L’Italia: dall’età giolittiana alla Repubblica

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Catia Di Girolamo
SCE:13 Cover ebook Storia della civilta-68.jpg

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

L’età giolittiana (1901-1914) è caratterizzata dalla democratizzazione del sistema politico liberale: l’apertura nei confronti dei socialisti e dei cattolici e la concessione del suffragio universale maschile mirano all’integrazione delle masse nella vita dello Stato. Nel dopoguerra, la conquista fascista dello Stato segna l’avvento di un regime reazionario che si fonda sulla mobilitazione delle masse, ma annulla le libertà politiche e sociali degli individui. La fine del ventennio fascista (1922-1943), seguita dalla sconfitta delle forze dell’Asse nella seconda guerra mondiale, apre anche in Italia una nuova era.

Dall’inizio del secolo alla Grande Guerra

Il nuovo secolo si apre, in Italia, con un regicidio. L’uccisione di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci (29 luglio 1900) rappresenta l’ultimo atto della grave crisi politica e istituzionale iniziata due anni prima con la repressione manu militari dei moti per il caro viveri, a cui era seguito il tentativo – portato avanti dal governo Pelloux con il sostegno della corona – di limitare drasticamente quell’insieme di libertà politiche e civili il cui riconoscimento aveva fatto sì che l’Italia potesse iscriversi a buon diritto nel novero degli Stati liberali.

Tuttavia, anzichè inasprire le tendenze autoritarie, la morte del re segna il definitivo fallimento della reazione. Le elezioni politiche di giugno avevano già fatto registrare una consistente vittoria delle sinistre (socialisti, radicali, repubblicani), protagoniste di una strenua battaglia parlamentare contro le leggi “liberticide” proposte da Pelloux (1839-1924); da parte sua Vittorio Emanuele III, salito al trono nell’agosto del 1900, si allontana dalla politica repressiva seguita dal padre. È, di fatto, l’inizio di un nuovo corso, in cui l’idea di un “ritorno allo Statuto” – ovvero il riferimento a un modello di monarchia costituzionale di stampo prussiano – viene accantonata in nome di un progetto assai diverso, mirante alla piena parlamentarizzazione del sistema politico e all’inserimento delle masse nella vita dello Stato; e questo progetto porta il nome di Giovanni Giolitti (1842-1928).

Contro la tendenza a reagire alle sollecitazioni provenienti dai ceti più bassi della società con “leggi reazionarie” e “prepotenze di governo”, contro l’idea che le tensioni sociali potessero essere gestite come un problema di ordine pubblico e che il governo dovesse ergersi a difensore degli interessi delle classi padronali, Giolitti propugna con lucidità e coerenza la completa neutralità dello Stato nei conflitti tra capitale e lavoro e il carattere politicamente, economicamente, socialmente positivo dell’organizzazione e dell’ascensione delle classi popolari. Ministro dell’Interno nel governo guidato dal democratico Giuseppe Zanardelli (1826-1903) tra il 1901 e il 1903, Giolitti ne rappresenta la vera anima, e inaugura la sua lunga egemonia sulla vita politica italiana.

Naturali interlocutori di questo nuovo indirizzo politico devono essere – oltre naturalmente alle correnti liberali più avanzate – coloro che si propongono come i rappresentanti dei diritti e degli interessi delle classi popolari, ovvero i socialisti. Nei confronti del Partito Socialista Italiano Giolitti abbandona la politica repressiva inaugurata qualche anno prima da Crispi (1818-1901) e tenta la via della collaborazione; una scelta, questa, che sembra essere favorita dai rapporti di forza che si sono delineati tra la corrente rivoluzionaria e la corrente riformista del partito. Nel settembre del 1900 il VI congresso del PSI aveva approvato, con un solo voto contrario, il “programma minimo” proposto da Claudio Treves (1869-1933). Ampliamento del suffragio, legislazione sociale, decentramento amministrativo e riforma tributaria diventano gli obiettivi programmatici del partito, che abbandona – almeno temporaneamente – la prospettiva insurrezionale, concentrando le sue energie sulla modernizzazione e sulla democratizzazione del sistema capitalistico-liberale. Guidato da Filippo Turati (1857-1932), la cui fede socialista non si pone in contrasto con una forma mentis di ispirazione democratico-radicale, il Partito Socialista Italiano adotta nei confronti del governo Zanardelli-Giolitti la linea della valutazione caso per caso, la quale finisce per trasformarsi di fatto in un voto di fiducia.

L’attività riformatrice del governo Zanardelli (indebolita peraltro dal fallimento dei progetti più ambiziosi, quali la riforma tributaria e l’introduzione del divorzio), viene ripresa dai governi successivi, guidati da Giolitti in persona. Tra il 1903 e il 1913 vengono approvate la conversione della rendita (dal 5 percento al 3,5 percento), la nazionalizzazione delle ferrovie, la municipalizzazione dei servizi, la legislazione sul Mezzogiorno e poi, sul finire del decennio giolittiano, il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e il suffragio universale maschile: tutti passi in avanti sulla via della trasformazione del “vecchio” Stato liberale in una moderna liberaldemocrazia, ma – agli occhi di molti osservatori – passi fin troppo cauti, che si risolvono in un riformismo pragmatico del caso per caso, incapace per sua natura di affrontare e di risolvere le questioni di fondo. Ciò che maggiormente viene rimproverato a Giolitti, però, è la supposta manomissione del meccanismo della rappresentanza politica: non solo a causa dell’intervento dei prefetti nelle elezioni (un intervento pesante soprattutto nel Sud, e che vale a Giolitti l’appellativo, coniato da Gaetano Salvemini (1873-1957), di “ministro della malavita”), ma soprattutto a causa del neotrasformismo cui il presidente del Consiglio sembra improntare i suoi rapporti con la Camera. In quella che gli avversari avrebbero definito la “dittatura giolittiana”, l’esistenza di una vasta maggioranza parlamentare, retta dal personale rapporto di dipendenza dei suoi membri dal presidente del Consiglio, sembra rendere di fatto impraticabile qualsiasi alternativa ispirata a un diverso orientamento politico. Se ne accorge, a sue spese, Sidney Sonnino (1847-1922): il suo tentativo di costituire un “grande” partito conservatore, in grado di promuovere dall’alto le riforme necessarie allo sviluppo e alla modernizzazione del paese senza cedere terreno ai “sovversivi”, non riesce a concretizzarsi, e i tentativi sonniniani di governo (due brevi parentesi, nel 1906 e nel 1910), falliscono anche per la mancanza di un partito in grado di sostenerli.

Egemonia politica e discredito culturale procedono dunque di pari passo. Particolarmente acceso è l’antigiolittismo degli intellettuali, a cui il pragmatismo empirico e l’attitudine spiccatamente antiretorica dell’uomo politico piemontese non appaiono certo doti, ma anzi il segno di un grave deficit ideale, confermato e aggravato dalla corruzione della vita politica e dal cinismo nella gestione del potere. Nell’ultimo scorcio dell’età giolittiana questo accumulo di tensioni ideali fa vacillare l’equilibrio politico, tendendo a far emergere correnti ideologicamente radicali e indisponibili al compromesso e al gradualismo giolittiani. La guerra contro la Turchia per la conquista della Libia (1911-1912) rende più aggressivo il movimento nazionalista che, costituitosi in associazione nel 1910, si va caricando in quegli anni di accenti sempre più marcatamente imperialistici e antiliberali, e favorisce la vittoria della corrente massimalista all’interno del Partito Socialista, la quale, specularmente, comincia in quel momento a costruire le proprie fortune su un antimilitarismo non privo di esibite venature antipatriottiche. Le elezioni dell’autunno del 1913, le prime a suffragio universale maschile, segnano una consistente avanzata dei socialisti; se i liberali reggono l’urto è soprattutto grazie al contributo degli elettori cattolici, che la sospensione del non expedit libera dall’obbligo dell’astensione. Il “patto” siglato in vista delle elezioni da Giolitti con il conte Ottorino Gentiloni, presidente dell’Unione Elettorale Cattolica, può sembrare un successo della strategia giolittiana basata sull’inclusione di quelle masse – cattoliche come socialiste – che fino a quel momento erano state estranee od ostili al progetto liberale di governo. In realtà, l’elettorato cattolico è portatore di una propria cultura politica, diversa – talvolta molto diversa – da quella liberale. L’emergere del nazionalismo, del socialismo rivoluzionario, del cattolicesimo politico mostra così il principale limite del “trasformismo” giolittiano, ovvero il suo isolamento culturale. “Una mediocre combinazione parlamentare, nata tra i corridoi e l’aula”: così viene considerata, nel giudizio dei nuovi alfieri dell’ideale, l’Italia giolittiana. Ma quell’Italia – prosegue nel 1913 il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola (1873-1959) – non esiste più: “esiste un’Italia cattolica, esiste un’Italia socialista, esiste un’Italia imperialista: non esiste un’Italia giolittiana”.

In quest’ultima parte, il giudizio coglie nel segno; ma c’è da aggiungere che, insieme all’Italia giolittiana, è in profonda crisi l’Italia liberale stessa. L’ampio discredito di cui la classe dirigente liberale è diventata oggetto si riverserà, di lì a poco, anche sulle istituzioni liberali, e in particolare sul Parlamento. L’antiparlamentarismo, a dire il vero, godeva già da tempo di un’ampia circolazione nell’opinione pubblica del Paese. Tuttavia, una cosa è la denuncia, da parte di giornalisti e intellettuali, delle “patologie” e delle disfunzioni del sistema rappresentativo; altro è l’esercizio, da parte della piazza, di una violenta pressione sul Parlamento, fino a scavalcare la volontà di una maggioranza democraticamente eletta. Proprio questo è ciò che accade nella primavera del 1915, quando, in seguito allo scoppio della prima guerra mondiale, una minoranza interventista – composta per lo più da nazionalisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari – riesce a imporsi con una campagna violenta e intimidatoria sulla maggioranza neutralista rappresentata in Parlamento. Il 20 maggio 1915 quest’ultimo si piega, votando a scrutinio segreto la concessione dei pieni poteri al governo; il 23 maggio, a nome dell’Italia, il governo Salandra (il liberal-conservatore Antonio Salandra, (1853-1931), aveva sostituito Giolitti alla presidenza del Consiglio nel marzo del 1914: l’età giolittiana era davvero finita) dichiara guerra all’Austria.

Le modalità con cui l’Italia entra in guerra provocano spaccature e lacerazioni che il conflitto, invece di sanare, avrebbe esacerbato, e immettono nella vita politica del Paese i germi di una nuova politica fondata sull’appello diretto alle masse (Mussolini e D’Annunzio erano stati i campioni delle piazze interventiste), sulla denuncia del “nemico interno”, sulla contrapposizione della nazione al Parlamento. Nell’arroventato clima politico del dopoguerra, miti e riti della nuova politica spazzeranno via le ultime resistenze del vecchio mondo e della vecchia mentalità liberali, già messe a dura prova dal prolungato sforzo bellico. La guerra, infatti, si rivela molto diversa dal previsto: non il rapido conflitto immaginato da Salandra e dal suo ministro degli Esteri Sonnino, bensì un’estenuante guerra di logoramento. Le azioni offensive ordinate dal comandante in capo Luigi Cadorna (concentrate principalmente sul fronte del Carso e dell’Isonzo) falliscono ripetutamente di fronte alle trincee austriache. Mantenuta caparbiamente e contro ogni evidenza fino alla sconfitta di Caporetto, l’impostazione offensiva, di cui la realtà della guerra di trincea aveva presto mostrato l’inefficacia, ha un costo altissimo in termini di vite umane: l’abbondanza di “carne da cannone” deve supplire all’impreparazione tecnica, all’improvvisazione strategica, all’inferiorità negli equipaggiamenti. Alla noncuranza nei confronti del sacrificio di vite umane, si unisce in Cadorna l’applicazione di metodi disciplinari di stampo terroristico, con ricorso frequente alla decimazione e alle esecuzioni sul campo; e anche questo non cambia fino a che, nell’ottobre del 1917, l’esercito italiano non va incontro alla più disastrosa sconfitta della sua storia con le truppe austro-tedesche che, con la tattica dell’infiltrazione, riescono a sfondare le linee italiane e ad arrivare fino al Piave. L’invasione da parte del nemico dei propri confini, la perdita di molti dei territori conquistati con fatica nelle guerre del Risorgimento, viene percepita dal Paese (ma non dalla sua popolazione agricola, desiderosa in qualche caso che arrivasse qualcuno, fossero pure “i Tedeschi”, pronto a tagliare la testa “ai signori che avevano voluto la guerra”) come una prova di vita o di morte. Destituito Cadorna, il nuovo comandante in capo Armando Diaz (1861-1928) stabilisce un rapporto di collaborazione con il potere politico, abbandona la tattica offensiva, migliora l’assistenza materiale e morale dei soldati. Nell’ultimo anno di guerra l’esercito italiano mantiene saldamente le sue posizioni, finché, con l’esercito austro-ungarico già in piena dissoluzione, grazie a un’ultima azione offensiva riesce a sfondare il fronte nemico nei pressi di Vittorio Veneto e a raggiungere Trento e Trieste. Il 4 novembre 1918 cessano le ostilità con l’Austria, e l’Italia festeggia da vincitrice la fine del primo conflitto mondiale.

Il primo dopoguerra

Tuttavia, l’euforia della vittoria dura poco. La guerra lascia, sotto molti punti di vista, un’eredità pesante, impoverendo il Paese, rinfocolando l’antica avversione contadina nei confronti dello Stato e, in generale, alimentando nei ceti popolari un’esasperata volontà di risarcimento per i sacrifici patiti nelle fabbriche militarizzate, nei campi o al fronte. La fine della guerra, poi, anziché ricomporre il contrasto tra interventismo e neutralismo ne intensifica i toni, con i socialisti additati come “nemico interno” per la loro polemica nei confronti delle ragioni della guerra e per la loro ostilità nei confronti di persone e simboli che alla guerra si associano. Sull’altra sponda, il campo nazionalista è agitato dalla sindrome della “vittoria mutilata”, ovvero dall’ingiustificata convinzione che l’Italia sia stata defraudata dei frutti della vittoria. Il fatto è che la delegazione italiana si era presentata alla conferenza di pace di Parigi con un documento in cui, oltre all’annessione dei territori previsti dalla Conferenza di Londra (nell’aprile del 1915, l’Italia si era impegnata a entrare in guerra a fianco dell’Intesa in cambio del Trentino, del Tirolo meridionale, di Trieste, dell’Istria con l’eccezione di Fiume e di una parte della Dalmazia), si chiedevano – in base al principio di nazionalità proclamato dal presidente americano Wilson – anche Fiume e Spalato. Nessuno degli ex alleati – né gli Stati Uniti, né l’Inghilterra, né la Francia – prende in seria considerazione simili velleitarie richieste, e il braccio di ferro dei negoziatori italiani si conclude con un fallimento. In Italia la campagna nazionalista assume allora toni accesissimi, arrivando fino al “bel gesto” dannunziano dell’occupazione di Fiume (settembre del 1919): un’iniziativa tanto clamorosa quanto inutile, destinata a concludersi dopo poco più di un anno con le truppe regolari italiane che costringono a una rapida resa i “legionari” guidati dal poeta-comandante.

I risultati delle elezioni politiche del novembre del 1919 – le prime del dopoguerra, e anche le prime in cui al suffragio universale maschile si associa l’adozione del metodo proporzionale – restituiscono l’immagine di un Paese diviso, “abitato” da culture politiche non solo tra loro incompatibili, ma anche estranee alla mentalità, al metodo, alle finalità proprie di quel mondo liberale al quale fino a quel momento erano appartenute le classi dirigenti italiane. La vittoria dei socialisti (32,3 percento dei voti, contro il 17,7 percento ottenuto nelle elezioni del 1913) giunge in un momento in cui il partito è saldamente in mano ai massimalisti i quali, galvanizzati dall’“ottobre rosso”, hanno portato al massimo il loro tasso di radicalismo rivoluzionario; la buona affermazione del Partito Popolare Italiano (20,5 percento dei voti), che riunisce l’elettorato cattolico sotto la guida di don Luigi Sturzo (1871-1959), porta alla ribalta un’altra forza estranea alla tradizione liberal-risorgimentale: la sconfitta dei liberali (i quali continuano a non essere organizzati in partito) non è solo numerica, è una crisi profonda e irreversibile di legittimazione politica. D’altra parte, però, le elezioni non hanno indicato alcuna alternativa reale, non avendo né i socialisti né i cattolici ottenuto consensi sufficienti a governare da soli, ed essendo impraticabile una collaborazione tra i due partiti: di qui un’impasse che rende il sistema politico liberale vulnerabile come mai nei suoi precedenti sessant’anni di storia.

La breve durata dei governi del dopoguerra (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta tra il giugno del 1919 e l’ottobre del 1922) rivela l’instabilità di un quadro politico in cui una maggioranza debole e incerta si trova a gestire l’emergere di gravissime tensioni sociali. Tra il 1919 e il 1920 si verifica infatti un’intensa mobilitazione dei braccianti e degli operai, intenzionati i primi a prendersi davvero le terre promesse negli anni di guerra, e i secondi a farsi protagonisti di quella palingenesi rivoluzionaria che la vittoria dei bolscevichi in Russia sembrava aver dimostrato finalmente possibile. Esauritosi il “biennio rosso” con un nulla di fatto – il suo episodio-simbolo, l’occupazione delle fabbriche da parte degli operai, si conclude con una vittoria sindacale ma con un sostanziale fallimento politico – il Paese è attraversato da un’ondata di violenze di un’intensità fino ad allora sconosciuta. Protagonisti ne sono gli squadristi fascisti, giovani militanti di quei Fasci di combattimento che Mussolini aveva fondato in piazza San Sepolcro a Milano nel marzo del 1919.

Il ventennio fascista

Originariamente, i Fasci altro non erano se non una delle tante formazioni nate nel seno del radicalismo nazionale di origine interventista. A cavallo tra destra e sinistra (all’aggressivo nazionalismo si univa infatti una “tendenzialità” repubblicana e una venatura anticapitalista che appartengono al repertorio ideologico della sinistra, da cui peraltro, oltre a Mussolini, provenivano molti dei sansepolcristi), i Fasci avevano vissuto fino a quel momento una vita stentata, forti solo del rilievo nazionale del loro leader e del quotidiano – “Il popolo d’Italia” – da lui diretto. È solo nell’autunno del 1920 che il movimento prende consistenza, virando nettamente a destra e proponendosi come una sorta di partito-milizia pronto a combattere con la violenza contro i socialisti: le “squadre d’azione”, composte da giovani reduci di guerra e di giovanissimi con la fascinazione per la guerra, partono con i camion dalle città e convergono verso le zone rosse (concentrate nelle campagne padane, dove maggiore è il radicamento delle leghe bracciantili e delle amministrazioni comunali socialiste), distruggendo le sedi delle “case del popolo”, delle leghe e delle cooperative, minacciando o uccidendo i membri delle giunte comunali socialiste. Finanziate dai grandi proprietari terrieri (animati da uno spirito di rivalsa che il “biennio rosso” aveva drammaticamente acuito), tollerate in funzione antisocialista dal governo e ancor di più dai prefetti, le squadre fasciste dilagano nel Paese. Due anni dopo, il 28 ottobre 1922, “marciando” su Roma, i fascisti si impadroniscono dello Stato e portano il loro “duce” alla guida del governo.

Tra i fattori che contribuiscono a spiegare un’affermazione tanto travolgente, oltre alla profonda crisi delle classi dirigenti e delle istituzioni liberali, oltre all’errore di valutazione di quei governanti che pensano di servirsi del fascismo per poi “normalizzarlo” (tra cui Giolitti che applica anche con i fascisti la sua tattica del “non intervento”), oltre alla controffensiva degli agrari, occorre ricordare l’inadeguatezza della risposta socialista. Per quanto il “biennio rosso” sia stato costellato di episodi di violenza, la violenza organizzata non fa parte della tradizione dei socialisti, che si trovano spiazzati di fronte all’offensiva squadrista. Ma non solo: non percependo la reale portata della minaccia fascista, i socialisti italiani rinunciano – proprio nel momento in cui quella minaccia si fa più pericolosa – alla loro unità. Il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla scissione dell’ala sinistra del Partito Socialista Italiano nasce il Partito Comunista d’Italia. Fortemente ispirato al modello bolscevico, fedele interprete delle direttive della III Internazionale, il Partito Comunista d’Italia crede di riconoscere nel fascismo nient’altro se non un parto del sistema capitalistico-borghese; in quanto tale, esso non si può sconfiggere se non abbattendo quel sistema, e non certo collaborando in funzione antifascista con le forze che ne sono complici o fautrici.

Sta di fatto che il 28 ottobre del 1922 segna la morte dell’Italia liberale, senza che nessuno (neanche il re che si rifiuta di firmare il decreto di stato d’assedio, lasciando via libera alle camicie nere) pensi che sia arrivato il momento di agire in nome della sua sopravvivenza. È vero che il governo Mussolini viene votato da un’ampia maggioranza parlamentare, ricevendo così, sebbene a posteriori, una qualche forma di legittimazione costituzionale; tuttavia, l’illusione della “normalizzazione” fascista svanisce presto. Una nuova legge elettorale, approvata dalla Camera nel 1923, stabilisce che al partito che ottenga il 25 percento dei voti siano assegnati due terzi dei seggi: la vecchia classe dirigente liberale pianifica così il suo suicidio. Le elezioni dell’anno successivo sanciscono la vittoria del “listone”, composto da fascisti e da “fiancheggiatori” liberali e clerico-nazionali (solo Giovanni Amendola e Giolitti, tra i liberali, hanno la dignità di presentare una lista propria). Con la nuova Camera, di cui le camicie nere rappresentano una larga maggioranza, giunge a compimento l’occupazione fascista degli istituti e dei luoghi della politica liberale.

Il vero e definitivo punto di svolta, però, si ha con l’omicidio del deputato socialista-unitario Giacomo Matteotti (1885-1924). In un discorso alla Camera successivo alle elezioni, Matteotti aveva coraggiosamente denunciato i brogli e le violenze che avevano falsato l’espressione del voto popolare; dieci giorni dopo, veniva pugnalato a morte da una squadra fascista. Sia o meno Mussolini mandante diretto del crimine, certa è – e appare subito a tutti – la responsabilità morale e oggettiva del “duce” del fascismo. Il caso Matteotti sembra sul punto di travolgere Mussolini, tanto forte e diffuso è lo sdegno dell’opinione pubblica. Dal canto loro, le forze di opposizione promuovono un’azione finalmente concorde, abbandonando i lavori parlamentari e riunendosi separatamente. La secessione detta dell’“Aventino”, guidata da Giovanni Amendola, rende finalmente visibile la protesta antifascista, ma fallisce l’obiettivo del rovesciamento del nascente regime: con il re ancora muto spettatore degli eventi, i fiancheggiatori titubanti, le piazze silenziose (la via comunista della mobilitazione popolare è stata scartata dagli altri leader aventiniani), Mussolini trova il tempo di riprendere in mano l’iniziativa. Lo fa, di lì a poco, abbandonando ogni residuo ancoraggio alla sponda legalitaria e inaugurando la stagione della “dittatura a viso aperto”: pronunciato il 3 gennaio del 1925 alla Camera un discorso minaccioso e intimidatorio, tra il 1925 e il 1926 le “leggi fascistissime” cambiano in profondità la fisionomia dello Stato italiano. Strappate al Parlamento le sue prerogative, soppresse la libertà di stampa, la libertà politica, la libertà sindacale, istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato sottratto alle competenze e alle procedure della magistratura ordinaria, Mussolini trasforma l’Italia in un regime monopartitico e tendenzialmente totalitario. La nuova legge elettorale, che trasforma le elezioni in plebisciti, e la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo, con la quale il supremo organo del partito fascista è riconosciuto come un’istituzione dello Stato (1928), completano il passaggio.

In politica estera, le iniziali cautele con le quali si era espresso il revanscismo fascista rispetto all’ordine deciso a Versailles vengono abbandonate alla metà degli anni Trenta. La guerra d’Etiopia (1935) porta a un primo strappo tra l’Italia e la Società delle Nazioni, che decide di punire l’impresa con l’applicazione di (parziali) sanzioni economiche. Alla crisi dei rapporti con Francia e Inghilterra corrisponde un primo avvicinamento alla Germania di Hitler (uscita dalla Società delle Nazioni già nel 1933); il sostegno fornito da Italia e Germania alle truppe del generale Franco insorte contro la repubblica spagnola rinsalda il legame tra i due regimi, suggellato nello stesso 1936 dall’Asse Roma-Berlino e nel 1937 dall’adesione dell’Italia al patto antiComintern tra Germania e Giappone e dal ritiro dell’Italia dalla Società delle Nazioni. In politica interna, la promulgazione delle leggi razziali (novembre del 1938) è anche il riflesso di questo irreversibile avvicinamento alla Germania nazista, che avrebbe portato Mussolini – il 10 giugno 1940, qualche mese dopo l’inizio della seconda guerra mondiale – a schierare l’Italia a fianco dell’alleato tedesco.

L’Italia in guerra: il crollo del fascismo

Per l’Italia fascista, la seconda guerra mondiale è una lunga e drammatica serie di sconfitte e fallimenti. Strategicamente, militarmente, economicamente e moralmente impreparata a un conflitto che, ancora una volta, si sarebbe rivelato assai più lungo del previsto, l’Italia subisce gravissime perdite in Francia (duemila morti contro i trentasette francesi), perde in Grecia, in Africa settentrionale, in Africa orientale (con relativa perdita dell’impero), in Russia. Alla fine del 1942 solo in pochi, tra gli stessi gerarchi fascisti, confidano ancora nella vittoria dell’Asse e il processo di disgregazione del regime diventa inarrestabile. Nel luglio del 1943, con l’invasione anglo-americana della Sicilia, la crisi agonica del fascismo arriva al suo inevitabile compimento: il 25 luglio di quell’anno il Gran Consiglio del fascismo, votando a maggioranza assoluta l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi (1895-1984), “sfiducia” Mussolini e restituisce al re l’iniziativa politica e il comando supremo delle operazioni di guerra.

Il re nomina a capo del governo il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio (1871-1956): vincitore di Addis Abeba e capo di Stato maggiore generale fino ai primi mesi di guerra, Badoglio era rimasto in realtà uomo più del re che di Mussolini, che infatti nel dicembre del 1940 lo aveva rimosso dal suo incarico, condannandolo alla morte civile. Il nuovo governo non assume un orientamento antifascista. Composto di funzionari, tecnici e militari, esso mostra piuttosto un carattere “afascista”: lo scioglimento del partito fascista e l’abrogazione delle leggi razziali è contestuale al divieto di riorganizzazione dei partiti politici fino alla fine della guerra.

La guerra, infatti, continua: l’idea del re è quella, completamente fuori dalla realtà, di trattare contemporaneamente con i Tedeschi e con gli Anglo-Americani, al fine di portare l’Italia a una pace separata e onorevole con gli Alleati. È solo l’8 settembre 1943 che, a seguito della massiccia ripresa dei bombardamenti anglo-americani sulle città italiane e dell’acquisita consapevolezza circa l’inevitabilità di una resa incondizionata, Badoglio annuncia l’armistizio dell’Italia con gli Alleati. Alle forze armate, però, non viene data alcuna istruzione operativa e così i militari italiani si trovano allo sbando, facile preda della reazione tedesca. Il giorno successivo all’armistizio, il re e Badoglio lasciano Roma rifugiandosi a Brindisi, già liberata dagli Alleati. Mentre il Paese viene lasciato in balia della Wehrmacht (salvo i territori via via liberati dall’avanzata anglo-americana da sud), il comitato delle correnti antifasciste si trasforma in Comitato di Liberazione Nazionale (CNL) e invita tutti gli Italiani a sollevarsi in armi contro i Tedeschi.

Mentre il combattimento tra gli Alleati e i Tedeschi si attesta lungo la linea Gustav, che corre dall’Adriatico al Tirreno passando per Cassino; mentre decine di migliaia di giovani rispondono all’appello lanciato dal Comitato di Liberazione Nazionale, combattendo da italiani contro i nazi-fascisti e fornendo così un contributo fondamentale alla costruzione e alla legittimazione di un futuro stato democratico, il fascismo radicale cerca una seconda occasione nella costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI) e a fianco dei Tedeschi occupanti. La Repubblica fascista di Salò ha alla testa il redivivo Mussolini, liberato dai Tedeschi dalla sua prigionia sul Gran Sasso, che tenta un estremo recupero della “purezza” delle origini: repubblicanesimo, anticapitalismo, violenza sono tutte armi scagliate contro quel “compromesso moderato” che sembra aver portato alla rovina il fascismo. In realtà, il destino della Repubblica Sociale Italiana (e di Mussolini) è segnato. Nell’aprile del 1945, il crollo della “linea gotica” (tra La Spezia e Rimini) sbaraglia le ultime resistenze tedesche; a partire dal 24 aprile, il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia proclama l’insurrezione generale nelle principali città del Nord, con i partigiani che riescono quasi ovunque – ben consapevoli dell’alto valore simbolico della loro azione – a cacciare le ultime retroguardie repubblichine e tedesche prima dell’arrivo degli Anglo-Americani.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Comitato di liberazione nazionale

Repubblica sociale italiana

Gran consiglio del fascismo

Partito socialista italiano

Sindacalista rivoluzionario