L'Età dei Lumi: la fine della conoscenza naturale 1700-1770. Macchine e idraulica

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: la fine della conoscenza naturale 1700-1770. Macchine e idraulica

Terry S. Reynolds

Macchine e idraulica

Nel Settecento, a parte rare eccezioni, i tecnici impiegavano ancora i metodi tradizionali per progettare e costruire i canali, gli acquedotti e le macchine idrauliche, usando un approccio di tipo comparativo e normativo. Un costruttore di mulini, per esempio, si poneva interrogativi generici sulla grandezza della ruota o sul volume d'acqua, evitando di impostare il problema in termini quantitativi, ossia senza calcolare la portata in unità cubiche al secondo o domandarsi quale fosse il rendimento della ruota espresso sotto forma di rapporto. Analogamente, quando dovevano realizzare una macchina per sollevare pesi, generalmente i costruttori la progettavano rifacendosi a esperienze passate, in seguito verificavano che fosse adatta allo scopo e quindi diminuivano il carico, o modificavano i rapporti degli ingranaggi, fino a ottenere una potenza motrice sufficiente a svolgere il lavoro.

Sebbene non quantitativi, i metodi impiegati dai tecnici avevano un elemento in comune con la nuova concezione della scienza emersa nel secolo precedente: la sperimentazione. Per sua natura, lo sviluppo della tecnologia non poteva prescindere dalla sperimentazione e già molto prima del 1700 essa era stata utilizzata in modo sistematico anche in campo idraulico. Per esempio, nel 1438 gli ingegneri milanesi incaricati di realizzare a Varenna una delle prime chiuse di navigazione europee, ne collaudarono il progetto costruendo una piccola chiusa nel fossato di un castello. Nel 1554 Adam de Craponne, un giovane ingegnere francese, realizzò un canale sperimentale allo scopo di studiare le caratteristiche del flusso idrico prima d'intraprendere la costruzione del canale reale. Tuttavia, pur essendo a volte sistematica, la sperimentazione tecnologica non prevedeva in genere misurazioni o calcoli quantitativi, non mirava alla formulazione di leggi generali, né si basava su di esse, e i primi tentativi significativi furono effettuati nel XVII e nel XVIII secolo. Numerosi matematici e filosofi naturali, sulla scorta dei successi ottenuti con l'introduzione del metodo quantitativo nelle scienze fisiche, cominciarono infatti a esplorare il campo della tecnologia, seguiti, quasi contemporaneamente, da tecnici impressionati dai risultati ottenuti in ambito scientifico.

Anche se tra i fattori che spinsero alcuni matematici e filosofi naturali ad allargare il proprio campo d'indagine alla tecnologia vi furono, come abbiamo detto, la curiosità e la ricerca di nuovi problemi, tuttavia vi contribuirono fortemente altri fattori. In molti casi, questi studiosi erano sinceramente convinti della possibilità di un'utilizzazione pratica delle proprie ricerche e in realtà l'idea che la scienza possedesse ‒ o avrebbe dovuto possedere ‒ un risvolto utile era condivisa dalle élite intellettuali e dirigenti di tutta Europa. Ciò favorì, a partire dagli anni Sessanta del Seicento, il patrocinio delle accademie scientifiche da parte dello Stato, come nel caso della Royal Society di Londra e dell'Académie Royale des Sciences di Parigi. Se da un lato l'interesse di una parte degli studiosi legati alle nuove accademie era prevalentemente rivolto a questioni intellettuali astratte, con scarso riferimento alla pratica, dall'altro il ruolo delle burocrazie statali nella scelta dei problemi sottoposti agli accademici divenne sempre più incisivo, soprattutto nell'Europa continentale. Dalla fine del XVII sec. in poi, il governo francese delegò sistematicamente all'Académie il compito di valutare l'efficacia delle nuove invenzioni e di seguire l'andamento dei progetti tecnologici. Un tacito accordo garantiva il sostegno duraturo della Corona agli accademici disposti a occuparsi dei progetti che interessavano concretamente lo Stato francese. Anche in altri paesi europei, come la Svezia, la Prussia e la Savoia, l'appoggio della monarchia stimolò filosofi naturali e matematici a occuparsi di problemi pratici. Il re di Svezia, per esempio, patrocinò l'Accademia Svedese delle Scienze nella speranza che la diffusione delle conoscenze nel campo della matematica, della storia naturale e della tecnologia pratica favorisse lo sviluppo economico del paese. Analogamente i membri delle Accademie delle Scienze prussiana e russa erano occasionalmente tenuti ad affrontare problemi pratici. Durante la sua permanenza a Pietroburgo presso l'Academia Scientiarum Imperialis Petropolitana, Leonhard Euler (1707-1783) si occupò di pompe e di problemi di navigazione per conto del governo russo e, in seguito, alla Königliche Preussische Akademie der Wissenschaften (Accademia Reale Prussiana delle Scienze) di Berlino, si interessò del livello dei canali e dell'approvvigionamento idrico del palazzo di Sans-Souci di Federico II di Prussia.

In altre parti d'Europa, dove le società scientifiche sorsero più tardi o ebbero un minore sviluppo, la spinta ad applicare la teoria alla pratica fu determinata dall'influenza esercitata dai governi sugli istituti universitari. In Italia, alcuni Stati esercitarono pressioni sulle università locali, affinché assumessero o favorissero gli accademici utili agli enti statali preposti al controllo delle acque. Per esempio, il prestigio accademico di cui godette il professore dell'Università di Padova Giovanni Poleni fu dovuto in parte alla sua funzione di consulente d'idraulica del governo di Venezia. In Olanda, l'incarico di professore di filosofia della Natura a Leida comportava per Willem Jacob 'sGravesande (1688-1742) l'obbligo di occuparsi dell'ispezione e del miglioramento dei trasporti navali per conto delle autorità locali.

I matematici, i filosofi naturali e gli ingegneri che nel XVIII sec. provarono ad applicare la scienza alla tecnologia seguirono principalmente due modelli fondamentali: l'approccio deduttivo che poneva l'accento sulla teoria, oppure quello induttivo che privilegiava invece la sperimentazione. In genere i matematici accademici e quelli che s'interessavano di meccanica teorica preferivano il metodo deduttivo. Affascinati dalle possibilità offerte dalla matematica e ansiosi di dimostrare alle burocrazie statali, divenute i loro mecenati, l'utilità dei propri studi apparentemente esoterici, essi s'ispirarono alle leggi fondamentali della meccanica formulate da Galilei e da Newton, derivandone regole generali applicabili ai problemi tecnologici. Quando tali regole erano sottoposte a sperimentazione, erano impiegati apparati sperimentali talmente rudimentali da riprodurre soltanto in modo approssimativo le condizioni di funzionamento reali. Viceversa, l'approccio induttivo sperimentale era preferito da un gruppo piccolo, ma in costante aumento, d'ingegneri dotati di una formazione matematica e da alcuni filosofi naturali interessati ai problemi tecnologici.

Una rassegna dei tentativi di applicare la scienza a quattro aree fondamentali della tecnologia settecentesca ‒ idraulica, energia idrica, energia eolica e ingranaggi ‒, effettuata tanto dai teorici (o deduttivisti) quanto dagli empirici (o induttivisti), fa emergere due fatti: in primo luogo, entrambe le correnti influirono poco sulla tecnologia pratica, data la complessità dei problemi tecnologici del XVIII sec. e la scarsità di strumenti a disposizione della scienza dell'epoca; in secondo luogo, l'influenza della tradizione deduttivista e di quella induttivista fu diversa nei differenti settori tecnologici ma, in generale, si può affermare che l'impatto della seconda fu maggiore.

L'idraulica delle condotte chiuse e dei canali a cielo aperto

Come molti altri settori tecnologici, nel Settecento l'ingegneria idraulica era un'arte quasi interamente empirica. Questo era senza dubbio il caso dell'Italia, dove il problema del contenimento dei torrenti alpini e appenninici rappresentava una fonte costante di preoccupazione. In questo periodo, le élite al governo di diversi Stati italiani si erano persuase del potenziale valore del nuovo approccio di tipo deduttivo e quantitativo propugnato da Galilei e dai suoi discepoli. Esse dunque iniziarono a rivolgersi a questi studiosi, allo scopo di integrare il tradizionale approccio empirico degli ingegneri e dei funzionari preposti al controllo delle acque. Di conseguenza, alla fine del secolo, nell'Italia settentrionale era ormai diffusa la pratica di rivolgersi a consulenti accademici per questioni di idraulica: per esempio, nelle controversie che riguardavano le risorse idriche nelle zone di confine, spesso entrambe le parti ricorrevano all'aiuto di matematici per sostenere le proprie rivendicazioni.

I fondamenti della teoria idraulica utilizzati da questi consulenti accademici erano stati formulati dai seguaci di Galilei agli inizi degli anni Venti del XVII secolo. Ritenendo che lo studio dei problemi di idraulica rappresentasse un mezzo per favorire non soltanto il nuovo approccio matematico alla scienza ma anche la propria carriera, i galileiani mossero un violento attacco ai metodi empirici tradizionali utilizzati nell'ingegneria idraulica, rivendicando l'importanza della teoria.

Benedetto Castelli (1577 ca.-1643), collega di Galilei, fu un precursore in questo campo. Nel 1628, nella sua opera Della misura dell'acque correnti, applicò la meccanica deduttiva galileiana al flusso idrico, dimostrando matematicamente che il volume di acqua Q che nell'unità di tempo scorre in un torrente (o anche in un canale) era teoricamente pari al prodotto dell'area della sezione trasversale A del corso d'acqua per la velocità dell'acqua V (Q=AV, equazione di continuità). Il Della misura è un trattato puramente matematico che trascura l'aspetto sperimentale e l'applicazione pratica; tuttavia, quando ricevette l'incarico di studiare il contenimento del fiume Reno e, per conto delle autorità veneziane, i metodi per prevenire la sedimentazione nella laguna di Venezia, Castelli utilizzò i calcoli basati sul rapporto da lui stabilito fra volume, area della sezione trasversale e velocità. Evangelista Torricelli (1608-1647) estese ulteriormente l'applicazione della meccanica galileiana all'idraulica. Nell'Opera geometrica, del 1644, egli sostenne l'analogia fra la caduta libera dei gravi, le cui leggi erano state formulate da Galilei, e un getto d'acqua che sgorga da un piccolo foro praticato vicino al fondo di un recipiente. In base a tale analogia, Torricelli concluse che la velocità di efflusso V varia in rapporto alla radice quadrata dell'altezza h dell'acqua al di sopra dell'orifizio, così come la velocità di un grave in caduta libera varia in rapporto alla radice quadrata dell'altezza da cui cade. Nei decenni seguenti, Pierre Varignon, Newton e Christiaan Huygens (1629-1695) ampliarono la teoria su base geometrica di Torricelli e diedero alla relazione la sua formulazione algebrica moderna, V=(2gh)1/2. Il teorema dell'efflusso di Torricelli costituì una delle basi della nuova scienza dell'idraulica, sebbene all'inizio la sua importanza nel calcolo della corrente nei corsi d'acqua a superficie libera fosse scarsamente riconosciuta.

Domenico Guglielmini

La scienza idraulica italiana raggiunse il suo apice con Domenico Guglielmini (1655-1710). Come abbiamo già detto, alla fine del Seicento era relativamente diffusa nell'Italia settentrionale la pratica di rivolgersi ad accademici esperti di matematica per la risoluzione di problemi di idraulica. Rendendosi conto che l'impegno in questo campo avrebbe favorito la sua carriera accademica, negli anni in cui fu titolare di una cattedra all'Università di Bologna, Guglielmini lavorò regolarmente come consulente di idraulica e dal 1686 al 1698 fu sovrintendente delle acque della città. Egli intervenne sia come consigliere del governo bolognese per le opere di protezione, la bonifica delle terre sommerse e i problemi di navigazione, sia come rappresentante della città nelle trattative avviate con gli Stati confinanti per risolvere i problemi del bacino del Reno. Dopo essersi trasferito a Venezia nel 1698, collaborò regolarmente con le autorità lagunari per mettere a punto metodi di controllo della dinamica fluviale e delle inondazioni, di ripristino della navigabilità dei corsi d'acqua e di preservazione della laguna di Venezia dall'interramento. Il contributo di Guglielmini, inoltre, trasformò l'ingegneria idraulica da attività puramente empirica e pratica in una professione che includeva l'uso degli strumenti matematici. Egli rivestì, a Bologna a Venezia, anche l'incarico d'insegnante di matematica e di esaminatore dei giovani aspiranti alla carriera di supervisore delle opere idrauliche.

Occupandosi regolarmente d'idraulica pratica, Guglielmini si rese conto ben presto dei limiti di un approccio puramente deduttivo ai problemi dell'idraulica e si mostrò meno scettico nei confronti della sperimentazione e della pratica di quanto non lo fossero stati Castelli e Torricelli. Per esempio, notò che l'equazione di continuità di Castelli Q=AV conteneva un errore di fondo, in quanto la velocità dell'acqua V variava a seconda della profondità e non c'era modo di stabilire la velocità media. Nondimeno Guglielmini, come Castelli e Torricelli, rientrava nella tradizione deduttivista e basava il proprio lavoro su osservazioni e ipotesi fisiche elaborate in base a una deduzione geometrica, piuttosto che sulla sperimentazione. Con l'Aquarum fluentium mensura (1690-1691), Guglielmini impresse una svolta alla teoria idraulica, estendendo la legge dell'efflusso di Torricelli alla corrente nei canali a cielo aperto. L'opera si basa su un modello matematico idealizzato, secondo il quale i fluidi sono costituiti da minuscole sfere lisce e lucide, capaci di muoversi senza generare attrito fra loro o con l'alveo e le sponde fluviali. Le deduzioni che trasse da questo modello indicavano che la velocità dell'acqua corrente aumentava secondo la profondità seguendo un andamento parabolico, così come la velocità di un grave in caduta libera aumentava con la distanza. Teoricamente tale formula costituiva uno strumento di misurazione della velocità dell'acqua in un canale o in un fiume più accurato dell'equazione di continuità di Castelli. Tuttavia, la velocità non aumenta con la profondità e di fatto si verifica il contrario; le deduzioni di Guglielmini erano valide, dunque, soltanto per un fluido ideale in assenza di viscosità e di attrito.

Il secondo trattato di idraulica di Guglielmini, Della natura de' fiumi (1697), è maggiormente influenzato dalla crescente esperienza pratica acquisita con il lavoro di consulente. In questo trattato l'autore formula una teoria per il consolidamento degli alvei fluviali, tuttavia lo fa in modo qualitativo. Oltre ad ammettere che, nella pratica, il modello ad andamento parabolico dedotto in precedenza non era valido perché non teneva conto della resistenza dell'alveo e delle sponde del torrente, Guglielmini riconobbe anche che un'analisi matematica rigorosa dei corsi d'acqua non poteva prescindere da alcuni elementi che erano difficili da calcolare, quali, per esempio, le variazioni del livello dell'acqua o le ostruzioni e i cambiamenti di forma dovuti all'erosione e alla sedimentazione.

Sebbene il lavoro dei pionieri italiani nel campo della teoria idraulica affrontasse problemi pratici e si avvalesse dei rapporti matematici fondamentali, dedotti dall'esperienza acquisita durante il lavoro di consulenza che talvolta erano chiamati a prestare, è improbabile, per vari motivi, che l'antica scienza italiana delle acque abbia avuto un qualche impatto sull'idraulica pratica. Quando si trattava di consigliare le autorità statali, i teorici di idraulica, quali Castelli, Torricelli e Guglielmini, erano solamente alcune delle voci prese in considerazione. La loro influenza si stemperava nel mare di pareri spesso contraddittori forniti dagli ingegneri pratici, dai filosofi naturali e dai matematici che preferivano i metodi sperimentali. Gli ingegneri idraulici e persino alcuni di quelli che possedevano una formazione matematica non perdevano occasione di mettere in luce, non senza soddisfazione, i limiti della teoria idraulica, sperando da una parte di incoraggiare la diffusione di metodi più sperimentali, induttivi e pratici, e dall'altra di minare la reputazione degli 'odiati' accademici. Bernardino Zendrini (1679-1747) ‒ un ingegnere idraulico veneziano con vaste conoscenze matematiche, ma legato alla tradizione pratica rinascimentale ‒ nelle sue Considerazioni sopra la scienza delle acque correnti (1717) mise in discussione l'utilità pratica della teoria idraulica di Guglielmini, dimostrandone l'inadeguatezza rispetto alla complessità dei corsi d'acqua reali. Analogamente, nel 1728, l'ingegnere militare italiano Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) sostenne che i trattati di Guglielmini erano capolavori teorici, ma privi di valore pratico, in quanto la realtà dei fiumi era molto più complessa di quella presa in considerazione dai teorici. Egli fece notare che le più grandi opere idrauliche dell'epoca (la bonifica delle terre sommerse e le opere di protezione nei Paesi Bassi) non erano state realizzate dagli autori dei trattati, bensì da uomini dotati di senso pratico con l'ausilio di mulini a vento, draghe e argini.

Giovanni Poleni

La carriera di Giovanni Poleni (1683-1761) segna una svolta nella storia dell'idraulica fluviale. Come Guglielmini, egli era un accademico italiano che fece carriera grazie all'intenso lavoro di consulente idraulico. Il primo progetto importante a cui prese parte riguardava la sistemazione degli argini e della foce del Sabbadina ‒ un canale di sfogo delle acque alluvionali del fiume Adige ‒ realizzato negli anni dal 1716 al 1719 per conto delle autorità veneziane. Con il tempo Poleni venne talmente coinvolto nei problemi idrologici del comprensorio veneziano da abbandonare lo sviluppo della teoria idraulica a favore dell'ingegneria pratica.

All'inizio del Settecento pubblicò due importanti opere, il De motu aquae mixto (1717) e il De Castellis per quae derivantur fluviorum aquae habentibus latera convergentia liber (1718), entrambe dedicate a problemi pratici, quali l'accumulo di materiali sedimentari nella laguna di Venezia e il controllo delle inondazioni. Con il primo trattato, che aveva un carattere più teorico, Poleni tentò di estendere la teoria idraulica al movimento misto delle acque, ossia ai casi in cui si verificasse un'interazione fra acqua stagnante e corsi d'acqua in movimento. Formulando la sua teoria con l'ausilio del calcolo differenziale e della geometria analitica tridimensionale, egli si lasciò alle spalle i metodi geometrici di derivazione impiegati dai suoi predecessori galileiani. Insieme a Edme Mariotte (1620 ca.-1684), egli fu il primo a effettuare collaudi idraulici quantitativi su larga scala. Nelle sue opere usava esperimenti per determinare o verificare i rapporti fra variabili, quali velocità, corrente e sezione trasversale dei corsi d'acqua; alcuni risultati da lui ottenuti in questo modo ‒ per esempio la scoperta che ai fini del calcolo del volume le dimensioni dello sbocco del canale erano più importanti di quelle dell'imbocco ‒ ebbero ripercussioni pratiche sulla progettazione dei canali di sfogo delle acque alluvionali. Nel De motu la teoria è bilanciata dalla sperimentazione e le deduzioni tratte da premesse fondamentali iniziano a rivestire un'importanza secondaria. L'impostazione del De Castellis è ancora meno teorica e più sperimentale; per esempio, Poleni definì un coefficiente della corrente d'acqua attraverso orifizi con bordi levigati (0,62) molto vicino a quello ancora in uso oggi e se ne servì per correggere le formule teoriche.

Dopo Poleni l'idraulica teorica e quella sperimentale presero due strade diverse: la prima divenne una parte della meccanica razionale, una scienza assiomatica non sperimentale, esposta nelle opere idrodinamiche classiche di Daniel Bernoulli (1700-1782), Euler e Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert (1717-1783). L'aspetto matematico divenne talmente complesso che già nel 1727 Poleni, il quale aveva una solida preparazione in questo campo, riusciva soltanto con difficoltà a capire la ricerca di Bernoulli.

Idraulica, filosofia naturale e ingegneria

All'inizio del Settecento l'idraulica sperimentale era dominata dai filosofi naturali, il cui interesse principale era quello di verificare le teorie esistenti e di elaborare, sulla base dei dati sperimentali, formule idrauliche più precise e sofisticate. Prima della fine del secolo, tuttavia, essa passò gradualmente nelle mani di ingegneri dotati di una formazione matematica e convertitisi di conseguenza all'ideale quantitativo delle scienze. A differenza dei filosofi naturali, questi ultimi erano soltanto marginalmente interessati all'elaborazione di teorie complesse e di formule universali, e tendevano principalmente a dotarsi di strumenti matematici in grado di aiutarli nella risoluzione dei problemi concreti che dovevano affrontare.

Fra i primi filosofi naturali con orientamento sperimentale spicca Mariotte, il quale intorno al 1670, in collaborazione con Huygens, intraprese la verifica della legge di Torricelli per conto dell'Académie Royale des Sciences. Nel Traité du mouvement des eaux, pubblicato postumo nel 1686, Mariotte offre una sintesi dei principî di teoria idraulica formulati fino a quel momento, provando a verificarne la validità per via sperimentale: per esempio, tentò di misurare la velocità di una corrente a diverse profondità per mezzo di galleggianti dotati di pesi, nella speranza di ovviare a uno dei limiti principali dell'equazione di continuità di Castelli (Q=AV), cioè l'impossibilità di determinare la velocità media di una corrente. Egli suggerì inoltre che risultati soddisfacenti si sarebbero ottenuti con i due terzi della velocità di superficie. I numerosi esperimenti condotti sulle fontane di Chantilly, nel 1678, erano mirati a definire le costanti empiriche necessarie per applicare le formule teoriche di Torricelli e Castelli al flusso idrico nelle tubazioni e a spiegare i motivi (per es., l'attrito) per i quali i risultati sperimentali si discostavano da quelli teorici.

Il successore di Mariotte nell'idraulica delle tubazioni, Pierre Couplet (m. 1743), fornì un'ulteriore conferma sperimentale sui limiti della legge dell'efflusso di Torricelli, con una serie di esperimenti, realizzati intorno al 1730 sulle condotte afferenti alle fontane di Versailles. Couplet lavorò con cinque condutture di materiali differenti (stagno, ferro, ceramica), con varie disposizioni (alcune con gomiti, altre dritte), in condizioni diverse (alcune nuove, altre incrostate), di diametro e lunghezza variabili (da meno di 1,5 km a circa 3 km). Collegando le reti di condotte a un serbatoio e modificando il livello dell'acqua, Couplet confrontò l'efflusso effettivo delle condutture con quello previsto dalle equazioni di Castelli e di Torricelli, confermando il grande divario esistente fra i risultati teorici e quelli sperimentali che anch'egli attribuì all'attrito interno delle condotte. Sebbene Couplet non tentasse d'impiegare i dati empirici per formulare una legge sperimentale del flusso nelle condotte che tenesse conto dell'attrito, ancora nel 1886 i suoi esperimenti erano considerati i più affidabili per quanto riguarda la corrente dell'acqua a basse velocità in condotte di una certa lunghezza.

L'idraulica sperimentale

Spesso era possibile misurare direttamente la corrente delle condotte raccogliendo il fluido in un bacino; ciò non era possibile, invece, con i corsi d'acqua a cielo aperto, per i quali non rimaneva che ricorrere ai calcoli matematici, basati esclusivamente sulla teoria o integrati con l'uso di speciali strumenti per misurare la velocità della corrente. All'inizio del XVIII sec., Guglielmini aveva ammesso che l'attrito fra l'acqua e l'alveo rendeva inutilizzabili nella pratica le formule puramente teoriche per il calcolo della velocità e del volume del flusso. Di conseguenza, i suoi successori italiani tentarono di misurare il volume e la velocità della corrente con mezzi sperimentali. Tra il 1740 e il 1780, alcuni studiosi italiani di idraulica proposero e collaudarono una gamma di strumenti nuovi e aggiornati per la misurazione della velocità dell'acqua a diverse profondità; questi strumenti basati su vari metodi, andavano dal pendolo girevole alla ruota a pale, fino alle piastre a molla o dotate di pesi. Le prime misurazioni effettuate con i nuovi dispositivi sembravano confermare l'ipotesi teorica di Guglielmini sulla distribuzione delle velocità, secondo la quale la velocità aumenta dalla superficie all'alveo, nonostante i risultati contraddittori ottenuti da Zendrini e da altri. Il fatto che certi esperimenti sembrassero confermare la teoria erronea di Guglielmini si può spiegare con i difetti insiti di alcuni dispositivi, che tendevano a sovrastimare la velocità della corrente profonda; occorre però tener conto anche del desiderio degli inventori di ottenere con i propri strumenti risultati conformi a una teoria ampiamente accettata.

Non tutti i contributi alla strumentazione idraulica erano di origine italiana. Il dispositivo più semplice per misurare le correnti si deve al filosofo naturale francese Henri Pitot (1695-1771), che lo mise a punto nel 1732. Egli utilizzò due tubi verticali adiacenti, uno dritto, l'altro con un gomito ad angolo retto rivolto verso la sorgente; la differenza dei livelli d'acqua nei due tubi consentiva di misurare la velocità della corrente. L'inventore di misuratori di correnti idrauliche più prolifico di quel periodo, tuttavia, fu il matematico e ingegnere gesuita Leonardo Ximenes (1716-1786), il quale fra il 1750 e il 1780 ideò una mezza dozzina di tipi diversi di dispositivi. Intorno al 1780, egli rese noto che dalle prove effettuate con i suoi strumenti risultava che la velocità dell'acqua diminuiva in prossimità dell'alveo del fiume, invece di aumentare come sosteneva la teoria di Guglielmini.

L'idraulica sperimentale, così com'era praticata dai filosofi naturali e dai matematici settecenteschi, raggiunse il suo apice con Charles Bossut (1730-1814), professore di matematica presso l'École du Génie di Mézières. Bossut, che non era ingegnere bensì matematico e filosofo naturale, si pose come obiettivo primario la derivazione di formule e il miglioramento della teoria attraverso la sperimentazione. Intorno al 1770, per esempio, condusse una lunga serie di esperimenti su condotte dritte che differivano fra loro per diametro, lunghezza e inclinazione, allo scopo di raccogliere i dati necessari per verificare la legge dell'efflusso di Torricelli, già messa in discussione dai lavori di Mariotte e di Couplet. Bossut effettuò esperimenti simili anche sulla corrente nei canali a cielo aperto e, avendo ottenuto risultati sperimentali diversi da quelli previsti dalle formule teoriche elementari spesso utilizzate per condotte e canali a cielo aperto (la formula dell'efflusso di Torricelli e l'equazione di continuità di Castelli), modificò questi procedimenti di base con l'aggiunta di formulazioni matematiche che prendevano in considerazione fattori quali la resistenza dell'aria, l'attrito e la viscosità. Ottenne in tal modo formule matematiche molto complesse che, pur diminuendo il divario fra risultati teorici e sperimentali, rimanevano tuttavia ancora inadeguate, specialmente ai fini delle applicazioni pratiche.

Gli ingegneri, che nella seconda metà del XVIII sec. cominciarono a occuparsi di idraulica sperimentale, assunsero un atteggiamento molto diverso da quello dei filosofi naturali e dei matematici che avevano dominato il campo fino ad allora. Abbandonate la teoria deduttiva, l'elaborazione di formule matematiche complesse e la ricerca di una formula universale del flusso, essi si concentrarono sulla produzione di diagrammi o di equazioni su base empirica o si limitarono a correggere le formule idrauliche fondamentali aggiungendo coefficienti ottenuti sperimentalmente. Sebbene consentissero di generare formule, diagrammi o tabelle di grande utilità per la progettazione, tali tecniche non contribuirono in alcun modo alla comprensione profonda dei fenomeni idraulici.

L'ingegnere britannico John Smeaton (1724-1792) rappresenta un esempio dell'approccio basato sull'uso di diagrammi ricavati dalla sperimentazione. Quando, intorno al 1780, gli fu affidato l'incarico di valutare lo stato della rete idrica di Edimburgo, per studiare la corrente nelle condotte egli ricorse soltanto occasionalmente ai metodi teorici esistenti e sfruttò sistematicamente le misurazioni effettuate su una tubatura lunga 100 piedi (33 m ca.) con un diametro interno di circa 3,2 cm, rappresentando i risultati degli esperimenti in un diagramma con velocità della corrente V rispetto alla perdita di carico, calcolata in base alla formula torricelliana h=V2/(2g), essendo g l'accelerazione di gravità. Indifferente alla formulazione di una teoria, Smeaton si limitò a individuare la curva "che si accordava meglio" con i risultati e a estrapolarne una tabella che forniva il valore della perdita di carico per ogni 100 piedi di lunghezza per condotte di diverso diametro con determinate velocità dell'acqua; quindi si servì di questa tabella per il suo lavoro.

Il francese Antoine de Chézy (1718-1798) rappresenta un altro esempio del modo in cui gli ingegneri della fine del Settecento utilizzavano le tecniche quantitative, prese a prestito dalle scienze, per elaborare su base empirica formule idrauliche che risultassero utili sul piano pratico, pur senza fornire nuovi contributi alla comprensione teorica dei fenomeni. Nel 1760 l'amministrazione parigina, alle prese con una rete idrica inadeguata, si rivolse all'Académie. Il comitato che affrontò lo studio del problema consigliò di deviare le acque dal fiume Yvette e, nel 1768, affidò l'incarico a Chézy ‒ un ingegnere diplomatosi all'École des Ponts et Chaussées ‒ e a Jean-Rodolphe Perronet (1708-1794), ingegnere capo del Corps des Ingénieurs des Ponts et Chaussées. Chézy si rese conto che il problema principale consisteva nel determinare le dimensioni e l'inclinazione del canale di diversione necessarie per il trasporto di un dato volume di acqua e che le formulazioni teoriche allora in uso erano troppo imprecise per servire allo scopo. Per ottenere un affidabile sistema di calcolo della portata della corrente nei canali a cielo aperto, costruì una condotta di legno lunga circa 200 m, larga 1,3 m e profonda 0,52 metri. Gli esperimenti effettuati in tal modo gli consentirono di definire una formula per il calcolo del volume dell'acqua in qualsiasi canale, mettendo a confronto la velocità V, l'inclinazione s, l'area A e il perimetro a contatto con l'acqua r (la lunghezza della parte sommersa del perimetro della sezione trasversale di un canale) della condotta sperimentale con gli stessi elementi relativi a un canale simile, in cui la portata della corrente fosse stata determinata per via sperimentale. In termini moderni, l'equazione di Chézy può essere espressa con V=c(As/r)1/2, dove c è una costante determinata sperimentalmente. Oltre a questi esperimenti, Chézy effettuò una serie di misurazioni in alcuni corsi d'acqua naturali, allo scopo di verificare la validità della sua formula e di derivare una costante sperimentale applicabile al canale in costruzione. Egli comunicò i risultati del suo lavoro a Perronet, suo socio nel progetto del fiume Yvette. Nel rapporto finale, tuttavia, Perronet utilizzò i risultati dei suoi calcoli senza rendere noto il metodo su cui si basavano; pertanto la formula del flusso di Chézy restò ignota per oltre un quarto di secolo, fino a quando non fu riesumata, nel 1804, da un suo allievo, l'ingegnere Gaspard-François-Clair-Marie Riche de Prony.

In un certo senso, il culmine della tradizione ingegneristica dell'idraulica sperimentale settecentesca fu raggiunto con l'opera di Pierre-Louis-Georges Du Buat (1734-1809), un ingegnere militare che nei primi anni della carriera si occupò di canali, coste, porti e fortificazioni nella Francia settentrionale. Nel 1776 Du Buat cominciò a studiare sistematicamente l'idraulica e nel 1779 pubblicò un trattato sull'argomento, intitolato Principes d'hydraulique. In seguito, con l'appoggio del governo francese, si dedicò alla sperimentazione idraulica e realizzò a tale scopo un canale artificiale costruito in legno di quercia, largo circa 4,5 m e profondo circa 1 metro. Fra il 1780 e il 1783, variando la larghezza del canale e la velocità della corrente, egli condusse una lunga serie di esperimenti sulla corrente nei canali a cielo aperto, che integrò con misurazioni della corrente in un canale e in un torrente situati nelle vicinanze. Con i dati così ottenuti, pubblicò dunque nel 1786 una nuova edizione del suo trattato in due volumi, il secondo dei quali era incentrato sui risultati degli esperimenti idraulici condotti sia da lui stesso sia da altri.

Charles Bossut, matematico e filosofo naturale, si era servito della sperimentazione principalmente come punto di riferimento per la modifica delle equazioni teoriche con l'aggiunta di elementi matematici. Du Buat, più legato all'ingegneria pratica, si dedicò totalmente alla sperimentazione e utilizzò i dati per ottenere equazioni su base empirica, oppure per modificare le equazioni idrauliche elementari con l'aggiunta di coefficienti anch'essi sperimentali. Egli non tentò di formulare equazioni complesse che prendessero in considerazione tutti i fattori possibili. Per calcolare la diminuzione di velocità all'imbocco della conduttura, per esempio, si limitò a modificare la formula di Torricelli per la velocità dell'acqua corrente da V=(2gh)1/2 in V=[2g(hk)]1/2, dove k è un coefficiente di perdita di carico all'imbocco determinato per via sperimentale. Questo sistema fornì una formula semplice utilizzabile nel lavoro idraulico pratico, pur non contribuendo a spiegare perché il rapporto di Torricelli non avesse prodotto risultati accurati. Ignaro del lavoro di Chézy, anche Du Buat dedicò molte energie ai metodi di misurazione della corrente nei corsi d'acqua a cielo aperto. Dai dati sperimentali estrapolò per induzione una formula piuttosto elaborata, contenente una serie di fattori empirici di correzione al fine di accordare la teoria con i dati sperimentali. Introdusse in tal modo una nuova misura quantitativa: il raggio idraulico R, ossia il rapporto tra l'area della sezione trasversale di un corso d'acqua e la lunghezza del perimetro a contatto con il fluido; quindi utilizzò il raggio idraulico per valutare la resistenza delle sponde e degli alvei fluviali al flusso idrico. Egli, inoltre, studiò la viscosità dei fluidi e l'attrito dell'acqua con materiali diversi.

Le reti idriche e i sistemi di controllo idrografico realizzati nel XVIII sec. non costituivano evidentemente esempi di 'scienza applicata'. La maggior parte degli elementi delle reti (condotte e giunti, dighe, argini, canali, paratoie piane e macchine idrauliche elevatrici) era tecnologia pura, derivata empiricamente da quella precedente. La tradizione teorica deduttiva della meccanica razionale contribuì poco a cambiare questo stato di cose. Come fece notare nel 1929 l'ingegnere idraulico americano John R. Freeman, coloro che consideravano l'idraulica un ramo della matematica "per lo più si persero nel labirinto delle teorizzazioni a priori" (Freeman 1929, p. 3).

Se la teoria deduttiva ebbe nel Settecento un influsso marginale sulla tecnologia idraulica, la scienza idraulica in senso più lato, e specialmente nella sua forma induttiva o sperimentale, esercitò un peso sempre maggiore sui suoi sviluppi. Ciò avvenne in parte in modo indiretto, sotto forma di una crescente accettazione dell'ideale quantitativo delle scienze fisiche da parte degli ingegneri che si occupavano di canali, fiumi e reti idriche, specialmente dal momento in cui lo studio della matematica divenne parte integrante della loro formazione professionale. In altri casi si trattò invece di un'influenza più diretta, attraverso la diffusione lenta ma inarrestabile della pratica di utilizzare sia calcoli basati su formule idrauliche elementari (come quelle di Torricelli e Castelli), sempre più spesso modificate in base ai dati sperimentali, sia formule derivate induttivamente. Nel 1727 John Perry, un ingegnere britannico, nel suo Account of the stopping of Daggenham Breach, usò computazioni della semplice pressione idrostatica; nel 1780 Smeaton utilizzò un rapporto quantitativo conseguito sperimentalmente per analizzare la corrente nelle tubazioni del sistema di rifornimento delle acque di Edimburgo; nello stesso periodo, William Jessop (1745-1814), assistente di Smeaton, adottò la formula torricelliana V=(2gh)1/2, con l'aggiunta di un coefficiente sperimentale, per misurare la corrente in fiumi e canali e migliorarne la navigabilità. Negli anni Ottanta diversi ingegneri britannici si servirono di calcoli idraulici in appoggio ai conti per la progettazione dei canali. In Francia e in Italia, il fatto che sempre più spesso per progettare, costruire e gestire le opere idrauliche fossero impiegati ingegneri con formazione matematica, come Chézy, Charles-Augustin Coulomb (1736-1806) e Ximenes, fece sì che anche in questi paesi le modifiche sperimentali delle leggi elementari dell'idraulica fossero applicate al lavoro di pianificazione e progettazione.

L'energia idrica

L'interesse manifestato nel Settecento da matematici, filosofi naturali e ingegneri nei riguardi dell'energia idrica fu, come nel caso dell'idraulica, una conseguenza del suo enorme rilievo pratico. Dagli inizi del secolo, essa era talmente usata che in certe zone si sfruttavano tutti i corsi d'acqua dotati di una portata sufficiente. Nella maggior parte dei casi, l'energia idrica era generata per mezzo di ruote idrauliche verticali. I tipi più diffusi erano due: il primo era una semplicissima ruota alimentata dal basso, detta 'ruota a impatto', o 'per disotto', alla quale erano fissate delle pale; l'acqua, scorrendo sotto di essa, batteva sulle pale mettendola in rotazione per impatto; il secondo era una ruota alimentata dall'alto, detta 'ruota a gravità', o 'per disopra', leggermente più complessa: a essa erano fissati dei recipienti, detti cassette, in cui l'acqua fluiva cadendo dall'alto, generando con il suo peso la rotazione.

I primi tentativi seri di studiare le ruote idrauliche in modo quantitativo risalgono alla fine del Seicento e sono dovuti a filosofi naturali, quali Huygens e Mariotte. Basandosi su considerazioni sia teoriche sia sperimentali, essi giunsero alla conclusione che l'impulso trasferito dall'acqua a un oggetto, per esempio le pale di una ruota idraulica, era proporzionale al quadrato della velocità dell'acqua. In pratica, però, i tentativi di applicare questi risultati alle ruote idrauliche ebbero uno scarso successo, poiché i calcoli riguardavano solamente l'impulso trasferito a ruote statiche (tenute ferme da pesi), mentre il funzionamento di una vera macchina presuppone il movimento. L'analisi teorica più elaborata dell'energia idrica ebbe inizio con Antoine Parent (1666-1716), un matematico e filosofo della Natura francese poco conosciuto, il quale spesso si occupava di questioni che riguardavano la tecnologia.

L'analisi matematica di Parent si diffuse lentamente, sia per la mancanza di contatti con accademici e costruttori di mulini, sia per l'impiego del calcolo infinitesimale che era ancora relativamente nuovo. Durante il secondo decennio del secolo, tuttavia, Pitot espresse in forma algebrica le formule di Parent per renderle più accessibili e le applicò all'analisi della fattibilità dell'impiego di energia idrica per trainare le imbarcazioni controcorrente. Nel 1729, utilizzando geometria e algebra, mise a confronto il rendimento delle pale radiali e di quelle inclinate nelle ruote idrauliche alimentate dal basso e scoprì che, apparentemente, le pale inclinate erano meno efficienti di quelle radiali. Dimostrò inoltre matematicamente il numero ottimale di pale per la ruota idraulica: la distanza fra due pale consecutive doveva essere tale che, quando una pala si trovava in posizione perpendicolare (cioè di massima immersione), quella successiva stesse per entrare in acqua. Pitot espresse questi risultati sotto forma di tabelle, per facilitarne la divulgazione tra gli addetti ai lavori.

Bernard Forest de Bélidor (1697-1761), uno dei primi autori di manuali di ingegneria, contribuì alla divulgazione dei risultati di Parent e di Pitot introducendoli nei primi due volumi del suo trattato Architecture hydraulique (1737-1739), un testo molto diffuso nelle emergenti scuole di ingegneria francesi. Bélidor riteneva che il lavoro di Parent sulle ruote idrauliche fosse l'opera di meccanica più interessante che egli avesse mai studiato. Dopo aver semplificato le derivazioni di Parent e Pitot, Bélidor applicò i risultati alle ruote idrauliche utilizzate per azionare le pompe sulla Senna, suggerendo modi diversi di progettarle e utilizzarle. Oltre a Bélidor, una folta schiera di matematici e di teorici di idraulica confermò o accettò le derivazioni di Parent, compresi alcuni fra i più importanti esponenti della meccanica razionale. Per esempio, nella sua Hydrodynamica, del 1738, Daniel Bernoulli, utilizzando metodi leggermente diversi e una misura differente (la vis viva, mv2, oppure il prodotto del peso per l'altezza) per esprimere i valori in entrata e in uscita, ottenne essenzialmente gli stessi risultati di Parent. In Svezia, negli anni Quaranta, Pehr Elvius (1660-1718) verificò per via deduttiva le conclusioni di Parent. Infine, agli inizi degli anni Cinquanta, Euler pubblicò una serie di scritti sulle macchine idrauliche. Nel caso delle ruote idrauliche verticali convenzionali, i risultati di Euler, derivati da una sua indagine teorica mirante a dimostrare la maggiore efficienza di un tipo nuovo e insolito di ruota, la ruota a reazione di Johann Andreas von Segner, erano identici a quelli di Parent. Alcuni matematici tentarono di migliorare l'analisi di Parent considerando altri fattori. Il culmine di questa ricerca fu l'opera di Bossut, il quale tentò di ottenere per la potenza della ruota idraulica un'unica equazione che tenesse conto di numerosi fattori, compresi il raggio della ruota, il numero delle pale, la velocità variabile dei diversi punti della pala, l'impulso variabile dell'acqua nei diversi punti della pala e la perdita d'acqua dal fondo e dai lati della ruota. Ne risultò un'equazione lunga una pagina e Bossut stesso ammise che la formula era talmente complessa da essere praticamente inutile per la progettazione di ruote idrauliche.

Le ricerche di Parent, Euler, Bossut e degli altri matematici avevano punti di forza e di debolezza. Essi riuscirono a identificare alcune variabili quantitative fondamentali per l'azionamento delle ruote idrauliche e le utilizzarono per ottenere formule generali valide in differenti condizioni operative. Per esempio, la formulazione di Parent del rapporto ottimale fra la velocità V della ruota e quella v dell'acqua (1/3) e la tabella per il calcolo delle pale di Pitot fornivano informazioni teoricamente utili per progettare le ruote idrauliche, indipendentemente dalle condizioni specifiche. Inoltre il confronto fra la massima potenza in teoria erogabile da un corso d'acqua (definita PV, dove P è l'impulso trasferito alla ruota ferma) e l'effetto della ruota idraulica (definito pv, con p il peso che essa può sollevare) individuava il rendimento, fondamentale per la progettazione.

Come era accaduto per l'idrodinamica teorica, tuttavia, i tentativi di applicare direttamente la scienza all'energia idrica tramite la matematica deduttiva ebbero scarse conseguenze sul piano pratico. Ciò era dovuto in parte al fatto che questi teorici si indirizzavano verso il pubblico sbagliato. Nonostante Parent, Pitot, Euler e Bossut si proponessero di dimostrare l'utilità della deduzione matematica ai fini della risoluzione dei problemi concreti, i loro scritti, come quelli dei primi teorici di idraulica italiani, si rivolgevano principalmente agli scienziati matematici e non agli esperti di tecnologia, la maggior parte dei quali, in ogni caso, non aveva la preparazione necessaria per seguire il filo di un'argomentazione matematica complessa. A parte questo, spesso i matematici non comprendevano i problemi posti dall'attività pratica. I costruttori di mulini, per esempio, avevano ottimi motivi pratici per non condividere l'entusiasmo di Euler per la ruota a reazione di Segner, fulcro dei suoi studi teorici sulle ruote idrauliche. Un altro punto debole del metodo deduttivo matematico era lo scarso interesse per la sperimentazione: né Parent, né la maggior parte di coloro che adottarono la sua analisi, si preoccuparono di confermarne la validità per via sperimentale. L'eleganza matematica dell'analisi di Parent sembrava esimerla dalla necessità di una conferma sperimentale. Fu un vero peccato, perché la sperimentazione avrebbe rivelato immediatamente che la teoria di Parent non era valida per tutte le ruote idrauliche, ma soltanto per quelle alimentate dal basso e installate in corsi d'acqua sufficientemente ampi; non era valida, inoltre, nel caso molto più comune delle ruote alimentate dal basso e poste in canali non molto larghi e, soprattutto, non lo era per le ruote alimentate dall'alto, azionate dal peso dell'acqua.

In un certo senso era preferibile che i costruttori di mulini continuassero a ignorare l'analisi teorica dell'energia idrica. Per esempio, negli anni Trenta del Settecento Bélidor, applicando il metodo di Parent, giunse alla conclusione che il rendimento delle ruote alimentate dall'alto era pari a 1/6 di quello delle ruote alimentate dal basso e confessò nella sua Architecture hydraulique di essere stupito che in Francia vi fossero regioni in cui le ruote alimentate dall'alto erano "talmente comuni che pareva non ci fosse altro modo di azionare i mulini" (I, p. 286). Secondo Bélidor, questo fatto dimostrava l'ignoranza dei costruttori di mulini e il loro bisogno di essere guidati dai matematici; in realtà era vero il contrario, poiché le ruote alimentate dall'alto hanno un rendimento doppio di quelle alimentate dal basso. A metà del secolo, i teorici avevano già cominciato a rendersi conto dei limiti di un approccio puramente deduttivo all'analisi dell'energia idrica. Persino d'Alembert, pur rientrando in questa tradizione, nella voce Aube dell'Encyclopédie (1751) confessò che il funzionamento complesso delle ruote idrauliche rendeva le deduzioni teoriche così complicate da consigliare il ricorso a esperimenti.

Quasi contemporaneamente al lavoro teorico di Parent, si era formata una corrente sperimentale induttivista. Nel 1702 l'ingegnere svedese Christopher Polhem (1661-1751), con il sostegno del governo, aveva fatto realizzare dal suo assistente Samuel Buschenfelt (1666-1706), un tecnico minerario, un elaborato modello per la sperimentazione delle ruote idrauliche. Tra il 1702 e il 1704, Buschenfelt e Göran Wallerius (1683-1744), sotto la direzione di Polhem, eseguirono una lunga serie di esperimenti con tale apparato, che consentiva di utilizzare tre ruote diverse, ciascuna con un diametro di 18 pollici svedesi (22,5 cm). Polhem poteva variare cinque parametri fondamentali del dispositivo: il tipo di ruota, la velocità, l'altezza dell'acqua, l'inclinazione del canale di alimentazione e il carico. Buschenfelt e Wallerius eseguirono complessivamente fra le 20.000 e le 30.000 prove. Data la sua formazione e l'appartenenza all'Accademia Svedese delle Scienze, Polhem conosceva il metodo sperimentale basato sulla raccolta sistematica e accurata delle quantità misurate per mezzo di unità fisse. Egli si rendeva conto anche della necessità di stabilire norme o leggi generali, che tentò di scoprire per via induttiva trasponendo sotto forma di diagrammi i risultati dei suoi esperimenti. Di fatto le curve paraboliche che ottenne dimostravano in modo induttivo quello che Parent aveva scoperto in modo deduttivo: per ogni mulino ad acqua esistevano una velocità e un carico ottimali che producevano il rendimento massimo.

Nel 1705 Polhem presentò una prima versione del rapporto e nel 1710 tornò a esaminare i dati con l'intenzione di svolgere qualche altro esperimento prima di formulare regole generali. Con grande sgomento, si accorse che le misurazioni di due quantità (velocità/rendimento e inclinazione del canale di alimentazione) erano state effettuate in modo errato: l'idea di correggere più di 20.000 prove era da scartare. Egli informò quindi Wallerius che gli esperimenti erano "inutili quanto la quinta ruota di un carro" e non formulò mai alcuna legge generale. Il lavoro sperimentale restò in forma di manoscritto, ignoto al resto dell'Europa. Nondimeno, attraverso i suoi esperimenti e grazie alla sua esperienza professionale, Polhem apprese che le ruote alimentate dall'alto avevano un rendimento superiore a quello delle ruote alimentate dal basso e che la velocità ottimale di azionamento per le ruote alimentate dal basso era circa la metà di quella della corrente, e non un terzo, come sostenuto da Parent. Egli constatò, inoltre, che era estremamente difficile ottenere regole generali per via induttiva da un'ampia base di dati sperimentali.

Nella prima metà del XVIII sec., sembra che nessuno fosse interessato a effettuare esperimenti sistematici sull'energia idrica, a eccezione, forse, del filosofo naturale anglo-francese Jean- Théophile Desaguliers (1683-1744). Nel 1744 egli comunicò di aver svolto alcuni esperimenti, dei quali però non è rimasta alcuna traccia, per verificare la teoria di Parent. Vista l'importanza pratica dell'energia idrica, era inevitabile che prima o poi altri ingegneri seguissero la strada intrapresa da Polhem e già negli anni Cinquanta Antoine de Parcieux (1703-1768) e Smeaton ‒ non a caso, entrambi membri di accademie scientifiche e quindi al corrente delle tecniche utilizzate in campo scientifico ‒ affrontarono l'argomento. Verso la metà del secolo, l'Académie chiese a de Parcieux di studiare i mezzi per assicurare un approvvigionamento idrico costante al castello della favorita di Luigi XV, Madame de Pompadour. Per azionare le pompe necessarie era disponibile soltanto un piccolo torrente. De Parcieux si rese subito conto che, in base alla teoria di Parent, l'obiettivo assegnatogli sarebbe stato irraggiungibile, poiché persino una ruota idraulica ideale, priva di attrito, avrebbe potuto raggiungere al massimo un rendimento del 15%. L'intuizione e la logica, però, gli suggerirono che l'analisi di Parent non poteva assolutamente essere applicata alle ruote alimentate dall'alto. In una prima memoria, pubblicata nel 1754, egli sostenne che il peso dell'acqua che aziona una ruota alimentata dall'alto dovrebbe poter sollevare un peso equivalente su una ruota identica che giri in direzione opposta intorno allo stesso asse, più o meno come un grave dovrebbe riuscire a sollevare un grave equivalente al lato opposto di una carrucola. L'analogia di de Parcieux aveva due importanti implicazioni: in primo luogo, almeno teoricamente, la ruota alimentata dall'alto aveva un rendimento potenziale del 100% e non del 15% come sosteneva Parent; in secondo luogo, il rendimento della ruota alimentata dall'alto aumentava con il diminuire della velocità, contraddicendo così la regola di 1/3 della velocità formulata da Parent.

De Parcieux, in base alla propria esperienza di tecnico, si rendeva conto che il ragionamento astratto "spesso lasciava la mente annebbiata" e non corrispondeva sempre alla realtà; cominciò così a interessarsi alla sperimentazione e costruì un modello di ruota idraulica, con un diametro interno di 54 cm, dotata di 48 cassette. Le prove sperimentali, pubblicate in una seconda memoria sempre nel 1754, confermarono le sue intuizioni: la teoria di Parent non poteva essere applicata alle ruote alimentate dall'alto. Il successo degli esperimenti indusse de Parcieux a costruire, nel 1759, altri modelli per verificare l'esattezza delle deduzioni teoriche di Pitot sul numero ottimale di pale per le ruote idrauliche e sulla superiorità delle pale radiali rispetto a quelle inclinate. In tal modo scoprì che le teorie di Pitot, accettate sin dal 1730, erano errate in tutti e due i casi.

A insaputa di de Parcieux, Smeaton stava effettuando negli stessi anni una serie ancora più sofisticata di esperimenti su vari modelli di ruote idrauliche. Smeaton, che aveva iniziato la propria carriera come costruttore di strumenti, intorno al 1750 aveva accettato numerose offerte di progettazione di mulini. Trovando la letteratura sull'argomento piuttosto carente, nel 1751 cominciò una serie sistematica di esperimenti di cui rimandò la pubblicazione fino al 1759, in quanto voleva prima verificare la validità delle regole formulate per via induttiva "nella pratica reale, in molti casi diversi e per molti scopi". Egli usò due modelli di ruota idraulica, una alimentata dal basso e una dall'alto, ciascuno dei quali aveva un diametro interno di 61 cm. Le ruote potevano essere montate su una base accanto a un bacino d'acqua, il cui livello era mantenuto stabile per mezzo di pompe e sistemi di riciclaggio dell'acqua. Il dispositivo consentiva a Smeaton di modificare sistematicamente le variabili fondamentali (carico, velocità dell'acqua, altezza dell'acqua, portata, tipo di ruota) una alla volta, con una tecnica detta 'variazione dei parametri'. Egli calcolò che la potenza delle ruote era pari al prodotto del peso dell'acqua battente contro la ruota P per la sua altezza virtuale H, calcolata con la formula di Torricelli. Calcolò inoltre il rendimento della ruota come prodotto del peso p sollevato da una corda attaccata all'asse della ruota per l'altezza h alla quale era sollevato il peso.

La teoria di Parent risultò a Smeaton errata anche nel caso delle ruote alimentate dal basso, non studiate da de Parcieux. Il modello di ruota alimentata dal basso di Smeaton, pur con tutti i limiti propri dei modelli, registrava un rendimento medio intorno al 33% e uno teorico massimo intorno al 50%, molto superiore al 15% fissato da Parent. Analogamente, egli scoprì che la sua ruota alimentata dal basso funzionava in modo ottimale a 2/5 della velocità dell'acqua battente, fino ad arrivare quasi a 1/2 per corsi d'acqua di grande portata, confutando anche in questo la teoria di Parent, secondo la quale la velocità ottimale era 1/3. Il divario risultò ancora più ampio quando Smeaton installò la ruota alimentata dall'alto. Con sua grande sorpresa, rilevò che il rendimento di questa variava fra il 52% e il 76% con una media di circa il 67%. Smeaton confermò la scoperta di de Parcieux secondo cui, nei limiti della praticabilità, nelle ruote alimentate dall'alto l'efficienza aumentava sistematicamente con il diminuire della velocità e postulò un limite teorico massimo dell'efficienza al 100%. Avendo per obiettivo l'applicazione pratica e non la comprensione teorica, Smeaton non tentò di modificare la teoria di Parent e di adeguarla ai risultati sperimentali, bensì derivò dai suoi esperimenti una serie di principî di progettazione e alcune osservazioni generali destinate ai progettisti. Il risultato più importante fu comunque la scoperta della necessità di sostituire le ruote a impatto con quelle azionate dal peso dell'acqua, ovunque fosse possibile.

Il lavoro di Smeaton modificò profondamente la prassi allora in uso. Nel 1827, il noto ingegnere britannico John Farey (1790-1851) fece notare nel suo Treatise on the steam engine che Smeaton, negli oltre trent'anni in cui si era dedicato alla costruzione di mulini, aveva utilizzato i risultati dei suoi esperimenti, ottenendo mulini che funzionavano talmente bene da essere imitati da tutti. Nel 1813, un altro famoso ingegnere britannico, Peter Ewart (1767-1842), fece presente nelle "Memoirs of the Literary and Philosophical Society of Manchester" che, sebbene non godesse di grande prestigio presso i teorici, Smeaton era ben noto tra gli uomini pratici. Le sue scoperte erano circolate in modo così ampio, sosteneva Ewart, da rendere una rarità la ruota alimentata dal basso, un tempo prevalente. L'attività di Smeaton rappresenta un esempio perfetto di tecnologia ispirata alla scienza. Già da tempo gli ingegneri impiegavano in modo sistematico i modelli sperimentali e la variazione dei parametri; egli integrò e migliorò tali tecniche con l'uso di misurazioni quantitative accurate per mezzo di unità standard, applicando equazioni tratte dalla scienza idraulica modificate su base sperimentale e adottando concetti quantitativi fondamentali, quali il confronto proposto da Parent fra input e output come misura del rendimento. Nel 1786, in una lettera a un cliente, Smeaton sostenne che la potenza di un mulino era, per quanto lo riguardava, non una questione di "opinione" ma di "calcolo". Oltre agli effetti pratici, il lavoro sperimentale di de Parcieux e Smeaton ebbe due conseguenze: in primo luogo, avendo dimostrato il valore della sperimentazione quantitativa e delle conclusioni tratte per via induttiva, incoraggiò altri a seguire la stessa strada; in secondo luogo, mettendo in risalto in modo inequivocabile i limiti della teoria dominante, stimolò la ripresa degli studi teorici.

Tra gli sperimentatori della fine del XVIII sec. vanno ricordati, oltre al già citato Bossut, Papacino d'Antoni (1714-1786), John Banks (attivo tra il 1770 e il 1795) e Sven Rinman (1720-1792). La maggior parte del loro lavoro sperimentale mirava a confermare o confutare le teorie e gli esperimenti del passato e non tanto a migliorare direttamente la pratica. Per esempio, gli esperimenti di Bossut, eseguiti intorno al 1770, intendevano verificare su un modello la validità sia delle teorie di Pitot sulla distribuzione delle pale e sulle pale inclinate, sia delle teorie di Parent e de Parcieux sulla velocità ottimale delle ruote idrauliche. I dati raccolti da Bossut confermarono i risultati sperimentali di de Parcieux (smentendo al tempo stesso le formule teoriche di Pitot) sui vantaggi offerti da un maggior numero di pale nelle ruote alimentate dal basso. Bossut concluse anche che l'uso delle pale inclinate rispetto a quelle radiali aumentava il rendimento nei corsi d'acqua a cielo aperto, confermando di nuovo gli esperimenti di de Parcieux a scapito dei risultati di Pitot. Egli, inoltre, effettuò prove sul rendimento delle pale inclinate negli alvei chiusi ‒ cosa che de Parcieux non aveva fatto ‒ e scoprì che in tali condizioni le pale radiali erano leggermente più efficienti di quelle inclinate. Gli esperimenti svolti da Bossut per determinare la velocità ottimale nelle ruote alimentate dal basso ‒ sia nei corsi d'acqua aperti sia negli alvei chiusi ‒ rivelarono che, in entrambi i casi, la velocità ottimale era più vicina a quella ottenuta sperimentalmente da Smeaton che non a quella teorica di Parent. I suoi esperimenti con le ruote alimentate dall'alto confermarono i risultati di de Parcieux: nei limiti del possibile, quanto più lentamente si muoveva la ruota, tanto maggiore era il suo rendimento.

Le ricerche di Rinman, effettuate intorno al 1790, differivano da quelle di Bossut, Banks e d'Antoni sia perché avevano come obiettivo specifico l'innovazione tecnologica e non la verifica della teoria, sia perché utilizzavano ruote industriali di dimensioni reali, impiegate per azionare magli meccanici. Dati i costi e la difficoltà di questo tipo di ricerche, egli realizzò un numero limitato di esperimenti, i cui risultati confermarono in generale quelli di Smeaton e de Parcieux. I metodi sperimentali induttivi di questi ultimi presentavano indubbiamente alcuni punti deboli. Come scoprì Rinman, gli esperimenti erano costosi e richiedevano molto tempo, specialmente se condotti su apparati di dimensioni reali. Inoltre, come scoprì Polhem, spesso era quasi impossibile formulare regole generali per via induttiva, basandosi sui risultati di un numero enorme di esperimenti con parecchi parametri diversi. Molto probabilmente, per chi doveva progettare un mulino idraulico per uno scopo specifico, le decine di tabelle sperimentali tra loro incompatibili erano altrettanto oscure quanto le lunghissime equazioni di Bossut.

Quando, intorno alla metà del secolo, il divario fra teoria e sperimentazione divenne evidente, si moltiplicarono i tentativi per porvi rimedio, sia da parte dei filosofi della Natura e dei matematici che si interessavano di tecnologia, sia da parte degli ingegneri con un'istruzione matematica. Uno dei primi sforzi in questo senso fu compiuto dal figlio di Leonhard Euler, Johann Albrecht (1734-1800), che nel 1754 riesaminò la teoria della ruota a impatto (alimentata dal basso), della ruota a gravità (alimentata dall'alto) e di quella a reazione orizzontale. L'analisi della ruota a impatto di J.A. Euler si rifaceva a quella di Parent, ma egli si rese conto che le ruote a reazione orizzontale e quelle a gravità funzionavano in base ad altri principî e quindi formulò una serie diversa di equazioni. Come in seguito dimostrarono gli esperimenti di Smeaton e de Parcieux, la sua analisi suggeriva che l'efficienza massima teorica della ruota alimentata dall'alto era del 100%, molto superiore a quella delle ruote a impulso.

Esito ancora più positivo ebbe il tentativo di riconciliare la teoria con la pratica effettuato dall'ingegnere militare francese Jean-Charles Borda (1733-1799) il quale, a differenza di J.A. Euler, si rese conto che l'analisi di Parent si applicava soltanto alle ruote a impulso che operavano nei corsi d'acqua di una certa ampiezza. Nel caso delle ruote installate in alvei chiusi, la forza esercitata dall'acqua variava con la velocità relativa e non con il suo quadrato (come postulato da Parent). Le deduzioni tratte da questa modifica erano coerenti con i risultati sperimentali di Smeaton. Come J.A. Euler, Borda studiò anche i diversi principî che governavano il funzionamento delle ruote alimentate dall'alto e, utilizzando queste nozioni, ottenne risultati analoghi a quelli di de Parcieux e Smeaton. Borda impiegò la misura convenzionale di Parent per la potenza del corso d'acqua e della ruota: la quantità di moto (o impulso), cioè il prodotto della massa per la velocità.

Nella seconda parte del Mémoire sur les roues hydrauliques, del 1767, Borda dimostrò di poter ottenere gli stessi risultati misurando la potenza non con l'impulso mv ma con la cosiddetta vis viva (mv2/2 o il suo equivalente, il prodotto del peso per l'altezza). Nel 1686 Leibniz aveva affermato che il prodotto della massa di un corpo per metà del quadrato della velocità era una misura della forza dei corpi in movimento migliore di quella più convenzionale, il prodotto della massa per la velocità, in quanto la vis viva si conservava in modo più universale. Tale proposta provocò un dibattito nei circoli scientifici europei e molti fra i più noti teorici di idraulica, compreso Daniel Bernoulli, fecero della conservazione della vis viva la premessa centrale del proprio lavoro. Alcuni esperimenti effettuati nel 1766 convinsero Borda che in idraulica la conservazione della vis viva non era sempre rispettata. Egli scoprì che, se la condotta in cui scorreva l'acqua si restringeva o si allargava improvvisamente o se il fluido entrava in contatto con altra acqua o altri corpi, si registrava una diminuzione della velocità dell'acqua da V a v e una perdita della vis viva pari a m(Vv)2/2; comprese che questa scoperta poteva applicarsi all'acqua che colpiva le pale delle ruote idrauliche e pertanto la utilizzò nella seconda parte del suo Mémoire.

L'impiego della nozione di perdita della vis viva da parte di Borda ebbe importanti conseguenze, in quanto le relazioni derivate da tale concetto non soltanto ridussero notevolmente il divario fra teoria e sperimentazione, ma consentirono anche di chiarire alcune questioni fondamentali. Smeaton e de Parcieux avevano dimostrato che le ruote a gravità erano più efficienti di quelle a impatto, ma non ne avevano spiegato la ragione. Borda scoprì che la causa era la perdita di vis viva nell'impatto improvviso dell'acqua contro le pale. Nel caso delle ruote alimentate dall'alto, l'acqua confluiva sulla ruota alla sua stessa velocità, con scarso impatto; nel caso delle ruote alimentate dal basso, invece, l'acqua giungeva sulla ruota, anche quando questa girava a una velocità ottimale, fra 1/2 e 2/3 della velocità dell'acqua, con un notevole impatto. Inoltre Borda si rese conto che la velocità mantenuta dall'acqua dopo essere defluita dalle ruote idrauliche rappresentava una perdita di potenza e che tale perdita era molto inferiore nel caso delle ruote alimentate dall'alto più lentamente.

La convinzione di Borda che nell'impatto si verificasse una perdita della vis viva, non compensata in altre parti del sistema, non fu ben accolta dai fautori della tradizione matematica deduttiva, in quanto implicava il parziale abbandono dei principî di conservazione che da lungo tempo dominavano la meccanica teorica. Per questo motivo, l'ipotesi di Borda venne respinta da Joseph-Louis Lagrange (1736-1813), uno dei più illustri matematici europei, in una lettera a d'Alembert del 1771.

Sebbene lo scritto di Borda del 1767 si basasse sul metodo deduttivo e non su quello induttivo, la scoperta sperimentale della perdita di vis viva nell'impatto idraulico e la disponibilità a contraddire le leggi di conservazione, fino ad allora accettate, riflettono la sua formazione ingegneristica. Se ammettere che la perdita di vis viva consentiva di rendere la teoria più aderente alla pratica, Borda era disposto a farlo. Per riconciliare la teoria e la pratica fu tentata anche un'altra via, quella dell'impiego di coefficienti sperimentali come era stato fatto in idraulica. Negli anni Ottanta del secolo, infatti, Du Buat, che aveva usato questo approccio per i corsi d'acqua e i canali, lo applicò al caso dell'energia idrica: prese l'equazione di base di Parent per la misurazione della potenza delle ruote idrauliche alimentate dal basso, pv=Av(Vv)2, e sostituì l'esponente 2 con n, un coefficiente da stabilire per via sperimentale. Quindi determinò il valore di n per le ruote alimentate dal basso installate in un canale con argini (5/4) e in un corso d'acqua libero (4/3), sulla base dei dati ottenuti con i modelli sperimentali.

Nonostante il fervore dell'attività scientifica nel campo dell'energia idrica, sia nell'ambito teorico sia in quello pratico, in molte parti d'Europa si continuò a progettare e costruire ruote idrauliche con il metodo tradizionale, ignorando completamente la ricerca scientifica. Inoltre, molte innovazioni apportate nel corso del secolo ‒ come, per esempio, l'uso di assali di ferro, il miglioramento delle cassette e l'adozione di raggi sotto tensione al posto degli spessi bracci di legno ‒ erano frutto dell'esperienza pratica e non della ricerca scientifica. Tuttavia, come era accaduto per l'idraulica, durante gli anni Settanta l'approccio scientifico ai problemi si affermò anche nel campo dell'energia idrica, grazie al ruolo sempre più importante svolto dagli ingegneri esperti in matematica nel basare la progettazione dei mulini su principî estrapolati dai dati raccolti per mezzo delle tecniche di controllo quantitativo.

I mulini a vento

Sebbene nella maggior parte dell'Europa il numero e l'impiego dei mulini a vento fossero inferiori a quelli delle ruote idrauliche, essi costituivano un'importante fonte di energia meccanica lungo le coste del Mare del Nord, del Baltico e del Mediterraneo. In particolare, l'energia eolica era essenziale nei Paesi Bassi, dove era utilizzata per il prosciugamento e la bonifica dei terreni, e nei paesi in cui non era possibile fare ricorso all'energia idrica a causa della lentezza dei corsi d'acqua.

All'inizio del Settecento erano diffusi due tipi di mulini a vento: a pilastro e a torre. I primi erano più antichi e più piccoli; il meccanismo e l'alloggiamento erano montati su grandi pilastri girevoli, che consentivano di orientare controvento tutta la struttura. I mulini a torre cominciarono a diffondersi soltanto alla fine del XV sec. e generalmente erano più grandi di quelli a pilastro. La struttura portante, che poteva essere alta molti piani, era stazionaria e soltanto la cupola e le pale potevano essere girate e orientate controvento. In tutti e due i tipi, il vento colpiva le pale, che erano inclinate rispetto al loro piano di rotazione, mettendole in movimento. Il moto era trasmesso all'asse del mulino e da questo ai macchinari.

Per la loro importanza tecnologica, i mulini a vento attirarono presto l'attenzione di matematici e filosofi naturali in cerca di applicazioni per le nuove scienze. Già nel 1607 l'ingegnere olandese Simon Stevin (1548-1620) calcolò approssimativamente la forza necessaria per far funzionare un mulino a vento, a partire dal volume d'acqua che questo poteva sollevare azionando una ruota a cassette fatta girare al contrario. Più tardi nello stesso secolo, Edme Mariotte e Christiaan Huygens calcolarono la forza esercitata su pale di mulino stazionarie. Come per le ruote idrauliche, il principale sostenitore dell'applicazione della meccanica deduttiva ai mulini a vento fu Parent, che nel 1702 pubblicò la prima analisi matematica dettagliata delle pale di questo tipo di mulini dal titolo Sur la position de l'axe des moulins à vent à l'égard du vent. Dopo aver concluso che la forza esercitata dal vento contro le pale era proporzionale al quadrato della loro velocità relativa e al quadrato del seno dell'angolo d'inclinazione del vento contro esse, Parent stabilì anche che l'inclinazione ottimale delle pale di un mulino a vento era di circa 35° rispetto al piano di rotazione (angolo di esposizione). Con tale angolazione, un mulino a vento poteva rendere utilizzabili circa i 5/13 della forza del vento da cui era investito.

Per i cinquant'anni successivi, l'analisi di Parent costituì la base della teoria dei mulini a vento. Daniel Bernoulli, durante gli anni Trenta del Settecento, e il matematico britannico Colin Maclaurin (1698-1746) negli anni Quaranta, si accorsero che la teoria di Parent conteneva errori, dovuti in parte al fatto che essa non prendeva in considerazione la notevole differenza delle velocità relative con le quali il vento colpiva le diverse parti delle pale del mulino. Le loro formulazioni suggerivano che, poiché l'angolazione ottimale delle pale variava con la velocità relativa d'impatto in ogni punto, le pale dovevano avere un angolo di esposizione variabile e non fisso. Nessuno dei due, tuttavia, fornì il mezzo per determinare tale angolo nel caso di mulini specifici esposti a un dato vento. Nel 1756 Euler affrontò il problema dell'inclinazione e della larghezza delle pale e arrivò a conclusioni simili. Egli notò anche che le conoscenze sulla resistenza dei fluidi compressi allora disponibili non erano sufficienti per calcolare la forza agente sulla pala. Bernoulli, Maclaurin ed Euler, tuttavia, avevano soltanto stabilito matematicamente quello che i costruttori di mulini avevano scoperto empiricamente due secoli prima. I mulini a vento medievali, che impiegavano lame orientate con un'unica angolazione, senza torsione, furono modificati dai costruttori olandesi del XVI secolo. Due secoli più tardi i mulini a vento olandesi utilizzavano comunemente pale a elica, molto simili a quelle delle moderne eliche aeree. L'angolo di esposizione delle pale si discostava solamente di pochi gradi dal piano di rotazione, ma aumentava fino a circa 20° (a seconda del tipo di mulino) verso l'asse del mulino.

Gli sperimentatori quantitativi, sia ingegneri sia filosofi naturali, progredirono più lentamente dei matematici deduttivi nello studio dei mulini a vento, anche per la mancanza di strumenti atti a misurare accuratamente la velocità e la pressione del vento. Negli anni Settanta questo problema non era stato ancora definitivamente risolto: fra il 1774 e il 1776, per esempio, problemi di strumentazione impedirono a un comitato composto da tre eminenti ingegneri olandesi d'individuare i rapporti fondamentali fra il raggio e la potenza del mulino.

Come nel caso delle ruote idrauliche, i maggiori successi furono ottenuti da Smeaton, che nel 1755 progettò il suo primo mulino a vento e, in tale occasione, intraprese lo studio dei parametri fondamentali relativi al funzionamento di questi mulini. Non riuscendo a concepire un metodo affidabile per generare un vento artificiale controllabile con cui azionare il modello del mulino, Smeaton montò le pale del modello all'estremità di un braccio orizzontale lungo 1,54 m che poteva essere fatto girare in modo che fossero le pale a imprimere il moto all'aria e non viceversa.

Gli esperimenti condotti da Smeaton sui mulini a vento non furono numerosi e conclusivi come quelli effettuati sulle ruote idrauliche. Egli non riuscì a ideare un metodo affidabile per misurare l'energia in entrata e il suo modello non permetteva di prendere in considerazione la turbolenza generata dal passaggio delle pale davanti alla torre del mulino. Ciononostante, Smeaton riuscì a raccogliere dati utili con 19 serie di esperimenti, variando le dimensioni e l'angolazione delle pale, la velocità del vento e il carico. I suoi risultati sperimentali indicavano la necessità di modificare quelli di Parent, il quale aveva calcolato che la forza massima impressa dal vento alla pale si otteneva con un angolo di esposizione di 35°. Con le pale piatte, Smeaton scoprì che l'angolo ottimale era circa la metà di tale valore ed era pressoché uguale all'angolo impiegato da molti costruttori di mulini che generava una potenza di circa il 50% superiore a quella ottenibile con l'angolazione di Parent. Gli esperimenti di Smeaton mostrarono inoltre che, teoricamente, le pale non devono essere piatte, ma svergolate a elica, come quelle usate nei mulini olandesi. Infine dalle prove risultò che, ove fosse stato necessario aumentare l'area della pala per ottenere più potenza, l'ampliamento doveva essere realizzato lateralmente, aggiungendo sottili sezioni triangolari al margine anteriore delle pale e non aumentando la lunghezza del raggio. Sebbene fossero per molti versi imperfetti e incompleti, per oltre un secolo gli esperimenti di Smeaton sui mulini a vento rimasero i più esaurienti, tanto che nel 1861, nel suo Manual of the steam engine and other prime movers, William John Macquorn Rankine (1820-1872) affermò che l'uso di principî generali nella progettazione dei mulini a vento era quasi del tutto dovuto agli esperimenti di Smeaton.

Nel corso del secolo, i mulini a vento furono soggetti a molte innovazioni, anche a prescindere dagli esperimenti di Smeaton. Nel 1745 il costruttore di mulini Edmund Lee utilizzò per la prima volta la coda a ventaglio, un mulino a vento in miniatura fissato alla cupola sul lato opposto a quello delle pale e collocato ad angolo retto rispetto al loro piano di rotazione. Collegata al meccanismo di rotazione della cupola di un mulino a torre, la coda a ventaglio orientava automaticamente controvento l'asse delle pale del mulino. Nel 1772 il costruttore di mulini Andrew Miekle (1719-1811) sostituì le pale tradizionali, costituite da un telo fissato a una cornice di legno, con quelle formate da assicelle di legno dotate di molle (simili alle tende veneziane), che a suo parere avrebbero consentito di controllare meglio la velocità del mulino. Negli anni Ottanta del Settecento, molti altri costruttori inglesi di mulini sfruttarono la forza centrifuga agente su un peso rotante per regolare la velocità dei mulini a vento, sia calibrando l'attrito fra le macine sia controllando l'apertura e la chiusura delle assicelle di legno delle pale. Tutte queste innovazioni, tuttavia, si basavano su osservazioni empiriche e non su dati prettamente scientifici.

Le tecniche di progettazione e la funzionalità dei mulini a vento raggiunsero il loro apice alla fine del XVIII sec., senza contributi significativi da parte della ricerca scientifica. Per quanto riguardava gli aspetti meccanici fondamentali, infatti, i costruttori avevano scoperto le configurazioni ottimali molto tempo prima che queste fossero confermate dalla sperimentazione o dalla teoria.

Gli ingranaggi

Il ruolo svolto dalla scienza applicata nella progettazione di altre macchine fu ancor meno significativo rispetto agli esempi fin qui analizzati, come dimostra, per esempio, lo sviluppo dell'ingranaggio, uno dei componenti fondamentali di molti macchinari. All'inizio del Settecento gli ingranaggi erano impiegati in tutta una gamma di dispositivi, compresi i verricelli, gli orologi ad acqua, le macchine per sollevare l'acqua, gli strumenti astronomici e decine di tipi diversi di mulini ad acqua o a vento.

Uno dei primi studiosi della teoria degli ingranaggi fu Philippe de La Hire (1640-1718), membro dell'Académie Royale des Sciences e allievo dell'ideatore della geometria prospettica, Girard Desargues. In alcuni scritti pubblicati tra il 1694 e il 1695, La Hire definì i principî fondamentali della progettazione degli ingranaggi, considerati per la prima volta un problema geometrico. Egli concentrò l'attenzione sul profilo dentato e sostenne che, idealmente, il contatto fra i denti doveva essere continuo, per evitare impatti, e senza attrito, per eludere la perdita di potenza; i denti dell'ingranaggio dovevano essere quindi realizzati in modo da rotolare e non scivolare l'uno sull'altro. Partendo da principî geometrici, La Hire scoprì due curve cicloidali ‒ l'epicicloide e l'evolvente ‒ che, applicate ai denti dell'ingranaggio, teoricamente consentivano di ingranare senza battere o scivolare.

Il problema teorico di come garantire il contatto continuo fra i denti dell'ingranaggio con il minimo attrito coinvolse altri matematici oltre La Hire. Nel 1733, per esempio, Charles-étienne-Louis Camus (1699-1768), un matematico dell'Académie, ampliò il lavoro di La Hire formulando una teoria generale degli ingranaggi. Le ricerche di Camus, basate sullo studio di combinazioni di ingranaggi effettivamente in uso, avevano un carattere più pratico di quello di La Hire. Per esempio, l'analisi dettagliata della diffusa combinazione di ruota dentata e ingranaggio a lanterna, un meccanismo frequentemente utilizzato nei mulini idraulici, dimostra chiaramente la familiarità di Camus con la tecnologia contemporanea. Egli studiò anche la forma e il numero di denti necessari per altre combinazioni d'ingranaggi, compresi ingranaggi e cuscinetti conici, e suggerì alcuni metodi semplificati per progettare e costruire i denti elicoidali, pur ignorando le curve evolventi.

Intorno al 1760, Euler dedicò alla teoria degli ingranaggi dentati diversi scritti, basati sulla geometria analitica e sul calcolo differenziale e integrale. Egli dimostrò matematicamente che l'evolvente e l'epicicloide erano gli unici profili che consentissero all'ingranaggio di muoversi in modo uniforme, senza attrito. Sottolineò in particolare i vantaggi offerti dalla curva evolvente, compresi alcuni aspetti molto pratici, quali la minore deviazione dell'albero in ingranaggi con ruote di diametro diverso e la facilità di fabbricazione, suggerendo inoltre possibili applicazioni negli orologi.

Il lavoro analitico di La Hire, Camus ed Euler, tuttavia, non ebbe conseguenze sul piano pratico e, come per l'idraulica, l'energia idrica e l'eolica, l'applicazione delle conoscenze teoriche rimase molto limitata. La fabbricazione di denti con profilo epicicloidale ed evolvente era particolarmente difficile; sembra, inoltre, che gli artigiani che producevano gli ingranaggi fossero completamente ignari delle scoperte dei teorici e non fossero in grado di comprendere né la geometria di La Hire, né il calcolo di Euler. Nel campo dell'idraulica, dell'energia idrica e di quella eolica, i limiti della speculazione teorica erano stati compensati in parte dallo sviluppo parallelo di una corrente quantitativa dominata da un approccio ingegneristico, sperimentale, che nel XVIII sec. fu completamente assente nel campo degli ingranaggi. La spiegazione migliore per la totale assenza d'influenza scientifica su questo tipo di progettazione è la mancanza di esigenze pratiche. Il rudimentale dente d'ingranaggio, impiegato negli orologi e negli strumenti scientifici, era del tutto adeguato a questi dispositivi che si muovevano lentamente, di solito sempre nella stessa direzione, ed esercitavano soltanto una leggera pressione. Per la maggior parte dei macchinari pesanti, come, per esempio, i mulini idraulici, bastavano ingranaggi ancora meno precisi poiché anch'essi si muovevano lentamente e i denti di legno, usurandosi, assumevano in poco tempo la forma corretta. Gli ingranaggi di legno, inoltre, erano elastici, quindi, pur non avendo una forma ottimale, assorbivano bene gli urti e generalmente non si rompevano. Date le circostanze, gli artigiani riuscivano facilmente a risolvere i problemi in modo empirico e, in sostanza, non si vedeva la necessità di spendere tempo e denaro per fabbricare ingranaggi 'perfetti' più complessi. La ricerca del profilo ideale degli ingranaggi dentati rappresentava quindi per Euler, Camus e gli altri matematici un problema teorico affascinante e non un'esigenza tecnologica.

La situazione iniziò a mutare solamente alla fine del XVIII sec. quando, nei dispositivi per i lavori pesanti, si cominciò a sostituire gli ingranaggi di legno con quelli di ferro, e nell'industria la fonte principale di forza motrice divenne il motore a vapore, più potente della lenta ruota idraulica. L'aumento di potenza e velocità comportò anche l'incremento delle perdite dovute all'attrito; inoltre, gli ingranaggi di ghisa delle nuove macchine, pur essendo più robusti, si rompevano più facilmente e tolleravano meno gli urti improvvisi. Tuttavia, persino coloro che negli anni Quaranta dell'Ottocento arrivarono a progettare le macchine per costruire i denti di ingranaggio a profilo evolvente non si basarono direttamente sull'opera di Euler, che ne aveva consigliato l'uso quasi un secolo prima. Le poche nozioni teoriche di cui ci si servì erano state tramandate da un piccolo gruppo di ingegneri che, all'inizio del XIX sec., aveva semplificato la teoria degli ingranaggi traducendo i risultati teorici di Camus, La Hire ed Euler in tabelle che potevano essere utilizzate anche da chi non aveva una adeguata preparazione matematica.

Nel 1724 Jacob Leupold (1674-1727) nel Theatrum machinarum generale si lamentava del fatto che i costruttori di macchine fossero per lo più tecnici con una conoscenza lacunosa delle leggi e delle norme scientifiche. In modo molto simile si espresse, nel 1737, il francese Bélidor autore di manuali d'ingegneria, scontento del fatto che quasi sempre i meccanici, sostenitori della superiorità della pratica sulla teoria, risolvessero i problemi andando per tentativi, senza attenersi a regole affidabili. Nell'Europa del XVIII sec., la necessità di applicare le scienze e la matematica alla pratica e di educare in modo scientifico gli artigiani analfabeti era diventata un luogo comune. Si trattava di una tesi diffusa presso le accademie scientifiche, che avevano bisogno di dimostrare la loro utilità alle corti che le patrocinavano, e sostenuta da quanti speravano di sfruttare le proprie conoscenze teoriche per ottenere riconoscimenti professionali, o per assicurarsi il controllo di attività da sempre dominate dagli artigiani tradizionali. Tuttavia, come abbiamo visto, questi propositi non ebbero alcuna ripercussione nei campi sinora esaminati ‒ idraulica, energia idrica, mulini a vento e ingranaggi. In una lettera a Voltaire del 1778, Federico II scrisse:

Volevo far fare una fontana nel mio giardino. Euler ha calcolato il rendimento delle ruote che dovevano sollevare l'acqua per farla defluire in un bacino, dal quale doveva poi scorrere di nuovo in canali e di nuovo risalire in alto nelle fontane di Sans Souci. L'ingranaggio di sollevamento fu realizzato secondo i calcoli matematici, ma non riuscì a sollevare neanche una goccia d'acqua a cinquanta passi dal bacino. Vanità delle vanità! Vanità della matematica! (Klemm 1964, p. 262)

Malgrado ciò i matematici iniziarono a influenzare la tecnologia e la convinzione tradizionale, propria degli artigiani, che le nozioni tecniche costituiscano un patrimonio segreto da non divulgare, iniziò a essere sostituita dall'ideale scientifico secondo cui tutta la conoscenza poteva essere razionalizzata e resa di dominio pubblico. L'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert si propose di descrivere in modo coerente tutti gli aspetti della tecnologia e dell'industria, conferendo loro una nuova dignità. L'opera, che rappresenta una fonte preziosissima di informazioni sulla tecnologia del XVIII sec., favorì la successiva penetrazione del razionalismo scientifico nel campo tecnologico.

Oltre alla razionalità e alla divulgazione, altri ideali avevano cominciato a permeare la tecnologia del XVIII sec., in particolare la quantificazione; in questo periodo, infatti, si diffusero rapidamente l'espressione quantitativa delle relazioni tecnologiche e la sperimentazione sistematica e quantitativa, che spesso facevano ricorso a modelli. La maggior parte degli individui che alla fine del secolo si occupava di migliorare e applicare la tecnologia si mostrava profondamente scettica nei riguardi delle teorie, fossero esse derivate per deduzione o induzione, teoricamente o sperimentalmente. Un numero sempre più crescente di ingegneri e artigiani, tuttavia, era disposto ad ammettere il valore di norme, leggi o principî di progettazione quantitativi, specialmente se basati su un'induzione ottenuta da esperimenti quantitativi sistematici, e cominciava a utilizzare tali regole nell'opera di progettazione.

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