XII - metà del XIII sec.) si riportano gli scarsi resti dell'insediamento a est di un secondo muro fortificato da bastioni semicircolari che attraversa la città da nord a sud: la grande città portuale si era forse trasformata in piccolo insediamento militare di scarso rilievo. Anche la moschea registra in questo periodo un restringimento dei due ingressi principali. Dopo la conquista della città a opera del Khwarazmshah Gialal al-Din Mangubarti (1220-1231) che aveva temporaneamente occupato il Sind, del porto non si sa più nulla.

Tra i reperti particolarmente abbondante è la ceramica. La prima occupazione, sicuramente omayyade (ca. 715-750), è documentata da ceramica in pasta bianca e con invetriatura blu-verde di tradizione sasanide. Delle due fasi abbasidi la prima (750-892) è caratterizzata da invetriata sia monocroma con decorazione incisa sia policroma con decorazione "a macchie" e Slip Painted, la seconda (fine IX-XII sec.) da graffita e dalle importazioni di porcellana e céladon cinesi. Abbondanti anche i ritrovamenti di vetri e monete: tra queste esemplari d'argento e di rame arabo-sasanidi e arabo-bizantini e omayyadi d'argento a nome di al-Walid I (705-715) e Hisham (724-743); tra le abbasidi un esemplare d'oro a nome di al-Wathiq (842-847) e altri di rame a nome di alcuni governatori del Sind sotto il califfato di al-Mansur (754-775). Oltre alle due iscrizioni datate (il cufico fiorito di quella più tarda è un raro esempio nel Subcontinente, forse è vicino-orientale: Ashfaque 1969, p. 195), lo scavo ha restituito numerose lastre con iscrizioni cufiche non datate o con decorazioni a rilievo vegetali e floreali del repertorio locale. Se è verosimile che le prime siano state fabbricate in loco, le seconde provengono da templi Hindu.

Bibliografia

M.A. Ghafur, Fourteen Kufic Inscriptions of Banbhore, in PakA, 3 (1966), pp. 65-90; M. Hasan, In Quest of Daibul, Karachi 1968; F.A. Khan, Banbhore, a Preliminary Report, Karachi 19682; S.M. Ashfaque, The Grand Mosque of Banbhore, in PakA, 6 (1969), pp. 182-209; K.A.C. Creswell, A Short Account of Early Muslim Architecture, Revised and Supplemented by James W. Allan, Aldershot 1989; B.M. Alfieri, Architettura islamica del subcontinente indiano, Lugano 1994.

Daulatabad

di Laura E. Parodi

Insediamento fortificato di origini preislamiche, oggi in Maharashtra (India). Capitale degli Yadava dal 1196, fu presa dai sultani Khalgi di Delhi nel 1317; fu capitale di Muhammad Tughluq (dal 1328 al 1336) e dei Bahmanidi (1346-1450); piazzaforte militare sotto i Nizam Shahi di Ahmadnagar (1415-1518), fu in seguito contesa tra i Moghul e i Maratha (XVI-XVIII sec.). I Nizam di Hyderabad vi mantennero una guarnigione sino al 1949.

Considerata inespugnabile, D. è costituita da una complessa serie di fortezze costruite a più riprese su un'altura naturale: una rocca (nota come Devagiri, nome antico della città), due cinte alla base della collina (Kalakot e Mahakot) e un'area urbana ugualmente cintata (Ambarkot). Gli scavi della Marathwada University di Aurangabad e del Deccan College di Puna a partire dal 1977 (Mate - Pathy 1992) hanno riguardato 12.000 m2 complessivi: in un primo tempo solo l'Ambarkot, occupata da un villaggio, frutteti ed edifici governativi, e dal 1983 la Mahakot, meglio conservata in quanto sotto tutela nazionale.

Ambarkot

Rettangolo irregolare condizionato da emergenze naturali (ca. 2 × 1 km). Tre successive campagne archeologiche su un'area di 42 × 50 m hanno portato in luce una residenza del XVII o primo XVIII secolo, incentrata su un ampio cortile, individuando diversi ambienti nonché il sistema di canalizzazioni e la cisterna che irrigava il giardino. Le fondamenta sono ad archi e volte di pietra squadrata (magazzino/rifugio); i muri sono di pietre non squadrate con nicchie riponi-oggetti ricavate nello spessore e rifiniture in mattoni (cornici di porte e finestre e montanti dei travi), il tetto a spioventi è di tegole piatte su supporto ligneo (restano impronte dei travi portanti e molti chiodi).

Mahakot

Sul lato ovest di Ambarkot: è una sequenza di fortificazioni sovrapposte, con almeno due sopraelevazioni successive e una sola porta a gomito, che dà adito a ulteriori ingressi. Nella cinta, un ottagono irregolare (meno di 1 km di diam.), si conservano una cisterna Yadava (Hathi Tank), la moschea Tughluq in materiali di spoglio da templi (oggi Bharat Mata Mandir), il minareto bahmanide Chand Minar (1428) e le rovine di una residenza Moghul con due ampi cortili, due sale di udienza, vari ambienti privati e un ḥammām. Gli scavi hanno evidenziato il tracciato viario, di probabile fondazione Yadava, con stratificazioni fino al XVIII secolo. Piuttosto regolare, è orientato verso i punti cardinali sfruttando la pendenza naturale e la difesa di due corsi d'acqua, da cui in età Tughluq o bahmanide fu ricavato un fossato. Sono state individuate la via principale (est-ovest), dalla porta ai piedi della collina fino all'accesso principale della Kalakot, e tre strade parallele; le perpendicolari sono meno regolari e, sembra, non estese da un lato all'altro del forte. Sono stati indagati anche due quartieri del XVII-XVIII secolo, con case accessibili solo da vicoli secondari, spesso ciechi. Una residenza simile a quella rinvenuta nella Ambarkot è venuta alla luce nell'angolo sud-est della Mahakot, è anche più sontuosa per la presenza di una veranda con colonne lignee a sezione quadrangolare, di cui restano le basi di pietra, e presenta sul retro uno spazioso giardino, accuratamente documentato.

Kalakot

Ai piedi della collina, è grosso modo rettangolare e ospita a sud il vasto complesso palaziale Nizam Shahi e a nord i resti di un palazzetto (Chini Mahal) con mattonelle. La cittadella è protetta da un fossato a ovest e sugli altri lati da una doppia linea di fortificazioni, con bastioni all'ingresso (a gomito) e lungo la cinta. L'ingresso e il cortile prospiciente (bahmanidi; Mate - Pathy 1992, p. 55) sono di pietra. Domina la cittadella un padiglione (barādarī) di età Moghul. Vi sono piccole moschee e ḥammām (ben conservato solo lo Shahi Hammam).

Fuori D. vi sono alcune tombe anonime, un serāī (stazione di posta), il Rangamahal, fortificazione autonoma Tughluq/bahmanide (1 km ca. a sud-ovest) e tre laghi artificiali di sbarramento (1,5 km a nord-est), costruiti dai Nizam Shahi. Tra i reperti di D. si contano perle vitree e numerosi frammenti di bracciali di vetro. I metalli comprendono punte di freccia, finimenti per cavalli, cinque chiavistelli, vari strumenti agricoli e due scalpelli. Rare le monete. La ceramica, abbondante soprattutto nella Mahakot, è anche invetriata. A parte quella d'uso, viene segnalato abbondante "vasellame invetriato cinese", definito anche céladon (Mate - Pathy 1992, p. 39) benché non sia da escludere che si tratti soprattutto di porcellana bianca e blu; è attestata anche una produzione locale di imitazione, in argilla porosa e spessa, dipinta in bianco e turchese o verde-azzurro sotto vetrina.

Bibliografia

V. Fass, The Forts of India, Calcutta 1986; G. Michell (ed.), The Islamic Heritage of the Deccan, Bombay 1986; M.S. Mate - T.V. Pathy (edd.), Daulatabad: a Report on the Archaeological Investigations, Pune - Aurangabad 1992; D. Qureshi, Fort of Daulatabad, Delhi 2004.

Fatehpur sikri

di Laura E. Parodi

Sikri (India), che si vuole fondata nel 1571 per un voto fatto dal sovrano Moghul Akbar (1556-1605) al fine di avere un erede, fu sede della corte Moghul fino al 1596; ribattezzata Fatehpur ("Città della Vittoria") dopo la conquista del Gujarat (1573), fu essenzialmente una città cerimoniale, mai giunta a usurpare il ruolo della vicina Agra.

La sua breve ma intensa parabola urbana è archeologicamente documentata ancora solo in parte; alimentata da un grande lago artificiale, si stima ospitasse 200.000 abitanti. Fra le strutture preesistenti sono da ricordare edifici ascrivibili al primo dei sovrani Moghul, Babur (1526-1530); successivamente, salvo che in occasione della peste ad Agra (1619), fu abbandonata e tornò a essere piccolo centro rurale. Tra i primi siti censiti e documentati dagli Inglesi, l'area del palazzo imperiale, costruita lungo la cresta di un'altura con l'ausilio di terrazzamenti artificiali, è stata in buona parte recuperata; vi è ancora disaccordo sull'identificazione e la funzione di diverse strutture. Ancor meno si sa dell'area urbana vera e propria. Gli scavi (1978-88), nell'ambito di un Progetto Nazionale a cura dell'ASI e dell'Aligarh Muslim University, diretti da R.C. Gaur, hanno portato in luce la chiesa dei Gesuiti, il serraglio, parte delle stalle imperiali, un palazzo attribuito al ḫĀn-i ḫĀnān Abd al-Rahim, il bazar e diversi quartieri residenziali.

La chiesa dei Gesuiti si trova presso la sala delle pubbliche udienze, a sud dell'attiguo ḥammām. La sua consacrazione fu concessa ai Gesuiti, giunti a corte già nel 1573, in base dell'editto di Akbar del 1579 sulh-i kull, Pace Universale. L'identificazione si è basata sul ritrovamento di fiale di vetro sotto il piano di calpestio: le fonti affermano che la chiesa fu realizzata riadattando i locali della fabbrica dei profumi di corte (ḫušbuḫāna). Si articola in tre piccole stanze (la più grande misura 5,3 × 3,85 m). Tre i livelli di calpestio rinvenuti: quello della chiesa era spesso ben 14 cm, di cui 11 di riempimento in cocci e pietrisco; quello del ḫušbuḫāna in calce; il sottostante in grandi lastre di arenaria rossa, poi asportate. La stanza centrale, con tre porte di cui le laterali murate all'epoca della conversione a chiesa, doveva ospitare l'altare: sul muro di fondo, che conserva tracce di figure dipinte sull'intonaco, sono tre nicchie di 75 × 60 cm. Purtroppo non si è conservata nessuna immagine di culto.

Gli scavi nell'area nord del crinale, presso la cisterna detta Hauz-i Shirin, hanno messo in luce i resti del serraglio dei ghepardi da caccia imperiali: vani quasi quadrati (alt. 1,8 m, largh. ca. 3 m), con muro di fondo in comune lungo almeno 40 m e probabilmente divisi da una paratia per consentire di pulire e nutrire gli animali. Dietro le celle sono emerse stanze più grandi, dalla destinazione incerta. A est del serraglio, presso la cosiddetta "zecca", sono venute in luce stalle con mangiatoie e anelli di pietra per legare gli animali; le proporzioni suggeriscono che si tratti di stalle per dromedari, mentre i cavalli dovevano essere ospitati nell'area a ovest del serraglio.

Il Palazzo del Ḫān-i Ḫānān è a nord-ovest della porta in direzione di Agra. Noto localmente come Ghora Mahal o Puranitwali, è attribuito al ḫĀn-i ḫĀnān; ne sopravvivono integri l'ingresso e una stanza sul lato nord. Gli scavi hanno interessato il settore ovest (l'ala est è stata spoliata nei secoli per ricavarne materiale da costruzione). I piani di calpestio sono molteplici. L'edificio Moghul originario aveva diversi cortili; ne sono stati individuati tre, completi di pavimentazione, bacini d'acqua scolpiti e, in un caso, di veranda; sofisticato il sistema di canalizzazioni e scarichi.

Più controversa è l'identificazione come sede del ḥarām imperiale delle rovine presso il cosiddetto Samosa Mahal. I sondaggi hanno interessato un'area di oltre 120 × 60 m, portandone in luce appena un quarto. Sono emerse quattro stanze e tre verande, di cui una affacciata su un grande giardino quadripartito con fontana centrale; inoltre, un cortile lungo quasi 80 m e soprattutto due serie di latrine le cui proporzioni differenti fanno pensare alla destinazione di una per i bambini: argomento a favore dell'identificazione con il ḥarām. Altri elementi a sostegno di questa ipotesi sono l'unico ingresso, attraverso un passaggio coperto, a nord, che si apriva verso il retro del complesso palaziale, e il massiccio muro di cinta, a sud (lato lungo il quale corre la strada). La struttura è di pietra non squadrata rivestita con spesso intonaco levigato. Gli zoccoli conservano resti di eleganti decorazioni floreali in rosso e blu.

Ancor più controversa è l'identificazione della ῾ibādat-ḫāna, edificio in cui si svolgevano ogni giovedì sera i dibattiti tra esponenti delle diverse religioni: l'équipe di Gaur ritiene di averla identificata in una struttura adiacente alla Grande Moschea, che pare tuttavia essere quanto resta di un mausoleo; né la recente proposta alternativa di D.V. Sharma (2003) sembra risolutrice. Non si esclude che l'edificio noto come Palazzo di Jodhbai, da sempre considerato sede del ḥarām, possa essere reinterpretato, in base ai recenti scavi, come ῾ibādat-ḫāna: l'aspetto è compatibile con la descrizione datane dalle fonti.

Bibliografia

E. Smith, The Muhammadan Architecture of Fatehpur Sikri, Delhi 1895-97; A. Petruccioli, Fathpur-Sikri, città del sole e delle acque, Roma 1988; R.C. Gaur, Excavations at Fatehpur Sikri, New Delhi 2000; D.V. Sharma, Archaeology of Akbar's ῾Ibadat-Khanah at Fatehpur Sikri, Agra 2003.

Mansura

di Alessandra Bagnera

Sito 70 km circa a nord-est dell'attuale Hyderabad, in Sind (Pakistan), sulla riva sinistra dell'Indo. Attualmente è composto da due nuclei collegati da una stretta lingua di terra. Sul lato opposto scorre l'odierno canale Jamrao.

Simbolo, come indica il nome, della vittoria dell'Islam nel Sind, M. fu fondata probabilmente poco prima del 734 (data ‒ 116 a.E. ‒ di una moneta coniata a M., al British Museum), durante il califfato di al-Hakim (728-737) da Amr, figlio del generale Muhammad bin Qasim che conquistò il Sind nel 711. Divenne la capitale degli Habbaridi, una dinastia di origine araba che, dopo aver assunto il governatorato del Sind (855) durante il califfato di al-Mutawakkil, alla morte di questi (861) si rese indipendente. Diventata una città urbanisticamente e architettonicamente di rilievo, svolse per circa un secolo e mezzo il ruolo di emporio internazionale e di grande centro sociopolitico e di cultura religiosa. Come tramanda al-Baladhuri (m. 892), la nuova città fu fondata in prossimità dell'antica Brahmanabad; secondo Yaqut (m. 1229) aveva pianta circolare. Nelle fonti del IX secolo è descritta come una grande metropoli paragonabile a Damasco, cinta da mura fortificate dotate di quattro porte, con le case di mattoni, argilla e legno, e con la moschea Ǧāmi῾ al centro della città, come gli scavi archeologici hanno confermato. Dopo l'invasione ghaznavide del 1025 M. visse una graduale decadenza finché, anche a causa di uno spostamento del ramo dell'Indo che la circondava, venne abbandonata (fine del XII - inizi del XIII sec.). Nel corso del tempo è stata oggetto di molti scavi clandestini.

I suoi resti, estesi in un raggio di circa 3,5 km, le guadagnarono l'appellativo di Pompei del Sind datole da A.F. Bellasis. Questi, convinto si trattasse dei resti di Brahmanabad, l'antica capitale provinciale Hindu, nel 1854 condusse i primi scavi sulle rovine, caratterizzate soprattutto dai resti di un'alta torre in mattoni. Nel 1895 H. Cousens, dell'Archaeological Survey of India, intraprese nuove ricerche che portarono alla luce numerose ed evidenti prove dell'appartenenza del sito a epoca islamica. Tra queste, oltre ai resti di decorazioni in stucco, mattoni di piccole dimensioni diversi da quelli Hindu, monete con iscrizioni in arabo, ceramica comune e invetriata e monili, emergono tre piccole moschee. Rinvenute al livello di fondazione, esse sono a pianta rettangolare, con spessi muri di mattoni, un solo ingresso e il muro qiblī provvisto di bastioni esterni dei quali almeno uno, al centro, doveva corrispondere al miḥrāb. Solo la più grande delle tre si apriva su un piccolo cortile con una porta verso l'esterno. Le coperture erano rette da pilastri in mattone, di cui restano le basi. Considerando anche il rinvenimento di ceramica e di altri materiali preislamici, Cousens concluse che la M. islamica era stata fondata sulle rovine dell'antica Brahmanabad. A conclusioni diverse sembrano portare le più recenti ricerche archeologiche del Pakistan Department of Archaeology (dal 1966), che sembrano dimostrare che il sito fu fondato ex novo in epoca islamica. Dopo un'occupazione di età non precisabile, esso sarebbe stato abbandonato a lungo fino al primo insediamento islamico (all'epoca della conquista del Sind, inizi VIII sec.). I materiali ne indicherebbero una successiva occupazione suddivisibile in quattro periodi, riconoscibili dai ritrovamenti ceramici e dal medesimo numero di fasi costruttive di molti edifici.

Gli scavi pakistani, solo parzialmente pubblicati (Mansura 1968; Faruq 1974-86), hanno fornito dati interessanti sulla città islamica, sul suo impianto urbanistico, sulla tipologia e le modalità costruttive degli edifici e del sistema difensivo, sulle diverse industrie artigianali. Sono emersi soprattutto gli interventi degli Habbaridi (IX-XI sec.), mentre molto scarso è l'apporto alla conoscenza del sito all'epoca della fondazione. Tra IX e XI secolo la città, cinta da mura fortificate con bastioni circolari a intervalli più o meno regolari, presentava un impianto ordinato suddiviso da viali, strade e vicoli, alcuni pavimentati con mattoni di taglio. Ogni blocco, i cui confini erano definiti da mura, era una unità indipendente capace di un autonomo rifornimento idrico attraverso pozzi e sistemi di drenaggio con canali sotterranei. Le strade più larghe presentavano, a intervalli regolari, spazi aperti di forma circolare, mentre un sistematico principio regolava la distribuzione delle aree riservate agli edifici religiosi o civili, ai settori commerciali e industriali e alle aree di pubblica utilità. Delle quattro porte nominate dalle fonti solo due sono state portate alla luce: quella a nord-ovest, pavimentata con mattoni e fiancheggiata da bastioni semicircolari, e quella a nord-est, più vicina all'antico letto dell'Indo.

La moschea Ǧāmi῾, rettangolare, di mattoni cotti, ha una corte porticata e una sala di preghiera ipostila con pilastri di legno su basi quadrate di mattoni; il muro qiblī presenta un miḥrāb semicircolare. Adiacente alla moschea Ǧāmi῾ è stato riconosciuto il dār al-imāra (palazzo del governo), di cui è stata recuperata parte dei massicci muri d'ambito con bastioni semicircolari (è però ignota la pianta). Da evidenze epigrafiche sarebbe stato costruito dall'emiro habbaride Umar b. Abdullah. Un secondo edificio, scavato parzialmente nelle vicinanze della grande moschea, è detto "delle assemblee pubbliche". Comprendeva un'aula per le udienze e una grande sala a destra dell'entrata, due terrazze sopraelevate e una rampa pavimentate con mattoni e numerose gradinate. Le coperture in piano erano rette da grossi pilastri quadrati che, come le spesse murature, erano di mattoni cotti legati da malte di terra. L'ingresso, a sud-est, era rinforzato da pilastri, pavimentato con mattonelle quadrate e rivestito alle pareti sia con fango sia con gesso. Nel resto della città, oltre a un'ampia area commerciale delimitata da mura fortificate con torri semicircolari angolari e provvista di molte botteghe, sono stati individuati numerosi edifici residenziali ‒ composti da un numero variabile di stanze spaziose e generalmente pavimentate con mattonelle quadrate, di corridoi e di corti ‒ dotati di un avanzato sistema idraulico per il rifornimento e il drenaggio delle acque, attraverso pozzi spesso dotati di larghe ghiere in terracotta o in argilla cruda e canali coperti e rivestiti all'interno.

La gran parte dei reperti è costituita da ceramica a pasta sottile rossa con decorazione stampata; a pasta grigia, oppure con decorazione dipinta; tra l'invetriata sono presenti quella stampata sotto invetriatura alcalina e quella dipinta a lustro. Oltre ad alcune monete di rame, gli scavi hanno restituito figurine antropomorfe e zoomorfe di terracotta, diversi oggetti di steatite grigia e alabastro bianco, monili e perline d'avorio, madreperla, pietre semipreziose e vetro. Di particolare rilievo è il rinvenimento di quattro battenti di porta di bronzo che, trovati fuori contesto nelle vicinanze del dār al-imāra, si pensa provengano da questo. Un mascherone demoniaco, da cui pende una maniglia a cinque petali arrotondati, è al centro del disco da fissare alla porta, sul bordo del quale corre un'iscrizione araba in cufico foliato che, oltre a versi coranici, riporta il nome di Umar b. Abdullah, il secondo sovrano habbaride cui si riporta la costruzione dello stesso dār al-imāra. I battenti sono considerati di manifattura locale e datati intorno all'883 (Nabi Khan 1990, pp. 42-55).

Bibliografia

H. Cousens, Brahmanabad-Mansurah-Mahfuza, in The Antiquities of Sind, Calcutta 1929, pp. 48-71; Id., Brahmanabad-Mansura in Sind, in ASIAR, 1903-1904, pp. 132-44; Id. Excavations at Brahmanabad-Mansurah, ibid., 1908-1909, pp. 79-87; Mansura, in PakA, 5 (1968), p. 202; A.A. Faruq, Excavation at Mansurah, ibid., 10-22 (1974-86), pp. 3-35; A. Wariya et al., Seminar on Mansurah, Hyderabad 1983; A. Nabi Khan, Al-Mansurah, a Forgotten Arab Metropolis in Pakistan, Karachi 1990.

Udegram

di Alessandra Bagnera

Sito nello Swat (Pakistan), nel quale sir Aurel Stein (1930) e G. Tucci (1978) proposero di identificare l'antica città di Ora conquistata da Alessandro Magno nel 327 a.C.

Sull'attuale villaggio domina, da sud, il monte Raja Gira sul cui sperone più alto si trova il cosiddetto Castello individuato dagli scavi italiani (1956-60, v. Gullini 1962) come una fondazione forse sasanide (V sec.). È stata portata alla luce anche un'importante fase preislamica più antica (I/II-IV sec.); reperti ceramici testimoniano inoltre la frequentazione del sito già dal IV-III sec. a.C.

Nell'XI secolo il ghaznavide Mahmud (999-1030) conquistò e islamizzò l'area. A mezza costa sul fianco settentrionale del monte Raja Gira (ca. 100 m più in basso del Castello) la Missione Archeologica Italiana dell'IsMEO (oggi IsIAO), diretta da U. Scerrato (1985-96), ha messo in luce un abitato islamico e una moschea. Questa, situata su un grande terrazzamento ‒ in parte artificiale e di epoca preislamica ‒ è di lastre di scisto con corte porticata; nell'angolo sud-est un grosso bancone fungeva probabilmente da madrasa. La sala di preghiera è ipostila con tetto piano sostenuto da pilastri lignei su basi di pietra che definiscono tre navate parallele al muro qiblī, con miḥrāb a pianta quadrata. La parte scoperta del cortile, quasi al centro dell'edificio, è molto ridotta e in gran parte occupata da una vasca per le abluzioni (di cui rappresenta uno degli esempi più antichi). Una ziyyada (recinto), composta da tre ambienti oblunghi con funzioni abitative, delinea il lato nord che, affacciato sulla vallata, è articolato da tre torrioni. Legati alla tradizione Hindu Shahi delle architetture fortificate, essi conferiscono alla moschea l'aspetto di un ribāṭ. Ebbe sicuramente il ruolo di ǧāmi῾ come testimoniano le tracce delle fondazioni di un imponente minbar; sono state riconosciute tre fasi costruttive indicate dalla presenza di tre successivi miḥrāb. La definizione dell'assetto più antico è ancora problematica; sembra tuttavia attribuibile all'epoca della conquista di Mahmud (ca. primo decennio dell'XI sec.); l'impianto assunse il suo aspetto definitivo nella seconda fase, cui sembra da riferire un'iscrizione araba datata al 440 a.E. / 1048/9 d.C. a nome di un amīr Anushtegin, probabilmente un generale ghaznavide (gli interventi successivi si limitarono a operazioni di restauro e di consolidamento e al rialzamento del pavimento della sala di preghiera rispetto a quello della corte che venne rivestito da lastre di scisto). Si tratta della più antica moschea conosciuta nel Pakistan settentrionale e della terza più antica del Subcontinente dopo quelle di Banbhore e di Mansura nel Sind.

All'edificazione della moschea seguì la costruzione di un abitato che occupò sia la parte occidentale del terrazzamento, tra XI e XII secolo, sia quella a est della moschea in epoca successiva. Verso la fine del XII secolo la parte ovest dell'abitato doveva essere già stata abbandonata a giudicare dalla presenza, in quel periodo, di un piccolo cimitero tra le rovine delle abitazioni nell'area alle spalle del muro qiblī della moschea. Sviluppatosi intorno a un modesto mausoleo di un pio musulmano, comprendeva 55 tombe (le più tarde databili, in base a rinvenimenti monetali, al primo quarto del XIII sec.). Il dato più interessante è la compresenza di tracce di una religiosità locale connessa a pratiche indigene di origine preislamica. L'abitato a est della moschea sopravvisse fin verso il XIV secolo, concordando con il dato cronologico dell'ultima frequentazione sporadica del Castello (XIII-XIV sec. in base a ceramica e monete). Tra i reperti si segnalano diversi tipi di punte di freccia, in particolare quello cosiddetto "ad ago" (frequente nell'area tra IX e XII sec.), e abbondante ceramica, per la maggior parte ceramica comune; è presente anche ceramica a decorazione dipinta, l'invetriata ‒ più rara ‒ comprende Slip Painted di derivazione samanide simile a tipologie attestate a Ghazni e databili all'XI secolo, monocroma verde e ceramica incisa e dipinta.

Bibliografia

A. Stein, An Archaeological Tour in Upper Swat and Adjacent Hill Tracks, Calcutta 1930; G. Gullini, Udegram, in D. Faccenna - G. Gullini (edd.), Reports on the Campaigns 1956-1958 in Swat (Pakistan), Roma 1962, pp. 325-27; G. Tucci, La via dello Swat, Roma 1978; Nazir Khan, A Ghaznavid Historical Inscription from Uḍegrām, Swāt, in EastWest, 35 (1985), pp. 153-66; U. Scerrato, Research on the Archaeology and History of Islamic Art in Pakistan: Excavation of the Ghaznavid Mosque on Mt Rājā Gīrā, Swat, ibid., pp. 439-50; Id., Research on the Archaeology and History of Islamic Art in Pakistan: Excavation of the Ghaznavid Mosque on Mt Rājā Gīrā, Swat, Second Report, 1986, ibid., 36 (1986), pp. 496-511; A. Bagnera, La necropoli islamica di Raja Gira (Swat, Pakistan) (Tesi di specializzazione, Università di Roma "La Sapienza") 1990; U. Scerrato, (Pakistan). Ricerche di Archeologia, Storia dell'arte e architettura islamica, in Missioni Archeologiche Italiane. La ricerca archeologica, antropologica, etnologica, Roma 1997, pp. 243-46; A. Bagnera, Il rito funerario, in A. Molinari - A. Nef (edd.), Actes du Colloque "La Sicile à l'époque islamique. Questions de méthodes et renouvellement récent des problématiques", Roma 2004, pp. 259-302.

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