L'Età dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. Fisica e chimica esatte

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: l'avvento delle scienze della Natura 1770-1830. Fisica e chimica esatte

Theodore S. Feldman
Frederic L. Holmes
Marco Beretta

Fisica e chimica esatte

Misure premoderne e strumenti

di Theodore S. Feldman

Agli inizi dell'Età moderna si usava distinguere fra gli strumenti di misura 'matematici' e quelli 'filosofici'. I primi erano adoperati nelle discipline che allora si consideravano appartenenti alla matematica, come, per esempio, la navigazione e la cartografia, l'ingegneria civile e militare, l'astronomia e la topografia. Già prima del 1770 tali strumenti avevano raggiunto una precisione considerevole, in parte grazie alla loro importanza pratica e in parte perché potevano contare su una tradizione matematica risalente all'Antichità.

La riforma degli strumenti astronomici ebbe inizio con Tycho Brahe, astronomo del tardo XVI secolo. Rispetto agli strumenti usati da Copernico circa mezzo secolo prima, che erano affetti da errori di allineamento dell'ordine di 1/8 di grado (circa 8′ di arco), quelli di Brahe avevano un'accuratezza migliore. Intorno al 1775 gli strumenti astronomici e nautici di un bravo artigiano come John Bird (1709-1776) raggiungevano accuratezze migliori di 10″ di arco. Anche le tecniche osservative avevano fatto progressi. Brahe ripeteva più volte la stessa osservazione con vari strumenti e poi faceva la media dei risultati ottenuti; con questo sistema la precisione degli strumenti costituiva il limite alla precisione dell'osservazione. Gli scienziati della generazione di Bird impararono a prendere precauzioni contro gli effetti sottili dovuti alla temperatura, alle minuscole deformazioni degli strumenti e ad altri fattori, e a realizzare una rete di controlli incrociati sia nella fabbricazione degli strumenti, sia nelle osservazioni e ciò li rese capaci di aumentare l'accuratezza delle misure. Tuttavia, gli strumenti come quelli di Bird erano rari e costosi, in quanto richiedevano settimane di lavoro agli artigiani più competenti e non avevano rilevanza da un punto di vista commerciale; in sostanza, restavano dei manufatti premoderni.

Gli 'strumenti filosofici', così chiamati perché erano di supporto alla filosofia naturale, principalmente per provocare e osservare fenomeni ‒ vale a dire per esperimenti di vario tipo ‒, non avevano raggiunto il grado di precisione degli strumenti matematici. A questa situazione contribuivano diversi elementi: il principale era il fatto che tali strumenti non avevano l'importanza pratica di quelli matematici. Negli anni Trenta-Quaranta del XVIII sec. il commercio degli strumenti filosofici era solo agli inizi ed era destinato soprattutto all'istruzione universitaria e alle corti principesche o alle case borghesi in cui si tenevano spettacoli d'intrattenimento istruttivo. Infatti, la filosofia naturale, come implica il nome stesso, era una disciplina filosofica, descrittiva e letteraria, propria dei corsi universitari generali e dell'istruzione domestica. Nella sua portata enciclopedica ‒ abbracciava la fisica, la biologia, la medicina e la psicologia ‒ essa era ancora una disciplina premoderna, e anche quando si effettuavano misurazioni, l'obiettivo non era quello di ottenere misure di precisione. Prima della fine degli anni Sessanta del XVIII sec., coloro che lavoravano in questo campo all'interno delle università non erano tenuti a svolgere attività di ricerca. Finché non si sviluppò un commercio degli strumenti di misura utili alla filosofia naturale, e finché le misure ‒ in particolare quelle di precisione ‒ non divennero indispensabili per questa scienza, gli artigiani non ebbero molti stimoli a costruire strumenti filosofici di precisione.

Alcuni campi della filosofia naturale ‒ come la termologia, la pneumatica, l'elettricità e il magnetismo ‒ erano molto più giovani dei vari settori della matematica; in effetti, essi erano in gran parte un prodotto della Rivoluzione scientifica. In un certo senso, rispetto al problema delle misure di precisione costituivano una sfida ancor più grande, dato che raramente i fenomeni oggetto delle speculazioni della filosofia naturale mostravano regolarità semplici, come quelle osservate nei moti dei corpi celesti o nel funzionamento delle macchine semplici. Prima della metà del XVIII sec., anche in questi campi mancava la comprensione quantitativa necessaria per effettuare misure significative. Piuttosto, ciò che spesso appariva come una misura non forniva la vera quantità. La pratica, piuttosto comune nel primo Settecento, di tracciare sulle scale dei termometri indicazioni del tipo "molto caldo", oppure "calore del sangue", suggerisce che la lettura numerica fornita non fosse realmente quantitativa. Per esempio, Daniel Gabriel Fahrenheit (1686-1736) fece corrispondere al valore di 100° la temperatura del sangue, mentre Anders Celsius (1701-1744) adottò per lo stesso valore la temperatura dell'acqua in ebollizione. La stessa parola 'temperatura', presa in prestito dall'antica teoria medica, stava a indicare non una misura quantitativa del calore, ma una proprietà generale o 'temperamento' di un oggetto.

In maniera analoga, anche il concetto di 'pressione dell'aria' spesso presentava aspetti premoderni. Johann Heinrich Lambert (1728-1777), membro della Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften (Accademia Reale Prussiana delle Scienze) di Berlino, seguendo un modo di ragionare quasi di tipo medievale si sforzò d'introdurre la distinzione fra la "quantità" (Grösse) di pressione, determinata dal numero di particelle di aria in un dato spazio, e la sua "intensità" (Stärke), determinata dalla "facoltà di espandersi" propria di ciascuna particella. Fino a quando i filosofi naturali non ebbero sviluppato una definizione astratta e matematica della relazione esistente fra pressione e calore in un gas, la misura della pressione rimase incerta.

Un discorso analogo vale per l'igrometria. I primi igrometri organici riproducevano la risposta umana o animale all'umidità dell'atmosfera e non erano in grado né pretendevano di misurare la quantità di acqua nell'aria, e tanto meno il grado percentuale di saturazione. Lambert fu uno dei primi a tentare di misurare la quantità di acqua presente nell'aria. Ma quali punti di riferimento avrebbe dovuto scegliere? Come fosse possibile ottenere la "secchezza estrema" da un lato e la "saturazione" dall'altro, era una questione che rendeva perplessi molti filosofi naturali di fine Settecento. Fin quando non fu scoperta, sul finire del secolo, la fisica del vapore acqueo (dedotta sia dalla risposta umana e animale all'umidità sia dalla presenza di acqua nell'atmosfera), i filosofi naturali non sapevano ancora che cosa osservare per misurare l'umidità. Lo studio dei fenomeni elettrici e magnetici costituiva una sfida ancora più impegnativa; prima di poter fornire una soddisfacente interpretazione quantitativa ‒ in termini di quantità di fluido elettrico o magnetico e di forza elettrica o magnetica ‒ delle letture fatte su elettrometri e bussole magnetiche, fu necessario capire profondamente le relazioni esistenti fra le quantità infinitesime di carica elettrica e gli effetti macroscopici delle forze elettrica e magnetica.

La situazione della filosofia naturale rispecchiava quella della cultura in cui era immersa. Nel primo periodo moderno le misure possedevano una connotazione antropomorfica, nel senso che erano un riflesso delle condizioni di vita degli esseri umani. In un'epoca in cui il lavoro, i governi e la vita civile erano fortemente localizzati, anche le misure erano locali; così, per esempio, la larghezza dei telai era misurata in unità di lunghezza dette 'aune' (con valore tra 1,2 e 0,7 m ca., a seconda delle varie regioni europee); un cilindro conservato negli uffici del municipio locale stabiliva l'unità di volume, e l'unità che misurava di quanto il minatore stesse avanzando variava a seconda della difficoltà offerta dalla parete su cui egli lavorava. Ogni comunità locale aveva il proprio 'pollice' e il proprio 'piede', e analogamente accadeva per le unità di altre grandezze. Nel contesto economico, come nella filosofia naturale, le misure incorporavano l'elemento umano. Ancora una volta, si trattava di una situazione tipicamente premoderna.

Nella lingua francese, per esempio, le stesse parole exact (esatto), exactitude (esattezza) o très exact (esattissimo) non si riferivano alla precisione delle misure, poiché i filosofi naturali le usavano in maniera generica ed enfatica per indicare 'certezza' (di valore o di altro) o 'estrema attenzione'. Charles-Louis de Montesquieu (1689-1755) affermava che alla sua epoca sulla Terra viveva forse neppure un decimo delle persone che vi abitavano nei tempi antichi, senza presentare però alcun dato su cui basare i suoi calcoli, e tuttavia appellandosi alla loro "esattezza". Questi termini si riferivano al grado di convinzione soggettiva piuttosto che alla certificazione dell'astratta precisione di misure quantitative.

La condizione degli strumenti filosofici può essere efficacemente illustrata attraverso alcuni esempi. Il popolarissimo termometro di Réaumur usava come sostanza termometrica l'alcol ‒ un liquido di cui i contemporanei non avevano alcuna possibilità di conoscere la composizione e la purezza. Lo stesso René-Antoine Ferchault de Réaumur (1683-1757) rifiutò l'idea di usare l'ottone al posto della carta per la scala del suo strumento perché ‒ egli sosteneva ‒ ciò avrebbe spinto la precisione a lunghezze irrisorie. Poca o nessuna importanza era data alla correttezza del calibro interno dello strumento. Nessuno si preoccupava di come leggere il menisco, o della possibilità che la temperatura corporea dell'osservatore interferisse con la misura. Tarare i termometri in base a punti fissi divenne la norma solamente negli anni Quaranta del XVIII sec., e anche allora non esisteva alcuna convenzione che regolasse la taratura stessa. La Royal Society di Londra si accorse soltanto nel 1777 che per i propri strumenti il punto di ebollizione dell'acqua a pressione normale oscillava di più di 3 gradi Fahrenheit. Anche i barometri erano affetti da molti di questi problemi; in particolare, l'aria presente nel mercurio ne alterava le misure. Alcuni errori di lettura dei barometri crearono confusione quando si tentò di determinare la legge che governava la diminuzione della pressione atmosferica all'aumentare della quota e indussero alcuni filosofi naturali a mettere in dubbio la legge di Boyle. Anche per altri strumenti esistevano inconvenienti del genere. Se i barometri e i termometri in uso nel XVIII sec. sfruttavano le proprietà fisiche, piuttosto stabili, di sostanze inorganiche (o di sostanze organiche distillate) come il mercurio, l'aria, l'acqua o l'alcol, decisamente cattiva era la situazione degli igrometri, che usavano invece lana, legno, minugia (ossia budello animale) e altri materiali la cui natura organica li rendeva mediocri candidati per fornire misure accurate, ripetibili e coerenti. Il miglior costruttore di strumenti che la Germania ebbe in quel secolo, Georg Friedrich Brander (1713-1783), in collaborazione con Lambert riuscì pazientemente a ottenere una concordanza di 2 gradi su 50 fra le scale di 8 igrometri a corda di budello su 12; alla fine, tuttavia, i due scienziati rinunciarono all'idea di raggiungere un accordo coerente fra i loro strumenti, arrivando alla conclusione che sarebbe stato difficile ottenerlo persino con termometri e barometri e che, quindi, ci si doveva rassegnare a questi difetti fino a quando non si sarebbe trovato qualcosa di meglio.

L'avvento delle misure di precisione

di Theodore S. Feldman

Il cammino verso misure sufficientemente precise fu guidato da un certo numero di fattori. La burocrazia del tardo Illuminismo richiedeva un'accurata informazione sulle risorse umane e naturali. Come potevano i re di Francia regolare il commercio, tassare in modo efficace, o pianificare una guerra, se i pesi e le misure erano diversi passando da una provincia all'altra del regno? Gli eserciti del Settecento, ingrandendosi e sviluppando strutture in divisioni, esigevano notizie affidabili sulle strade e sulla morfologia del territorio, indispensabili per progettare i propri movimenti sempre più complessi. In seguito all'espandersi dei rispettivi domini imperiali, gli Stati desiderarono dotare le proprie navi di mezzi che permettessero di determinarne esattamente la posizione. Nel Pacifico, vasto e inesplorato, una squadra navale poteva perdersi con la stessa facilità con cui spesso accadeva di smarrire l'ubicazione di isole, e anche nel familiare Atlantico una virata sbagliata avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Inoltre, specialmente in Gran Bretagna, le imprese industriali e commerciali private domandavano fermamente la standardizzazione delle misure e accurati strumenti di misurazione. Lo scavo di canali, la bonifica di zone paludose e l'arginatura di terreni furono attività che s'intensificarono notevolmente nella seconda metà del Settecento e provocarono, in particolare, un'intensa richiesta di accurati strumenti topografici. La standardizzazione di pesi e misure era poi essenziale per il commercio su grandi distanze. L'industrializzazione sostituì la misura antropomorfica del tempo ‒ la quantità di tempo che a un artigiano occorreva per portare a termine un certo lavoro ‒ con misure di tempo astratte e quantitative, equivalenti a denaro preso o dato in prestito. Per non parlare poi del processo di accelerata meccanizzazione dell'industria, che rese necessari pezzi metallici misurati con precisione e lavorati a macchina.

Fra le scienze, fu l'astronomia a dare il più grande impulso alla ricerca di una maggiore accuratezza nelle misure, in parte per via del suo legame con la navigazione e con la topografia, e in parte perché prometteva di risolvere alcune questioni fondamentali; tra queste, particolarmente sentite erano quelle riguardanti la forma della Terra ‒ su cui s'era accesa una controversia a proposito della teoria newtoniana della gravitazione ‒ e la distanza della Terra dal Sole, dalla quale fu possibile ricavare i primi valori in assoluto dei raggi delle orbite planetarie. I governi europei offrirono premi ingenti a chiunque avesse escogitato sistemi per determinare la longitudine durante la navigazione, e i produttori di strumenti si resero conto che la mancanza di dati precisi era l'unico vero ostacolo all'uso di metodi, per lo più strettamente astronomici, già noti. Il principale tra questi era il cosiddetto 'metodo delle distanze lunari', in cui l'angolo fra la Luna e un altro corpo celeste fungeva da orologio siderale per calcolare un tempo non locale di riferimento universale ‒ per esempio, quello di Greenwich ‒ da confrontare con il tempo locale ricavato, tipicamente, dall'istante del mezzogiorno locale (massima altezza del Sole sull'orizzonte). Cosicché la longitudine era misurata semplicemente dalla differenza tra i due tempi, in ragione di 15° di longitudine per ogni ora di differenza temporale. Nel Settecento, con l'obiettivo di sperimentare i metodi per determinare la longitudine e di portare a termine misure astronomiche di cruciale importanza, i paesi europei organizzarono diverse spedizioni: negli anni Trenta in Lapponia e in Perù, al fine di studiare la forma della Terra; nel 1761 e nel 1769, in varie parti del mondo, per osservare il transito di Venere attraverso il disco solare (fra questi ultimi viaggi, si ricorda la prima spedizione nel Pacifico del capitano James Cook, appunto nel 1769). Anche se non furono completamente un successo, le osservazioni del transito di Venere produssero valori per la parallasse solare con l'accuratezza di circa 0,25″ di arco, e portarono a una buona determinazione della distanza del Sole. In seguito alla scoperta di Urano (1781) da parte di William Herschel (1738-1822), a quella di Cerere (1801) a opera di Giuseppe Piazzi (1746-1826) e agli enormi progressi nel campo della meccanica celeste, ottenuti grazie al lavoro di Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) e Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), crebbe sempre più fra gli astronomi l'esigenza di stilare con accuratezza cataloghi e mappe del cielo. Gli osservatori privati si moltiplicarono e, insieme a quelli statali, richiesero una nuova generazione di strumenti di precisione. Le tecniche inizialmente sviluppate dagli artigiani per realizzare strumenti astronomici e topografici particolarmente accurati si diffusero in tutti i settori di fabbricazione degli strumenti di misura e in quelle aree della produzione industriale in cui era divenuta necessaria la precisione.

Se fu certamente l'astronomia a manifestare per prima un'esigenza di accresciuta precisione, anche le discipline più 'leggere' facenti parte della filosofia naturale diedero però il loro contributo. Agli inizi del XVIII sec. la filosofia naturale era ormai divenuta di moda e la domanda di strumenti con cui impreziosire i salotti e dilettare vecchi e giovani era solida e in continuo aumento. La topografia, la navigazione e altri settori della matematica erano diventati una parte importante dell'istruzione aristocratica, mentre le università aggiungevano ai loro corsi di studio la filosofia sperimentale. I fabbricanti di strumenti potevano fare affidamento su un regolare commercio di articoli adatti a questi scopi e usare i profitti che ne derivavano nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione di strumenti di precisione. Alla fine del XVIII sec. era ormai la stessa filosofia naturale a richiedere strumenti di precisione per le sue attività di ricerca.

Nel 1770 la Gran Bretagna aveva ormai conquistato una salda supremazia nella produzione di strumenti scientifici. L'avanzato sviluppo industriale di questo paese faceva sì che i fabbricanti inglesi di strumenti potessero avvalersi di acciaio migliore, nonché di ottone, rame e stagno in abbondanza. Anche l'industria metallurgica francese era pronta a decollare alla vigilia del 1789, ma gli sconvolgimenti della Rivoluzione fecero ritardare l'evento fino al XIX secolo. La Gran Bretagna aveva il monopolio sul vetro di alta qualità e sul vetro flint, essenziale per la produzione di lenti acromatiche per telescopi. Il monopolio si fondava in parte sulla superiorità industriale dell'Inghilterra e un po' sulla buona sorte che assiste chi si dedica alla sperimentazione industriale attiva. La produzione di vetro flint richiedeva un'industria che fosse già in condizioni di produrre vetro di alta qualità in quantità significative. Soltanto l'Inghilterra possedeva industrie del genere prima del 1800, ma la fabbricazione del vetro flint fu il risultato più o meno accidentale del passaggio dalle fornaci a legna a quelle alimentate a carbone e di un processo segreto i cui particolari non erano ben conosciuti e che gli stessi Inglesi in parte dimenticarono dopo il 1785. Nel frattempo, l'Académie Royale des Sciences di Parigi bandì più volte premi per l'invenzione di un procedimento di fabbricazione del vetro per lenti acromatiche, ma senza successo. Dal canto loro, gli Inglesi tennero per sé i segreti di fabbricazione dei vetri di buona qualità ottica, vendendo all'estero solamente vetro di bassa qualità, soprattutto nel momento in cui sospettavano che qualche fabbricante di strumenti straniero avesse intenzione di copiare un prodotto inglese. Un produttore francese di vetro, di nome d'Artigues, riuscì a realizzare il vetro flint soltanto nel primo decennio del XIX sec., dopo una lunga serie di esperimenti, mentre Joseph von Fraunhofer (1787-1826) riuscì a produrlo in Germania all'incirca nello stesso periodo: sino ad allora era quasi impossibile, per i fabbricanti non inglesi di strumenti, ottenere vetri di qualità per le lenti e gli specchi dei telescopi e di altri strumenti ottici.

Nel clima inglese del libero mercato le corporazioni in quanto tali non esercitarono un'eccessiva ingerenza nella produzione degli strumenti scientifici. Al contrario, in Francia il rinascente potere delle gilde fu di ostacolo al commercio. La produzione di apparecchi ottici (occhiali inclusi), di bilance, di strumenti per la navigazione e per altri scopi precedette quindi la spinta unificante legata all'emergere della filosofia naturale. Laddove il controllo era esercitato da corporazioni, questi strumenti erano fabbricati dai loro membri; in questo modo, il regolamento delle gilde impose una divisione verticale fra i produttori francesi di strumenti. Le corporazioni assicurarono il perpetuarsi di una stretta specializzazione e il sussistere di piccole botteghe e impedirono agli artigiani di soddisfare la domanda di strumenti di nuovo tipo che superassero i confini fra un'attività e l'altra. Per esempio, i fabbricanti parigini di strumenti matematici appartenevano alla corporazione dei fonditori, ma era loro richiesto di acquistare dai coltellinai le punte e gli aghi d'acciaio per i compassi e le bussole nautiche. I fabbricanti di bilance facevano parte del gruppo degli artigiani del peltro, e quelli del rame di quello degli ottonai, ed erano obbligati ad acquistare le custodie per i loro strumenti dai pellai. In Francia, in queste condizioni, il mercato degli strumenti di misura rimase assai frammentato. Avendo il controllo sia degli attrezzi di lavoro sia degli oggetti fabbricati dai propri membri, non era infrequente che le corporazioni confiscassero sia questi che quelli se ritenevano che vi fosse stata una violazione dei propri diritti. Jean-Joseph-étienne Lenoir (1744-1832), all'epoca il maggior fabbricante francese di strumenti, stava lavorando nel 1785 agli strumenti astronomici che occorrevano per modernizzare l'Osservatorio nazionale francese; poiché egli era l'unico artigiano della nazione capace di realizzare gli strumenti richiesti, la polizia aveva disposto che non fosse importunato dalle corporazioni. Nonostante ciò, nel 1785 la compagnia dei fonditori pose la sua attività sotto sequestro e ne confiscò utensili, fogli di ottone e strumenti. In risposta a tali difficoltà, Jean-Dominique Cassini (1748-1845) riuscì a procurarsi un permesso speciale, in base al quale era istituito un corpo di 24 ingegneri addetti alla costruzione di strumenti ottici, filosofici e matematici, e di altri apparecchi scientifici. Elitario e di modesta importanza, il primo serio tentativo di guadagnarsi l'indipendenza dalle corporazioni non ebbe un forte impatto sulla produzione degli strumenti di misura; fu spazzato via ‒ insieme alle corporazioni ‒ dalla Rivoluzione francese.

Nel Continente europeo, i fabbricanti di strumenti di misura si rivolgevano a un mercato locale. Gli artigiani parigini rifornivano la corte reale, i salotti di pochi aristocratici e borghesi e le collezioni di qualche università o scuola superiore. In Italia, in Germania e nei Paesi Bassi la produzione degli strumenti era disseminata nei piccoli centri, e i fabbricanti soddisfacevano la richiesta locale di oggetti ordinari, come orologi, strumenti topografici e di ausilio alla navigazione. Mancava a costoro un ambiente competitivo come quello che stimolava gli artigiani londinesi a realizzare strumenti di precisione, e mancava anche un commercio fiorente di strumenti di uso quotidiano, indispensabile a sostenere l'investimento di capitale che gli apparecchi di precisione richiedevano. Fuori Parigi, Brander fu l'unico produttore di strumenti del Continente a superare questi limiti. Fu il primo tedesco a costruire, nel 1737, un telescopio riflettore e fu celebre per la sua invenzione dei micrometri di vetro; egli ne incideva la scala per mezzo di una punta di diamante, usando una macchina a dividere da lui realizzata nel 1761. Lambert considerava Brander all'altezza della generazione degli artigiani londinesi che aveva preceduto Jesse Ramsden (1735-1800). Senza dubbio, il suo successo si basava sull'assenza di corporazioni ad Augusta, città in cui egli esercitava la sua professione; Brander trasse anche beneficio dal patrocinio della Bayerische Akademie der Wissenschaften (Accademia Bavarese delle Scienze), fondata nel 1759, e dalla domanda di strumenti astronomici che proveniva, durante l'Illuminismo cattolico, dai monasteri bavaresi e austriaci.

L'industria degli strumenti scientifici e tecnici

A Londra, il maggior centro mondiale di produzione di strumenti scientifici, alla fine del XVIII sec. l'attività artigianale si era ormai trasformata in un importante commercio internazionale. I fabbricanti di strumenti di misura trassero vantaggio dalle vendite in ogni parte d'Europa e per tutto l'Impero britannico in piena espansione. Le botteghe si ampliavano (Ramsden aveva al proprio servizio 50 lavoranti), producevano una gran quantità di manufatti e si occupavano della ricerca e dello sviluppo di nuovi modelli. I proprietari davano in appalto la produzione dei pezzi degli strumenti ad artigiani altamente specializzati; nelle loro botteghe introdussero la divisione del lavoro e cominciarono a produrre modelli standardizzati in grandi quantità. Appaltatori specializzati come John Troughton (1739 ca.-1807), considerato allo stesso livello di Ramsden nell'arte della divisione delle scale, spesso lavoravano fuori casa, senza avere un punto di vendita proprio. Gradualmente, la produzione divenne meccanizzata. A mano a mano che la domanda di strumenti di precisione aumentava, i fabbricanti potevano contare sempre più su macchine a dividere, su filettatrici e altri congegni meccanici per lavorazioni di precisione. Alla fine, la produzione perse le caratteristiche artigianali, e il ruolo dei 'maestri di bottega', che fabbricavano i pezzi degli strumenti e altri meccanismi a mano e nel proprio domicilio, andò tramontando. La produzione inglese degli strumenti di misurazione aveva raggiunto uno stadio protoindustriale, se non addirittura industriale in senso proprio.

In Gran Bretagna i proprietari delle botteghe di strumenti scientifici e tecnici godevano di una considerazione e di un rispetto sconosciuti ai loro colleghi francesi; i migliori fra loro possedevano una vasta cultura scientifica e pubblicavano libri e articoli sulle riviste scientifiche; i loro committenti ne riconoscevano l'importanza e li trattavano da pari a pari, eleggendoli, per esempio, a membri della Royal Society di Londra. Alla fine del XVII sec. anche diversi fabbricanti parigini di strumenti possedevano una buona istruzione, pubblicavano su riviste scientifiche e collaboravano con i membri dell'Académie Royale des Sciences; ma, al contrario, i loro colleghi del XVIII sec. erano quasi analfabeti ed erano considerati dai propri connazionali alla stregua di semplici operai o bottegai; naturalmente, nessuno di essi era ammesso a far parte della piccola ed elitaria accademia parigina. L'attività francese si era convertita quasi esclusivamente alla produzione di strumenti dozzinali alla moda, in cui contavano più le decorazioni che la precisione e il perfetto funzionamento dei meccanismi. Coerentemente con questa tendenza, nei trent'anni che precedettero la Rivoluzione le botteghe francesi si rifiutarono di costruire grandi strumenti astronomici. Verso la fine del secolo i fattori che in Francia ostacolavano il progresso cominciarono a venir meno, a partire dall'indifferenza delle classi dominanti nei confronti del progresso industriale. La Rivoluzione ebbe effetti contrastanti sulla produzione degli strumenti: se, infatti, da un lato i materiali scarseggiavano, dall'altro, essa affrancò l'attività produttiva dalle corporazioni, proteggendola al contempo dalla competizione con l'Inghilterra e cominciando a riconoscere il ruolo essenziale degli strumenti di precisione ai fini della sicurezza dello Stato. Inoltre, la riforma dei pesi e delle misure e l'entrata in vigore del metro quale unità fondamentale del sistema metrico decimale ne fecero crescere enormemente la domanda. Prendendo parte ai comitati per le riforme insieme agli scienziati, gli artigiani conquistarono il rispetto generale e trassero anche beneficio dall'ideologia egualitaria rivoluzionaria, mentre la nazione attraversava un momento di rinascita dell'attività di fabbricazione degli strumenti scientifici. Durante l'Impero, le compagnie francesi svolsero attività su una scala che in Inghilterra era stata raggiunta un quarto di secolo prima; in Francia entro il 1820 la produzione di strumenti aveva eguagliato quella britannica.

Il lavoro di Ramsden, la figura di maggiore spicco nella costruzione di strumenti all'epoca della Rivoluzione, merita di essere esaminato più attentamente. Il sestante nautico illustra al meglio i principî del suo successo. Sebbene la storia della watch machine di John Harrison (1693-1776) sia oggi largamente nota, all'epoca non era chiaro che il cronometro marino avrebbe costituito un mezzo per determinare la longitudine più efficace di quello delle distanze lunari, proposto un secolo e mezzo prima. Nel 1770 questo tipo di cronometro non era ancora stato opportunamente sperimentato e aveva un costo proibitivo. La pubblicazione di tavole lunari attendibili, realizzate da Johann Tobias Mayer (1723-1762) negli anni Cinquanta del XVIII sec., rese per la prima volta praticabile il metodo basato sulle distanze lunari. Ciò che occorreva per misurare gli angoli lunari era un accurato sestante marino, piccolo ‒ da 8 a 10 pollici (da 20 a 25 cm ca.) ‒ e abbastanza leggero da poter essere tenuto in mano sul ponte beccheggiante di una nave; la sua sensibilità doveva essere aumentata di 2 o 3 volte rispetto a quanto gli artigiani del tempo erano in grado di ottenere su strumenti di dimensioni doppie. La chiave del successo di Ramsden fu la sua famosa macchina a dividere, realizzata per la prima volta nel 1766, e la sua versione perfezionata portata a termine nel 1774. La macchina a dividere, usata per tracciare divisioni tutte uguali sulla scala di uno strumento, sfruttava il principio della riproduzione in scala, grazie al quale le divisioni di un modello di grandi dimensioni erano riportate su uno strumento più piccolo. Usando la macchina di Ramsden, un operaio era in grado di dividere la scala di un sestante in circa 30 minuti, e con un'accuratezza ‒ 0,5″ di arco ‒ che avrebbe richiesto settimane di lavoro ai migliori artigiani della generazione precedente. Tutta la Marina inglese era in attesa di essere dotata di simili strumenti. Ramsden ne fabbricava circa 40 all'anno, più di quelli che erano necessari per rifornire ciascuna delle navi ammiraglie, e a un decimo del costo di un cronometro. Lo sforzo di Ramsden fu quello di combinare una produzione massiccia con la ricerca e lo sviluppo, la manifattura automatizzata, l'abbattimento dei costi e l'elevata abilità degli operai, ossia con le caratteristiche tipiche della produzione industriale.

Il metodo di Ramsden si diffuse rapidamente. Troughton, per esempio, non appena seppe della macchina a dividere di Ramsden, ne costruì a sua volta una, impiegando circa tre anni. In seguito, nel 1782, egli si mise in proprio, entrando a far parte della schiera di capitalisti che producevano strumenti. Nel 1800 le macchine a dividere costruite da vari artigiani in tutta Europa erano ormai una trentina. La macchina a dividere realizzata dal costruttore di strumenti Georg Friedrich von Reichenbach (1771-1826), originario di Monaco di Baviera, superava in precisione quella di Ramsden di un fattore 5. Per i propri strumenti astronomici Reichenbach sfruttò tecniche metallurgiche all'avanguardia, con le quali era possibile ottenere strumenti di grandi dimensioni mediante una singola fusione del metallo, e apportò al tornio miglioramenti che contribuirono in modo significativo all'avvio dell'industrializzazione in Germania. Il Mathematisch-Mechanisches Institut, fondato da Reichenbach a Monaco nel 1804, e l'Optisches Institut, fondato in società con Fraunhofer, formarono molti fabbricanti di strumenti e gettarono le basi della superiorità tedesca in questo tipo di produzione durante il XIX secolo. Nel periodo postnapoleonico gli osservatori astronomici europei modernizzarono i loro apparati, sostituendo l'antico quadrante con i circoli astronomici, che consentivano il rilevamento di misure più precise tramite la ripetizione e il controllo incrociato delle osservazioni.

Gli strumenti di Reichenbach erano molto richiesti e spesso sostituivano quelli realizzati dai laboratori inglesi venticinque o cinquant'anni prima; con molti dei suoi prodotti, la precisione di una singola osservazione era migliore di 1″ di arco. Con questi strumenti e con l'analisi statistica entro il 1838 gli astronomi furono in grado di completare i cataloghi stellari e di osservare la parallasse stellare. All'Optisches Institut, e poi lavorando per conto proprio, Fraunhofer riuscì a strappare a Londra il primato nella fabbricazione degli strumenti ottici, combinando una conoscenza artigianale della produzione del vetro con competenze teoriche di matematica, ottica e filosofia naturale. Egli riuscì a fabbricare grandi pezzi grezzi di vetro ottico senza striature, applicò l'ottica matematica alla costruzione di lenti acromatiche e usò le righe di emissione degli spettri di corpi incandescenti per determinare con esattezza il potere di dispersione e l'indice di rifrazione dei vetri. Questi metodi innovativi sostituirono il precedente modo di procedere 'a tentoni' nella costruzione delle lenti.

Misure di precisione nella filosofia naturale

di Theodore S. Feldman

La filosofia naturale del tardo Settecento impiegò le misure di precisione su un ampio fronte; non soltanto i nuovi strumenti, ma anche le misure di precisione richiedevano un rinnovamento nei metodi di sperimentazione e di osservazione, frutto di un nuovo approccio alla Natura e di un nuovo metodo scientifico. Molte sono le caratteristiche peculiari di questa metodologia; grazie a una strumentazione più efficiente, i filosofi naturali eseguivano serie lunghe e ripetute di osservazioni approfondite e sistematiche ed elaboravano sofisticate tecniche per prevenire i fattori perturbativi, mettendo a punto efficaci procedure di correzione per gli effetti spuri che non era possibile evitare. Tutte queste attività comportavano la compilazione di tabelle lunghissime e l'esecuzione di calcoli complessi, presentati con orgoglio al lettore. Alcuni esempi serviranno a illustrare questo approccio, che potremmo definire tipico della 'fisica sperimentale esatta'. Sebbene gli esempi siano tratti dalla filosofia naturale, i metodi illustrati erano comuni tanto alle discipline matematiche quanto al rilevamento topografico e alla stessa attività di fabbricazione degli strumenti. Gli approcci qui descritti, quindi, costituiscono un aspetto fondamentale della cultura scientifica del tempo.

La riforma del barometro e del termometro

Intorno al 1760 il ginevrino Jean-André Deluc (1727-1817) era un uomo interessato alla riscossa politica della sua città e alla storia naturale delle Alpi. A quanti viaggiavano attraverso la catena alpina il barometro offriva a quell'epoca la maniera più semplice per determinare l'altezza delle montagne. La discordanza dei risultati aveva trascinato i matematici in un ginepraio di speculazioni sulla relazione fra calore e pressione nell'atmosfera e aveva portato a mettere in dubbio la validità della legge di Boyle.

Deluc individuò il problema nella scarsa affidabilità degli strumenti e delle tecniche osservative e si propose di riformare sia il barometro sia il termometro ‒ quest'ultimo usato per correggere le misure barometriche della temperatura. La sua opera, Recherches sur les modifications de l'atmosphère (1772), un volume di 850 pagine, rimase in lavorazione per quindici anni, essendo l'autore ‒ come osservava un contemporaneo ‒ troppo impegnato a scrivere pamphlet contro il governo. L'approccio delle Recherches, largamente salutate come rivoluzionarie, è tipico della fisica sperimentale esatta. Deluc v'incluse un'esauriente critica storica del barometro e della misurazione barometrica della quota. Vi erano illustrate le migliorie da apportare allo strumento: un nuovo progetto per un barometro a vaschetta, che resistesse ai rigori del viaggio; bollitura del mercurio dello strumento, al fine di eliminare l'aria disciolta; esatta costruzione della scala; corretta posizione dell'osservatore rispetto al menisco a mercurio in modo da eliminare gli effetti di parallasse; collocamento del barometro nella giusta posizione; correzione per la temperatura. Precauzioni di questo genere non erano mai state adottate. La trattazione del termometro fatta da Deluc seguiva uno schema simile, ossia una storia critica dello strumento e una rassegna della varietà dei fluidi termometrici in uso, seguita dalle migliorie, quali nuovi metodi per graduare la scala del termometro e per determinare i punti fissi. Caratteristico della fisica sperimentale è il modo in cui Deluc si servì di questi strumenti durante le osservazioni, portando a termine una serie completa di oltre 400 misurazioni per un periodo di cinque anni in quindici stazioni da lui installate sul Salève, un monte nei pressi di Ginevra; in una di queste, egli registrava la temperatura e la pressione dell'aria ogni quarto d'ora nel corso di un giorno. Deluc pubblicò i risultati di queste osservazioni in 25 pagine di tabelle che riportavano la data e l'ora di ciascuna osservazione, le condizioni meteorologiche, le letture del barometro e le temperature del barometro e dell'aria nel campo base e nella stazione di montagna, la temperatura media, la pressione barometrica corretta per la temperatura in entrambe le stazioni, la differenza logaritmica fra le due pressioni e, infine, l'altezza della stazione di montagna rispetto al campo base.

Nel 1770, la sempre più scomoda posizione politica convinse Deluc a emigrare in Inghilterra, dove i filosofi naturali migliorarono le sue tecniche innovative. Per costruire i propri strumenti Deluc si era servito del lavoro di Jacques Paul (1733-1796), che per primo, a Ginevra, aveva prodotto strumenti scientifici. Deluc era in grado di leggere la scala barometrica di Paul fino a circa cinque millesimi di pollice, ossia circa 0,13 mm, ma spesso i suoi barometri erano discordanti fra loro per quantità sensibili. William Roy (1726-1790), generale di divisione del Genio, e Sir George Shuckburgh (1751-1804) usarono barometri di Ramsden, le cui scale potevano essere lette con un nonio fino a un millesimo di pollice (circa 25 μm) e concordavano fra loro entro tre millesimi di pollice (circa 75 μm). Non contento dei risultati di Deluc, Shuckburgh ripeté le misure sul Salève, registrando la pressione barometrica ogni 5 minuti per 9 ore e riportando i suoi risultati nel dettaglio, in competizione con quelli di Deluc. Sia Shuckburgh sia Roy determinarono nuovamente la correzione barometrica per la temperatura, tenendo conto della dilatazione del tubo di vetro del barometro e adottando alcune misure contro l'effetto della pressione di vapore del mercurio. Roy progettò uno speciale congegno che teneva il corpo del barometro in un recipiente di acqua bollente, mentre la vaschetta era esposta all'aria; una finestra consentiva di vedere lo strumento immerso nel bagno d'acqua. Le sue tabelle includevano le correzioni per temperature variabili da 0 °F (−17,8 °C ca.) a 212 °F (100 °C), divise in intervalli di 10 °F (9,5 °C), indicando le prime e le seconde differenze. Nel 1776, la Royal Society di Londra incaricò una commissione di eseguire ulteriori studi sul termometro: questa prese in esame, tra l'altro, le correzioni per le differenze di temperatura fra quelle parti del tubo termometrico che erano immerse in un bagno d'acqua e quelle che erano esposte all'aria; essa determinò, inoltre, l'effetto sulla taratura del punto fisso superiore del termometro e le condizioni fisiche del bagno d'acqua in cui lo strumento era immerso, come la lentezza o rapidità con cui questo era portato a ebollizione, la sua maggiore o minore profondità e la posizione del bulbo al suo interno.

Lavoisier e la dimostrazione della composizione dell'acqua

Deluc fu uno dei primi ad applicare alla filosofia naturale metodi che comportavano l'uso di misure di precisione, se è vero che tali metodi erano da lui usati già negli anni Sessanta del Settecento. Ben più noto, tuttavia, è l'uso che Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) fece degli strumenti di precisione a sostegno delle proprie teorie sulla combustione e sulla composizione dell'acqua. Lavoisier prese parte al dibattito intorno alla composizione dell'acqua nei primi anni Ottanta del Settecento. Mentre la controversia andava avanti, egli comprese l'importanza di usare misure di precisione per dare forza ai propri argomenti. Il fabbricante di strumenti parigino Pierre-Bernard Mégnié aveva costruito per lui alcune bilance che sfruttavano nuove tecniche per sospendere il giogo e smorzarne le oscillazioni; si diceva che tali bilance fossero in grado di apprezzare il peso di una libbra con la precisione di una parte su 100.000. Mégnié costruì anche serbatoi pneumatici per raccogliere i prodotti gassosi della decomposizione dell'acqua, provvisti di una nuova scala volumetrica che poteva essere letta con un nonio fino 1/100 di grado di arco; il termometro e il barometro in dotazione avevano una sensibilità rispettivamente pari a 1/10 di grado Réaumur e a 1/10 di divisione (che era pari a 1/12 di pollice, ossia a 2,12 mm). La dimostrazione pubblica della scomposizione dell'acqua, portata a termine da Lavoisier nel 1783 all'Académie Royale des Sciences usando questa strumentazione, ebbe un ruolo importante nel far accettare la sua teoria.

Il lavoro di Coulomb sul magnetismo

Uno dei principali fattori di modernizzazione della filosofia naturale fu la sua integrazione con la matematica e l'ingegneria. Il citato lavoro di Roy è un esempio di questa caratteristica innovazione. Analogo, ma più celebre esempio, fu la realizzazione, da parte di Charles-Augustin Coulomb (1736-1806), della bilancia magnetica di torsione e la sua dimostrazione della legge dell'inverso del quadrato della distanza per il magnetismo. Egli aveva alle spalle quindici anni di carriera come ingegnere militare, quando, intorno al 1775, cominciò a dedicarsi ai problemi di filosofia naturale. Il suo lavoro da ingegnere aveva molti tratti in comune con la fisica sperimentale esatta. L'ingegneria del primo Settecento tendeva anch'essa ad adottare un approccio 'razionale', trattando i suoi argomenti da un punto di vista puramente matematico, senza il beneficio di un'ampia base di dati sperimentali; le indagini sperimentali erano spesso incoerenti e accidentali, oppure esaminavano separatamente l'uno o l'altro parametro. Coulomb introdusse un nuovo metodo, che egli stesso definì un mélange du calcul et de la physique. Il nuovo metodo applicava le tecniche razionali e matematiche dell'ingegneria e della meccanica ai risultati di una sistematica ed esauriente sperimentazione.

Nel 1773, l'Académie Royale des Sciences bandì un premio per il miglior metodo di realizzazione delle bussole magnetiche e per lo studio delle variazioni magnetiche diurne. L'attrito fra l'ago magnetico e il perno di supporto costituiva un limite alla precisione della bussola; l'entità dell'attrito però non era prevedibile e poteva mutare in maniera significativa in seguito a piccole variazioni della posizione dell'ago sul perno. Numerosi osservatori avevano sospettato l'esistenza di variazioni magnetiche diurne, tuttavia le forze che determinavano tali variazioni erano dello stesso ordine di grandezza dell'attrito subito dall'ago e le tecniche sperimentali dell'epoca non erano in grado di risolvere tale questione.

Nel 1777, Coulomb divise il premio dell'Académie di Parigi con Jan Hendrik van Swinden (1746-1823). L'articolo che valse il premio a quest'ultimo segue strettamente gli schemi della fisica sperimentale esatta; dopo un'analisi storica dei vari modelli di bussole magnetiche e delle osservazioni della variazione magnetica diurna, van Swinden presentò una serie di tabelle contenenti oltre 40.000 misure da lui stesso rilevate. Il lavoro di Coulomb aveva un carattere completamente diverso. Combinando le tecniche sviluppate nella sua professione d'ingegnere con quelle della fisica sperimentale, egli investigò sulla resistenza dell'aria, sull'attrito del perno, sulla geometria dell'ago della bussola, e, cosa più importante, presentò un proprio progetto di bussola magnetica basato sulla bilancia di torsione. In questo progetto (che non era completamente nuovo), Coulomb sospese un ago magnetico a un filo di seta o a un capello, avendo ricavato una legge della torsione secondo la quale per piccoli angoli il momento torcente del filo era proporzionale all'angolo di torsione. Opportunamente racchiusa in un involucro e dotata di lenti d'ingrandimento per leggere la scala, la bilancia magnetica di torsione era in grado di misurare variazioni dell'assetto dell'ago dell'ordine di pochi minuti di arco. Anche Coulomb misurò la declinazione magnetica più volte al giorno per vari mesi e riuscì a confermare le ipotesi sulla variazione magnetica diurna. Egli continuò a lavorare alla bilancia negli anni Ottanta, usandola per studiare problemi fisici riguardanti l'elettricità e il magnetismo, e inoltre la coesione, l'elasticità e la resistenza nei fluidi. In una famosa serie di sette articoli, egli usò la bilancia di torsione per dimostrare la legge dell'inverso del quadrato della distanza per le forze elettrica e magnetica e per studiare la distribuzione della carica elettrica, dimostrando sperimentalmente che la carica rimane confinata sulla superficie dei corpi conduttori ed è nulla all'interno. La bilancia elettrica di torsione era sensibile a una forza di appena 1/40.800 grani, ossia a 12,8∙10−9 newton. Come osservava Coulomb, non fu possibile verificare alcuna ipotesi (per es., la legge delle forze elettriche dell'inverso del quadrato) fino a che non si ebbero a disposizione strumenti capaci di fornire misure sufficientemente accurate durante gli esperimenti.

Nonostante questa osservazione, ci si potrebbe chiedere se davvero fosse necessaria una sensibilità così grande per dimostrare la legge dell'inverso del quadrato della forza elettrica; o se fossero necessarie centinaia di osservazioni e un barometro accurato fino a tre millesimi di pollice (ca. 75 μm) per determinare l'altezza di una vetta delle Alpi; oppure, se fosse indispensabile una bilancia con l'accuratezza di 1/100.000 per la dimostrazione di Lavoisier della composizione dell'acqua. Gli storici hanno suggerito che misure di una simile precisione, anche se sproporzionate rispetto alla loro reale utilità, conferivano tuttavia una forza retorica alle argomentazioni scientifiche. Inoltre, le misure di precisione e i metodi sperimentali che le accompagnarono erano radicate in un atteggiamento culturale fiorente nel tardo Illuminismo. Vari filosofi, da Locke a Condillac, affermarono che la conoscenza stessa è calcolo, proponendo linguaggi universali che essi ritenevano rispecchiassero l'algebra del pensiero. Mentre nella nostra epoca chi è solito 'calcolare' non gode di molta stima, al contrario nel XVIII sec. il calcolo rappresentava la più alta forma di attività umana. Un secolo prima, i caffè erano stati i punti d'incontro preferiti dagli artefici della Rivoluzione scientifica; allo stesso modo, le botteghe dei fabbricanti di strumenti attiravano ora un pubblico ancor più vasto formato da persone della classe media che erano inclini a curiosare nelle librerie ben fornite, a socializzare, a seguire lezioni e dimostrazioni, e ad acquistare oggetti caratterizzati da eleganza, bellezza e utilità. I nuovi strumenti contribuivano a migliorare il loro livello culturale, oltre a rendere più comoda la vita domestica, e coadiuvavano il progresso e le capacità delle attività di laboratorio, per terra e per mare. Le misure infinite, i calcoli, le tabelle erano per costoro il simbolo delle conquiste umane. Le misure di precisione non furono soltanto lo strumento del progresso scientifico, esse rappresentarono gli albori dell'Età moderna.

La scoperta dell'ossigeno

di Frederic L. Holmes

"La sostanza che ora noi chiamiamo ossigeno ‒ un nome che dobbiamo a Lavoisier ‒ fu scoperta da Priestley il 1° agosto del 1774" (Thorpe 1931, p. 152). Per lungo tempo la scoperta dell'ossigeno è stata considerata un momento centrale nella catena degli eventi conosciuta come 'rivoluzione chimica' e nella formazione della chimica moderna. Ma né la data della scoperta, né l'identità dello scopritore possono essere stabilite con quella certezza che il chimico Sir Thomas Edward Thorpe (1845-1925) esibiva nei suoi Essays in historical chemistry (1894) dai quali abbiamo tratto la citazione iniziale. Rivendicazioni di quella scoperta sono state avanzate anche per il chimico svedese Carl Wilhelm Scheele (1742-1786) e per lo stesso Lavoisier.

Le dispute sulla priorità di una scoperta non sono rare nella storia della scienza e l'assegnazione di un giusto riconoscimento a singoli individui per scoperte alle quali ha contribuito più di una persona è spesso irta di difficoltà. Come Thomas Kuhn ha argomentato in maniera convincente, il problema nasce da un'idea sbagliata sulla natura della scoperta:

Sebbene sia senza dubbio corretta, la proposizione 'l'ossigeno fu scoperto' porta fuori strada, perché fa pensare che scoprire qualcosa consista in un unico, semplice atto assimilabile al nostro abituale (ma anch'esso discutibile) concetto di vedere. È questa la ragione per la quale ci siamo convinti tanto facilmente che scoprire, come vedere o toccare, dovrebbe poter essere inequivocabilmente attribuito a un individuo e a un particolare momento del tempo. Ma quest'ultima attribuzione è sempre impossibile, e la prima spesso lo è altrettanto. Ignorando Scheele, possiamo con tutta sicurezza affermare che l'ossigeno non era stato scoperto prima del 1774, e potremmo forse anche affermare che esso era stato scoperto prima del 1777 o poco dopo. Ma entro questi limiti, o altri analoghi, ogni tentativo per datare la scoperta dell'ossigeno deve inevitabilmente apparire arbitrario, poiché scoprire un nuovo genere di fenomeno è necessariamente un evento complesso, che richiede che si riconosca tanto che c'è qualcosa, quanto che cosa è. (Kuhn 1969, pp. 78-79)

Talvolta, gli storici della chimica hanno riconosciuto a Joseph Priestley (1733-1804) il merito di aver scoperto che l'ossigeno esistesse e a Lavoisier quello di aver scoperto che cosa esso fosse, oltre a quello di avergli dato un nome. Anche questa formulazione del problema, tuttavia, è troppo semplice per dar conto delle interazioni fra i due scienziati.

Alla fine del 1772 Lavoisier scoprì che il fosforo e lo zolfo aumentavano di peso nel bruciare e attribuì tale aumento alla combinazione di queste sostanze con l'aria che veniva 'fissata' durante la combustione. Subito dopo egli mostrò che la riduzione della calce di piombo (ossido di piombo) rilasciava una "prodigiosa quantità di aria", ma senza discutere della natura dell'aria coinvolta in questi processi. Quando, agli inizi del 1773, cominciò a passare in rassegna la letteratura esistente sulle "arie" ‒ a partire dagli esperimenti di Stephen Hales (1677-1761) e continuando con i lavori di Joseph Black (1728-1799), David Macbride (1726-1778), Priestley e altri ‒ egli comprese, tuttavia, che il problema centrale consisteva nell'identificazione del "fluido elastico" che si liberava dai differenti corpi esaminati. Quindi si propose di ripetere ogni esperienza fatta in precedenza per collegare ciò che si conosceva sull'aria che resta fissa o è liberata dai corpi, con le altre conoscenze che si avevano su questi corpi.

Per ridurre le calci metalliche Lavoisier le riscaldava nella maniera allora abituale, cioè con il carbone. L'aria ricavata in questo modo poteva essere identificata come "aria fissa" (anidride carbonica o biossido di carbonio, nel linguaggio moderno), che era il nome dato da Black ad alcune "specie di aria differenti dalla comune aria elastica". Contenuta negli alcali deboli e rilasciata dall'azione degli acidi sugli alcali, l'aria fissa differiva dall'aria ordinaria per la sua solubilità in acqua molto maggiore e per la sua capacità di rendere torbida una soluzione di acqua di calce. Nell'aprile del 1773 Lavoisier presentò a una seduta pubblica dell'Académie Royale des Sciences una memoria nella quale sosteneva che "una calce metallica non è altro che lo stesso metallo combinato con l'aria fissa", e che "è all'aria fissa contenuta nell'atmosfera che i metalli devono il loro aumento di peso". Gli esperimenti sui quali egli basava questa teoria erano frammentari e inconcludenti, e più ricercava prove empiriche affidabili, più la teoria appariva sempre meno solida.

Durante l'estate del 1773 Lavoisier ripeté gli esperimenti di Black sulla calce e sulla calce viva con un nuovo apparato che gli permetteva di misurare il volume dell'aria fissa la cui quantità egli aveva solo stimato dalla diminuzione in peso di altre sostanze. Lavoisier effettuò ulteriori combustioni del fosforo e riduzioni di calci metalliche, dissolse alcuni metalli negli acidi e li fece precipitare mediante alcali. Egli rimase fedele alla sua ipotesi che in tutte queste operazioni fosse fissato oppure liberato lo stesso tipo d'aria, pur perdendo gradualmente fiducia nella sua precedente identificazione di quest'aria con l'aria fissa. Presentando nel luglio di quello stesso anno i suoi risultati all'Académie Royale des Sciences, egli sostituì al termine "aria" quello più generico di "fluido elastico", un'ammissione tacita del fatto che non conosceva di quale specie d'aria si trattasse. Lavoisier congetturò che essa potesse essere o "l'aria dell'atmosfera, o qualche altro fluido elastico in questa contenuto".

Nell'ottobre dello stesso anno, mentre stava terminando il volume Opuscules physiques et chymiques (1774), Lavoisier scoprì che quando bruciava un campione di fosforo in un ambiente chiuso, il processo si arrestava prima che l'intero campione fosse calcinato. Di qui egli trasse la conclusione che "non tutta l'aria che noi respiriamo è adatta a entrare in combinazione con le calci metalliche; ma che nell'atmosfera esiste un particolare fluido elastico […] mescolato con l'aria" (Opuscules, p. 293), e che quando questo fluido era esaurito, non si poteva avere nessuna combustione. Alcune prove suggerivano che l'aria che rimaneva dopo la combustione non era né l'aria comune, né l'aria fissa, ma da questi fatti Lavoisier non trasse alcuna conclusione chiara.

Per tutto il 1774, Lavoisier rimase incerto circa la natura dell'atmosfera. In un lavoro sulla calcinazione del piombo, composto nell'aprile e letto all'Académie in novembre, egli scrisse che l'aria nella quale un metallo era stato calcinato era stata "in qualche maniera decomposta". Gli esperimenti nei quali egli era impegnato sembravano fornirgli uno strumento per analizzare l'atmosfera ed esaminare i suoi principî costituenti. Nonostante ciò, come egli stesso ammetteva nella memoria dal titolo Sur la calcination des métaux dans les vaisseaux fermés, et sur la cause de l'augmentation de poids qu'ils acquièrent pendant cette opération (1774) non aveva ancora "raggiunto risultati interamente soddisfacenti a questo riguardo" (p. 451). Durante questo stesso periodo egli cominciò a riflettere sulla natura della respirazione; notò, infatti, che animali piccoli posti in un apparato pneumatico assorbivano aria e si domandò: "Non è l'aria stessa composta di due sostanze, e i polmoni provocano la separazione di una delle due?" (Parigi, Archives de l'Académie des Sciences, fiche 350). La sua distinzione di tipo fisiologico fra una porzione d'aria "respirabile" e una "irrespirabile" sembrava aver stabilizzato la sua concezione che l'atmosfera fosse composta almeno di due "principî", quando ancora non poteva essere in grado di definire chimicamente le loro differenze.

L'aria 'deflogisticata' di Priestley

Alla fine del 1772, Priestley aveva concentrato una lente ustoria su pezzi di piombo e di stagno sospesi in un vaso di vetro capovolto sul mercurio e aveva osservato la "più grande diminuzione di aria comune" che egli avesse mai visto. Adottando il punto di vista corrente secondo cui i metalli perdevano il loro flogisto se riscaldati in questo modo, Priestley spiegò, nelle Observations on different kinds of air (1772), che la diminuzione era massima poiché essendo l'aria completamente saturata dal flogisto non poteva accoglierne prontamente di più. L'esperimento faceva parte della sua ricerca sui processi che viziavano l'atmosfera e su quelli che ne ripristinavano la "salubrità". Diversamente da Lavoisier, che s'interessò a questo tipo di esperimenti sei mesi più tardi, Priestley aveva concentrato la sua attenzione esclusivamente sugli effetti dei metalli sull'aria, senza condurre alcuna misurazione del cambiamento dei loro pesi.

Nel marzo 1775 Priestley scrisse la prima di tre lettere indirizzate al presidente della Royal Society Sir John Pringle che vennero pubblicate nel volume LXV delle "Philosophical Transactions" con il titolo An account of further discoveries in air. In questa lettera egli affermava di aver ottenuto aria della migliore qualità, cioè "una che è cinque o sei volte migliore dell'aria comune per la respirazione, per l'infiammazione, e, io credo, per ogni altro uso dell'aria atmosferica comune. Poiché penso di aver sufficientemente provato che l'idoneità dell'aria alla respirazione dipende dalla sua capacità di ricevere il flogisto esalato dai polmoni, questa specie può essere convenientemente chiamata aria deflogisticata" (p. 387).

Priestley, quindi, per la prima volta aveva prodotto l'"aria deflogisticata" mediante la riduzione della calce rossa di mercurio senza utilizzare il carbone. La superiorità di quest'aria si manifestava con maggior forza osservando che ‒ rispetto all'aria comune ‒ per saturarla era necessaria una quantità cinque volte maggiore di aria nitrosa, che una candela bruciava in essa più vivacemente e che un topo vi poteva restare vivo più a lungo.

Questa sensazionale scoperta incoraggiò Priestley a estendere il ruolo del flogisto molto al di là delle situazioni nelle quali esso era stato tradizionalmente applicato. Nel maggio dello stesso anno, sempre a Pringle, egli confidò che

l'aria più pura è quella che contiene meno flogisto: che l'aria è impura (con ciò io intendo che essa non è adatta alla respirazione e a sostenere la fiamma) nella proporzione in cui essa contiene una maggior quantità di questo principio; e che esiste una gradazione regolare dall'aria deflogisticata, attraverso l'aria comune e quella flogisticata, fino all'aria nitrosa; dove quest'ultima specie di aria è quella che contiene più flogisto di tutte, e la prima specie menzionata meno flogisto; la base comune di tutte le arie è l'acido nitroso, di conseguenza esse differiscono principalmente nella quantità di flogisto che contengono; sebbene, rispetto all'aria nitrosa, sembra esservi un'ulteriore differenza nel modo di combinarsi. (ibidem, p. 392)

Questa formulazione mostra una profonda ambivalenza nell'interpretazione di Priestley dello statuto teorico di tutte le qualità di aria che egli aveva identificato. Da una parte, ognuna di esse era un "tipo" o una "specie" differente di aria; dall'altra, ogni aria distinta era in realtà una modificazione di un'aria unica, che era la più pura quando conteneva la minima quantità di flogisto. Quindi, la questione che dobbiamo porci è se Priestley considerasse la sua aria deflogisticata come una nuova e distinta specie di aria, oppure soltanto come l'aria ordinaria in una forma più pura di quanto non lo fosse il suo normale stato atmosferico: egli, in realtà, non faceva distinzioni fra queste due alternative.

Le 'arie' di Lavoisier

Quando Priestley rese pubbliche le sue congetture, Lavoisier stava cercando di spiegare le relazioni esistenti fra le diverse tipologie di aria allora conosciute. Egli lo faceva in parte invocando gli scambi fra esse e la "materia del fuoco", la cui presenza nelle arie era da lui ritenuta responsabile del loro stato di elasticità; ma, inoltre, dava conto di alcuni cambiamenti, come la conversione dell'aria comune in aria fissa, mediante l'aggiunta di flogisto. Alcune volte le sue idee sulla materia del fuoco sembravano fondersi con quella sul flogisto, ed egli ammetteva che talvolta il suo ragionamento lo conduceva verso concezioni molto simili a quelle di Priestley. Infatti, almeno per tutto il 1775, Lavoisier continuò a riflettere, perlomeno in parte, all'interno del paradigma flogistico. Diversamente da Priestley, tuttavia, egli ammetteva che le sue applicazioni della teoria lo conducevano a contraddirsi, e confessava di provare molto disagio di fronte a interpretazioni parziali e incoerenti. Inoltre, i metodi sperimentali quantitativi, dei quali egli acquisiva sempre più padronanza, fornivano le basi per un modo di ragionare, circa la composizione dei corpi in termini di relazioni di peso, che era di gran lunga più critico e suscettibile di autocorrezione di quanto fosse lo stile congetturale qualitativo di Priestley.

Durante l'estate del 1773 per la prima volta Lavoisier aveva tentato di ridurre la calce di mercurio senza far uso del carbone. Egli fallì, poiché la storta si fuse, e non ritornò sull'argomento fino all'autunno del 1774 quando partecipò a una commissione che l'Académie Royale des Sciences aveva costituito per dare un giudizio su una disputa intorno all'interpretazione di riduzioni analoghe effettuate da Pierre Bayen (1725-1798).

Quando, nel febbraio e nel marzo 1775, Lavoisier saggiò l'aria prodotta mediante l'esperimento di Priestley sull'aria nitrosa, la riduzione in volume fu circa la stessa di quella avvenuta utilizzando l'aria comune. Tuttavia, una candela bruciava in quell'aria con una fiamma molto più grande, più chiara e più bella di quanto avvenisse nell'aria comune e un uccello postovi per mezzo minuto non soffriva affatto. Nella sua presentazione dei risultati all'Académie Royale des Sciences, in un Mémoire sur la nature du principe qui se combine avec les métaux pendant leur calcination, et qui en augmente le poids (1775), Lavoisier rifletteva l'ambiguità dei suoi esperimenti e del suo pensiero quando concludeva che "quest'aria non è soltanto aria comune, ma che essa è, inoltre, più respirabile, più combustibile, e conseguentemente che essa è anche più pura dell'aria in cui noi viviamo" (p. 429).

L'esperimento di Lavoisier sconvolse la convinzione che egli aveva mantenuto per quasi due anni, cioè che lo stesso identico fluido elastico era presente in tutte le operazioni che aveva studiato fino ad allora. Il problema più pressante diventava ora la relazione fra l'aria rilasciata dalle calci metalliche e ciò che egli aveva considerato come aria fissa. Ragionando sul fatto che il carbone presente nelle riduzioni ordinarie doveva convertire l'aria contenuta nelle calci metalliche in aria fissa, egli riscaldò l'aria derivata dalla sola calce con il carbone e ottenne "l'aria fissa pura". Nella sua relazione all'Académie Royale des Sciences egli rilevò che da questo risultato "sembrerebbe naturale concludere che l'aria fissa non è altro che una combinazione di aria comune con il flogisto. Questa è l'opinione del sig. Priestley, e bisogna ammettere che essa non è improbabile" (ibidem, p. 435). Tuttavia esistevano così tanti "dettagli di fatto" contraddittori, da costringerlo a sospendere il giudizio.

Aggiungendo porzioni successive di aria deflogisticata all'aria nitrosa (invece della solita addizione singola di due parti dell'aria in esame con una parte d'aria nitrosa), Priestley aveva trovato che l'aria deflogisticata risultava essere 'migliore' rispetto all'aria comune sia secondo questo criterio, sia dai test ordinari di combustione e di respirazione. In questo modo egli superava l'ambiguità sperimentale nella quale Lavoisier era caduto impiegando solo il test standard dell'aria nitrosa che Priestley aveva descritto nelle sue prime pubblicazioni. Tuttavia, Priestley, a sua volta, aveva introdotto un'ambiguità simile con la sua interpretazione teorica della nuova aria come aria ordinaria privata del suo flogisto. Mentre egli sembrava non accorgersi dell'ambiguità, Lavoisier si rese conto che la questione critica rimasta insoluta era: "Le diverse arie che la Natura ci fornisce o che noi riusciamo a produrre sono sostanze distinte oppure modificazioni dell'aria atmosferica?" (ibidem, p. 429).

Lavoisier apprese del test modificato dell'aria nitrosa dal secondo volume degli Experiments and observations on different kinds of air (1775) di Priestley, che giunse a Parigi alla fine del 1775. Quando, in seguito, il 13 febbraio 1776, Lavoisier ridusse la calce di mercurio senza adoperare il carbone, egli individuò immediatamente l'aria prodotta come "l'aria deflogisticata del sig. Prisley [sic]" (Cahiers de laboratoire, f. 2). In questo caso, per la prima volta, egli faceva un passo decisivo oltre gli esperimenti di Priestley sulla calce di mercurio. Tenendo una certa quantità di mercurio metallico al suo punto di ebollizione per 12 giorni, Lavoisier trovò che l'aria presente nella camera pneumatica, alla quale la storta era collegata, diminuiva in volume di circa 1/6. Quando egli sostituiva l'aria scomparsa con l'aria deflogisticata, nella miscela risultante una candela bruciava proprio come nell'aria ordinaria. Egli aveva ottenuto una cosa che più tardi, nella memoria Expériences sur la respiration des animaux et sur les changements qui arrivent à l'air en passant par leur poumons (1777), descrisse come la più completa prova (di composizione) a cui si poteva giungere in chimica "la decomposizione dell'aria e la sua ricomposizione".

Circa nello stesso periodo, Lavoisier dimostrò che l'acido nitroso era composto dall'aria nitrosa e da quella derivata dalla riduzione della calce di mercurio senza utilizzare il carbone. Nel Mémoire sur l'existence de l'air dans l'acide nitreux, con il quale, nell'aprile del 1776, presentava questo risultato all'Académie Royale des Sciences, egli scrisse che "sembra dimostrato […] che l'aria che noi respiriamo contenga solo un quarto di vera aria; che, nella nostra atmosfera, questa vera aria è mescolata con tre o quattro parti di un'aria nociva, una specie di mofeta, che fa sì che la maggior parte degli animali perisca, se la quantità di questa è un poco più grande" (p. 615).

Questa affermazione, presa da sola, sembra suggerire che Lavoisier avesse risolto il suo problema fondamentale, cioè che considerasse l'atmosfera composta da due sostanze distinte e non da una sola sostanza variamente modificata. Tuttavia, nello stesso scritto egli continuava a riferirsi alla "vera aria" anche come "porzione più pura dell'aria" e "aria migliore dell'aria comune". Probabilmente, questa oscillazione riflette la persistente influenza esercitata su di lui dai metodi e dalle idee di Priestley. Siccome il test dell'aria nitrosa offriva il metodo più sicuro per identificare l'aria deflogisticata, e poiché Priestley aveva definito il test una misura della "salubrità" dell'aria, Lavoisier era incline a descrivere l'aria di Priestley nei termini dello scopritore stesso. Inoltre, la sua definizione dell'aria rimanente (che più tardi sarà chiamata 'azoto') si basava non su proprietà chimiche identificabili, ma soltanto sulla fondamentale distinzione di tipo fisiologico fra la porzione respirabile e quella irrespirabile dell'atmosfera. Poco dopo, tuttavia, Lavoisier iniziò gli esperimenti sulla respirazione degli uccelli che lo portarono a distinguere la "mofeta" dall'aria fissa: in entrambe le arie gli uccelli non erano in grado di sopravvivere, ma diversamente dall'aria fissa esalata dagli uccelli stessi, la mofeta non si dissolveva in acqua e non rendeva torbida l'acqua di calce. Esistevano, dunque, almeno due specie distinte di arie irrespirabili.

Fra la primavera del 1776 e l'autunno del 1777, Lavoisier risolse le ambiguità e le contraddizioni principali presenti nel suo pensiero a proposito delle arie componenti l'atmosfera, e riuscì a collegare le sue spiegazioni parziali, trovate per problemi particolari, in una struttura concettuale coerente. Quindi in tutta la vicenda non sembra esservi stato alcun risultato sperimentale decisivo, né uno specifico momento di intuizione, quanto piuttosto un processo graduale di chiarificazione che coinvolgeva sia il percorso sperimentale via via sviluppato, sia la revisione critica delle idee che Lavoisier aveva a lungo perseguito. Gli esperimenti sull'evaporazione, condotti con Laplace durante la primavera del 1777, aiutarono Lavoisier a definire più rigorosamente la "materia del fuoco" come una sostanza presente sia allo stato libero sia in quello combinato; mentre quando era libera essa dava la sensazione del calore, quando era combinata con le basi delle diverse arie, essa agiva come principio dell'elasticità. Non gli era più possibile teorizzare che fosse l'addizione o la sottrazione di materia del fuoco a distinguere un'aria da un'altra, poiché tale materia era responsabile di una proprietà condivisa da tutte le arie. Ciò che distingueva ciascuna di esse, quindi, doveva essere la base specifica con la quale la materia del fuoco era combinata. In questo modo la materia del fuoco di Lavoisier si distingueva dal flogisto di Priestley, che dava conto delle differenze fra le arie piuttosto che della loro proprietà comune.

A questo punto Lavoisier cominciò a concentrarsi sperimentalmente sui processi di conversione in aria fissa di quella che ancora chiamava "aria pura" o "aria respirabile". In particolare attiravano la sua attenzione tre processi: la combustione delle candele, quella di una sostanza curiosa conosciuta come "piroforo" ‒ così infiammabile da prender fuoco facilmente da sola ‒ e la respirazione. Ognuno di questi processi mutava l'aria pura in aria fissa. In uno scritto sui suoi esperimenti sul piroforo, terminato nel settembre 1777, Expériences sur la combinaison de l'alun avec les matières charbonneuses, egli sostenne per la prima volta che "l'aria pura è convertita in aria fissa dalla sua combinazione con le materie carboniose, o, che è la stessa cosa, l'aria fissa non è altro che una combinazione di materie carboniose con l'aria pura, o meglio con la base di questa aria" (p. 371).

Infine Lavoisier giunse a elaborare un'alternativa alla concezione di Priestley che l'aria pura diventasse aria fissa per addizione di flogisto, sulla quale aveva avuto dubbi sin dagli inizi del 1775, ma nei confronti della quale non aveva nulla di meglio da offrire. Che cosa aveva condotto Lavoisier a questa nuova soluzione? Diversamente dai casi della combustione del fosforo e dello zolfo, egli non era stato in grado di dimostrare per mezzo di relazioni in peso che l'aria fissa consistesse della base dell'aria pura più la "materia carboniosa". Le densità delle due arie non erano ancora state stabilite con una precisione sufficiente a consentire un calcolo della differenza in peso fra volumi molto simili dell'aria pura assorbita e dell'aria fissa prodotta nei processi che trasformavano l'una nell'altra. Sembra che egli arrivasse a questa intuizione accettando pienamente l'analogia tra la formazione dell'aria fissa ‒ nota a quei tempi per avere proprietà acide ‒ e la formazione dell'acido di vetriolo per mezzo della combustione dello zolfo, dell'acido fosforico attraverso la combustione del fosforo e dell'acido nitroso per mezzo della combinazione dell'aria pura con quella nitrosa.

Con questi progressi nella propria posizione teorica, Lavoisier non ebbe più bisogno del flogisto per spiegare le proprietà delle arie che formavano l'atmosfera. Non casualmente egli cominciò, proprio in questo periodo, a preparare il suo attacco "all'intera teoria di Stahl concernente il flogisto", come scrisse nel De la combustion des chandelles dans l'air atmosphérique et dans l'air pure, con l'aspettativa che "l'aria flogisticata di Priestley [insieme con la sua aria deflogisticata] sarebbe rimasta essa stessa intrappolata nelle rovine dell'edificio" (pp. [14-15]).

Proprietà chimiche dell'aria

Il fatto che ora Lavoisier cominciasse a chiamare l'"aria pura" anche "aria eminentemente respirabile" indica quanto centrale fosse sempre stata la respirazione, sia per la concezione lavoisieriana della natura dell'atmosfera, sia per quella di Priestley. Nel frattempo per Lavoisier era diventata importante in maniera crescente un'altra delle proprietà di quest'aria. Già nel 1776 ‒ come testimonia il citato Mémoire sur l'existence de l'air dans l'acide nitreux ‒ egli aveva annunciato che la porzione pura dell'aria entra senza eccezione nella composizione di tutti gli acidi "ed è questa sostanza che costituisce la loro acidità". Nell'estate del 1777 egli cercò di estendere questa generalizzazione al di là dei tre acidi a partire dai quali aveva basato la sua induzione. Quando fu in grado di dimostrare che l'"acido dello zucchero" (ora acido ossalico) appena scoperto conteneva anche la stessa aria pura, in una Notice abrégée all'Académie Lavoisier proclamò come un "principio universale" il fatto che quando certe sostanze, eccetto alcuni metalli, si combinavano con grandi quantità di aria pura diventavano "un acido particolare che differi[va] essenzialmente da ogni altro acido". Nello scritto in cui riportava i suoi esperimenti sulla composizione dell'acido dello zucchero, egli propose, quindi, che la base dell'aria pura fosse chiamata "principio acidiforme". Mentre revisionava la bozza del suo articolo Considérations générales sur la nature des acides et sur les principes dont ils sont composés in vista di una sua pubblicazione, all'inizio del 1780, egli aggiunse a margine che, se si preferiva un termine greco, la base si poteva designare come "principio ossigeno". Con questo ripensamento, Lavoisier non solo aveva completato la scoperta della porzione respirabile dell'atmosfera, ma le aveva dato il nome 'ossigeno', cioé generatore di acido, con cui ancora oggi è conosciuta.

Nei suoi studi sulla struttura normativa e sui sistemi di riconoscimento della scienza, Robert Merton (1973) ha spiegato che la frequenza delle dispute sulla priorità deriva dal valore attribuito all'originalità, e la conseguente misura del grado di successo conseguito dai ricercatori è valutato in termini di scoperte per le quali essi sono riconosciuti come gli autori. Una giusta distribuzione di riconoscimenti è sempre stata importante per un fluido funzionamento della comunità scientifica. Gli storici, a volte, sono inclini a seguire l'indicazione degli stessi scienziati e assegnano retrospettivamente simili forme di riconoscimento. Poiché poche scoperte sono state realizzate completamente da singoli individui, normalmente questa pratica genera artificialmente definizioni precise del contenuto e dei tempi di una scoperta. Spesso anche l'orgoglio nazionale entra nel giudizio storico. Il fatto che Priestley, uno dei principali filosofi naturali inglesi, pur avendo dato inizio alla rivoluzione chimica, sia poi risultato perdente rispetto alla cosiddetta 'chimica francese', ha indotto alcuni storici, particolarmente inglesi, ad assegnargli la scoperta dell'ossigeno come una sorta di premio di consolazione. Una volta riconosciuto il significato di queste attribuzioni storiografiche, allora siamo liberi di vedere Priestley e Lavoisier come intrecciati in una sorta di dialettica dalla quale, lungo il corso di quattro anni, emerse gradualmente l'aria vitale che noi conosciamo come 'ossigeno'.

La nuova nomenclatura chimica

di Marco Beretta

Per 'nomenclatura chimica' oggi s'intende quel complesso di regole convenzionali usate per indicare i nomi delle sostanze sulla base delle loro proprietà chimiche. L'acquisizione di queste regole, apparentemente semplici ed elementari, è stata tuttavia ottenuta attraverso un processo storico estremamente complesso e privo di linearità, tanto che, ancora all'inizio del XVIII sec., la chimica era spesso confusa con l'alchimia e con l'arte di trasmutare i metalli. Del resto, i motivi che indussero le istituzioni e le accademie scientifiche degli inizi dell'Età moderna a relegare la chimica a un livello epistemologico subordinato rispetto alle altre scienze naturali sono proprio da ricercare nella natura del linguaggio tecnico adottato dai chimici e nei principî filosofici che presiedevano all'uso o, per meglio dire, all'abuso di questo linguaggio. Fino all'apparizione dell'opera di Lavoisier il linguaggio della chimica era costituito da un numero indefinito di nomi, la maggior parte dei quali era desunto dalle presunte proprietà trascendenti e miracolose delle sostanze e dei composti. Il ricorso a nomi che esaltavano le qualità occulte delle sostanze piuttosto che le loro proprietà fisico-chimiche esteriori portava spesso i chimici a coniare nomi differenti per designare una medesima sostanza. Sotto il nome di "mercurio", per esempio, il medico e naturalista tedesco Paracelso (Teophrast Bombast von Hohenheim, 1493-1541) intendeva sia l'"argento vivo", una sostanza dalle note proprietà tossiche, sia un composto dalle proprietà terapeutiche infallibili, ma questi non erano che due degli oltre quaranta significati che a più riprese erano stati attribuiti al termine mercurio.

è evidente che tali confusioni linguistiche condizionavano negativamente la pratica farmaceutica e la preparazione dei rimedi. Paradossalmente, l'abbondanza soverchia dei sinonimi e la prassi di denominare una stessa sostanza o una medesima operazione chimica con termini semanticamente diversissimi rendeva la chimica prelavoisieriana una scienza linguisticamente ricca. Al confronto con le nomenclature sintetiche e precise della fisica e dell'astronomia, la massa incontrollata e incontrollabile di termini chimici e alchimistici sfociava in un formalismo senza sostanza, la cui conseguenza più evidente era la proliferazione di controversie e dibattiti sul significato delle parole. Per contrasto, il numero di sostanze isolate nei laboratori settecenteschi era di poco più ricco di quello attestato dai chimici del Rinascimento. Il numero di oggetti manipolati dai chimici settecenteschi, infatti, non era superiore al migliaio, pochissimi se, per esempio, si pensa ai botanici che già a partire dalla seconda metà del secolo precedente avevano classificato oltre 10.000 specie diverse di piante.

Alla complessità intrinseca della nomenclatura chimica venivano ad aggiungersi le relazioni esistenti tra l'alchimia e l'astrologia. L'effetto più evidente e anche più importante di tale rapporto era espresso nella scelta dei nomi adottati per designare i metalli. L'associazione dei sette metalli ai sette pianeti aveva indotto i chimici ad assegnare ai metalli nomi identici a quelli utilizzati dagli astronomi e dagli astrologi per denominare i pianeti. La forza e l'influenza dell'astrologia nella denominazione dei metalli la si può ancora oggi misurare nella diffusione del termine mercurius che in alcune lingue neolatine ha sostituito quello più propriamente chimico e descrittivo di 'argento vivo'. L'intima connessione tra astrologia e alchimia e la plurivocità semantica dei nomi che ne derivava posero spesso difficoltà insormontabili ai naturalisti del XVII sec., per i quali era divenuto difficile stabilire con certezza se un dato testo fosse un trattato di astrologia oppure uno di alchimia. Del resto, l'obiettivo di Paracelso di ancorare l'indagine del mondo sublunare all'interpretazione delle segnature del macrocosmo celeste presupponeva l'intima commistione dell'astrologia con l'alchimia quale fondamento filosoficamente motivato della sua dottrina. L'ambizione di estendere il campo d'indagine della chimica oltre i limiti della materia e del visibile favorì dunque l'emergere di una nomenclatura pressoché illimitata; analogie, metafore, simboli, emblemi, icone, tavole ed eccentrici neologismi, tratti dalle lingue più disparate erano utilizzati per designare sostanze che, tanto dal punto di vista chimico quanto da quello sperimentale, non nascondevano alcun mistero.

Nei primi decenni del XVIII sec. due fattori contribuirono a preparare un cambiamento radicale nell'approccio tradizionale al linguaggio. In primo luogo, grazie ai notevoli progressi della metallurgia, della medicina e della farmacia, erano state scoperte e isolate numerose nuove sostanze inorganiche. Questo progresso quantitativo poneva i chimici di fronte al problema di come denominare nuovi oggetti che erano dotati di proprietà chimiche ben determinate. Si era dunque passati da una situazione in cui i nomi servivano per esprimere idee di natura metafisica a una fase in cui la scoperta di corpi naturali nuovi si presentava come l'effetto di un approccio sperimentale ed empirico.

Un altro fattore di grande importanza nel contribuire alla progressiva emancipazione della chimica settecentesca dalle sue fonti esoteriche e metafisiche è costituito dall'influenza esercitata dalla filosofia dei Lumi sullo sviluppo delle scienze. Diderot, d'Alembert, Holbach, Rousseau, Turgot e altri collaboratori illustri dell'Encyclopédie compresero l'importanza della chimica e le sue potenzialità applicative ed epistemologiche. Diderot, per esempio, considerava la chimica come l'unica scienza che, in virtù della sua dimensione empirica e manipolatrice, poteva penetrare i misteri della materia senza che si dovesse far ricorso a ipotesi di natura metafisica o ad astrazioni matematiche. Nell'esaltare le virtù della chimica il filosofo francese aveva in mente la teoria del flogisto del medico tedesco Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734), la prima filosofia della materia che metteva al centro della propria definizione gli esperimenti e le osservazioni.

L'influenza e il successo della teoria del flogisto di Stahl nella prima metà del Settecento erano accompagnati dalla crescente insofferenza manifestata da diversi naturalisti nei confronti dello stile oscuro e difficile delle sue opere, realizzate scrivendo in un misto di lingua tedesca e di lingua latina. Il segno di questa insoddisfazione è particolarmente visibile nelle traduzioni, soprattutto quelle in francese, dei trattati chimici di Stahl e dei suoi discepoli. Nelle prefazioni e nelle introduzioni di queste opere, infatti, i traduttori giustificarono i pesanti interventi di uniformazione della prosa e della nomenclatura adducendo come giustificazione l'oscurità del linguaggio utilizzato per designare le sostanze chimiche.

Le riforme di Bergman e di Guyton de Morveau

Questi primi timidi tentativi fecero emergere, dopo la prima metà del Settecento, l'esigenza di riformare il linguaggio della chimica e di unificarne quanto più possibile i diversi elementi. Il primo tentativo di riforma sistematica della nomenclatura fu opera dello svedese Torbern Olof Bergman (1735-1784), allievo di Linneo e professore di chimica presso l'Università di Uppsala dal 1767. Proprio nel 1767 Bergman proponeva a Pierre-Joseph Macquer (1718-1784) di esaminare una riforma della nomenclatura dei sali, una classe di sostanze in rapida crescita, in cui si adottava una nomenclatura binomia simile a quella introdotta da Linneo per la classificazione dei vegetali. 'Alcali' e 'acido' dunque diventavano i nomi generici da utilizzare per designare la classe dei sali, mentre un nome specifico aveva il compito di identificare i differenti sali (le specie di Linneo). Così, il 'sale di Glauber', denominazione che non indicava alcunché se non un'allusione al nome del suo presunto scopritore, doveva essere designato con il nome di "alcali vitriolato vegetale", un termine che illustrava chiaramente gli ingredienti del sale.

Negli anni successivi il chimico svedese s'impegnò a sviluppare ulteriormente la sua riforma e nel 1779 raccomandava ai chimici l'adozione di alcune regole lessicali attraverso le quali sarebbe stato possibile evitare le ambiguità. Nel 1784 queste raccomandazioni risultarono nella pubblicazione di una memoria intitolata Meditationes de systemate fossilium naturali, nella quale Bergman estendeva le proposte di riforma anche ai minerali e alle terre. Innanzitutto, la riforma prevedeva il latino come lingua generale della chimica. Bergman denominava quindi gli acidi nel modo seguente: vitriolicum, muriaticum, fluoratum, boracinum, oxalinum, e così via.

Gli alcali erano invece di tre specie e cioè il potassinum (la potassa), il natrum (la soda) e l'ammoniacum (ammoniaca). Il nome di un sale doppio doveva essere derivato da quello generico dell'acido in esso contenuto, fuso con un aggettivo tratto dal nome dell'alcali, terra oppure metallo con cui era combinato. Così al posto del termine "gipsi" Bergman suggeriva l'uso di vitriolicum calacareatum, oppure invece di 'tartari vitriolati', quello di vitriolicum potassinatum. I nomi dei sali doppi appartenevano alla classe generica degli "alkali".

L'idea di Bergman di creare, sul modello della botanica linneana, un sistema di combinazioni di nomi basato sulla loro classificazione chimica rappresentava un passo decisivo verso il definitivo abbandono della nomenclatura alchemica. Questo passo venne ulteriormente agevolato dalle ricerche da lui realizzate sulle affinità chimiche. La necessità di riunire e classificare un gran numero di sostanze e di metterle in rapporto tra loro entro uno spazio limitato rendeva sempre più urgente l'utilizzazione di un sistema di segni efficace e rigoroso. Nel 1775 Bergman aveva pubblicato una Disquisitio de attractionibus electivis nella quale auspicava che la forza di attrazione tra diverse sostanze chimiche fosse espressa in termini numerici e che i simboli utilizzati per designare le sostanze fossero considerati, al pari di coefficienti algebrici, come abbreviazioni convenzionali di un'espressione matematica. Bergman era consapevole che la chimica fosse molto lontana dal livello di grande precisione raggiunto nelle scienze fisico-matematiche, ma il suo tentativo cercava di indicare una direzione e un modello ai quali i chimici avrebbero fatto bene a uniformarsi se volevano davvero superare le considerevoli difficoltà generate dall'uso del linguaggio tradizionale.

La riforma di Bergman venne accolta favorevolmente in tutta Europa, anche se, paradossalmente, non furono molti i chimici che adottarono la nuova nomenclatura. Questo atteggiamento ambiguo era dovuto alla sua scelta di utilizzare il latino come lingua privilegiata. Una scelta, questa, comprensibile per uno scienziato svedese, ma che non riscosse particolare fortuna. Contrariamente ad altre scienze, infatti, la letteratura chimica poteva contare su una solidissima tradizione di testi scritti nelle lingue vernacolari. Fin dal Rinascimento i naturalisti francesi, inglesi e tedeschi avevano scritto testi di chimica utilizzando prevalentemente la propria lingua. Nel Settecento questa tendenza si venne accentuando ulteriormente e, con rare eccezioni, i principali trattati di chimica non erano scritti in latino. Di fatto, nella seconda metà del secolo, il francese e il tedesco erano le principali lingue parlate dai chimici europei. A conferma di ciò è bene ricordare che le opere di Bergman, pubblicate originariamente in latino, erano state immediatamente tradotte in francese e tedesco. Dunque, per quanto i principî della nuova nomenclatura fossero stati salutati con grande favore, l'adozione del latino non sembrava renderli compatibili con la tendenza generale degli stili e delle lingue adottate dai chimici settecenteschi.

Un amico e corrispondente di Bergman, il chimico francese Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816), aveva apprezzato i risultati ottenuti nella riforma della nomenclatura dei sali e, facendoli propri, decise di proporre una serie di regole che avrebbero consentito ai chimici di denominare le nuove sostanze e composti secondo criteri semplici e uniformi. La sua proposta veniva pubblicata nel 1782 in un Mémoire sur les dénominations chymiques ove erano stabiliti i seguenti cinque principî: (1) nel coniare nuovi nomi i chimici dovevano assolutamente evitare le circonlocuzioni e cercare di utilizzare lemmi estremamente incisivi, al massimo di due termini (nomenclatura binomia); (2) le denominazioni dovevano essere il più possibile conformi alla natura chimica della sostanza o del composto da designare. Da questo principio seguivano i due corollari secondo cui a una sostanza semplice doveva corrispondere un solo nome, mentre per i composti era necessario usare nomi composti (possibilmente di due termini) che fossero capaci di rappresentare adeguatamente la natura degli ingredienti che li costituivano; (3) nei casi in cui la natura della sostanza o del composto fosse dubbia, un nome privo di alcun significato era da preferire a uno che potesse esprimere una qualsiasi idea falsa sulla natura della sostanza; (4) nei casi, molto numerosi, in cui ci si fosse trovati di fronte a diverse alternative, la scelta del chimico doveva privilegiare i nomi che avevano la loro radice nelle lingue morte più comuni, in modo tale che fosse possibile garantirgli una maggior universalità; (5) infine, i nomi dovevano essere adattati al genio delle lingue nazionali.

L'esito dell'applicazione di questi principî, adottati soltanto per la riforma dei nomi dei sali, non era molto differente dalla nomenclatura introdotta da Bergman, anche se la scelta di Guyton de Morveau di sostituire il latino con il francese si rivelò molto fortunata. La sua riforma, infatti, venne salutata con grande favore, segno che i tempi erano ormai maturi per un radicale cambiamento. Tuttavia, nel 1782 le ricerche sui sali costituivano solamente una parte, e per di più la meno importante, della chimica del tempo. Le sensazionali scoperte di chimica pneumatica che, dal 1755, si erano succedute con straordinaria rapidità avevano sconvolto la filosofia della materia tradizionale, sollevando numerose questioni relative alla definizione dei gas. In effetti, la scoperta di Stephen Hales (1677-1761) che l'aria, fissandosi nei corpi, entrava nella loro composizione alterandone la natura chimica, sconvolgeva il principio aristotelico che sanciva la passività e la semplicità dell'aria.

Lavoisier e il linguaggio della chimica

Quando, nel 1772, Lavoisier incominciava sistematicamente a interessarsi di chimica, la scoperta di numerose nuove sostanze, la constatazione che l'aria non era un elemento semplice e l'isolamento di nuovi gas erano acquisizioni di cui la comunità chimica europea riconosceva l'enorme significato sperimentale, senza tuttavia essere in grado di comprenderne le conseguenze teoriche e di elaborare una moderna teoria della combinazione chimica. Questa incapacità era intimamente legata alla questione del linguaggio. In una nota del 1773 Lavoisier lamentava che, di fronte alle straordinarie scoperte compiute sull'aria, i chimici avevano tralasciato di modificare conseguentemente il linguaggio tecnico tradizionale. L'importante scoperta del ruolo attivo dell'aria nelle reazioni chimiche costituiva dunque l'occasione più propizia per una riforma totale della nomenclatura tradizionale e per liberarla da tutte le ambiguità e incongruenze ereditate dall'alchimia e da altre scienze occulte. Dato che i gas entravano nella combinazione delle sostanze, alterandone le proprietà chimiche, era ora estremamente necessario stabilire alcune regole sintattiche attraverso le quali fosse possibile denominare in modo omogeneo i nuovi composti. Il primo neologismo introdotto da Lavoisier nel vocabolario della chimica moderna è quello di principe oxygine (principio ossigino), derivato dai due termini greci oxýs (acido) e geínomai (essere generato). Con questo termine il chimico francese intendeva designare la caratteristica più importante di questa sostanza, quella cioè di essere il principio universale di acidificazione. Già nel 1787, quando Claude-Louis Berthollet (1748-1822) riuscì a decomporre nei suoi costituenti l'acido cloridrico, tale generalizzazione si sarebbe rivelata erronea.

La definizione dell'ossigeno era dunque basata su due regole: la prima e più importante stabiliva che il nome avesse un significato conforme alla natura chimica dell'oggetto da definire; la seconda poneva l'etimologia greca quale veicolo privilegiato per la formazione dei futuri nomi chimici. Il ricorso a una lingua morta come il greco non smorzava l'irrompente vitalità della concezione linguistica di Lavoisier. La definizione dell'ossigeno, infatti, oltre a fornire una spiegazione plausibile dell'acidificazione, stava alla base della spiegazione di operazioni e fenomeni comunissimi come la calcinazione, la combustione e la respirazione. Unificando queste tre operazioni nella definizione dell'ossigeno, una sostanza isolata per la prima volta solo nel 1774, Lavoisier aveva sconvolto il quadro generale dell'interpretazione tradizionale dei fenomeni chimici. Prima di Lavoisier, infatti, la calcinazione, la combustione e la respirazione erano considerati soltanto fenomeni senza alcuna relazione reciproca. Inoltre, la definizione dell'ossigeno aveva anche un risvolto linguistico assai rilevante. Lavoisier, infatti, non si era accontentato di aver introdotto, in modo del tutto convenzionale, un nome descrittivo per una sostanza recentemente scoperta. Al contrario il chimico francese sostenne fin dall'inizio che il nome 'ossigeno' era stato coniato sulla base della convinzione di una sua corrispondenza ontologica con la sostanza a cui il nome si riferiva. Non diversamente da Linneo, il quale considerava la botanica una scienza essenzialmente tassonomica e linguistica, Lavoisier aveva proiettato una grande importanza conoscitiva sulla definizione degli oggetti della chimica. Egli, tuttavia, si stava spingendo molto oltre la concezione che aveva ispirato la riforma della nomenclatura botanica di Linneo. Mentre lo scienziato svedese pur avendo considerato il nome delle piante come il veicolo conoscitivo principale delle loro proprietà morfologiche non aveva elaborato alcun sistema o metodo di nomenclatura, l'obiettivo di Lavoisier era quello di creare una combinatoria di nomi collegati gli uni con gli altri secondo la dinamica delle principali reazioni chimiche. I nomi, dunque, non solo dovevano descrivere una sostanza o un composto in modo individuale ma, al pari di parametri numerici, essere combinabili tra loro e formare quelle che noi oggi chiameremmo equazioni stechiometriche.

L'ambizione di matematizzare una scienza che, come abbiamo visto in precedenza, sul piano sperimentale, al di fuori della scoperta di alcuni nuovi gas, aveva prodotto poche novità rispetto al secolo precedente, rappresentava un'innovazione metodologica estremamente rischiosa. D'altra parte, fermamente convinto che la scoperta dell'ossigeno rappresentasse un evento rivoluzionario, Lavoisier decideva di intraprendere un programma di ricerca atto a reinterpretare su nuove basi linguistiche ed epistemologiche la chimica tradizionale. Un primo saggio di questa rinnovata concezione della terminologia tecnica veniva espresso dal chimico francese in una memoria intitolata Considérations générales sur la dissolution des métaux dans les acides, presentata all'Académie Royale des Sciences di Parigi nel 1782. In questo lavoro Lavoisier intendeva dimostrare che un metallo dissolto in acidi diversi avrebbe liberato la stessa quantità di ossigeno.

Per dimostrare questo assunto di partenza il chimico francese si era servito di una bilancia ad alta precisione, formulando i risultati ottenuti attraverso l'utilizzazione di un sistema di simboli che "a prima vista potevano essere considerati formule algebriche". Nel proiettare parametri quantitativi ed espressioni numeriche sui risultati di laboratorio, egli era dunque capace di presentare la prima equazione stechiometrica apparsa in un'opera di chimica. La novità da lui introdotta non risiedeva solamente nella rappresentazione di una serie di reazioni chimiche di una medesima classe in una equazione algebrica; anche i simboli utilizzati per designare l'ossigeno e altre sostanze chimiche erano infatti interamente nuovi.

Il metodo per una nuova nomenclatura

L'obiettivo di Lavoisier di rifondare la chimica e di elevarne lo statuto epistemologico doveva quindi passare per una radicale trasformazione del lessico tecnico. L'occasione per realizzare questo cambiamento si presentò nella primavera del 1787, quando il chimico francese raccoglieva intorno a sé un gruppo di scienziati al fine di proporre all'Académie un nuovo metodo per denominare gli oggetti della chimica. Il risultato di questa impresa collettiva fu la pubblicazione, nello stesso anno, della Méthode de nomenclature chimique, un testo per molti versi rivoluzionario.

Lavoisier, autore dei due saggi principali, si proponeva con questo testo di offrire un modello di razionalizzazione della materia che, basandosi sui risultati dell'esperienza induttiva, fosse capace di organizzarne i risultati in un quadro teorico generale e coerente. La verità, infatti, non poteva emergere solamente da un elenco di osservazioni ed esperienze, ma unicamente "dall'ordine col quale queste venivano presentate". Ispirato dalla filosofia sensista del francese Condillac, Lavoisier suddivideva la conoscenza scientifica in tre fasi distinte: nella prima si ha una visione immediata e sintetica dei fenomeni che si intende studiare; nella seconda si passa a un'analisi scompositiva di questi fatti; nella terza, con l'ausilio della ragione, li si ricostruisce sinteticamente in una teoria. La terza fase, ed essa sola, offriva secondo Lavoisier l'interezza complessiva di ciò che era stato osservato (prima fase) e arricchito dalle determinazioni sperimentali (seconda fase).

Lavoisier imputava ai suoi predecessori di aver trascurato la terza fase della conoscenza, quella cioè in cui il fenomeno era ricostruito mentalmente. Solamente i fisici e i matematici, a suo giudizio, erano pervenuti al raggiungimento di verità positive attraverso l'ordinamento metodico e razionale dei dati. La ragione, pena il suo dissolvimento nell'immaginazione, doveva comunque sottostare ad alcune regole che, secondo Lavoisier, erano dettate dalla Natura stessa. Le scienze infatti non erano altro che una serie di fatti, le idee che li ricordano e le parole che li esprimono. "La parola deve far nascere l'idea e l'idea deve descrivere un fatto". Il linguaggio, dunque, aveva il compito privilegiato di essere lo specchio della Natura, o meglio il punto di corrispondenza biunivoca tra le idee e i fatti. Questa filosofia razionalistica e apparentemente lontana dai laboratori di chimica aveva per Lavoisier uno scopo estremamente concreto, quello cioè di elaborare un metodo di nomenclatura anziché una nuova nomenclatura tout court. La differenza è importante. Un nuovo metodo di designazione dei nomi infatti presupponeva una grammatica e una sintassi ben precise, una serie di regole a cui uniformare le designazioni prescelte e un lessico che si adattasse ad esso. La riscrittura del linguaggio della chimica presupponeva dunque anche la riscrittura del metodo fino ad allora adottato in questa scienza.

In effetti le novità assolute presentate nella Méthode sono significative. I fondamenti della nuova nomenclatura erano costituiti dalla definizione dei corpi semplici, cioè di quelle sostanze che non potevano essere ulteriormente decomposte dall'analisi chimica. Lavoisier, infatti, si era rifiutato di discutere quello che fino ad allora era stato considerato come il tema più importante della chimica settecentesca: ossia il numero e la natura degli elementi semplici. Per il chimico francese tali discussioni erano diventate obsolete. Da un lato perché sempre più spesso si scoprivano nuovi elementi e dall'altro perché l'insufficienza degli strumenti in uso nei laboratori lasciava prevedere che, in un futuro neanche tanto lontano, le dispute sui 4 elementi di Aristotele o i 3 principî di Paracelso sarebbero del tutto scomparse. Pragmaticamente, dunque, Lavoisier definiva "elemento" qualsiasi sostanza che fino ad allora non si era ancora riusciti a decomporre chimicamente.

Lavoisier suddivideva le 55 sostanze che rispondevano a questa caratteristica in 5 classi. La prima classe era formata da luce, calorico, ossigeno, idrogeno e azoto e rappresentava il nucleo semantico dal quale dipendeva l'intero edificio linguistico della chimica lavoisieriana. La seconda classe di sostanze era composta da ben 25 basi acidificabili, malgrado le uniche di queste a essere state isolate sperimentalmente fossero l'azoto, lo zolfo, il carbonio e il fosforo. Il sistema di nomenclatura delle basi era semplice ma efficace ed era fondato sulla nomenclatura binomiale usata da Linneo per designare i nomi delle piante. Se, per esempio, lo zolfo era la base acidificabile dell'acido vetriolico, combinato con l'ossigeno generava quest'acido che, dunque, doveva derivare il suo nome da quello della base ed essere quindi designato 'acido solforico'. Quest'acido, tuttavia, si poteva presentare in due diversi stati di saturazione, manifestando proprietà chimiche completamente differenti; erano perciò necessari due nomi che, nel conservare una radice comune, evidenziassero la differenza caratteristica. L'acido solforico designava lo zolfo interamente saturato dall'ossigeno; l''acido solforoso' designava lo zolfo combinato con una quantità di ossigeno minore; 'solfato' era il nome generico del sale formato dall'acido solforico; 'solfito' era il nome del sale formato dall'acido solforoso; 'solfuro', infine, designava le restanti combinazioni dello zolfo non portato allo stato acido. L'enorme novità di questo sistema di denominazione era costituita dalla quantificabilità delle sostanze, rilevabile a partire dalle differenti definizioni: i suffissi -ico, -oso, -ato, -ito, -uro rimandavano non soltanto a una determinata sostanza e alle sue proprietà chimiche ma anche alle proporzioni quantitative dei suoi ingredienti.

La terza classe di sostanze semplici presentata nella Méthode erano i metalli dei quali venivano conservati i nomi tradizionali ma con un'innovazione significativa: i metalli calcinati, ossia combinati con l'ossigeno, erano chiamati "ossidi", rendendo in questo modo ancor più centrale il ruolo semantico dell'ossigeno. La quarta e la quinta classe di sostanze erano costituite dalle terre e dagli alcali che conservavano, salvo poche eccezioni, i nomi tradizionali.

Combinando i nomi a 2 a 2 e a 3 a 3, si otteneva una nomenclatura di oltre 320.000 nomi. A questi nomi corrispondevano alcuni composti che, nella stragrande maggioranza dei casi, non erano ancora stati isolati sperimentalmente ma che Lavoisier prevedeva di ottenere quando le tecniche analitiche si fossero raffinate e potenziate. Se si pensa che prima dell'apparizione della Méthode le sostanze e i composti chimici conosciuti sperimentalmente erano poco più di 1000, si può comprendere a pieno il valore rivoluzionario della nuova nomenclatura. L'innovativa combinatoria dei nomi chimici veniva compressa da Lavoisier in un Tableau de la nomenclature chimique che offriva, in uno spazio ridottissimo, una mappa linguistica generale della chimica e delle sue principali operazioni. Per comprimere ulteriormente il linguaggio e realizzare l'antico sogno di matematizzarne la forma, Lavoisier proponeva un nuovo sistema di simboli geometrici finalmente svincolati da qualsiasi tradizione alchemica. Questa simbologia, tuttavia, ebbe scarso successo tanto che nemmeno Lavoisier la utilizzò nelle sue opere successive.

I nomi della nomenclatura lavoisieriana erano per la maggior parte derivati dal greco e dal latino e soltanto minimamente da lingue vernacolari. Benché il testo delle memorie di Lavoisier fosse scritto in francese, si era preferito traslitterare i termini dal greco piuttosto che crearli dal francese direttamente. Questa opzione fu indubbiamente un scelta fortunata perché, pur trattandosi di una nomenclatura ideata e concepita da chimici francesi poco avvezzi alle lingue classiche, l'uso sistematico del greco garantiva alla nuova nomenclatura un'identità espressiva di natura universale e cosmopolita. Ma le ragioni che indussero Lavoisier a usare il greco erano anche di natura tecnica ed euristica. Esso, infatti, poteva essere utilizzato come una sorta di lingua formale e astratta i cui nomi potevano essere combinati secondo regole di tipo matematico. Uno dei propositi espliciti della innovativa nomenclatura chimica, infatti, era quello di creare un sistema di segni funzionali a un'indagine e una definizione della materia strutturata su un modello matematico. Nel proporre la sua nomenclatura come un sistema combinatorio di principî di tipo algebrico, Lavoisier aveva compreso che la matematica era una lingua di inesauribile finezza e ampiezza e uno strumento insuperabile nella precisione e nella trasparenza dei dati.

La pubblicazione della Méthode de nomenclature chimique sconvolse la comunità chimica europea. In paesi con una tradizione di studi chimici consolidati come Germania, Gran Bretagna e Svezia, il nuovo linguaggio era considerato come un oltraggio al proprio passato e alla ricchezza espressiva della chimica tradizionale. A queste resistenze si aggiungevano i problemi connessi alla traduzione dei nuovi nomi nelle differenti lingue europee. Mentre gli Inglesi si limitavano ad adattare i nomi francesi al genio della lingua inglese, senza alterare la sostanza e l'efficacia del sistema combinatorio ideato da Lavoisier, i Tedeschi adottavano una soluzione più difficile traducendo i significati etimologici dei nomi greci in tedesco. Così il termine oxygène, che gli Inglesi traducevano con oxygen, veniva cambiato in tedesco con il nome di Sauerstoff. La soluzione adottata dai Tedeschi e successivamente anche dagli Scandinavi e dagli Olandesi comportava necessariamente la perdita dei suffissi e dei vantaggi a essi collegati. Quale che fosse la soluzione adottata dai diversi traduttori, la nuova nomenclatura chimica era un linguaggio universalmente comprensibile e di facile insegnamento. Nonostante l'unanime resistenza iniziale, il successo consacrato alla lingua di Lavoisier non ha precedenti nella storia della scienza. Prima del 1785, infatti, soltanto lui si serviva del termine ossigeno e dei suoi derivati, dopo il 1795 erano ormai pochissimi gli scienziati che non si erano piegati alla forza persuasiva del nuovo linguaggio. Nel 1789 Lavoisier pubblicava il suo capolavoro, il Traité élémentaire de chimie, la sintesi di venti anni di ricerca teorica e sperimentale. Sul piano della forma quest'opera offre una novità estremamente significativa. Per oltre due terzi, infatti, è composta di tavole di nomenclatura e relative spiegazioni. Lo stesso Lavoisier, nell'introduzione all'opera, ammetteva che l'elaborazione del libro era nata proprio da una riflessione sui principî della nuova nomenclatura chimica e su come da essi potesse scaturire una moderna concezione della materia. Tra le decine di tavole presentate troviamo anche quella che illustra le 33 sostanze semplici (o, per riprendere quanto afferma Lavoisier, che sono tali allo stato attuale delle conoscenze).

La nomenclatura proposta da Lavoisier ebbe importanti conseguenze anche al di fuori del ristretto ambito della chimica. Il suo successo repentino, infatti, indusse molti savants francesi a estendere le regole ideate dal chimico in altri importanti progetti di riforma. Così, tra il 1789 e il 1793 la Commissione pesi e misure dell'Académie Royale des Sciences, tra cui figurava anche Lavoisier, proponeva una rivoluzione nel sistema dei pesi e misure che di lì a pochi anni sarebbe stata adottata dalla maggior parte dei Paesi continentali. La riforma della nomenclatura dei pesi e delle misure era basata sulle stesse regole che avevano ispirato quella chimica. I nomi, infatti, erano derivati dal greco e, grazie a un sistema di suffissi, era possibile una loro combinazione logica.

Fu comunque in ambito chimico che l'influenza della filosofia del linguaggio promossa da Lavoisier diede i risultati più duraturi. Fatte rarissime eccezioni, tutti i nomi delle sostanze e dei composti proposti nel 1787 verranno conservati e tramandati fino a noi. Anche quando le proprietà di un nome, come per esempio quelle dell'ossigeno, si dimostravano assolutamente incompatibili con l'etimologia attribuitagli da Lavoisier, il nome veniva conservato. Infatti, i vantaggi di utilizzare un meccanismo combinatorio estremamente efficace erano di gran lunga superiori all'espressività di un singolo termine.

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