L'Età dei Lumi: le scienze della vita. La psichiatria e i suoi nuovi modelli

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. La psichiatria e i suoi nuovi modelli

Roy Porter

La psichiatria e i suoi nuovi modelli

La concezione della malattia mentale nel XVIII sec. non deve essere studiata nella prospettiva di quegli psichiatri riformatori dell'Ottocento i quali, per primi, scrissero la storia della loro disciplina. Nell'intento di esaltare la propria umanità e i successi conseguiti, infatti, essi tendevano a enfatizzare la brutalità con cui in passato erano trattati i malati di mente. La realtà storica, tuttavia, è assai più complessa, in quanto l'Età dei Lumi, tutto considerato, favorì in questo campo un clima di progresso. Rifiutando la dottrina cristiana del peccato originale, gli esponenti dell'Illuminismo erano convinti che il genere umano potesse progredire, anzi che fosse sostanzialmente perfettibile e, di conseguenza, sostennero che i malati di mente potevano essere curati.

Teorie della follia

Il XVIII sec. ereditò diverse concezioni della follia di tipo sia medico sia religioso. Nell'epoca della Riforma la malattia mentale spesso era stata imputata a una causa sovrannaturale, divina oppure diabolica; si riteneva che la follia fosse sintomo di un'afflizione dell'anima, e che la perdita della ragione e del libero arbitrio compromettesse la possibilità di salvezza. Con l'affermarsi delle idee illuministe, queste interpretazioni religiose furono abbandonate dai principali teorici per lasciare il posto a nuove dottrine mediche di tipo laico. L'Universo ordinato, meccanicistico e governato da leggi, postulato da Descartes e da Newton, escludeva l'eventualità che Satana potesse possedere la mente e il corpo di un individuo. Dopo il bagno di sangue della caccia alle streghe e della guerra dei Trent'anni, le sette di fanatici religiosi cominciarono a essere guardate con diffidenza e ostilità: conservatori e pensatori illuminati non erano più disposti a dar credito alle 'rivelazioni' dei sedicenti visionari, e affermavano che i 'posseduti' erano semplicemente degli squilibrati affetti da ipocondria, isteria o da altri disturbi psichici. Il fanatismo religioso fu così ricondotto a una manifestazione psicopatologica, trasformandosi in una malattia somatica.

Nel corso del XVIII sec. furono sviluppate nuove teorie della follia. Mania e melanconia, sostenevano i medici illuministi, non erano originate da forze sovrannaturali; le loro cause, piuttosto, andavano ricercate all'interno del corpo umano; l'eziologia dei disturbi psichici, dunque, era di tipo organico. Tra la comunità medica, inoltre, le vecchie dottrine umorali ‒ secondo le quali la mania andava ricondotta al sangue e alla bile gialla (cholera), e la melanconia alla bile nera ‒ cominciarono a perdere credito con l'affermarsi della 'nuova scienza' inaugurata da Descartes, che interpretava il corpo in termini meccanicistici dando la preminenza non più ai fluidi ma ai solidi. Nei trattati di medicina della prima metà del secolo, dunque, il concetto di 'malattia mentale' in senso stretto divenne quasi una contraddizione in termini; la possibilità di una mente malata era praticamente esclusa. I disturbi psichici erano interpretati come malattie del corpo: l'anima, in base a questo modello cartesiano, restava assolutamente inviolata.

Tuttavia, pur arrivando alla confortante conclusione che l'anima dell'alienato non era in alcun modo affetta dal male, i medici si trovavano nondimeno a dover spiegare la realtà della follia. Il danno alle facoltà mentali, essi sostenevano, non poteva che derivare da un qualche difetto del corpo. A prevalere fu la teoria, elaborata da un gruppo di iatromeccanici britannici nei primi decenni del secolo, che si basava su precedenti modelli cartesiani, seppure modificati. Lo scozzese Archibald Pitcairn (1652-1713), che insegnò a Leida, e il suo allievo Richard Mead (1673-1754) avevano, infatti, ripreso la tesi cartesiana della follia come illusione associandola a un'altra nozione del filosofo francese, quella di movimento muscolare riflesso o involontario. All'origine della pazzia, secondo Mead, vi era una rappresentazione abnorme di false idee, indotta dall'impatto degli spiriti animali che fluiscono in modo caotico; tali false idee, a loro volta, retroagirebbero sulle fibre muscolari producendo movimenti convulsi e incontrollati negli arti e nelle estremità. Questi autori consideravano l'individuo affetto da squilibri mentali come una macchina idraulica in cui si fosse verificato un guasto: un flusso irregolare di spiriti animali dava luogo a false sensazioni e a movimenti incoerenti delle membra. Il delirio, per Mead, non era un disordine della mente ma del corpo, poiché, nella sua opinione, era del tutto evidente che in realtà il difetto non stava nella parte razionale bensì in quella corporea. Veniva così avanzata una convincente spiegazione somatica della malattia mentale, mirata a mitigare le paure e la stigmatizzazione di cui questa era oggetto.

Il tentativo di ascrivere la follia a cause organiche trovò la sua codificazione più sistematica nelle dottrine dell'illustre professore di medicina a Leida Herman Boerhaave (1668-1738), il quale, attenendosi rigorosamente al modello cartesiano, insieme ai suoi allievi, in particolare Albrecht von Haller (1708-1777), sostenne che alla base della follia vi fosse la rappresentazione di un'immagine erronea, ossia un'idea priva di un corrispettivo nella realtà esterna. Nello stesso tempo, perfettamente consapevoli del fatto che tale rappresentazione illusoria da sola non era sufficiente a spiegare la pazzia, essi tentarono di elaborare una variante più sofisticata della dottrina cartesiana. Secondo tale teoria nella percezione degli oggetti esterni doveva intervenire qualcos'altro oltre alla mera sensazione fisica e, affinché un individuo divenisse effettivamente pazzo, occorreva che egli fosse anche 'persuaso' della realtà della falsa immagine.

Con il progredire delle conoscenze sul sistema nervoso, il funzionamento dei nervi assunse un ruolo centrale nella spiegazione della formazione di allucinazioni o di idee deliranti. Alcuni seguaci di Pitcairn, in particolare lo scozzese George Cheyne (1671-1743), ipotizzarono un'interazione dei sistemi vascolare e nervoso con il cervello. L'idea del sistema nervoso come un complesso di condotti o cavi che convogliano onde o impulsi portò a sviluppare teorie alternative, in cui i disturbi delle facoltà mentali, del tono dell'umore e del comportamento erano interpretati come effetti di una disfunzione dei sistemi digestivo o nervoso, responsabili di una tensione o di un rilassamento eccessivi, oppure di un'occlusione. Le teorie di Newton fornirono un altro modello che molti fisiologi e medici cercarono di seguire. Nel suo trattato A new system of the spleen (1729) il fervente newtoniano Nicholas Robinson sostenne che sono le fibre nervose a controllare il comportamento; un rilassamento patologico di tali fibre sarebbe la causa primaria della melanconia. "Ogni mutamento della mente" concludeva Robinson "indica pertanto un mutamento negli organi del corpo". La follia, a suo avviso, non era riducibile a meri "capricci e bizzarrie dell'immaginazione", ma costituiva una malattia reale, provocata da "affezioni reali, meccaniche, della materia e del movimento". Lo stesso concetto fu ribadito dal suo contemporaneo Cheyne, anch'egli un convinto newtoniano, il quale affermò che la pazzia è una malattia autentica (ossia, nella sua concezione, somatica). Egli affermava infatti di non aver mai visto una persona accusare gravi e persistenti disturbi nervosi che fossero puramente immaginari, ma di aver sempre trovato in ultimo che lo stomaco, i visceri, il fegato, la milza, il mesenterio o qualche altro grande e importante organo o ghiandola dell'addome "erano occlusi, pieni di noduli, o di scirri, deteriorati o forse tutte queste cose insieme". Friedrich Hoffmann (1660-1742), professore di medicina a Halle, sviluppò una patologia solidista basata sulle fibre e sui pori; Boerhaave dal canto suo individuò l'origine della melanconia nella "dissipazione" (ossia evaporazione) delle parti più instabili del sangue e nell'addensamento del residuo ematico "scuro, denso e corposo", e ricondusse la causa di tale dissipazione a una combinazione di fattori biologici e comportamentali.

Queste e analoghe interpretazioni organiche dei disturbi psichici rimasero in auge per tutta la prima metà del XVIII sec., ma poi si verificò un'importante svolta teorica, cui contribuì in misura significativa la crescente accettazione delle teorie della percezione basate sui principî dell'empirismo e del sensismo mutuati da John Locke (1632-1704) e da Étienne Bonnot de Condillac (1714-1780). Nell'Essay on human understanding (1690) Locke aveva avanzato l'ipotesi che all'origine della pazzia vi fosse una disfunzione nel processo di associazione delle idee, attraverso il quale l'esperienza sensoriale è trasformata in concetti mentali. La connessione tra sensazione e giudizio da lui istituita ebbe un ruolo di primo piano nelle nuove teorie della malattia mentale elaborate nella seconda metà del XVIII secolo. Voltaire ne sottolineò le implicazioni con grande chiarezza, attuando nel Dictionnaire philosophique (1764) un rovesciamento del modello cartesiano. Egli si chiedeva perché l'anima spirituale, e immortale, che risiede nel cervello dell'alienato, pur ricevendo tutte le idee in modo chiaro e distinto attraverso i sensi, sia incapace di giudicare in maniera assennata. Voltaire immaginava un pazzo che dicesse ai medici "la mia anima fa un cattivo uso dei miei sensi", oppure "la mia anima è essa stessa solo un senso viziato, una qualità degenerata". In questo modo, mettendo in luce le contraddizioni che inficiavano la spiegazione tradizionale della pazzia, Voltaire apriva la strada a un'interpretazione materialistica dell'esperienza umana.

L'abbandono delle teorie somatiche della malattia mentale in favore di quelle psichiche, tuttavia, poteva fornire anche un argomento contro il materialismo. Fu questa, per esempio, la posizione assunta da François Boissier de Sauvages (1706-1767), celebre professore di medicina di Montpellier. Se nella sua critica alla dottrina dell'anima immateriale Voltaire aveva sostenuto che nella pazzia la mente ha un ruolo attivo, Sauvages mise in discussione l'interpretazione boerhaaviana della follia per ragioni diametralmente opposte. Egli riteneva, infatti, che la teoria meccanicista, in cui la mente aveva un ruolo puramente passivo, avesse essa stessa favorito il materialismo, minimizzando il coinvolgimento dell'anima o della mente (l'âme), e propose una nuova teoria della pazzia come malattia psichica e non somatica.

Nel corso di una lunga carriera, il suo pensiero subì notevoli trasformazioni. La sua prima opera nosologica, Nouvelles classes de maladies (1732), divideva le malattie in dieci classi; la sesta comprendeva i disturbi psichici o maladies spirituelles, ulteriormente suddivisi in tre categorie: alterazioni dell'immaginazione, del giudizio e della volontà.

Attenendosi al modello boerhaaviano ortodosso, il giovane Sauvages affermava che all'origine delle maladies spirituelles vi sarebbero alcune illusioni o false immagini che si producono nel cervello. L'insorgere della pazzia a seguito di una disfunzione cerebrale era spiegato sulla base delle teorie iatromeccaniche della percezione: la perdita del giusto grado di tensione delle fibre avrebbe determinato idee e giudizi incongruenti con l'impressione sensoriale di un oggetto esterno. Negli scritti successivi, tuttavia, Sauvages asserì che la pazzia non era causata principalmente da una disfunzione degli organi sensoriali, ma era piuttosto il risultato dell'"abuso che facciamo della nostra libertà". Egli respingeva ormai le interpretazioni basate sull'idea di una mente passiva, in quanto riteneva che fossero tendenzialmente materialistiche e deterministiche, e implicassero la negazione del libero arbitrio. All'origine del suo ripudio del modello somatico vi era dunque anche il timore dell'anarchia morale, implicita nelle argomentazioni materialistiche avanzate da coloro che egli definiva i "partigiani di Spinoza". Spiegare i disturbi psichici in termini meccanicistici, a suo avviso, era moralmente pericoloso; i medici avevano il dovere di ripristinare l'integrità delle facoltà del giudizio e della volontà nel malato di mente. In questo modo, contrariamente alle raccomandazioni di Boerhaave, Sauvages asserì che l'azione terapeutica del medico non dovesse essere mirata soltanto al corpo del paziente, ma anche e principalmente alle sue facoltà morali e mentali; in tale concezione si possono intravedere i germi di quelle tecniche di 'trattamento morale' che avrebbero acquistato popolarità dopo il 1750.

William Cullen (1710-1790), il più insigne professore della Scuola medica dell'Università di Edimburgo, che conobbe il suo periodo di massima fioritura nella seconda metà del XVIII sec., elaborò un diverso modello psicologico della malattia mentale, che aveva nondimeno molti punti in comune con quello proposto da Sauvages. Cullen riteneva che la pazzia fosse causata da disturbi cerebrali, che le allucinazioni derivassero da una disfunzione degli organi sensoriali, e i falsi appetiti dagli organi che governano le rispettive passioni. La sua classificazione, dunque, dava la priorità alla sede patologica della malattia piuttosto che ai sintomi. La centralità assunta dal sistema nervoso nella sua teoria è dimostrata dal fatto che l'eccitazione cerebrale era considerata essenziale sia nell'eziologia sia nella terapia dei disturbi psichici. Per Cullen la pazzia (vesania) era sempre un disturbo nervoso; sul piano eziologico, essa nascerebbe nell'"origine comune dei nervi […] il cervello", mentre dal punto di vista neurofisiologico si verificherebbe ogni qualvolta si determini "un qualche squilibrio nell'eccitazione del cervello". Tuttavia, nella sua concezione la follia è definita anche "un'insolita e in genere precipitosa associazione di idee" che porta a un "falso giudizio" e produce "emozioni sproporzionate". Ciò consentiva a Cullen di considerare la follia come un disturbo psichico, fondato sulla neurofisiologia dinamica.

Se dunque nella sua concezione della malattia mentale egli non escludeva il corpo, d'altro canto non intendeva affatto spiegare i disturbi psichici esclusivamente in termini neuroanatomici. Così come Sauvages si era richiamato alla filosofia della mente di Christian Wolff (1679-1754), il principale punto di riferimento di Cullen fu David Hume (1711-1776), le cui teorie filosofiche e psicologiche ne influenzarono palesemente la concezione della facoltà del giudizio e delle sue disfunzioni. L'abitudine e l'associazione di idee, che Hume aveva posto alla base di tutte le operazioni mentali, erano considerate da Cullen gli elementi chiave del giudizio, l'operazione psichica normativa le cui disfunzioni sarebbero all'origine della pazzia. I disturbi mentali infatti comporterebbero una deviazione dall'habitus: così il delirio si verificherebbe quando anziché il corso abituale del pensiero, se ne segue un altro incoerente "con tutti i principî e le nozioni precedentemente stabiliti". Sebbene Cullen proponesse un modello di moralità più relativistica e pluralistica di quello di Sauvages, entrambi ritenevano che il ruolo del medico fosse quello di guardiano della condotta moralmente accettabile. Oltre a privilegiare la fisiologia del sistema nervoso e la patologia cerebrale, il modello proposto da Cullen presupponeva un'analisi approfondita delle disposizioni psichiche del paziente. Il suo merito maggiore fu quello di aver reintrodotto la dimensione psichica nel discorso medico sulla malattia mentale.

La rottura con la vecchia interpretazione dei disturbi psichici, in chiave essenzialmente somatica e basata sul concetto di illusione, si era già in buona parte compiuta verso il 1780, e in Gran Bretagna si diffuse un nuovo modello che integrava la fisiologia di Cullen con la moderna filosofia della mente. Nelle sue Observations on the nature, kinds, causes and prevention of insanity, lunacy or madness (1782-1786) Thomas Arnold, che aveva studiato con Cullen prima di assumere la direzione della casa d'internamento di Leicester, elaborò una nosologia dei disturbi psichici basata esplicitamente sulla filosofia della mente di Locke, distinguendo tra "alterazione delle impressioni sensoriali" (allucinazione) e "alterazione delle idee" (delirio). La psicopatologia di Arnold presupponeva l'idea di una mente attiva, la quale non poteva essere passiva nemmeno per un momento, ma doveva avere un motivo perpetuo, di un tipo o dell'altro, per esercitare le sue facoltà attive. Molti altri medici svilupparono però interpretazioni di tipo più psicologico della malattia mentale. Nell'opera An inquiry into the nature and origin of mental derangement (1798) Alexander Crichton, un altro rappresentante della Scuola medica di Edimburgo, sostenne che la filosofia della mente doveva costituire una parte essenziale della psichiatria; pertanto chi si accingeva a intraprendere lo studio di questa branca della scienza doveva evidentemente conoscere la mente umana nel suo stato normale, e a questo riguardo Crichton riconosceva il suo debito nei confronti di "psicologi britannici" come Locke, Hartley, Reid, Priestley, Stewart e Kames. Analogamente, l'insigne psichiatra francese Philippe Pinel (1745-1826) sosteneva di aver sentito la necessità di cominciare i suoi studi esaminando i numerosi e importanti fatti che erano stati scoperti e dettagliatamente descritti da "moderni pneumatologi", quali Locke, Harris, Condillac, Smith e Stewart.

Il progressivo affermarsi della concezione della pazzia come patologia psichica determinò una radicale trasformazione negli scopi e nella struttura del campo delle conoscenze psichiatriche. D'ora in avanti, il medico avrebbe dovuto analizzare la psiche del paziente. Un segnale di questo cambiamento è dato anche dalla proliferazione delle dettagliate descrizioni di casi clinici che si ebbe tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX sec.; in netto contrasto con le opere precedenti, infatti, alcuni trattati pubblicati in questo periodo erano costituiti interamente da raccolte di casi clinici. Con l'affermarsi di queste nuove concezioni della pazzia le antiche forme di assistenza ai malati di mente lasciarono il posto alla pratica di una sistematica osservazione psicologica e psichiatrica. A partire dal 1780 circa, specialmente in Inghilterra, vi fu un rapido aumento delle pubblicazioni psichiatriche da parte di proprietari di case di internamento private: ai Methods of cure, in some particular cases of insanity (1778) di William Perfect fecero seguito all'inizio del secolo successivo le opere di Joseph Mason Cox, di William Hallaran e di molti altri. Le case di internamento private aumentarono di numero e di importanza sin dalla fine del XVIII sec., ma in un primo tempo esse non ebbero il ruolo di centri di ricerca e di elaborazione teorica. La situazione cambiò quando le nuove teorie mediche cominciarono a privilegiare e a richiedere l'osservazione dei singoli pazienti.

La pratica: istituzioni e terapie

Le teorie somatiche della malattia mentale sviluppatesi all'inizio del XVIII sec. implicavano l'idea che essa fosse curabile: se la pazzia era frutto di una malattia organica, infatti, era lecito aspettarsi che rispondesse ai trattamenti terapeutici. Di qui le 'cure' a base di droghe, come la canfora, alcune destinate a sedare i maniaci, altre a rinvigorire i melanconici; l'oppio era liberamente prescritto per entrambi gli scopi. Notevolmente diffuso era anche l'uso di salassi, emetici e purghe violente per eliminare le tossine, nonché di trattamenti shock ‒ docce, bagni freddi e scosse elettriche ‒ e di dispositivi meccanici, quali sedie rotanti e altalene meccaniche, atti a 'spezzare le idee fisse'; quando tutti gli altri rimedi fallivano, si faceva ricorso a costrizioni come catene e camicie di forza, destinate a 'tenere quieti' i maniaci. William Perfect, direttore di una casa di internamento privata nel Kent, applicava ai suoi pazienti una varietà di tecniche mirate a rendere docili i pazzi furiosi: dalla somministrazione di oppiacei all'isolamento in stanze buie, ai bagni freddi, alle diete debilitanti, all'uso di salassi, purghe e così via. Si riteneva che questi trattamenti, acquietando il corpo, avrebbero reso la mente più disposta alla ragione.

Nell'ultima parte del secolo, tuttavia, le speranze si concentrarono sull'efficacia terapeutica delle case di internamento. L'ambiente isolato della casa di ricovero creava le condizioni ideali per l'applicazione delle nuove tecniche psichiatriche che miravano a soggiogare la volontà e le passioni del criminale. Inoltre, allorché divenne evidente l'inefficacia delle droghe e dei farmaci e crebbe la condanna dell'uso della frusta e dei ceppi, considerati metodi crudeli e controproducenti, il ricovero in questa struttura gestita in modo razionale apparve il metodo terapeutico ideale per un'età illuminata.

Intorno alla metà del secolo esisteva in Inghilterra un'estesa rete di case di internamento private istituite espressamente per fornire assistenza ai malati di mente. Le soluzioni potevano essere molto diverse: dalla sistemazione di un piccolo gruppo di pazienti nella casa del proprietario alla costruzione di appositi istituti di grandi dimensioni, capaci di ospitare dozzine e persino centinaia di pazienti. Alcuni di questi istituti erano diretti principalmente ai membri delle classi medio-alte, mentre altri ospitavano i pazienti indigenti, sebbene questi ultimi nella maggior parte dei casi fossero assistiti dai familiari, dai parenti o dalla parrocchia, oppure rinchiusi negli ospizi, nei correzionali e nelle case di lavoro. Nei paesi cattolici d'Europa e nella Russia ortodossa, di contro, conventi e fondazioni religiose di vario genere continuarono a costituire il principale ricovero per i pazzi violenti. Nei paesi di lingua tedesca i malati di mente erano spesso ricoverati negli ospedali municipali.

Nel 1675, in occasione della ricostruzione di Londra intrapresa dopo il grande incendio del 1666, era stata rimodernata la più antica casa di internamento europea per i malati di mente, il Bethlem Hospital, fondata nel 1247, erigendo su un sito prospiciente le brughiere un imponente edificio in stile francese. In quanto istituto assistenziale nazionale, il Bethlem accettava pazienti provenienti da tutto il paese, i quali erano previamente esaminati dalla Commissione dell'istituto e dal personale medico. Un impegno scritto garantiva che il paziente avrebbe lasciato l'istituto se dichiarato guarito, e che alle spese di sepoltura in caso di decesso avrebbero provveduto la famiglia o la parrocchia. Di solito i pazienti erano dimessi dopo un anno, in quanto dichiarati guariti o incurabili; un reparto apposito per gli incurabili, peraltro, fu aggiunto nel 1725. Al Bethlem operarono medici di un certo rilievo, tra i quali Edward Tyson (1650/1651-1708), cui si deve la prima dissezione dello scimpanzé. La Commissione dell'istituto, che comprendeva uomini d'affari londinesi, si riuniva settimanalmente e agiva in modo piuttosto coscienzioso. Se spesso si trovava costretta a licenziare il personale di servizio per ubriachezza o assenteismo, si dimostrava perlomeno molto energica nel perseguire questi abusi.

Furono così stabilite norme di condotta e all'interno dell'ospedale fu affisso un regolamento che includeva le seguenti disposizioni: (a) è vietato a qualsivoglia persona fornire agli alienati bevande alcoliche; (b) agli alienati che si dimostrino idonei sarà concesso di passeggiare nel cortile sino all'ora della cena; (c) è vietato ai sorveglianti, e a chiunque altro, accettare offerte in denaro dagli alienati; (d) alcuni membri della Commissione si recheranno settimanalmente nel suddetto ospedale, al fine di sorvegliare la pesata delle derrate alimentari. Ovviamente, le regole non erano sempre rispettate, ma la loro esistenza contrasta con l'opinione corrente, espressa per esempio da Andrew Scull (1993), secondo cui a Bethlem i malati di mente erano trattati alla stregua di bestie, perciò spesso frustati e tenuti in catene. Al contrario, la Commissione proibiva ogni forma di violenza, insistendo sul fatto che i pazienti erano là per essere curati e non puniti.

Tra il 1728 e il 1852, tutti i medici del Bethlem provennero da una stessa famiglia, i Monro ‒ James (1697-1767), John Thomas (1733-1817) ed Edward Thomas (1773-1859) ‒ e, all'insegna della continuità, i trattamenti terapeutici si sclerotizzarono in una routine consolidata: interrogato da una Commissione della Camera dei Comuni, il dottor John Thomas Monro dichiarò che continuava a usare i metodi del padre, poiché non ne conosceva di migliori. L'accusa di inerzia e di refrattarietà all'innovazione fu il motivo della polemica che oppose John Thomas Monro a William Battie fondatore del St. Luke, un nuovo istituto assistenziale londinese. Nel suo Treatise on madness, pubblicato nel 1758, Battie criticò il Bethlem per la sua arretratezza, affermando che l'istituto rimaneva chiuso a ogni innovazione, non si preoccupava di insegnare agli studenti e applicava terapie obsolete. Ferito nel suo onore, Monro rispose a questo attacco nei Remarks on Dr. Battie's treatise on madness, pubblicati nello stesso anno. Dichiarò che suo padre non aveva pubblicato alcun trattato sulla malattia mentale in quanto reputava disonesto confondere gli animi con questioni che sarebbero restate sempre oscure, intricate e incerte. Seguirono alcune riforme, tra cui in particolare l'abolizione delle visite aperte al pubblico, ma la conseguente segretezza probabilmente diede l'opportunità di commettere effettivamente gravi abusi.

Nel suo trattato Battie sottolineava l'importanza di un tempestivo ricovero nelle case di internamento, dove si sarebbe dovuta dare la preminenza al 'controllo' dei pazienti; esso era più efficace di qualunque farmaco, dichiarò Battie con una frase che sarebbe diventata lo slogan della psichiatria britannica progressista delle due generazioni successive. Molto influente fu anche la distinzione da lui operata tra due tipi di malattia mentale: quella 'originaria' (ossia congenita) e quella 'indiretta' (ossia acquisita). Seguendo Locke, Battie riteneva che gli "inganni dell'immaginazione" fossero la caratteristica essenziale della pazzia acquisita, che a suo parere poteva essere curata con un tempestivo internamento.

La nuova concezione della malattia mentale che si andò affermando dopo il 1750, secondo cui si trattava di una condizione psicologica, risultato di cattive abitudini e di sventure, richiedeva un nuovo approccio psicoterapeutico basato sul controllo della mente del paziente. Il medico William Pargeter, per esempio, credeva fermamente in un'interazione 'drammaturgica' tra il medico alienista e il paziente.

Naturalmente, non tutti gli alienisti della fine del XVIII sec. esercitavano il loro carisma in questa forma teatrale, quasi mesmerica; ma la maggior parte di essi condivideva la convinzione che la pazzia fosse curabile e che dovesse essere trattata attraverso il contatto personale tra medico e paziente. Per designare questa nuova strategia, entrò nell'uso l'espressione 'controllo morale': 'controllo' in quanto l'alienista doveva dimostrarsi dinamicamente pieno di risorse, prolifico di iniziative mirate a imporre la disciplina; 'morale' in quanto l'azione terapeutica era diretta alla psiche e non semplicemente al corpo del malato, e mirava a stabilire un contatto personale tra medico e paziente. L'umanità ‒ sosteneva il medico di Manchester John Ferriar ‒ avrebbe dovuto sostituire la brutalità, e il trattamento morale sarebbe dovuto subentrare a quello fisico. Egli affermava che il controllo della psiche, di grande efficacia nel trattamento dei malati di mente, era stato largamente frainteso. In passato si era ritenuto che i pazzi rispondessero solo al terrore, e ceppi e fruste, pertanto, erano diventati parte dell'apparato medico. Idee analoghe furono espresse da William Pargeter, il quale sosteneva che la cura della follia doveva incentrarsi sul controllo più che sui farmaci: il controllo dei maniaci era un'arte che si acquisiva soltanto con una lunga esperienza e un'attenta e frequente osservazione, e sebbene si fossero fatti notevoli progressi, tale metodo poteva essere ulteriormente perfezionato.

Gli esponenti della nuova psichiatria esprimevano la loro condanna nei confronti di un''epoca buia' in cui avevano dominato gli approcci puramente reattivi alla malattia mentale, basati sull'uso di droghe soporifere o di catene. Deplorando la crudeltà dell'abbandono o della violenza, essi propugnavano quello che Ferriar definiva un "sistema di mitezza". I fautori del controllo morale non rifiutavano a priori l'uso della coercizione fisica e della forza, ma tali metodi erano considerati nel migliore dei casi un male necessario, di cui peraltro troppo spesso si abusava. Infatti, Benjamin Faulkner, riferendosi alla sua casa d'internamento privata, affermava entusiasticamente che vi era evitata la reclusione se non nei casi strettamente necessari. In tal modo, l'approccio del controllo morale trasformò radicalmente il trattamento del malato di mente, e con esso l'impostazione del discorso sulla pazzia.

Nella letteratura tradizionale sull'argomento risultavano dominanti gli approcci di tipo filosofico, religioso, medico-anatomico o classificatorio. Verso il 1800 si affermò, al contrario, una nuova trattatistica che dava la preminenza all'esperienza pratica e ai casi clinici. L'osservazione del comportamento quotidiano del paziente acquistò un ruolo di primo piano; furono elaborati e discussi metodi terapeutici che si basavano specificamente sulle condizioni create nelle case di internamento, e che sarebbe stato impossibile applicare al di fuori di tali istituzioni segregate, disciplinari e quasi domestiche, le quali permettevano altresì di registrare il decorso del disturbo sotto trattamento. Per la prima volta, lo stretto contatto con i pazienti internati divenne il principale criterio per lo studio dei disturbi mentali.

La psicopatologizzazione della follia religiosa

Nell'Età dei Lumi prevalse un atteggiamento di rifiuto e di condanna nei confronti delle credenze tradizionali relative alla stregoneria e ad altri presunti interventi del 'Maligno' nelle faccende umane, considerati, nel migliore dei casi, superstizioni e, nel peggiore, frutto di macchinazioni da parte del clero. In questa critica la nuova medicina psichiatrica ebbe un ruolo determinante. Se i presunti fenomeni di possessione diabolica ‒ stati di trance, urla, coma e convulsioni ‒ non erano una frode né opera di spiriti sovrannaturali, non potevano essere altro che manifestazioni patologiche (della mente o del corpo), e dunque di pertinenza della medicina. Di rado le dottrine cristiane che asserivano la realtà della possessione venivano esplicitamente negate dai medici, i quali insistevano però sul fatto che le apparenti manifestazioni di possessione demoniaca e di maleficium potevano essere interpretate come sintomi patologici, riconducibili probabilmente a melanconia (eccesso di bile nera) oppure, secondo le teorie successive, a disturbi nervosi. Soltanto il medico di provata esperienza, pertanto, avrebbe potuto valutare i singoli casi sulla base di esami diagnostici attendibili e di un esperto giudizio clinico.

A partire dalla metà del XVIII sec. si cominciò a guardare con crescente sospetto ai sedicenti santi e profeti, che furono accusati di provocare il disordine civile. Si radicò sempre più la convinzione che queste forme di fanatismo religioso fossero sintomi di disturbi mentali e che gli individui che si proclamavano santi e profeti fossero in realtà autentici squilibrati. I medici misero in luce le evidenti affinità tra i comportamenti degli esaltati religiosi e quelli dei pazzi veri e propri: glossolalia, convulsioni, parossismi, accessi, visioni e allucinazioni, manifestazioni di violenza (come nel caso dei regicidi), pianti e gemiti. Individui carismatici e intere sette potevano ora essere demonizzati, non più in nome dell'ortodossia religiosa, ma sulla base dell'autorità medica; entusiasmo e fanatismo potevano essere interpretati come manifestazioni psicopatologiche. In Francia fu messa sotto accusa la setta giansenista dei 'convulsionari', mentre in Gran Bretagna gli stessi argomenti furono usati contro i seguaci di alcune sette dai nomi significativi: quaccheri (quackers, lett. 'tremolanti'), scotitori (shakers) e i cosiddetti 'familisti' o ranters (concionatori); dopo gli anni Trenta del Settecento entrò nell'uso l'espressione denigratoria 'metodisticamente pazzo' rivolta, appunto, contro i metodisti.

In alcune aree europee il dibattito demonologico proseguì nell'ambito della medicina accademica sino a buona parte del XVIII secolo. Intorno al 1700 Gottfried Büching, uno degli allievi di Friedrich Hoffmann, illustre professore di medicina a Halle, ribadì la realtà dell'influenza del diavolo sulla mente e sul corpo. Satana, egli sostenne, poteva assumere il controllo degli spiriti animali nel corpo, provocando contorsioni violente, manifestazioni di forza sovrannaturale, accessi, spasmi, dolori, soffocamento uterino, le convulsioni tipiche del 'ballo di san Vito' e attacchi epilettici. Il medico, tuttavia, avrebbe dovuto distinguere le invasioni diaboliche dalle malattie 'terrene'. Era lecito ipotizzare una causa sovrannaturale, affermava Büching, quando il paziente manifestava i seguenti sintomi: attacchi convulsivi non giustificati da precedenti patologie, blasfemia, capacità di prevedere il futuro o di individuare oggetti nascosti, capacità di parlare lingue a lui ignote, forza abnorme, vomito di oggetti come spille, chiavi e schegge di legno o di pietra, emissione di oggetti vari dalle orecchie, dalla vagina o dal pene. Le teorie di Büching, tuttavia, furono rifiutate da altri medici tedeschi, i quali negarono che il diavolo avesse il potere di controllare il corpo. Nel 1725 lo stesso Hoffmann intervenne nella discussione, asserendo che il demonio agiva sulle streghe attraverso gli spiriti animali, e avallando quindi con il proprio prestigio l'autenticità della demonologia; ancora nel 1776 Anton de Haen, allievo di Herman Boerhaave, presentava nel De magia una difesa della demonologia da un punto di vista conforme all'ortodossia religiosa.

Al di fuori delle università tedesche, tuttavia, la scienza medica si emancipò ben presto dalle teorie demonologiche. In Gran Bretagna dal 1700 in poi i più illustri alienisti ‒ Richard Blackmore, Richard Mead, George Cheyne, Nicholas Robinson e i loro seguaci ‒ diedero un'interpretazione naturalistica, ovvero somatica, della melanconia religiosa. Il newtoniano Robinson dichiarò che le 'visioni' dei primi quaccheri non erano altro che "gli effetti di pura e semplice pazzia", e andavano ricondotti "agli impulsi più forti di un cervello caldo". L'opera Medica sacra (1749) di Mead, un commentario sulle malattie descritte nella Bibbia, forniva una spiegazione razionale dei casi di possessione e di altre malattie bibliche interpretate tradizionalmente come prove di un intervento del 'Maligno'; a giudizio dell'autore, tali credenze non erano altro che volgari errori e spauracchi per donne e bambini.

Nella Zoonomia; or, the laws of organic life (1794) Erasmus Darwin (1731-1802) interpretava alcuni aspetti della dottrina cristiana come manifestazioni patologiche, e metteva sotto accusa la setta di John Wesley. Molti predicatori metodisti, asseriva Darwin, con i loro discorsi esaltati riuscivano a ispirare negli ascoltatori un terrore patologico dell'inferno (orci timor) e i poveri pazienti affetti da questo tipo di follia spesso arrivavano al suicidio, pur essendo convinti di precipitare a capofitto in quello stesso inferno che incuteva loro un simile terrore. In proposito, Darwin descriveva una serie di casi clinici di individui condotti dai loro 'scrupoli' religiosi alla follia, e spesso alla disperazione e alla morte; citava per esempio la vicenda di un pastore il quale avava cominciato a graffiarsi e a ferirsi in nome della mortificazione religiosa. Internato in un manicomio senza alcun risultato, una volta dimesso aveva continuato a battersi e a graffiarsi, e a seguito di questo genere di mortificazioni, nonché dei lunghi digiuni cui si sottoponeva periodicamente, divenne sempre più emaciato e alla fine morì.

In Francia il problema del fanatismo religioso si pose al centro dell'attenzione con il caso scandaloso dei convulsionari. La vicenda ebbe inizio con la morte di François de Paris, un diacono giansenista in odore di santità, avvenuta il 1° maggio del 1727. Il religioso fu seppellito a Parigi, nel cimitero parrocchiale di Saint-Médard, e tra i fedeli accorsi in massa a pregare davanti alla sua tomba cominciarono a verificarsi guarigioni 'miracolose' di malattie apparentemente incurabili (tumori, paralisi, cecità, sordità, reumatismi). Il sant'uomo divenne così oggetto di un vero e proprio culto; le folle divennero ingovernabili e nel luglio del 1731 la loro esaltazione religiosa prese a manifestarsi in strane forme, in particolare con attacchi di convulsioni. Ad alimentare lo scandalo contribuì il fatto che donne giovani e belle, in preda alle convulsioni, esponevano alla pubblica vista il loro corpo indecentemente scoperto. Se molti ecclesiastici condannavano tali manifestazioni di esaltazione religiosa come peccato e depravazione, i medici tendevano a interpretarle come sintomi patologici, in particolare come forme di isteria. Tra i medici che si occuparono dei convulsionnaires, il più illustre fu il giansenista Philippe Hecquet (1661-1737), il quale interpretò le convulsioni come sintomi dei cosiddetti 'vapori', malattie isteriche, disturbi tipicamente femminili di origine sessuale. Hecquet, tuttavia, nutriva anche il sospetto che nella maggior parte dei casi all'origine di questi disturbi vi fossero motivazioni nascoste. Tali 'disdicevoli' vapori, infatti, erano sperimentati in genere da adolescenti, zitelle in età avanzata e vedove, e la cura in questi casi era ovvia: il matrimonio; se questa falliva, si poteva sempre ricorrere ai metodi tradizionali, tra cui il salasso. La terapia preferita da Hecquet, tuttavia, consisteva nell'affidare le convulsionarie alla supervisione di un medico specializzato. Le pazienti, egli raccomandava, dovevano essere isolate, intimidite con le minacce, fustigate e immerse in acqua fredda: ciò avrebbe ben presto posto fine ai vapori.

Le patologie della civiltà

Le malattie mentali alimentarono dunque un acceso dibattito durante l'età della ragione: molti osservarono come, paradossalmente, il progresso della civiltà avesse portato con sé un'aumentata incidenza del suicidio e della pazzia. Sotto una varietà di denominazioni diverse ‒ ipocondria, vapori, spleen, melanconia, depressione ‒ i disturbi psichici divenuti poi noti come 'nevrosi' sembravano colpire in modo particolare la popolazione inglese, e si riteneva che il clima, il benessere e uno stile di vita raffinato fossero all'origine di quello che Cheyne chiamò "male inglese", che colpiva soprattutto individui dotati di "raffinata sensibilità". Spesso, inoltre, alle passioni e all'immaginazione era attribuito un ruolo determinante nell'eziologia dell'ipocondria.

Il medico e scrittore satirico di origine olandese Bernard de Mandeville (1670 ca.-1739) analizzò nel suo Treatise of the hypochondriack and histerick diseases (1730) i poteri psicopatologici ma anche psicoterapeutici del linguaggio. Il trattato è svolto nella forma di un dialogo tra un medico, Philopirio, e il suo paziente Misomedon. Questi, un gentiluomo di ottima educazione cui "la bella vita" aveva compromesso la salute, aveva consultato una schiera di medici illustri, ma nessuna delle cure da loro prescritte si era dimostrata efficace, anzi, i loro miscugli di droghe avevano finito per peggiorare le condizioni del paziente. Come conseguenza di questi incessanti colloqui con i medici, Misomedon si era ridotto a essere un ipocondriaco cronico, un maniaco valetudinario. Convinto di essere affetto da tutte le malattie note alla scienza medica, decise allora di dedicarsi egli stesso allo studio della medicina, ma le sue letture non fecero altro che peggiorare la situazione; infine, si convinse di aver contratto una malattia venerea. "Quando mi sentii meglio ‒ fa dire Mandeville al suo personaggio ‒ scoprii che a causare tutto ciò erano state le letture sulla lue, intraprese quando avevo cominciato a star male; da allora ho deciso di non guardare più un libro di medicina, se non quando la mia mente è perfettamente lucida".

Rousseau fu considerato un tipico esempio di temperamento nevrotico; e in generale ‒ avvertiva il suo confidente, il medico svizzero Samuel Auguste André Tissot ‒ gli uomini di lettere e le persone raffinate erano particolarmente soggetti a questo genere di disturbi. Nella nuova 'età del sentimento', tuttavia, tra la buona società essere affetti da disturbi ipocondriaci talvolta finiva per costituire un motivo di vanto. Come osservò il biografo di Samuel Johnson, James Boswell, gli ipocondriaci potevano trovare conforto nella consapevolezza che il male stesso di cui soffrivano costituiva un segno della loro superiorità. Particolarmente problematiche risultavano l'eziologia e la terapia dei disturbi psichici femminili. L'isteria divenne una diagnosi in voga per i medici che si trovavano di fronte a una serie di sintomi bizzarri e imprevedibili manifestati soprattutto da pazienti di sesso femminile ‒ dolori nell'area genitale e addominale, che si irradiavano dalla testa ai piedi o si sviluppavano all'interno dell'area toracica, provocando una compressione della gola (il cosiddetto globus hystericus), contrazioni, tic e spasmi, accessi e paralisi. Thomas Willis (1621-1675), il pioniere della neurologia del XVIII sec., osservava che ogniqualvolta nel corpo femminile si verificava una patologia di tipo insolito o misterioso, cosicché la sua eziologia restava oscura, e vi era la più totale incertezza in merito alle indicazioni terapeutiche, si diagnosticava un disturbo isterico, la qual cosa spesso non era altro che il sotterfugio dell'ignoranza.

Anche i medici dell'epoca illuminista dichiaravano il loro sconcerto di fronte all'enigma delle corrispondenze tra i fenomeni psichici e quelli fisiologici. L'insigne clinico William Heberden (1710-1801) esitava a esprimersi dogmaticamente sulle cause profonde di questo tipo di disturbi perché riteneva che l'ignoranza dei medici sulle connessioni e simpatie tra mente e corpo, nonché sulle forze animali, che agiscono secondo modalità che sfuggono alle normali leggi della materia inorganica, rappresentava una grave difficoltà nell'eziologia di tutti i disturbi psichici. In particolare l'ipocondria e l'isteria sembravano appartenere interamente a queste dimensioni sconosciute della costituzione umana.

La fine del secolo: l'affermarsi di una nuova psichiatria

In Gran Bretagna il caso della 'follia' di re Giorgio III contribuì a portare drammaticamente al centro dell'attenzione i disturbi psichiatrici, e il fatto che il 're pazzo' fosse poi guarito dal male che lo aveva colpito tra il 1788 e il 1789 incoraggiò un certo ottimismo nei decenni successivi. Unitamente alla 'convulsione' della Rivoluzione francese, la pazzia di re Giorgio segnala un'enigmatica connessione tra età della ragione e comprensione della follia. La fine del secolo nondimeno fu contrassegnata da un'importante sintesi tra il nuovo pensiero psicologico e la pratica riformista nell'approccio della cosiddetta 'terapia morale', che propugnava un trattamento umano nei confronti dei pazienti rinchiusi nelle case di internamento.

Uno dei pionieri di questo indirizzo fu il fiorentino Vincenzo Chiarugi (1759-1820), che espose le sue idee in un importante trattato in tre volumi, Della pazzia in genere e in spezie. Trattato medico analitico con una centurie di osservazioni (1793-1794). La 'psichiatria umana' di Chiarugi si collocava nel contesto delle attività di riforma del granduca Pietro Leopoldo, il quale, rappresentante dell'assolutismo illuminato, si fece promotore di una riforma economica e sociale, abolì la tortura e la pena di morte, istituì riformatori per la rieducazione dei giovani, introdusse la vaccinazione di massa contro il vaiolo e fondò ospedali e scuole di medicina. La sua legge sui pazzi del 1774 autorizzò l'ospedalizzazione dei malati di mente.

Le teorie medico-psichiatriche di Chiarugi si focalizzavano sul problema dell'influenza del corpo sulla mente e sull'anima attraverso l'attività dei sensi, in particolare del sistema nervoso. Lo psichiatra italiano sosteneva che il sensorium commune faceva da intermediario tra l'intelletto e i sensi, tra l'anima e il corpo, e cercava in questo modo di fornire una soluzione psicologica al vecchio problema metafisico del dualismo mente/corpo. Nella sua tassonomia dei disturbi psichici, egli seguiva il modello di Cullen distinguendoli in tre categorie: melanconia, mania e 'amentia'. Per quanto riguarda l'eziologia delle malattie mentali, privilegiava la tradizionale concezione illuministica secondo cui esse sarebbero per la maggior parte acquisite e non ereditarie. Considerando la pazzia un fenomeno secondario, Chiarugi era piuttosto ottimista in merito alla possibilità di curarla: al trattamento farmacologico anteponeva quello umano e rifiutava l'uso della violenza, convinto della superiore efficacia del controllo morale, una terapia basata sull'ascendente morale esercitato dal medico sul paziente attraverso la forza di carattere e l'esempio morale.

In Francia il principale sostenitore del nuovo approccio psichiatrico fu il medico Philippe Pinel, il quale condannò le terapie brutali e raccomandò un'attenta osservazione del paziente. Nel 1793 assunse la direzione dell'ospedale di Bicêtre, il principale manicomio pubblico di Parigi per uomini, e due anni dopo gli fu affidato il suo equivalente femminile, la Salpêtrière. Conformemente alle idee illuministiche, nell'eziologia delle malattie mentali Pinel attribuiva un ruolo preminente ai fattori psicogeni, ribadendo che il cervello degli alienati esaminato post mortem non presentava alcuna anomalia strutturale. La pazzia, osservava Pinel, di solito era considerata l'effetto di una lesione organica del cervello, e di conseguenza era ritenuta incurabile; una supposizione che, nella maggioranza dei casi, era in contrasto con l'evidenza anatomica. Sul piano filosofico Pinel era un idéologue influenzato dal pensiero di Locke così come era stato interpretato da Condillac. Il traitement moral da lui propugnato, tuttavia, riguardava direttamente la sfera affettiva della vita psichica, contrapposta a quella intellettuale. La sua celebre lotta per liberare i pazienti dalle catene fu forse un mito; tuttavia, il suo attento lavoro al Bicêtre e alla Salpêtrière ebbe un notevole impatto e il Traité médico-philosophique sur l'aliénation mentale ou la manie (1801), in cui espose le sue concezioni sulle cause morali e sul trattamento morale dell'alienazione, tradotto in inglese, spagnolo e tedesco, esercitò una notevolissima influenza. Nel complesso, la psichiatria di Pinel era improntata all'ottimismo: pur considerando incurabili le patologie cerebrali di tipo organico, egli affermava infatti che l'esperienza dimostrava come i disturbi funzionali rispondessero ai metodi della terapia morale nei casi di melanconia e di mania non accompagnati da delirio.

A questi sviluppi fece riscontro in Inghilterra l'istituzione nel 1796 dello York Retreat, una casa d'internamento fondata dopo la misteriosa morte di un paziente quacchero avvenuta nel manicomio della città, a seguito della quale, indignata per l'incidente, la comunità quacchera locale decise di creare un proprio istituto per alienati. In parte per convinzioni religiose, in parte attraverso un metodo empirico di tentativi ed errori, si sviluppò così un peculiare trattamento terapeutico basato sulla quiete e sulla serenità di un'atmosfera familiare in cui il malato di mente doveva essere considerato come un bambino indisciplinato. Il successo dell'istituzione fu divulgato da Samuel Tuke (1784-1857) nella sua Description of the Retreat (1813), che costituì un importante modello per i riformatori dei primi decenni del XIX secolo.

Anche in Inghilterra dunque, così come nel caso di Pinel in Francia, la terapia morale si raccomandava per la sua umanità ed efficacia. Nello York Retreat si prendeva a modello l'ideale della vita familiare e la segregazione era ridotta al minimo. I pazienti e il personale vivevano sotto lo stesso tetto e consumavano i pasti insieme in un ambiente in cui si cercava di favorire la guarigione attraverso il biasimo e la lode, le ricompense e le punizioni, con l'obiettivo di restituire al paziente la capacità di autocontrollo. La causa ultima dei disturbi mentali, fisica o psichica che fosse, aveva scarsa importanza. Sebbene tutt'altro che ostile alla categoria medica di cui non faceva parte ‒ era infatti un commerciante di tè ‒, Tuke era peraltro convinto che i rimedi offerti dalla medicina fossero privi di efficacia terapeutica. Egli osservava che nel caso dei melanconici era altamente controproducente parlare ai pazienti della loro malattia, spiegava che nel Retreat si seguiva il metodo opposto, cercando con ogni mezzo di distogliere la mente dei pazienti dai pensieri negativi che l'assorbono attraverso l'esercizio fisico, le passeggiate, la conversazione, la lettura e altre innocenti forme di ricreazione.

In conclusione, nella svolta verso l'istituzionalizzazione del malato di mente che si compì in Europa nel corso del XIX sec., si può scorgere una sottile ironia, perché a promuovere questa segregazione su larga scala fu essenzialmente un gruppo di riformatori animati da nobili sentimenti e da buone intenzioni. Condannando con forza l'abbandono e la brutalità di cui erano stati tradizionalmente vittime gli alienati, i medici progressisti sostennero che soltanto l'internamento in istituti appositi dotati di personale preparato avrebbe potuto assicurare le cure e l'assistenza adeguate. Seguiti individualmente e sottoposti a una terapia basata sull'occupazione in un ambiente familiare, i pazienti avrebbero potuto recuperare le loro facoltà mentali. Facendosi promotori di una terapia morale mirata a risvegliare l'umanità assopita dell'alienato, gli psichiatri ottimisti come Pinel si proponevano di 'rieducare' i pazienti attraverso l'internamento in istituti destinati specificamente alla loro assistenza e cura. I risultati, tuttavia, rimasero molto al di sotto delle aspettative e nel XIX sec. i manicomi divennero uno degli ambiti più problematici della medicina moderna.

Ciononostante, Michael MacDonald (1981) indubbiamente esagera quando afferma che "il XVIII secolo fu disastroso per il malato di mente"; e ugualmente inaccettabile risulta la tesi del "grande internamento" avanzata da Michel Foucault (1961), secondo la quale nel Settecento, in Europa, si affermò la tendenza a segregare indiscriminatamente dal resto della società tutte le categorie di individui che rappresentavano un affronto per la razionalità borghese ‒ mendicanti e piccoli delinquenti, sfaccendati e prostitute, malati e anziani, storpi e pazzi. La pigrizia sarebbe stata il denominatore comune di queste categorie di 'devianti'; al pari del mendicante, il malato di mente non lavorava, e chi non lavorava era la quintessenza della 'irrazionalità'. In realtà, tuttavia, il fenomeno del 'grande internamento' in Europa rimase circoscritto alla Francia, e anche qui alla sola Parigi. La prassi di segregare i malati di mente si affermò soltanto in modo graduale, localizzato e discontinuo. Sia sul piano dei riscontri empirici sia dal punto di vista concettuale, sarebbe dunque più corretto definire come 'età del grande internamento' non il XVIII sec., bensì quello successivo.

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