L’età degli Antonini, ovvero della scoperta dell’interiorità

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

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L'eta degli Antonini, ovvero della scoperta dell'interiorita

Giovanni Salmeri

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Edward Gibbon, il grande storico inglese del Settecento, nella sua monumentale History of the Decline and Fall of the Roman Empire ha scritto che nella storia universale il periodo dalla morte di Domiziano all’avvento di Commodo può essere ritenuto quello in cui la condizione degli uomini fu più prospera e felice. Tale giudizio e il quadro corrispondente tracciato per i regni di Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, hanno costituito il punto di partenza per le ricerche e gli studi successivi, e nonostante tutte le imperfezioni individuate e le correzioni apportate, l’intuizione gibboniana del carattere tutto speciale dell’età degli Antonini resta ancora valida. In particolare è questa l’epoca in cui, tra non pochi rappresentanti dei gruppi dirigenti dell’impero, si afferma un’attenzione tutta nuova per la dimensione interiore, che consente di parlare già per allora di "persona" nel nostro senso del termine.

L’età degli Antonini

Il Settecento è il secolo dell’età moderna in cui l’impero romano, per il tramite di una sottile rete di analogie e riprese, ha goduto del massimo favore e interesse. Innumerevoli furono allora le riproposizioni della sua architettura e dei ritratti dei suoi principi, in specie di quelli vissuti nel II secolo. Colonne a imitazione di quelle romane di Traiano e di Marco Aurelio vennero collocate dinanzi alla Karlskirche di Vienna, iscrizioni latine – che si rifanno a quelle della Roma dei primi secoli d.C. – furono inserite ad adornare i muri di tante chiese d’Europa, e testi storici e saggi filosofici, ancor oggi oggetto di lettura e di riflessione, furono ad esso dedicati. Non per amore del peregrino, ma per sottolineare l’ampia diffusione dell’adesione all’impero romano, si ricorda qui la memoria composta a Girgenti, nella remota Sicilia, nel 1776 dal giurista Vincenzo Gaglio: Problema storico, critico, politico se la Sicilia fu più felice sotto il governo della repubblica romana o sotto i di lei imperatori? Nel testo l’autore, suddito devoto di Ferdinando III di Borbone, si esprime negativamente sul periodo repubblicano, quando l’isola metteva a disposizione il suo grano e in cambio veniva saccheggiata dai governatori romani; notando invece il favore che le mostrarono tutti gli imperatori da Augusto a Diocleziano, in particolare Adriano, in piena sintonia con il filosofo scozzese David Hume, conclude che per una provincia è di gran lunga più vantaggioso il governo di uno che di molti, ovverosia di un principe che di una repubblica. E negli stessi anni di Gaglio migliaia di chilometri più a nord, prima in Inghilterra e poi in Svizzera, Edward Gibbon compose la sua imponente History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776-1788), dove della cosiddetta età degli Antonini, a cui si è soliti ascrivere gli imperatori "dalla morte di Domiziano all’avvento di Commodo", è contenuto un singolarissimo elogio pur solcato da una venatura di filorepubblicanesimo: “Chi dovesse stabilire nella storia universale il periodo, nel quale la condizione degli uomini fu più prospera e felice, dovrebbe senza esitazione indicare quello che corse dalla morte di Domiziano all’avvento di Commodo. Il vasto impero romano era governato da un potere assoluto, sotto la guida della virtù e della sicurezza. Gli eserciti furono tenuti a freno dalla mano ferma ma moderata di quattro successivi imperatori, il carattere e l’autorità dei quali imponevano spontaneo rispetto. Le forme del governo civile furono gelosamente conservate da Nerva, Traiano, Adriano e dagli Antonini i quali godevano dell’immagine della libertà e si compiacevano di considerarsi ministri responsabili delle leggi. Principi come questi meritavano l’onore di ristabilire la repubblica, se i Romani del loro tempo fossero stati capaci di godere di una ragionevole libertà”.

A spingere Gibbon a definire l’età degli Antonini "la più prospera e felice" della storia universale dovette essere l’impressione di equilibrio e moderazione che essa, con il suo apparente rispetto delle forme nell’esercizio del potere, trasmetteva a lui principe degli intellettuali settecenteschi e ai suoi alti ideali politici e culturali. Quanto il quadro tracciato da Gibbon corrisponda ai dati a nostra disposizione – e la corrispondenza è lontana dall’essere totale – non è il caso di discutere qui, e si vedrà nella trattazione dei singoli imperatori; ma allo storico inglese va riconosciuto di aver intuito il carattere del tutto speciale del II secolo. Negli anni intorno al 100 si assistette infatti, soprattutto nell’Urbe e nelle province dell’Oriente, all’affermarsi tra senatori e notabili di un nuovo stile di vita più attento alla dimensione interiore e agli aspetti privati dell’individuo, rispetto ai secoli precedenti quando a prevalere erano l’impegno e l’immagine pubblica. In alcuni casi si possono addirittura cogliere le regole di un programma personale di moderazione ed equilibrio che ruota intorno a quello che il grande intellettuale francese del secolo scorso Michel Foucault ha chiamato le souci de soi (la cura di sé), e che consente di parlare – già per quasi duemila anni fa – dell’esistenza della "persona" nel nostro senso del termine. Un tale esito fu il risultato di un secolo e mezzo di governo imperiale che con la sua dimensione globale e la sua flessibilità era riuscito a formare una visione del mondo e dell’individuo più vicina a quella di noi "pedestri" moderni che a quella della Grecia classica con i suoi ideali eroici, una visione che trova il suo emblema nel composto volto di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo.

Nerva e l’adozione di Traiano

L’uccisione di Domiziano non suscitò particolari manifestazioni di gioia nel popolo di Roma; in senato invece si esultò mentre cadevano in frantumi le statue dell’imperatore e se ne decretava la damnatio memoriae, la cancellazione cioè di ogni immagine e ricordo. E come suole accadere dopo la morte di governanti invisi o per troppo tempo installati al potere, si sviluppò tra i patres un clima favorevole a speranze e progetti. Si pensò soprattutto che il senato, pur senza abolire la figura del principe, potesse riconquistare l’antica importanza.

In questa direzione si mosse con prudenza Nerva, l’imperatore scelto dai congiurati, che nei decenni precedenti aveva mostrato notevoli capacità di adattamento, contribuendo sotto Nerone alla repressione della congiura di Pisone e accettando di divenire console al fianco di Domiziano nel 90. Salito al trono, egli cercò innanzitutto di fare dimenticare il suo predecessore e il suo governo autocratico revocando gli esili da lui comminati, punendo la pratica della delazione, restituendo i beni confiscati; nel contempo come si ricava anche dalle leggende delle sue monete – Libertas publica, Salus, Aequitas, Iustitia – cercò di instaurare un nuovo clima politico libero da sospetti e ombrosità che sarebbe dovuto risultare particolarmente gradito ai senatori. Nell’ambito più specificamente fiscale Nerva si allontanò dalla linea favorevole alle imposizioni sostenuta da Vespasiano procedendo ad esempio all’abolizione delle contribuzioni versate dalle comunità italiche in favore del servizio di trasporto statale di persone e cose (cursus publicus). Allo stesso Nerva inoltre pare doversi il lancio delle Institutiones alimentariae che, come si vedrà, saranno poi incrementate negli anni di potere di Traiano. Né si può dimenticare che l’ultima legge comiziale di cui si abbia notizia fu una lex agraria, che prevedeva l’assegnazione di terre in Italia e in Africa, fatta approvare dal nostro imperatore.

Nonostante la brevità del regno di Nerva, e la sua volontà di comporre i conflitti esistenti tra le istituzioni dello stato – come mostra anche una moneta che celebra la Concordia exercituum ("Concordia degli eserciti") –, tra il 96 e il 98 non mancarono segni di malessere e ribellione. Senza contare la congiura ordita da Caio Calpurnio Pisone Crasso Frugi Liciniano, un esaltato che ripeté il tentativo anche contro Traiano, l’episodio più grave fu rappresentato dalla richiesta nell’estate del 97 da parte del nuovo prefetto del pretorio Casperio Eliano che venissero messi a morte gli uccisori di Domiziano. Nerva non ebbe la forza di opporsi e dovette subire l’esecuzione di due congiurati, mentre i pretoriani riaffermavano così la loro capacità di interferire negli affari dello stato. Nerva, comunque, conscio della gravità della situazione, volendo ingraziarsi le truppe legionarie, adottò come figlio, e designò dunque come successore, Marco Ulpio Traiano, un senatore spagnolo (di famiglia originaria dell’Italia), nativo di Italica, beniamino degli eserciti. In tal modo il vecchio imperatore non solo si poneva nella scia di Galba, che pur senza fortuna aveva guardato al di là della sua famiglia nella scelta dell’erede, ma andava anche oltre consegnando per la prima volta il trono imperiale a un non romano e non italico, in piena sintonia con il processo, in moto da qualche decennio, che vedeva sempre più numerosi i rappresentanti delle élite provinciali, all’inizio in prevalenza dell’Occidente, conquistare un posto in senato. Costoro erano ormai divenuti indispensabili per l’amministrazione di un impero, in cui l’Italia progressivamente assumeva una fisionomia meno profilata.

Alla morte di Nerva, nel gennaio del 98, Traiano ricopriva la carica di legato della provincia della Germania Superiore: ma quando la notizia gli arrivò, non si mosse subito alla volta di Roma. Restò per mesi intento a rafforzare il confine renano, trascorse l’inverno su quello danubiano, ed entrò nell’Urbe solo nell’estate del 99. Ancor prima di giungervi, uno dei suoi primi atti di governo fu quello di condannare a morte Casperio Eliano e i pretoriani che si erano opposti a Nerva, guadagnandosi così il favore del senato.

Le guerre di Traiano

Traiano fu l’imperatore dei primi due secoli dai connotati più marcatamente militari. Prima della nomina a governatore della Germania Superiore, una provincia fondamentale nel sistema difensivo romano, egli aveva prestato a lungo servizio come tribuno militare, compreso un periodo in Siria intorno al 75, mentre suo padre reggeva la provincia. Successivamente, come legato della legione VII Gemina, di stanza in Spagna, nell’89 si era mosso in aiuto a Domiziano in Germania per collaborare alla repressione della congiura di Antonio Saturnino.

Con queste esperienze alle spalle Traiano, dopo l’ascesa al trono, intervenne con decisione in Dacia nel 101 per contrastare il rafforzamento di Decebalo e la sua crescente influenza sulle popolazioni vicine. L’imperatore attraversò il Danubio a Lederata e dopo alterne vicende, arrivando a minacciare la capitale del regno Sarmizegetusa, nel 102 costrinse Decebalo ad accettare insieme alla pace la presenza di guarnigioni romane e a cedere parti del suo territorio. Tre anni dopo, però, nel 105 Traiano riprese le operazioni contro il re, rimproverandolo di violazioni dei trattati, e attraversò di nuovo il Danubio, stavolta a Drobeta utilizzando il grandioso ponte edificato dal suo architetto Apollodoro di Damasco. Nel 106 l’imperatore conquistò Sarmizegetusa, Decebalo si suicidò, la Dacia divenne provincia e, come segno della vittoria, a poca distanza dall’antica capitale venne fondata una colonia romana.

Varie sono state le interpretazioni date della conquista della Dacia, ma non pare da dubitare che essa abbia rappresentato un obiettivo di tipo strategico: proseguendo nella politica d’attenzione della dinastia Flavia per la difesa dei confini, Traiano volle così consolidare quello danubiano, eliminando una figura pericolosa come Decebalo. Né va trascurato tra i moventi delle due campagne daciche il desiderio di gloria del principe non alieno dal confrontarsi con i grandi condottieri del passato, in particolare Alessandro; un desiderio che traspare chiaramente nei rilievi evocativi delle operazioni che fanno mostra di sé sulla colonna Traiana a Roma, eretta per ricordare la vittoria, e in quelli del trofeo di Adamklissi, elevato nella Mesia Inferiore. Un effetto delle spedizioni contro Decebalo, piuttosto che un movente, si possono invece ritenere l’acquisizione di un non trascurabile bottino, che non pare comunque sia riuscito a coprire tutte le spese dell’intervento militare, e l’inizio dello sfruttamento delle miniere d’oro della Transilvania che nelle fasi finali del regno di Traiano consentirono un cospicuo aumento della produzione di monete nel prezioso metallo.

Nello stesso anno 106 della presa di Sarmizegetusa e della formazione della provincia di Dacia, all’impero si aggiunse un’altra provincia: l’Arabia Petrea (Transgiordania) costituita dal ex regno dei Nabatei, sottomesso dal legato di Siria Aulo Cornelio Palma. In seguito a ciò una legione venne dislocata a Bostra, mentre Petra, l’antica capitale del regno, assunse il titolo di metropoli: le due città ad ogni modo continuarono a essere come in passato i centri dei traffici carovanieri che si svolgevano attraverso il deserto.

Sul versante dell’azione politica e civile, sin dall’entrata a Roma da imperatore nel 99, Traiano non discostandosi dalla linea di Nerva cercò in primo luogo di risultare gradito al senato, e del suo successo in merito è data testimonianza da Plinio il Giovane nel Panegirico, una versione ampliata della gratiarum actio ("rendimento di grazie") che il senatore di Como pronunziò per la nomina a console suffetto nel 100: nel testo il nuovo principe, innalzato a modello, viene opposto per le sue virtù a Domiziano e grande apprezzamento è mostrato per la sua reverentia nei confronti del massimo consesso. Un aspetto questo che non è neppure sfiorato da un intellettuale greco, Dione di Prusa, nella sua prima orazione Perì basileias ("Sul regno"), pronunziata a Roma dinanzi a Traiano nello stesso anno della gratiarum actio di Plinio. Quasi da portavoce dell’area orientale dell’impero, Dione si sofferma in particolare su Zeus ed Eracle quali figure da imitare da parte del principe nel manifestare philanthropia ("umanità") ed euerghesia ("generosità") nei confronti dei suoi sudditi.

Nella conduzione dell’impero Traiano più di altri suoi predecessori appare essersi servito come consiglieri di valenti giurisperiti – Giavoleno Prisco e Nerazio Prisco ad esempio – preludendo così alla istituzionalizzazione del consilium principis operata da Adriano. Tra i suoi provvedimenti se ne possono ricordare alcuni in favore dell’infanzia abbandonata e le ulteriori esenzioni e riduzioni, rispetto a quelle introdotte da Nerva, sulla tassa di successione (vicesima hereditatum) ammontante al 5 per cento. Pur spagnolo di nascita, il principe mostrò inoltre una particolare attenzione per Roma e per l’Italia. Nell’Urbe si adoperò per assicurare la regolarità dei rifornimenti annonari, e allargò l’area dei Fori affidando ad Apollodoro di Damasco l’edificazione del maestoso Foro a se stesso intitolato e dei retrostanti mercati. Per quanto riguarda l’Italia, invece, oltre a occuparsi con grande cura di strade e ponti, oltre a ingrandire e potenziare i porti di Ostia e di Ancona, oltre a vincolare i candidati al senato a investire nella penisola un terzo dei loro capitali nell’acquisto di terreni, provvide anche a diffondere le Institutiones alimentariae che erano state avviate da Nerva e che ci sono molto bene testimoniate da una tavola bronzea iscritta rinvenuta a Veleia sull’Appennino piacentino. Esse – con un’ottica mirante soprattutto a tenere alti i numeri della popolazione dell’Italia – prevedevano l’elargizione di prestiti dietro garanzia ipotecaria a proprietari terrieri, a un conveniente tasso d’interesse del 5 percento, per provvedere all’assistenza di fanciulli e fanciulle indigenti tramite le rendite riscosse.

Nel valutare l’attività amministrativa di Traiano alcuni hanno teso a vedervi incipienti forme di una visione centralistica, facendo riferimento soprattutto all’invio da parte del principe in vari centri dell’impero di curatores civitatis, in qualità di supervisori delle finanze cittadine. Ma tale misura non va necessariamente, o esclusivamente, intesa come un’imposizione dall’alto: alla sua base si può anche individuare quell’atteggiamento paternalistico, ma non di apertura sociale, rivolto a prendersi cura delle esigenze dei sudditi, che sembra avere caratterizzato non pochi interventi di Traiano. Indicative in tal senso sono alcune delle risposte dell’imperatore alle lettere che Plinio il Giovane gli inviò con richieste di consigli e suggerimenti, mentre era governatore nella provincia di Ponto e Bitinia tra il 110 e il 112; vi si leggono affermazioni come le seguenti: "Tu sai perfettamente che non è con la paura o con il terrore o con le accuse di lesa maestà che io mi sono proposto di ottenere il rispetto per il mio nome" oppure "Costringere delle persone a prendere a prestito contro la loro volontà del danaro che, forse, non potranno essi pure investire, non è conforme allo spirito di giustizia proprio dei nostri tempi".

Plinio il Giovane

Il paternalismo di Traiano

Epistulae, LIV-LV

Sono qui riportate due lettere scambiate tra il governatore di Ponto e Bitinia Plinio il Giovane e Traiano (la 54 e la 55), che insieme a centoventi altre costituiscono il decimo libro dell’epistolario del senatore di Como. Nella seconda lettera si può cogliere un aspetto del paternalismo illuminato dell’imperatore nei confronti dei suoi sudditi.

Caio Plinio all’imperatore Traiano.

Il denaro pubblico, o signore, in grazia della tua oculatezza e del mio impegno in parte è già stato incassato e in parte lo viene ora; temo però che abbia da restare lì inattivo. Infatti le occasioni di acquistare terreni o non esistono o sono rarissime, e non si trovano individui che vogliano prendere a prestito da un’amministrazione pubblica, soprattutto al 12 percento, che è la tariffa corrente tra i privati.

Esamina, dunque, signore, se non ti sembri il caso di ridurre l’interesse e di sollecitare con questo provvedimento dei debitori che offrano sicure garanzie, e, nell’eventualità che neppure così se ne trovino, di distribuire questo capitale tra i decurioni, badando che mirino con intelligenza al vantaggio pubblico. Questa misura, anche se li troverà contrari e renitenti, risulterà loro meno amara se si fisserà un interesse più leggero.

Traiano a Plinio.

Anch’io, mio carissimo Plinio, non riesco a scorgere un altro rimedio, che non sia la riduzione dell’ammontare degli interessi, per collocare più agevolmente il denaro pubblico. La sua entità la determinerai tu stesso in rapporto alla quantità delle richieste. Costringere delle persone a prendere a prestito contro la loro volontà del danaro che, forse, non potranno essi pure investire, non è conforme allo spirito di giustizia proprio dei nostri tempi.

Plinio il Giovane, Epistulae, trad. it. F. Trisoglio, Torino, Einaudi, 1973

Come i primi anni di regno furono occupati dalle campagne daciche, gli ultimi videro Traiano, sempre desideroso di gloria, impegnato sul fronte orientale dell’impero a contrastare la potenza partica. Giunto ad Antiochia agli inizi del 114, fermando le mire del re Osroe s’impadronì dell’Armenia e, traversato l’Eufrate, nel 115 intraprese una spedizione contro il cuore dello stesso stato partico conquistandone la capitale Ctesifonte e giungendo sino al golfo Persico. Furono così create tre nuove province: l’Armenia, la Mesopotamia, l’Assiria, ma le sommosse scoppiate nei territori conquistati e la rivolta dei Giudei a Cipro, in Egitto e a Cirene, propagatasi in Mesopotamia, convinsero Traiano ad abbandonare la sua grandiosa impresa. Nel corso del viaggio di ritorno a Roma nel 117 egli morì a Selino, in Cilicia, sulla costa meridionale dell’Asia Minore, e non avendo figli lasciò come erede al trono Publio Elio Adriano, anche lui nativo di Italica, suo lontano cugino e stretto collaboratore, in quel momento governatore di Siria. Più che i legami di parentela e le capacità di Adriano, per la sua scelta dovette però contare l’intervento di Plotina, la moglie di Traiano, che ne aveva grande considerazione e gli aveva anche fatto sposare Vibia Sabina, una pronipote dell’imperatore.

Adriano il principe viaggiatore

La fortuna goduta ai nostri giorni dall’imperatore Adriano – oggetto oltre che di studi e ricerche, di mostre e di vagheggiamenti in quanto uomo dalla sensibilità sottilmente moderna – appare principalmente dovuta al romanzo di Marguerite Yourcenar Mémoires d’Hadrien del 1951, che è stato tradotto in numerosissime lingue e ha conosciuto un grande successo di pubblico. A scanso di equivoci, non va però dimenticato che l’Adriano dell’opera, nonostante l’apparato di fonti riportato in appendice, è una grande costruzione letteraria in cui l’autrice proietta molti dei suoi pensieri, piuttosto che il ritratto di un imperatore romano della prima metà del II secolo. Non è dunque un modello da seguire in questo breve profilo.

Dopo una lunga carriera che l’aveva visto impegnato con incarichi civili e militari in molte province sia dell’Oriente sia dell’Occidente, Adriano – come s’è appena detto – al momento della morte di Traiano era governatore di Siria: qui venne acclamato imperatore dalle legioni, alle quali si accodò il senato. Ma il nuovo principe non lasciò subito l’area orientale per raggiungere Roma: acquisita molto probabilmente la consapevolezza della difficoltà di governare province così complesse dal punto di vista etnico e culturale come quelle appena create da Traiano, egli decise di abbandonarle, mostrando fin dall’inizio una visione dell’impero non espansionistica, diversa da quella del suo predecessore. E abbandonò pure alcuni territori al di là del Danubio, mentre generali da lui inviati provvedevano a sedare sommosse in Mauretania e in Britannia. A Roma, invece, la situazione era sotto il controllo dal prefetto del pretorio Acilio Attiano, che con Plotina aveva riportato il corpo di Traiano dalla Cilicia a Roma: in questi mesi quattro ex consoli, molto vicini al defunto imperatore, furono messi a morte con l’accusa di aver ordito un complotto. Da ciò derivò una sorda ostilità del senato nei confronti di Adriano, ritenuto responsabile delle esecuzioni, un’ostilità che non si placò mai del tutto nonostante i tentativi del nuovo principe di far ricadere la colpa su Attiano e il favore mostrato al supremo consesso dopo la sua entrata a Roma nell’estate del 118.

Decisamente meno bramoso di gloria militare di quanto lo fosse Traiano, Adriano dedicò gran parte del suo impegno all’organizzazione dell’impero. Accrebbe ulteriormente, rispetto a quanto avevano fatto i suoi immediati predecessori, gli spazi riservati ai rappresentanti dell’ordine equestre nell’amministrazione dello stato e ne fissò in modo preciso i ruoli sulla base delle retribuzioni (sexagenarii, 60 mila sesterzi; centenarii, 100 mila sesterzi; ducenarii, 200 mila sesterzi). Incaricò inoltre il giurista Salvio Giuliano di stendere una versione rivista dell’editto giurisdizionale del pretore che tenesse presenti tutte le elaborazioni precedenti, una versione che venne ratificata da un senato consulto. Acquisendo così una forma fissa, l’editto non poteva più essere mutato dai singoli pretori, e meglio veniva ad adattarsi alle esigenze e alle necessità dell’epoca imperiale. Ancora ad Adriano si deve forse un primo passo lungo la strada della provincializzazione dell’Italia: al fine di rendere più rapida l’amministrazione della giustizia civile, sottraendo la penisola ai magistrati della città di Roma, egli la divise in quattro distretti affidati ciascuno a un ex console. E sempre il nostro principe con l’intento di favorire l’estensione delle colture in Africa, a scapito del deserto, concesse il possesso perpetuo, trasmissibile ai figli, a quei contadini che nei latifondi imperiali dell’area si fossero assunti l’onere di intraprendere la coltivazione di terreni abbandonati o da dissodare. In merito infine ai consueti temi del diritto privato – matrimonio, tutela, testamenti, proprietà – negli interventi di Adriano risultano accentuate le tendenze paternalistiche che erano già state proprie di Traiano e di altri suoi predecessori. Esse però non appaiono riconducibili all’influenza della lezione del pensiero stoico, come a volte si sostiene, e rappresentano piuttosto ragionevoli correttivi – per evitare contrasti e conflitti sempre da evitare – a una situazione sociale che si andava sempre più irrigidendo nella distinzione tra honestiores (senatori, cavalieri, decurioni, veterani) e humiliores (la restante popolazione), accompagnata da ampi privilegi per i primi.

A contraddistinguere la figura di Adriano sono principalmente i viaggi che – con un’intensità e una capillarità senza precedenti – egli compì attraverso tutto l’impero e che tra il 121 e il 134 lo tennero quasi sempre lontano da Roma. Tali viaggi e le lunghe permanenze specie nelle regioni del mondo greco consentirono al principe di conoscere di prima mano la condizione delle numerosissime città che costituivano l’ossatura dello stato, di impadronirsi delle problematiche più rilevanti che le riguardavano e di sviluppare risposte sia a livello locale sia a livello generale. Ma i viaggi di Adriano non furono solo, per così dire, un instrumentum regni, essi permisero anche all’imperatore di dare spazio alla sua curiositas e ai suoi interessi per la letteratura, per l’arte e per la religione che lo indussero a seguire specifici percorsi. Nella biografia dedicata ad Adriano dalla Storia Augusta si legge, ad esempio, che durante una visita in Sicilia egli effettuò l’ascesa del monte Etna per ammirare da quell’altezza lo spettacolo dell’alba, proprio come avrebbero fatto alcuni dei primi viaggiatori settecenteschi. L’imperatore, comunque, nonostante questa e qualche altra manifestazione di una sensibilità simile a quella dei giovani e degli aristocratici inglesi impegnati nel Grand Tour non è giudicabile come un uomo dai tratti moderni: egli è profondamente inserito nella società e nella cultura della sua età che, in modo molto appropriato, è a volte chiamata della "seconda sofistica" – dal nome di un movimento letterario e politico fiorito nel II e nella prima parte del III secolo – e si presenta caratterizzata da un gusto artistico raffinato e da una forma quasi di culto per l’interiorità.

Il primo viaggio di Adriano ebbe dunque inizio nel 121, e la sua prima fase fu relativa alle province occidentali culminando nella visita in Britannia del 122. Qui l’imperatore, facendo retrocedere la linea di confine, diede avvio alla costruzione di un’imponente opera di fortificazione, il vallo di Adriano, che per larghi tratti si conserva ancor oggi, destinato a difendere l’istmo Tyne-Solway nel nord dell’isola e – come scrive la Storia Augusta – "a separare i Romani e i Barbari". In seguito, dopo aver attraversato la Gallia meridionale e la Spagna, passando per la Cirenaica, Adriano si diresse verso l’Eufrate per incontravi il re dei Parti e confermare con lui la pace. La tappa successiva fu l’Asia Minore, che lo trattenne a lungo con i suoi grandi centri dalle vaste agorai e dalle interminabili strade colonnate, e finalmente nell’autunno del 124 sbarcò al Pireo. Ad Atene, dove aveva già ricoperto la carica di arconte nel 112, poté dare sfogo alla sua grande passione per la cultura e per la civiltà greca pensando a monumenti da edificare e a un piano di rinnovamento urbanistico. Fu inoltre iniziato ai misteri eleusini, come pure si interessò ai culti di altre città della Grecia.

Ma al filellenismo di Adriano non è possibile attribuire, come pure qualcuno tende ancora a fare, l’entrata in senato in numeri sempre più significativi dei notabili del mondo greco e la "rinascita" dello stesso mondo greco, fenomeni che si datano già a qualche decennio prima, alla fine cioè del I secolo, e sono in primo luogo una conseguenza del lungo periodo di pace che caratterizzò in specie l’Asia Minore dopo il frastornatissimo I secolo a.C.

Rientrato a Roma – passando per la Sicilia – nell’estate del 125, il principe vi restò per tre anni intento all’amministrazione dello stato, e trascorrendo molto del suo tempo nella villa di Tivoli che volle fosse realizzata "a immagine e somiglianza" dell’impero: vi fece infatti riprodurre nel corso degli anni edifici e scenari, dalla valle di Tempe al Canopo, tipici soprattutto dell’area orientale. La passione per il viaggio riprese però rapidamente possesso di Adriano: nel 128 dopo aver visitato la Mauretania e l’Africa – dove ebbe modo di mostrare le sue conoscenze di arte militare in un discorso tenuto dinanzi alle truppe a Lambesi – e dopo una breve sosta a Roma, ripartì per una lunga visita ad Atene. Dalla Grecia raggiunse Efeso e poi Antiochia in Siria, da dove nella primavera del 130 mosse verso Palmira, Gerasa e Gerusalemme. Qui egli fondò una colonia dandole il nome di Aelia Capitolina, e con un provvedimento difficile da accettare da parte dei Giudei vietò loro la circoncisione. Ancora nel 130 il principe si spostò in Egitto, dove visitò le tombe di Alessandro e di Pompeo, partecipò alle discussioni dei dotti del Museo, si dedicò alla caccia (nel deserto) come ogni monarca che si rispetti, e navigò lungo il Nilo. Ma la permanenza nella terra dei faraoni non fu fortunata perché Antinoo, un giovane originario della Bitinia amato da Adriano nello stile dei Greci, morì affogato nel grande fiume forse non accidentalmente. Il dolore del sovrano fu profondo, e trovò una forma di sollievo solo nella divinizzazione del defunto e nella fondazione della città di Antinoupolis in suo onore. Dall’Egitto Adriano si spostò via mare in Licia nella primavera del 131, mentre trascorse l’inverno del 131-132 nell’amata Atene inaugurandovi il maestoso tempio dedicato a Zeus Olimpio e fondandovi il Panhellenion. Fu questa un’istituzione che raccoglieva città di sicura origine greca con scopi principalmente religiosi e celebrativi, e che dal punto di vista della politica culturale fu la più alta manifestazione del filellenismo di Adriano.

Ben altro clima da quello festoso di Atene l’imperatore trovò invece nel 132 in Palestina, dove i Giudei anche in seguito alle sue "provocazioni" si erano ribellati sotto la guida di Simon Bar Kochba, ottenendo subito significativi successi. Adriano abbandonò presto la zona delle operazioni, affidando il comando a un valido generale, Sesto Giulio Severo, che per assumerlo aveva dovuto lasciare la carica di governatore di Britannia. La rivolta fu repressa con notevoli sforzi solo nel 135; già da un anno però l’imperatore era rientrato a Roma stanco e malato, e aveva eletto a sua residenza favorita la villa di Tivoli.

Gli ultimi anni di Adriano, che come il suo predecessore Traiano non aveva figli, furono occupati dalla ricerca del proprio successore. La scelta cadde inizialmente su Lucio Ceionio Commodo, uno dei consoli del 136, che prese a chiamarsi Lucio Elio Vero, ma morì all’inizio del 138. Dopo di lui Adriano adottò il senatore Tito Aurelio Fulvo Boionio Arrio Antonino imponendogli – in modo simile a quanto aveva fatto Augusto con Tiberio – di adottare a sua volta Lucio, il futuro Lucio Vero, figlio di Elio, e il diciassettenne Marco Annio Vero di famiglia originaria della Spagna, nipote di Faustina Maggiore, la moglie di Antonino. Il ragazzo, particolarmente apprezzato dal vecchio imperatore che affettuosamente lo chiamava Verissimus, avrebbe poi regnato con il nome di Marco Aurelio. Risolto così il problema della successione anche per il regno successivo al suo, Adriano morì nel luglio del 138 a Baia poco dopo aver composto alcuni versi solo all’apparenza scherzosi rivolti alla propria animula vagula blandula, "piccola anima smarrita e soave" com’è nella bella traduzione di Lidia Storoni Mazzolani.

Antonino Pio: anni di pace

Antonino, discendente da una famiglia senatoria originaria di Nemasus (Nîmes) nella Gallia Narbonese, ma ben impiantata in Italia, è stato l’imperatore della dinastia, a cui egli stesso diede il nome, che sedette più a lungo sul trono. Eppure nelle storie dell’impero romano è anche l’imperatore al quale, proporzionalmente, è dedicato il minor numero di pagine, perché nei suoi anni gli eventi dirompenti non sono stati numerosi e anche perché l’atmosfera spirituale del suo regno – che è possibile ricostruire da non poche iscrizioni, specie in lingua greca, e da fonti letterarie coeve, quali l’Elogio a Roma del retore di Smirne Elio Aristide e l’epistolario del retore e senatore di Cirta Marco Cornelio Frontone – non costituisce un soggetto adatto a soddisfare le concrete esigenze di trattati e opere generali. Le atmosfere e le mentalità sono piuttosto evocate in Marius the Epicurean (1885), il romanzo più profondo e al tempo stesso più attendibile dedicato all’impero romano, in cui Walter Pater presenta i decenni di Antonino come la vera fase finale del mondo antico, caratterizzata da "una gaiezza spensierata e realmente pagana".

L’accesso al trono del nuovo principe, alla morte di Adriano, fu accolto con gioia dal senato, che gli attribuì anche l’appellativo di Pius per l’impegno mostrato in favore della divinizzazione del suo padre adottivo, non proprio ben accetto al massimo consesso. Antonino comunque in alcune sue scelte si discostò dalle linee seguite dal predecessore: abolì, ad esempio, i distretti da lui istituiti e affidati a ex consoli per l’amministrazione della giustizia civile in Italia, e soprattutto spostò un centinaio di chilometri a nord del vallo di Adriano il limes della Britannia dopo la riconquista nel 141 dell’area meridionale della Scozia da parte del legato della provincia Lollio Urbico. Questo fu l’unico episodio bellico in senso proprio del regno di Antonino; non mancarono comunque scontri e ribellioni – di cui si venne rapidamente a capo – in Dacia o in Mauretania.

Quanto all’amministrazione dell’impero, pur essendo rimasto sempre di preferenza a Roma, Antonino mostrò la stessa attenzione di Adriano per le richieste dei provinciali; esercitò inoltre un severo controllo sulle spese e preferendo, tra l’altro, restaurare piuttosto che mettere in cantiere grandiosi piani edilizi, alla sua morte lasciò le casse dello stato in una condizione di grande floridezza. Non lesinò i fondi comunque per la celebrazione del nono centenario della fondazione di Roma nel 148, che fu per lui un’occasione per riaffermare il destino dell’Urbe di reggere il mondo.

La successione di Antonino, come s’è visto, era stata già preparata da Adriano che gli aveva imposto di adottare i futuri Lucio Vero e Marco Aurelio. A quest’ultimo per di più Antonino diede in sposa la figlia Faustina Minore nel 145 e due anni dopo, alla nascita del primo figlio maschio, conferì la tribunicia potestas e l’imperium. La scelta fu ulteriormente confermata quando Antonino in punto di morte, nel marzo del 161, fece trasferire dalla propria stanza a quella di Marco Aurelio la statua d’oro della fortuna che era d’uso restasse sempre presso l’imperatore. E insieme alla statua fu trasmesso all’erede un impero all’apparenza in pace e fiorente, ma sui cui confini premevano i barbari e al cui interno covavano i conflitti sociali.

Da Marco Aurelio a Commodo: anni d’angoscia tra guerre e pestilenze

Dopo la scomparsa di Antonino Pio, Marco Aurelio con una decisione senza precedenti, che in futuro sarebbe stata spesso adottata, chiese al senato di nominare imperatore insieme a sé Lucio, figlio di Elio Vero, l’altro successore designato da Adriano; e per cementare il reciproco legame diede come fidanzata al collega la figlia Annia Aurelia Galeria Lucilla, che sposò il suo promesso a Efeso nel 164 nel corso della campagna partica.

In merito alla ragione che indusse Marco Aurelio a dividere il potere con Lucio Vero non è possibile dare una risposta, ed è solo un’ipotesi suggestiva, in assenza di dati certi, quella che l’individua nel desiderio del primo di dedicarsi con più agio alla sua passione per la filosofia. Marco Aurelio, comunque, distinguendosi da Lucio Vero solo per il fatto di essere l’unico dei due a ricoprire il pontificato massimo, fu nella sostanza il vero responsabile del governo, soprattutto negli anni in cui il secondo Augusto rimase assente da Roma per impegni militari.

Rispetto alla quasi totale assenza di conflitti bellici del regno di Antonino Pio, quello dei suoi due successori fu caratterizzato fin dall’inizio dalle attività militari. Già nel 161, guidati dal loro re Vologese III, i Parti s’impadronirono dell’Armenia, ed entrarono nella provincia di Siria. In risposta l’anno dopo da Roma fu inviata una spedizione al comando di Lucio Vero, accompagnato da validi ed esperti generali ai quali toccò il carico della guerra. Così, mentre l’imperatore faceva vita di corte ad Antiochia, Stazio Prisco nel 163 riprese l’Armenia dalle mani dei Parti, e Avidio Cassio li sconfisse in Mesopotamia e conquistò Ctesifonte saccheggiando poi Seleucia sul Tigri nel 165. L’anno successivo vide alcune vittorie romane in Media, ma Lucio Vero dopo il lungo periodo di lontananza e in seguito alle gravi minacce di alcune popolazioni germaniche ai confini nordorientali concluse rapidamente la pace con il nemico e ritornò a Roma. Il trionfo fu celebrato dai due imperatori nello stesso 166, e Marco Aurelio in quest’occasione nominò Cesari i suoi due figli Commodo e Annio Vero.

Il più duraturo, e funesto, lascito della campagna partica fu la peste – così solitamente chiamata, ma molto probabilmente una forma di vaiolo – che i soldati di Avidio Cassio contrassero a Seleucia e che, secondo uno schema ben noto per il medioevo e l’età moderna, al loro rientro diffusero in Italia e nelle province. Testimoniato da fonti molteplici, il male infierì intermittentemente per circa venticinque anni, e con la forte crisi demografica e le carestie che determinò fu all’origine di non pochi problemi all’amministrazione e all’economia dell’impero. Collegate alla campagna partica appaiono anche le minacce esterne più su menzionate, giacché l’invio dal confine danubiano-renano di tre legioni in Oriente aveva notevolmente indebolito quell’area, aprendo la via alle invasioni della Pannonia e della Dacia. A fronte di ciò negli anni tra il 166 e il 168 Marco Aurelio arruolò nuove legioni, e nella primavera del 168 insieme a Lucio Vero raggiunse la Pannonia per una visita di ricognizione, mentre la peste cominciava a dilagare fra le truppe. Agli inizi del 169, durante il viaggio di ritorno, Lucio Vero morì per un attacco apoplettico ad Altino nel Veneto, ma l’accompagnamento della salma a Roma, gli impegni per la divinizzazione del defunto e altre disgrazie familiari non impedirono a Marco Aurelio di riprendere la strada del fronte e di essere a Sirmium, nel nord dell’attuale Serbia, nell’autunno dello stesso anno.

Nel 170 l’imperatore lanciò un’offensiva oltre il Danubio, che si risolse in una sconfitta; e i Quadi e i Marcomanni dai loro insediamenti al di là del fiume nelle attuali Boemia e Slovacchia entrarono nel Norico e nella Rezia e giunsero ad assediare Aquileia pochissimo distante dal mare Adriatico, centro nevralgico per i collegamenti con il limes. L’Italia, comunque, fu presto liberata con un’azione decisa dei generali di Marco Aurelio, e i Marcomanni vennero duramente sconfitti nel momento in cui si apprestavano a passare il Danubio per tornare nelle loro terre; nel frattempo i Costoboci, attraversati i Carpazi a nord dei quali risiedevano, si erano messi in movimento e avevano raggiunto la Grecia dove arrecarono danni significativi al tempio di Eleusi. Alla gravità della situazione, ulteriormente peggiorata dal diffondersi della peste, Marco Aurelio – che guidava le operazioni da Carnuntum nell’Austria nordorientale – cercò in un primo tempo di ovviare fomentando le divisioni tra i barbari e attraendoli dalla propria parte con proposte allettanti quali l’arruolamento nelle truppe ausiliarie e addirittura l’insediamento nel territorio dell’impero. Nel 172 però il principe decise di passare all’attacco: ai Marcomanni inflisse una dura sconfitta; prevalse anche sui Quadi, che chiesero la pace nel 173, e l’anno successivo, spostatosi a Sirmium, lanciò l’offensiva contro la popolazione sarmatica degli Iazigi. Dopo i primi successi, l’arrivo nel 175 della notizia che Avidio Cassio, il vincitore dei Parti che aveva un comando superiore sulle province orientali, si era fatto proclamare imperatore dalle legioni di Siria lo spinse a fermare l’azione e a muovere verso est. Con l’uccisione di Cassio da parte di un centurione la ribellione si esaurì prima dell’arrivo di Marco Aurelio, che non abbandonò però il suo piano e, riprendendo in qualche modo la tradizione adrianea del viaggio imperiale, visitò l’Asia Minore, la Siria e l’Egitto, non facendosi bloccare neppure dalla morte della moglie Faustina che l’accompagnava. Concluso il giro ad Atene e rientrato a Roma, nel dicembre del 176 Marco Aurelio celebrò un grandioso trionfo e agli inizi del 177 si associò come Augusto il figlio Commodo. Nel 178 riprese la strada del nord con l’idea di annettere all’impero i territori dei Marcomanni e dei Sarmati, ma la morte, molto probabilmente causata dalla peste, lo colse a Vindobona (Vienna) il 17 marzo del 180.

Le guerre e la pestilenza che appaiono caratterizzare il regno di Marco Aurelio, e il senso d’incertezza da esse creato che serpeggia negli scritti di alcuni degli intellettuali più significativi del tempo, hanno indotto Eric Dodds in un famoso libro – Pagan and Christian in an age of anxiety (1965) – a ritenere il ventennio tra il 160 e il 180 la fase iniziale di quell’age of anxiety (epoca di angoscia) che a suo avviso si sarebbe protratta sino all’ascesa al trono di Costantino. Al di fuori, comunque, delle sfere religiosa e psicologica, e del netto accentuarsi dell’attenzione per la dimensione interiore che aveva preso a manifestarsi intorno al 100, il regno di Marco Aurelio, con il suo stile di governo tra il dispotico e il paternalistico, risulta nel complesso ben inserito nella scia di quelli dei suoi predecessori. Riallacciandosi all’operato di Adriano, Marco Aurelio differenziò e articolò ulteriormente le carriere e i ruoli dei funzionari di rango equestre, aggiungendo tra l’altro una quarta categoria: quella del trecenarius (remunerato con 300 mila sesterzi) riservata all’a rationibus, il responsabile di tutta l’amministrazione finanziaria dell’impero. Reintrodusse inoltre la ripartizione in distretti dell’Italia voluta da Adriano e finalizzata all’amministrazione della giustizia civile, ripartizione che, come si ricorderà, era stata abolita da Antonino Pio.

Nei confronti dei Cristiani durante il suo regno si usò grande severità: paradigmatico il caso dei martiri di Lione per i quali nel 177 venne applicato con rigore il principio che coloro che avessero perseverato nella professione della propria fede fossero immediatamente messi a morte. In parallelo Marco Aurelio fu molto attento a mantenere salde le barriere sociali tradizionali, vietando per esempio il matrimonio dei senatori con liberte e donne incriminate. Numerose infine in quegli anni furono le sommosse soprattutto di contadini e pastori, segno di una situazione economica in via di deterioramento. Per reprimerle a volte scesero in campo anche le legioni (si pensi all’intervento di Avidio Cassio contro i Bucoli del delta del Nilo): segni come questo, o come le carestie e la pestilenza, non bastano però a fare individuare nel regno di Marco Aurelio una forte linea di frattura nella storia dell’impero romano. Nonostante le falle nel funzionamento dell’economia, le strutture sociali e amministrative reggevano ancora.

Ma, molto più che per la sua azione di governo e per le sue imprese militari, Marco Aurelio è oggi noto come l’imperatore filosofo. Si era accostato allo stoicismo fin da giovane sotto l’influenza del senatore e due volte console Giunio Rustico – nipote di quell’Aruleno Rustico, stoico anche lui, mandato a morte da Domiziano –, e ne aveva poi approfondito la conoscenza attraverso la lettura degli scritti di Epitteto; la sua fama di filosofo, comunque, è soprattutto legata a un’opera in greco, l’A se stesso, solitamente intitolata Meditazioni o Pensieri, che almeno in parte compose nel corso delle guerre dell’ultimo decennio della sua vita.

Marco Aurelio

Marco Aurelio il principe filosofo

A se stesso

Per fronteggiare problemi e pericoli di ogni sorta in alcuni capitoli del suo A se stesso Marco Aurelio, ben conscio della vanità di tutte le cose, suggerisce di ritirarsi nella propria interiorità, di cercare la forza dentro di sé. Se si mantiene la mente libera dalle passioni si vive come in un’acropoli imprendibile.

Si cercano un luogo di ritiro, campagne, lidi marini e monti; e anche tu sei solito desiderare fortemente un simile isolamento. Ma tutto questo è proprio di chi non ha la minima istruzione filosofica, visto che è possibile, in qualunque momento lo desideri, ritirarti in te stesso; perché un uomo non può ritirarsi in un luogo più quieto o indisturbato della propria anima, soprattutto chi ha, dentro, princìpi tali che gli basta affondarvi lo sguardo per raggiungere subito il pieno benessere: e per benessere non intendo altro che il giusto ordine interiore.

Pensa continuamente quanti medici sono morti, dopo aver tante volte aggrottato le sopracciglia sui loro pazienti; quanti astrologi, dopo aver predetto la morte di altri con l’aria di emettere un’importante previsione; quanti filosofi, dopo mille estenuanti dispute sulla morte o sull’immortalità; quanti eroi, dopo aver ucciso tanti uomini; quanti tiranni, dopo aver esercitato il potere di vita e di morte con terribile superbia, quasi fossero immortali; e quante intere città sono, per così dire, morte: Elice, Pompei, Ercolano e innumerevoli altre. Passa in rassegna anche tutti quelli che conosci, uno dopo l’altro: questo ha seppellito quello, poi è stato disteso sul letto di morte, quest’altro ha fatto lo stesso con quell’altro, e così via: e tutto in breve tempo. Insomma, guarda sempre la realtà umana come effimera e vile – ieri un po’ di muco, domani mummia o cenere. Questo infinitesimale frammento di tempo, quindi, trascorrilo secondo natura e concludilo in serenità, come l’oliva che, ormai matura, cadesse lodando la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata.

Ricorda che il principio dirigente diviene invincibile quando, raccoltosi in sé, è pago di non fare ciò che non vuole, anche se non ha ragione di opporsi. Che dire poi, quando giudica di qualcosa con scrupoloso raziocinio? Per questo la mente libera da passioni è un’acropoli: l’uomo, infatti, non ha nulla di più saldo in cui possa rifugiarsi per divenire per sempre imprendibile. Ora, chi non ha visto questo baluardo è un ignorante; chi lo ha visto e non vi si rifugia è uno sventurato.

Marco Aurelio, A se stesso, a cura di E. V. Maltese, Milano, Garzanti, 1993

Si tratta di un originalissimo crogiolo di riflessioni, di massime di vita, di precetti morali, di ricordi, in cui sono quasi del tutto assenti le discussioni teoriche e si affrontano temi che vanno dalla necessità di effettuare in qualsivoglia circostanza la scelta moralmente giusta, all’obbligo interiore di rispettare gli impegni, all’importanza della dedizione al bene comune, all’unità del genere umano e alla provvidenza degli dèi. Sarebbe però vano leggere l’opera di Marco Aurelio per cercarne i riflessi nella sua prassi politica: tali riflessi non ci sono, e non a causa della durezza dei tempi – come qualcuno ha sostenuto – che li avrebbe impediti, ma perché l’A se stesso, con tutto il suo insistere sul senso del dovere e di responsabilità, parla del suo autore in quanto uomo e non in quanto sovrano. Colpisce nell’opera – per il suo provenire da un imperatore nel pieno dei suoi poteri – la vena melanconica, e si potrebbe dire di rassegnazione e pessimismo; ad ogni modo per fronteggiare problemi e difficoltà di ogni sorta, all’autore dell’A se stesso non manca la soluzione: ritirarsi nella propria interiorità, cercare la forza dentro di sé. Come scrive in un pensiero contenuto nell’ottavo libro, quando il nostro spirito si raccoglie in sé diviene invincibile, e nessuno può costringerlo ad agire contro la propria volontà. La mente libera da passioni si trasforma allora per l’uomo in un’acropoli saldissima in cui rifugiarsi, imprendibile da parte di chiunque. L’unico luogo sicuro per Marco Aurelio, nonostante le guardie alle porte del palazzo e le legioni dislocate lungo i confini dell’impero.

Con la successione di Commodo al padre Marco Aurelio nel 180 fu rotta la tradizione inaugurata quasi un secolo prima da Nerva – e favorita dal fatto che nessun imperatore da Traiano fino ad Antonino Pio aveva avuto figli maschi in grado di prenderne posto – che l’erede al trono, per antonomasia il migliore, fosse scelto con il procedimento dell’adozione. Questo cambiamento non giovò politicamente al diciannovenne Commodo: il senato, infatti, non l’accettò di buon grado e fin dall’inizio fu ostile al giovane principe, che da parte sua non fece mai nulla per ingraziarsi il supremo consesso, ne mandò anzi a morte numerosi componenti.

Privo di esperienza, e di gran lunga meno propenso del padre alle attività belliche, Commodo come sua prima decisione prese quella di siglare la pace con le popolazioni barbariche fino ad allora combattute da Roma lungo il confine danubiano, rinunciando anche ai territori di recente conquistati. Durante il suo regno, del resto, a parte episodi di scarsa importanza in Mauretania e alla frontiera nordorientale, ci fu un solo evento bellico degno di questo nome che nel 184, in Britannia, vide la vittoria delle truppe romane dopo che un gruppo cospicuo di barbari aveva fatto irruzione attraverso il vallo.

Identico a quello per la guerra fu il disinteresse di Commodo per l’amministrazione dell’impero, un disinteresse che non trova confronti nella serie di principi finora esaminata, e che rappresenta l’elemento per cui il figlio di Marco Aurelio si differenzia maggiormente dai suoi predecessori, inclusi Nerone e soprattutto Domiziano. Commodo per svolgere i compiti di governo si affidò inizialmente a un uomo che era stato vicino a suo padre, il prefetto del pretorio Taruttieno Paterno, ma in seguito a una congiura in cui fu coinvolta anche sua sorella Lucilla, la ex moglie di Lucio Vero, lo allontanò e lo mandò poi a morte insieme ad altri illustri personaggi. Il posto di Paterno fu preso da Tigidio Perenne, anch’egli prefetto del pretorio, che resse le sorti dello stato tra il 182 e il 185 arricchendosi a dismisura, ma scontentando le truppe di cui, con il placet di Commodo, cadde vittima. A subentrare nelle grazie dell’imperatore fu il suo cubicularius (letteralmente valet de chambre), il liberto Marco Aurelio Cleandro, che giunse alla prefettura del pretorio e fu all’origine di scelte – relative soprattutto all’attribuzione delle cariche – in netto contrasto con le procedure istituzionali tradizionali. Dopo la caduta di Cleandro, accusato dal popolo di Roma in rivolta di essere il responsabile della carestia che allora attanagliava la città, la guida degli affari dello stato nel 190 passò a Marcia, concubina molto ascoltata da Commodo, al cubicularius Ecletto e insieme a loro, a partire dal 191, al prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto.

Il comportamento dei tre nell’uso del potere non si discostò da quello dei loro predecessori, va comunque sottolineato che, nonostante il disordine istituzionale e gli inasprimenti fiscali che caratterizzarono il regno di Commodo, al suo riguardo non si può parlare di collasso e neppure forse di crisi dello stato: due secoli di regime imperiale avevano dato vita a una struttura solida, non facilmente scalfibile, fondata sull’interazione tra il centro e le province, che nella buona amministrazione delle seconde trovava spesso un correttivo agli eccessi e alle magagne del primo. Questo accadde nel dodicennio commodiano che vide impegnati nel governo provinciale servitori dello stato di alto livello come Elvio Pertinace e Settimio Severo, entrambi futuri imperatori.

Disinteressato dunque alle attività militari e amministrative, forse per reazione alla serietà e all’impegno del padre, dal quale volle anche distinguersi mutando nel 191 la sua formula onomastica, Commodo preferiva i piaceri della vita urbana e l’amore della folla alla quale fu sempre largo di donativi. Come ci informano le fonti, che ne tracciano un profilo tutto ombre, la grande passione del principe, specie nei suoi ultimi anni, fu quella di esibirsi nell’arena avidissimo di acclamazioni, come è presentato nel film Gladiator di Ridley Scott. Diversamente da Nerone che in ossequio al suo gusto "alla greca" voleva avvicinare i suoi concittadini agli spettacoli teatrali e musicali, Commodo voleva vedere scorrere il sangue degli animali e degli uomini. Così che tra il popolo era diffusa la voce, riportata dalla Storia Augusta, che egli non fosse nato dal meditabondo Marco Aurelio, ma da un adulterio commesso dalla madre Faustina Minore con un gladiatore di cui si era pazzamente innamorata.

Ancora nell’ultimo periodo di regno il principe si diede ad affermare la propria natura divina facendo ricorso ai culti più vari da quello di Mitra a quelli di Iside e Serapide, e soprattutto identificandosi con Ercole sotto le cui sembianze veniva sovente raffigurato. Proclamò inoltre l’avvento di una nuova età dell’oro – Saeculum aureum Commodianum – imponendo il proprio nome a numerose istituzioni e persino a Roma, che divenne Colonia Lucia Aurelia Nova Commodiana. A un tale comportamento a dir poco stravagante, e intollerabile da parte del senato, pose fine una congiura ordita dagli ultimi favoriti di Commodo, Marcia, Ecletto e il prefetto del pretorio Emilio Leto, a cui forse si unirono alcuni senatori. All’uccisione di Commodo il 31 dicembre 192, fu subito chiamato a succedergli l’anziano senatore Elvio Pertinace, valente uomo d’armi e rigoroso amministratore. Dopo appena tre mesi di governo egli fu però eliminato dai pretoriani che reclamavano donativi sempre più cospicui. Un’epoca di ferro – come ha scritto Cassio Dione – era cominciata con Commodo, ma l’impero nelle forme che gli aveva dato Augusto, e pur con alcuni significativi mutamenti, sarebbe sopravvissuto ancora per più di un secolo.

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