L'Europa tardoantica e medievale. I territori entro i confini dell'Impero. L'Italia

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Europa tardoantica e medievale. I territori entro i confini dell'Impero. L'Italia

Francesca Romana Stasolla

L’italia

Il toponimo Italia, di origine osca, venne riferito a un’estensione territoriale comprendente l’intera penisola in età augustea, a eccezione delle isole che vi vennero incluse con la riforma dioclezianea (fine III sec. d.C.). La frantumazione dell’unità territoriale determinata con la divisione dell’Impero romano nelle due partes, orientale e occidentale, e sancita dallo stanziamento longobardo (dal 568 d.C.), determinò la parcellizzazione anche terminologica della toponomastica nella penisola italiana, così che il termine Italia rimase relegato a una tradizione dotta. Il concetto di unità, almeno culturale, venne recuperato in età comunale, a fronte delle divisioni territoriali e linguistiche che si andavano determinando. Il termine venne quindi ripreso, sempre in ambito dotto (Dante, Petrarca), soprattutto nella caratterizzazione dei territori peninsulari rispetto a Paesi stranieri, mentre cominciò a diffondersi in forma aggettivata, in riferimento agli uomini oltre che al territorio, solo dalla metà del XIII secolo. Dal punto di vista della ripartizione territoriale, ancora alla fine dell’VIII secolo la suddivisione del territorio italiano data da Paolo Diacono (Hist. Lang., II, 14-24) richiama il sistema dioclezianeo, sia pure con le successive integrazioni sino a Giustiniano, con la divisione in 18 province: 1. Venetia; 2. Liguria; 3. Retia I; 4. Retia II; 5. Alpes Cottiae; 6. Tuscia; 7. Campania; 8. Lucania; 9. Alpes Appenninae; 10. Emilia; 11. Flaminia; 12. Picenus; 13. Valeria, cui est Nursia adnexa; 14. Samnium; 15. Apulia, consociata sibi Calabria; 16. Sicilia; 17. Corsica; 18. Sardinia.

L’evento considerato dai contemporanei come disastroso, segno del disfacimento dell’Impero e smentita della sacralità inviolabile di Roma, è costituito dal sacco di Roma del 410, a opera dei Goti che sei anni prima avevano varcato le Alpi. Il passaggio dei Goti non ebbe in realtà alcuna seria ricaduta sull’organizzazione territoriale della penisola, ma determinò una diffusa sensazione della grande debolezza delle difese. Le tracce archeologiche di questi eventi sono labili, dedotte più da elementi “in negativo”, dai livelli di distruzione rinvenuti in alcuni centri italiani e dalle ristrutturazioni che ne seguirono. Anche i manufatti attribuiti con certezza ai Goti sono sporadici, limitati a sepolture spesso isolate. Alle scorrerie gote seguirono i Vandali, che a cominciare dall’inizio del V secolo compirono attacchi lungo le coste della Sicilia e occuparono la Sardegna. Nella penisola, determinarono un nuovo sacco di Roma, a opera di Genserico, e dell’impressione che lasciarono negli autoctoni è testimonianza la preziosa iscrizione di Porto che menziona appunto la Vandalica rabies. Nella desolazione che le popolazioni “barbariche” paiono portare in Italia, e soprattutto nella difficoltà nel ricostruire archeologicamente i loro passaggi, data la scarsità di tracce materiali, il regno di Teodorico costituisce una felice eccezione. Entro i confini del suo regno, che aveva come capitale Pavia, al sovrano goto si deve in primo luogo una volontà restauratrice che lo spinse a intraprendere restauri di infrastrutture (in particolare mura, terme e edifici per spettacolo) e opere di decoro urbano, oltre all’incremento delle attività produttive derivate. Dalla ricca documentazione testuale (Variae di Cassiodoro e Anonimo Valesiano) si ricavano informazioni anche sui nuovi modi del costruire, sulla ripresa delle figline – con bolli fittili dello stesso Teodorico e del suo successore Atalarico che costituiscono un prezioso riscontro archeologico – e con una normativa di legittimazione dello spoglio di monumenti non più in funzione. A livello archeologico, un unicum è costituito dall’insediamento di Monte Barro, in Lombardia, documentazione materiale di una residenza signorile extraurbana.

La riconquista bizantina dell’Italia a seguito della guerre greco-gotiche (535-553) determinò un progressivo mutamento sia nell’assetto del territorio, soprattutto in merito alle nuove vie di percorrenza, sia nella connotazione urbanistica delle città italiane, soprattutto in rapporto alle strutture difensive, con opere di fortificazione anche nel territorio. Su questi aspetti peculiari dei castra, la fonte principale è Procopio di Cesarea (De bello Gothico), mentre preziose indicazioni ci vengono anche dalla legislazione giustinianea, che raccomanda di privilegiare le fortificazioni anche a scapito del decoro urbano e che prevede come ogni città debba essere murata per almeno parte della sua estensione. Si diffondono così i castra urbani, che talvolta recuperano il sito dell’acropoli preromana (Cuma, Ancona), senza che questo generi una restrizione della città. L’attività propulsiva di Giustiniano si concretizzò anche in attività edilizie volte soprattutto alla costruzione, alla ristrutturazione e alla decorazione di edifici di culto.

Nel 568 i Longobardi varcarono le Alpi con l’intento di stanziarsi sul suolo italiano, cosa che avvenne fino alla sconfitta subita a opera dei Carolingi nella seconda metà dell’VIII secolo. Lo stanziamento longobardo, con un’organizzazione del territorio a macchia di leopardo concretizzatasi nella Langobardia Maior nell’Italia settentrionale e nella Langobardia Minor in quella meridionale, ha lasciato testimonianze archeologiche ben definite. Anche a livello amministrativo, l’organizzazione derivata dal frazionamento della Langobardia Minor (principati di Benevento e di Salerno, contea di Capua) rimase in auge fino alla conquista normanna. Lo studio dei reperti delle numerose necropoli (ad es., Nocera Umbra e Castel Trosino) ha consentito di cogliere attraverso la documentazione materiale i segni della progressiva interazione tra autoctoni e popolazione germanica, interazione regolata a livello amministrativo anche dall’Editto di Rotari, e che ha dato luogo a fenomeni di artigianato artistico peculiari (gioielli ed elementi di corredo personale, manufatti di vetro e ceramica, ma anche elementi scultorei di decorazione architettonica). Più recenti sono gli studi sulle testimonianze monumentali di committenza longobarda, che hanno determinato il mutamento nell’aspetto strutturale di alcune città, soprattutto con il diffondersi dell’edilizia in legno (Brescia, Milano), con la costruzione di strutture monastiche e religiose (S. Salvatore a Brescia). Al frazionamento culturale dell’Italia contribuì lo stretto radicamento all’impero bizantino dei territori rimasti estranei alla conquista longobarda, con fenomeni architettonici e artistici, oltre che con dinamiche commerciali strettamente connesse con l’Oriente. Tra questi territori particolare rilevanza assunse il ducato di Roma, erede del Patrimonium sancti Petri, denominazione che dal VI secolo indicava la varietà del patrimonio fondiario della Chiesa di Roma, nel quale l’autorità del pontefice si fece progressivamente più forte in relazione alla mancata presenza di autorità civili di riferimento.

In generale dal V all’VIII secolo si producono quei fenomeni che, nati dalla rottura degli schemi insediativi e urbani di età romana, caratterizzano la realtà medievale italiana, spesso ancora percepibile negli attuali centri urbani. Le caratteristiche più evidenti sono pertinenti all’organizzazione dello spazio urbano, con il policentrismo derivato dalla diffusione degli edifici di culto e dalla loro relazione con le sedi del potere civile ed economico, dalla strutturazione dei santuari martiriali e dei borghi sorti attorno a essi, dal generarsi di uno schema viario meno rigido, che sfocerà nella curvilinearità tipica dei centri medievali. Le indagini archeologiche hanno restituito preziose indicazioni sui mutamenti urbanistici avvenuti nel centro delle città a continuità di vita e in merito ai caratteri dell’edilizia privata, a cominciare dal caso di Roma (area dei Fori Imperiali e del Colosseo). Fenomeni di continuità e di trasformazione sono evidenti anche nel territorio, con la tenuta del sistema delle villae ancora nella Tarda Antichità, con il diffondersi del fenomeno delle sepolture in villa, con la cristianizzazione del territorio attuata mediante una rete di ecclesiae baptismales, il cui esito pienamente medievale produrrà il sistema pievano, di capillare diffusione della cura animarum al di fuori dei centri urbani. Elementi di novità sono presentati anche da nuove forme di organizzazione della proprietà fondiaria, con sistemi di ripartizione dei territori e delle persone che attorno alle attività agricole gravitano in curtes e, per quanto attiene specificatamente ai patrimoni ecclesiastici, in domus cultae, sistemi di sfruttamento dei territori con criteri di autonomia.

I regni germanici avevano contribuito a determinare il fenomeno del frazionamento territoriale tra le aree sotto il controllo goto e poi longobardo e i territori rimasti bizantini. Nelle aree attorno a Roma e soprattutto nei territori dell’Esarcato, in special modo a Ravenna, sede dell’esarca e città nella quale i resti monumentali sono di particolare rilevanza, sembra documentata una sostanziale tenuta dei sistemi di approvvigionamento, manutenzione delle infrastrutture e delle opere di decoro urbano, compresa la riedificazione dei circuiti murari, nota anche per alcune città dell’Italia meridionale (Reggio Calabria). Particolare rilevanza venne data alla costruzione di fortificazioni urbane e limitanee (S. Antonino di Perti, in Liguria, le cui indagini archeologiche sono di particolare interesse anche per la conoscenza delle dinamiche di circolazione delle merci; Cosa in Toscana; Squillace in Calabria), così come sono noti su base squisitamente archeologica alcuni fenomeni legati alla situazione d’instabilità dei territori di confine (ad es., i pozzi-deposito). Tra i territori dell’Italia meridionale, le due isole conservano tracce estremamente significative del periodo bizantino.

La Sicilia, soprattutto, di recente oggetto di indagini e di studi volti alla contestualizzazione topografica della ricca messe di manufatti che arricchiscono i musei; alla ricostruzione delle modifiche delle città a continuità di vita; all’analisi delle dinamiche d’insediamento rurale e del loro prosieguo in età islamica (analisi territoriali sistematiche sono state effettuate nelle aree di Entella, Segesta, Calatafimi, Eraclea); al destino delle grandiose villae tardoantiche (Piazza Armerina, Patti), i cui siti vennero rioccupati in età bizantina; all’analisi degli approdi marini (Caucana) e dei relitti (Marzamemi, Marsala); allo studio dei villaggi rupestri, che talora recuperano aree precedenti (Pantalica). Nell’ultimo ventennio è stata definita anche la rilevanza archeologica e topografica della Sardegna bizantina, sia nei centri urbani (Nora, Tharros), in alcuni casi accompagnata dallo sviluppo dei loro santuari martiriali (S. Saturno a Cagliari, S. Gavino a Porto Torres), sia nella individuazione materiale dei centri episcopali (Cornus), in un territorio non interessato da stanziamenti longobardi, ma nel quale la pressione delle popolazioni barbaricine dell’interno determinò la necessità di presidiare gli insediamenti costieri.

L’epoca carolingia in Italia, a cominciare dalle vittorie dei Franchi sui Longobardi alla metà dell’VIII secolo e fino alla sua formalizzazione con l’incoronazione di Carlo Magno a Roma nell’800, è stata felicemente sintetizzata nei fenomeni di renovatio imperii e di renovatio murorum. La stretta relazione tra papato e dinastia carolingia accrebbe il potere dei vescovi, che progressivamente avevano occupato gli spazi che la vacanza – di fatto, se non teorica – dell’autorità civile aveva favorito, soprattutto nella cura e nella gestione delle infrastrutture urbane, fino a farne un punto di riferimento non solo della vita religiosa, ma in primo luogo della vita cittadina, come viene stigmatizzato nell’operato papale; Roma è la città che forse più di ogni altra testimonia i caratteri della rinascita urbanistica e architettonica. La volontà dei sovrani carolingi di utilizzare gli insediamenti monastici come forma di controllo del territorio determinò il costituirsi di complessi monastici, spesso di fondazione regia, con possedimenti estesi e frazionati, come attestato dalle fonti documentarie, e che le ricerche archeologiche hanno chiarito nelle modalità insediative e nelle fasi costruttive (Farfa, San Vincenzo al Volturno).

A partire dai primi decenni del X secolo la sostanziale tenuta dei modelli insediativi tardoantichi trovò un elemento di cesura nel fenomeno dell’incastellamento, una forma di ripartizione e di gestione della proprietà fondiaria che presupponeva la raccolta di uomini, prima che di terre, in siti d’altura con funzione anche difensiva. Dal punto di vista topografico, si assiste alla diffusione di abitati d’altura, talvolta con il recupero di insediamenti preromani, e a un’organizzazione delle attività talvolta finalizzate a funzionalità specifiche (come nel caso degli insediamenti metalliferi toscani). La recente distinzione in alcuni castra (Montarrenti in Toscana, Caprignano in Sabina) di una fase costruttiva lignea antecedente quella in pietra ha confermato il carattere economico e sociale, prima che architettonico, del fenomeno, e ha consentito di retrodatare la costituzione dei primi siti incastellati.

All’inizio dell’XI secolo una nuova popolazione occupò parte dell’Italia meridionale (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia): si tratta dei Normanni, che provenienti dalla Scandinavia (dove si identificano con i Vichinghi) all’inizio del X secolo si erano stanzianti nel Nord della Francia (ducato di Normandia) e da qui nelle Isole Britanniche. Dal 1019 (costituzione della contea di Aversa) al 1090 le operazioni normanne mirarono al consolidamento, a scapito delle ormai soccombenti forze arabe, dei loro possessi territoriali riuniti nel Regnum Siciliae, a identificare l’insieme dei possessi normanni dell’Italia meridionale. Proprio la sconfitta araba e la volontà normanna di evidenziare il rapporto con la Chiesa (sinodo di Melfi del 1059) contribuirono a una posizione chiaramente antimusulmana, che vide espressioni monumentali nella fiorente architettura religiosa che è possibile apprezzare a partire dalla fine dell’XI secolo. La volontà della casa normanna di richiamarsi al ducato di madrepatria determinò la venuta nell’Italia meridionale di architetti francesi, o comunque la derivazione di moduli architettonici d’Oltralpe: ne è chiaro esempio l’abbazia di S. Eufemia presso Lamezia Terme, in Calabria, che rivisita i moduli architettonici della seconda fase di Cluny (981). La cura della progettazione degli impianti si estende alla decorazione architettonica (stucchi da Gerace, sempre in Calabria), mentre sul piano dell’architettura civile viene introdotto il dongione nell’architettura castellana, residenza aulica e segno evidente del potere signorile, elemento diffuso nell’Europa centro-settentrionale tra XI e XII secolo.

Una nuova e significativa stagione si aprì per l’Italia meridionale con l’azione di Federico II di Svevia di ricondurre a un’unica autorità l’impero tedesco e il regno di Sicilia. Nell’Italia peninsulare i riflessi architettonici e archeologici dell’età federiciana sono evidenti, accanto alle significative testimonianze della cultura artistica, della tradizione manoscritta e della pratica normativa, prodotte in un clima di vivacità culturale che nell’istituzione (1224) dello Studio generale a Napoli trovò fulcro e proposizione. Limitatamente alle considerazioni archeologiche, va notata l’attività costruttiva rivolta a nuove fondazioni urbane (Altamura), rurali (Ordona), accanto a sporadiche tracce di distruzione (Capaccio); rilevanza particolare, soprattutto dal punto di vista architettonico, hanno i castelli voluti da Federico II per ragioni diverse – difensive, venatorie, residenziali – e caratterizzati da planimetrie differenti, alcune delle quali particolarmente spettacolari (ad es., Castel del Monte, Gravina, Lagopesole, Lucera). Diversa appare la situazione in Sicilia, dove le sacche di resistenza musulmana vennero duramente represse, con la conseguente necessità di attuare un riassetto territoriale che dovette prevedere la rarefazione dell’abitato rurale, l’abbandono di molti centri d’altura (sono stati indagati fra gli altri Rocca d’Entella, Monte Iato, Segesta), accanto a nuove fondazioni urbane (Gela e Augusta). Vennero quindi introdotte nuove ripartizioni territoriali, che resteranno in vigore ancora in età angioina, che prevedevano 11 giustizierati, attraversati da una viabilità che ricalcava i principali assi stradali romani, con alcune significative eccezioni, quali la nuova “via degli Abruzzi”, lungo la dorsale adriatica, che divenne il principale asse di comunicazione nord-sud e che rimase vitale anche nei periodi angioino e aragonese.

La dinastia sveva proseguì con l’erede di Federico II, Corrado IV, ma alla morte di questi (1254) l’adesione del suo figlio naturale Manfredi alla fazione dei ghibellini spinse il papa Urbano IV a incoronare Carlo d’Angiò (1266), che riuscì a tenere il regno malgrado la resistenza di Manfredi e quindi di Corradino. La presenza francese, che aveva spesso soppiantato le famiglie nobiliari locali, determinò una serie di tensioni che sfociarono nella rivolta dei Vespri in Sicilia (1282) e che, grazie al coinvolgimento di Pietro III d’Aragona, comportò il distacco tra i territori peninsulari del regno e la Sicilia, che cominciò a gravitare nell’ambito aragonese. Il momento di maggior fulgore della dominazione angioina coincise con i regni di Carlo I, Carlo II e Roberto il Saggio, che fecero della vita di corte un modello di lusso raffinato e di imprenditoria aperta e vivace. Questa felice coincidenza di eventi ebbe termine attorno al 1343, con le lotte dinastiche seguite alla morte di Roberto d’Angiò e l’inizio di una lenta decadenza che favorì la conquista di Napoli a opera di Alfonso d’Aragona nel 1442. I sovrani angioini mantennero e potenziarono la parcellizzazione del territorio e la struttura viaria sveve, ma la capitale venne spostata da Palermo a Napoli (dove resterà fino al 1860), anche al fine di un migliore collegamento con i territori angioini della Francia e dell’Italia settentrionale. Proprio a Napoli sorse la reggia di Carlo I, modulata sui canoni dei modelli aulici francesi che a partire dal XII secolo coniugavano le esigenze dell’architettura difensiva con quelle delle residenze signorili.

Benché di essa siano rimasti pochi lacerti, inglobati nella ricostruzione di Alfonso d’Aragona, la sua collocazione nei pressi del Porto di Mezzo certamente determinò, accanto alla costruzione di arsenali, magazzini e di un ulteriore molo, lo spostamento delle attività verso la zona costiera, destinando al vecchio centro storico una funzione eminentemente religiosa, valorizzata dalla costruzione di chiese e monasteri di committenza regia, quali S. Lorenzo Maggiore, S. Eligio al Mercato, S. Chiara, S. Maria Donnaregina, che tra l’altro conserva il più antico esempio della pregevole produzione ceramica a smalto per rivestimenti architettonici. Anche il territorio si arricchì di fondazioni monastiche (S. Maria di Realvalle presso Scafati; S. Maria della Vittoria presso Sculcola, nella quale le indagini archeologiche hanno evidenziato la compresenza di maestranze locali e francesi) che rappresentano un tramite per la diffusione in Italia del modello cistercense. Vennero potenziati anche i castelli svevi a controllo del territorio, anche se le ristrutturazioni aragonesi spesso non consentono di apprezzare appieno i modi dell’architettura difensiva angioina, mentre le testimonianze archeologiche sono più eloquenti nel caso di alcuni centri (Capaccio Vecchia) e ci consentono di comporre la seriazione delle coeve produzioni ceramiche, soprattutto nel confronto con altri centri calabri (Scribla) e lucani (Satriano, Anglona, Monte d’Irsi). Altri indizi conoscitivi vengono dalla composizione urbanistica di alcune città abruzzesi (L’Aquila, Cittaducale) che presentano un impianto classicheggiante, ad assi ortogonali e griglia modulare.

La Sicilia rimase formalmente in mano aragonese, sia pur di fatto soggetta al potere baronale sino alla fine del XIV secolo, nell’ambito della Corona d’Aragona, la confederazione degli Stati originata nel 1137 dall’unione dell’erede del regno d’Aragona con Berengario IV conte di Barcellona e che nella scelta di espansione economica e militare lungo le rutas de la islas aveva inglobato le principali isole italiane. Le indagini archeologiche hanno consentito di cogliere le testimonianze materiali del fenomeno della flessione dei centri rurali tra la seconda metà del XIII e la prima metà del XIV secolo, oltre allo spopolamento delle coste, troppo soggette alle scorrerie; lo scavo di Brucato (Palermo) costituisce un prototipo archeologico delle dinamiche insediative, produttive e commerciali di un villaggio fortificato della prima metà del XIV secolo, mentre nello stesso periodo il predominio baronale favorì la costruzione di castelli “di monte”, articolati in corpi degradanti su scaglioni rocciosi (ad es., Alcamo, Sciacca, Palma di Montechiaro, Caccamo) e d’imponenti palazzi urbani, come lo Steri di Palermo. Anche la Sardegna, che dopo la vivace stagione dei giudicati indipendenti aveva visto finire il giudicato di Cagliari in mano pisana, il giudicato di Torres alle dipendenze genovesi, mentre l’unico giudicato ancora sovrano (quello d’Arborea) alla fine del XIII secolo era in contrasto con i Pisani, venne inglobata insieme alla Corsica nei territori della Corona. Nell’isola, è stato studiato anche dal punto di vista geografico il fenomeno dei villaggi abbandonati, determinato anche dal tracollo demografico del XV secolo, mentre nei centri urbani veniva favorito lo stanziamento di mercanti e artigiani.

Nel 1442 la conquista di Napoli segnò il crollo definitivo del regno angioino e la massima espansione della zona d’influenza aragonese, il cui baricentro si spostò da Barcellona a Napoli, con una significativa apertura a Oriente. A tale espansione si contrappose, specie nelle isole, una flessione economica che, dal punto di vista topografico, comportò la contrazione degli abitati rurali e il recupero degli insediamenti d’altura, soprattutto nelle regioni più montuose (Abruzzi, Molise, Capitanata), mentre il collegamento tra l’Italia settentrionale e le più fertili regioni meridionali (Terra di Lavoro, Terra d’Otranto, Terra di Bari) veniva garantito dalla viabilità adriatica. Dal punto di vista architettonico, gli influssi catalani ben visibili in Sicilia e in Sardegna trovano la loro massima espressione nella nuova reggia di Castelnuovo a Napoli, dovuta a ragioni difensive, legate al mutamento dell’arte ossidionale.

Il susseguirsi di dinastie straniere che caratterizzò l’Italia meridionale e insulare fu estraneo ai territori settentrionali, caratterizzati dal precoce diffondersi delle istituzioni comunali, già alla fine dell’XI secolo, con una configurazione del potere civile ben distinta da quello religioso e con autonomia di governo dei singoli centri urbani. La testimonianza monumentale di questo nuovo assetto politico è costituita dal palatium communis, che costituisce la sede del potere reale o delegato e che, sulla base di un programma architettonico comune alle principali città dell’Italia settentrionale a partire dalla fine del XIII secolo, si concretizza nella struttura a due piani, con loggiato aperto al piano terreno e aula rettangolare al piano superiore, che trova una delle sue più mature espressioni nel Palazzo della Ragione a Milano (1228-1233). Il panorama urbano appare comunque ancora dominato dalle torri familiari del patriziato feudale e dalle nuove cinte murarie che i comuni dell’Italia centro-settentrionale avevano eretto già all’epoca delle lotte contro Federico Barbarossa e che rappresentavano il baluardo non solo fisico della dimensione urbana. La politica di immigrazione dal contado, rilevabile a livello legislativo già dal XII secolo negli statuti cittadini, contribuì alla riorganizzazione degli spazi abitativi, artigianali e soprattutto mercantili, con la progettazione di nuove piazze di mercato e le ripartizioni urbane (terzieri, quartieri, sestieri). I centri urbani tornarono a scandire il territorio, in stretta connessione con il contado ma comunque simbolo e segno di potere e di organizzazione topografica. Alcune città assunsero tra XII e XIII secolo un ruolo-chiave nella capacità della penisola italiana di porsi in relazioni commerciali e culturali con altri Paesi: Venezia, Genova, Pisa, Amalfi raggiunsero l’apice della loro capacità di espansione economica e determinarono le dinamiche economiche di buona parte del Mediterraneo.

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