L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Palestrina

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Italia romana delle Regiones. Regio I Latium et Campania: Palestrina

Nadia Agnoli

Palestrina

Antica città del Lazio (lat. Praeneste) alle pendici del monte Ginestro, propaggine dei Monti Prenestini.

Le fonti antiche riconoscono alla città un’origine mitica variamente attribuita, secondo la tradizione latina a Ceculo, figlio di Vulcano (Verg., Aen., VII, 678-681; Schol. Veron., Aen., VII, 681; Serv., Aen., VII, 678), secondo la tradizione greca a Telegono, figlio di Ulisse e Circe, o al nipote di questi, Prainestos, figlio del re Latino, fratello appunto di Telegono (Plut., Mar., 41; Ps.-Solin., VII). L’origine greca è inoltre recepita da Strabone che definisce P. città greca e usa per questa l’appellativo polystephanos, dalle molte corone, con probabile riferimento al circuito murario e ai terrazzamenti della città (V, 3, 11).

Arroccato alla sommità del monte Ginestro, l’attuale abitato di Castel San Pietro costituì in antico l’acropoli della città. Ancora oggi Castel San Pietro e P., seppure organizzate in due diverse entità politico amministrative, sono indissolubilmente legate dalla loro storia e dall’imponente circuito di mura poligonali che, adeguandosi alla conformazione morfologica del terreno, abbracciava P. e la sua arx per un perimetro di circa 4 km. La definizione cronologica delle mura è un problema molto complesso. Probabilmente la cinta dell’area urbana e della sua acropoli sono parte di un progetto difensivo riferibile già al VII-VI sec. a.C., ma la realizzazione del circuito avvenne in più fasi; importanti interventi risalgono al IV sec. a.C., quando si procede al terrazzamento della città, e al II a.C., epoca di un’imponente ristrutturazione monumentale. Lungo il circuito si possono distinguere diverse maniere nell’opera poligonale; inoltre, nei tratti ripidi e scoscesi come il lato orientale dell’acropoli, che erano già sufficientemente difesi dalla naturale conformazione del terreno, le mura mancano totalmente; viceversa, nei punti più accessibili la struttura appare realizzata in modo molto accurato.

È probabile che i blocchi per la costruzione delle mura fossero cavati sul versante orientale dell’acropoli, dove sono stati individuati tagli nella roccia, e di qui fatti scivolare fino al luogo della messa in opera. La sommità del monte, luogo di avvistamento e di difesa, aveva anche funzioni legate a pratiche religiose di augurium e di auspicium ed è possibile che qui avesse sede il santuario di Iuppiter Arcanus, culto noto da fonti epigrafiche, il cui epiteto deriverebbe quindi dal termine arx. La zona compresa tra l’acropoli e l’abitato non aveva carattere insediativo, ma, utilizzata come pascolo, poteva garantire in caso di assedio della città il nutrimento del bestiame in un’area libera, tutavia difesa dal circuito murario. Sul versante meridionale della città il tratto delle mura in opera poligonale non è conservato. Nel II sec. a.C., infatti, su questo lato venne costruito un muro in opera quadrata di tufo con nucleo di cementizio. Cippi di delimitazione rinvenuti lungo l’allineamento del muro hanno fatto supporre che la struttura ricalchi l’antica linea del pomerio.

L’origine e la fortuna dell’insediamento sono certamente attribuibili alla sua posizione strategica che dominava i percorsi di fondovalle tra i Monti Prenestini e i Colli Albani e consentiva il controllo dell’imbocco delle valli del Sacco e del Liri, naturale collegamento tra l’Italia centro-settentrionale e la Campania. Inoltre, il varco che si apre tra i Colli Albani e i Monti Lepini garantiva l’accesso al mare di Anzio che probabilmente costituiva il porto stesso di P. Il territorio controllato dalla città era molto vasto, organizzato, come ricordano le fonti, in nove oppida (Liv., VI, 29) e delimitato da quello di altri centri importanti, quali Tibur, Tusculum, Velitrae, Signa, Capitulum Hernicorum, Anagnia. La documentazione archeologica attesta la frequentazione del sito dagli inizi dell’VIII sec. a.C. Si tratta di oggetti di corredo di tombe che lasciano ipotizzare l’esistenza di un abitato protostorico la cui localizzazione resta ancora incerta, ma che forse è da ricercare più a valle rispetto al sito della città più tarda e quindi più vicino alle principali vie di comunicazione.

Dalla fine dell’VIII secolo e per tutto il VII le testimonianze si fanno numerose e descrivono una società molto fiorente, con una classe aristocratica che accumula beni di lusso e li ostenta nelle proprie sepolture. La posizione strategica della città rispetto ai percorsi cui si è fatto riferimento favorì gli scambi culturali con altre civiltà e probabilmente determinò anche la fortuna di un ceto aristocratico che fondava la sua ricchezza, oltre che sulla proprietà terriera e sul bestiame, principali mezzi di produzione, anche sul controllo di questi percorsi e dei relativi commerci. I corredi restituiti dalle tombe di età orientalizzante, in particolare della necropoli prenestina della Colombella, mostrano, oltre all’enorme ricchezza di questa élite dominante, l’intensità dei rapporti commerciali che P. intratteneva con altri centri dell’Italia e del mondo antico. Si tratta di prodotti pregiati di importazione, molti dei quali di provenienza etrusca, altri attribuibili a manifattura fenicia e siriana; inoltre, gli elementi che compongono il corredo, il vasellame per il symposium, gli alari, gli spiedi, il carro sono chiaramente riconducibili al culto dell’eroe greco. I materiali più preziosi provengono dai corredi delle tombe Castellani, Bernardini, Barberini e Galassi, recuperati da scavi ottocenteschi nella necropoli della Colombella. Questa volontà di affermazione del rango di appartenenza che emerge dallo sfarzo dei corredi sepolcrali delle tombe orientalizzanti di P. si manifesta contemporaneamente nelle necropoli etrusche, dove si trovano i confronti più diretti sia per gli oggetti di importazione orientale, sia per le oreficerie e i bronzi, confrontabili con la produzione di Caere e di Vetulonia. Si tratta di grandi lebeti con decorazioni plastiche, coppe con teste umane lavorate a sbalzo provenienti dalla Siria, coppe d’argento o d’argento dorato decorate a sbalzo, coppe di vetro decorate a stampo di manifattura fenicia, avori intagliati, preziose oreficerie lavorate con la tecnica della granulazione. Dal corredo della tomba Bernardini proverrebbe anche la celebre fibula d’oro con un’iscrizione in cui l’oggetto, parlando in prima persona, dice: “Manio mi fece per Numasio”. Il documento, se autentico, e non una dotta falsificazione ottocentesca come qualcuno ha proposto, costituirebbe una delle più antiche iscrizioni latine.

Rapporti con il retroterra appenninico e con il Piceno sono attestati dal VII fino alla metà del V sec. a.C. dal rinvenimento di dischi-corazza bronzei e ornamenti femminili di tradizione medio-italica. Già dall’ultimo quarto del VII sec. a.C. la ricchezza esibita nelle tombe, come accade in altri centri laziali, appare fortemente ridimensionata fino ad arrivare alla totale assenza di corredo nelle tombe di VI e V secolo.Tale cambiamento probabilmente è in parte frutto di provvedimenti sulla limitazione del lusso nelle sepolture, norme che sappiamo codificate nel testo delle XII Tavole; queste ultime, pur risalendo alla metà del V sec. a.C., registrarono certamente restrizioni già adottate in precedenza, come ha dimostrato l’evidenza archeologica. Tuttavia, a questa netta riduzione di rinvenimenti di oggetti preziosi tra il VI e il V sec. a.C. potrebbe aver concorso anche una diminuzione delle capacità economiche.

Tra le esigue testimonianze relative al periodo arcaico risultano molto preziosi alcuni frammenti di terrecotte architettoniche recuperate ancora una volta dalla necropoli della Colombella, dove probabilmente furono riutilizzate come copertura di sepolture; si suppone che potessero essere impiegate nella decorazione architettonica di due importanti santuari arcaici da localizzarsi il primo presso la chiesa di S. Rocco, all’ingresso della città, il secondo nella zona di Santa Lucia, altro importante accesso all’area urbana; da entrambi questi siti, infatti provengono frammenti analoghi a quelli recuperati alla Colombella. Le lastre presentano un fregio figurato policromo eseguito a stampo, sormontato da una cornice baccellata; i soggetti della raffigurazione rievocano temi eroici legati al mondo dell’aristocrazia, teorie di cavalieri, corse di carri, scene di trionfo e di banchetto. Il tipo era molto diffuso in ambito etrusco-laziale nell’ultimo trentennio del VI sec. a.C., tuttavia gli esemplari prenestini mostrano delle peculiarità strutturali e iconografiche che fanno ipotizzare una realizzazione su commissione o una fabbricazione locale. Dalla fine del VI sec. a.C. è documentata l’esistenza di un altro santuario arcaico, dedicato a Ercole, situato in una zona a sud-ovest appena fuori dalla città, all’incrocio di  due importanti percorsi, la via Prenestina a nord e un diverticolo che, staccandosi dalla via Labicana all’altezza dell’attuale San Cesareo, raggiungeva la città; un luogo, quindi, di grande importanza per gli scambi commerciali, ambito al quale la divinità estendeva la sua protezione. Il sito ha restituito un’enorme quantità di reperti, elementi di decorazione architettonica fittile e terrecotte votive che dimostrano l’importanza del santuario e la sua lunga frequentazione.

Dal V sec. a.C. le sepolture tornano a restituire oggetti di pregio ancora una volta provenienti in gran parte dall’Etruria, ma ora i principali centri di importazione sono le città dell’alta valle del Tevere, come Chiusi e Volsinii, che in questo periodo vivono un momento di grande sviluppo. Da qui provengono gli specchi più antichi, sostituiti nel corso del secolo da esemplari realizzati a P., dove già nel corso del V e fino alla fine del III secolo è attivo un fiorente artigianato artistico di bronzisti che producono ciste e specchi incisi. Questi ultimi sono gli oggetti tipici del corredo femminile, associati al pettine, a vasetti per unguenti, astucci e strumenti per il trucco di osso e avorio, spesso contenuti nella cista. Il costume di regalare questo oggetto in occasione delle nozze è confermato dall’iscrizione della celebre Cista Ficoroni, donata da Dindia Macolnia alla figlia. I componenti del corredo maschile, invece, fanno riferimento alla pratica dell’attività atletica, esplicitata dalla presenza dello strigile e del tipico vaso a gabbia che conteneva il sacchetto con la sabbia. Le raffinate decorazioni delle ciste e degli specchi attingono al repertorio mitologico mediato dalla pittura vascolare e mostrano inequivocabili apporti formali dal mondo magno-greco. A quest’ambito artistico appartengono alcune teche di specchi, strigili con marchio greco e una preziosa coppia di paragnatidi di manifattura tarantina. Il IV sec a.C. rappresenta per la città un periodo di grande vitalità economica e politica; da questo momento per la conoscenza della storia di P. si dispone, oltre che della ricchissima documentazione archeologica, anche dell’ausilio delle fonti scritte. La notizia più antica riguarda già gli inizi del V secolo e ricorda la partecipazione di P. alla Lega latina: secondo Livio (II, 1 9, 2) la città abbandonò la lega nel 499, mentre secondo Dionigi di Alicarnasso (V, 61) ne faceva ancora parte nel 498 a.C.; sappiamo inoltre che dalla fine del secolo membri di famiglie prenestine sono presenti nel Senato di Roma. Il IV secolo vede la città ripetutamente impegnata nella lotta contro Roma (Liv., VI, 27-29; VII, 12, 8; VIII 12,6; 13, 7) fino alla decisiva sconfitta del 338 a.C. Nel corso del medesimo secolo la città si dota di nuove aree sepolcrali e nuovi luoghi di culto che si affiancano a quelli già noti dall’età arcaica. Dalla zona di San Giovanni provengono frammenti di statue frontonali fittili, tra i quali un guerriero con corazza, affini alle terrecotte del tempio dello Scasato a Falerii; queste decorazioni sono state attribuite a un santuario extraurbano forse dedicato a Mater Matuta. Al rifacimento di IV secolo del santuario in località Santa Lucia, attribuito a Giunone, appartengono, invece, i fregi fittili con grifomachia, opera di coroplasti di formazione magno-greca con ascendenze tardo classiche. Oltre a una rinnovata ricchezza quantitativa e qualitativa dei corredi funerari, si avverte anche un sostanziale cambiamento del costume sepolcrale.

Si diffondono le sepolture entro cassoni monolitici di tufo chiusi da una lastra o da un coperchio a doppio spiovente, che in un solo caso si presenta decorato da un fregio animalistico a rilievo. Il corredo era deposto nel sarcofago stesso o in cassette più piccole affiancate a esso. L’innovazione riguarda anche l’esterno della tomba: i luoghi delle sepolture vengono contrassegnati da segnacoli di calcare che dovevano conferire alla necropoli mediorepubblicana un aspetto monumentale del tutto nuovo. Si tratta di cippi a pigna o di busti femminili; su entrambi i tipi è spesso inciso il nome del defunto, come per una precisa intenzione di affermare la propria individualità. La tipologia dei cippi si evolve dal tipo con bulbo sferico, schiacciato e appuntito su base tuscanica, simile agli esemplari rinvenuti nelle necropoli etrusche, al tipo a pigna di forma allungata nascente da un cespo di acanto, largamente diffuso dalla fine del IV alla fine del II sec. a.C. I busti femminili, tagliati all’altezza del petto, sono incassati su semplici basi parallelepipede e raffigurano donne velate con la mano portata al petto nel gesto proprio del tipo statuario della Pudicizia. I volti non presentano connotazione fisionomica, ma i gioielli che ornano le donne riproducono quelli realmente rinvenuti nei corredi funerari e sono simili ai monili delle figure femminili rappresentate sulle ciste. La collana a fascia con elementi romboidali appesi o gli orecchini a bottone con pendente di forma troncopiramidale, riportano, come del resto il tipo stesso del busto, ad ambiente magno-greco, ribadendo ancora una volta il rapporto con quest’ambito artistico, altrettanto evidente nei bronzi e nelle terrecotte.

Il rinvenimento di una grande quantità di segnacoli iscritti è fonte primaria per la conoscenza dell’onomastica prenestina e per l’identificazione di oltre un centinaio di famiglie del ceto aristocratico o appartenenti a ceti abbienti. Tra queste compaiono i gentilizi di una ristretta élite locale i cui nomi ricorrono in altre iscrizioni relative alla vita pubblica della città o che sono noti per essere stati membri del Senato di Roma. Molte di queste famiglie avevano accumulato ingenti fortune esercitando il commercio con i mercati orientali apertisi in seguito alla conquista romana; in particolare l’attività di negotiatores prenestini è attestata a Delo. Le ricchezze di questi personaggi ebbero un ruolo di grande importanza nella ristrutturazione urbanistica e monumentale di P.

Negli ultimi decenni del II sec. a.C., infatti, la città si presenta come un centro caratterizzato da una particolare vitalità politica ed economica, favorita dalle intense relazioni sostenute da Mario e dall’élite municipale prenestina con Delo e con la provincia d’Asia. Il rapporto privilegiato con il mondo artistico greco si concretizza nelle forme monumentali, ispirate alle architetture scenografiche dell’Egeo orientale, assunte dal santuario della Fortuna negli ultimi decenni del II sec. a.C. Tale rapporto è confermato anche dalla scultura che mostra a sua volta una stretta relazione con le officine neoattiche e con le scuole egeo-microasiatiche. In questo modo P. partecipa alla fase più intensa e diretta di quel processo di ellenizzazione che investe Roma e il Lazio nella tarda età repubblicana, tra il II e il I sec. a.C.

Il santuario della Fortuna Primigenia costituisce uno degli esempi più rappresentativi dell’architettura ellenistica nel Lazio, dove monumenti analoghi, quali il tempio di Ercole Vincitore a Tivoli o quello di Iuppiter Anxur a Terracina, dimostrano come anche le realtà municipali si adeguino nella monumentalizzazione delle città e dei luoghi di culto ai modelli ellenistici, che nel caso specifico possono essere individuati nei complessi santuariali di Rodi e Cos. Ma se la forma è chiaramente ispirata all’impianto scenografico di queste architetture, la tecnica edilizia impiegata è tipicamente romana: le strutture sono realizzate in cementizio con cortina in opera incerta, un sistema molto più economico e veloce rispetto alla costruzione in blocchi isodomi, la cui messa in opera necessitava anche di una maggiore specializzazione della manodopera. Quanto resta del monumento è stato messo in luce dagli scavi dell’immediato dopoguerra, quando in seguito alla rimozione delle macerie prodotte dal disastroso bombardamento del 1944, le strutture antiche vennero liberate dalle costruzioni che nel corso dei secoli si erano addensate sulle terrazze del santuario. I resti dell’emiciclo superiore e il tempio circolare, invece, rimangono inglobati, ma in parte ancora visibili, nel Palazzo Colonna-Barberini, edificato per la prima volta nel 1050, quando i Colonna entrarono in possesso del feudo prenestino, poi ceduto ai Barberini nel 1630.

Nonostante le fonti scritte insistano sull’antichità del culto di Fortuna a P., le testimonianze archeologiche non permettono di risalire oltre l’età mediorepubblicana, epoca alla quale possono essere attribuite alcune iscrizioni e una serie di terrecotte architettoniche appartenenti alla decorazione di un tempio più antico dedicato alla divinità. La testimonianza principale sull’origine del culto è costituita da un celebre passo ciceroniano (Div., II, 41, 85-86) dove si narra che un nobile prenestino, Numerio Suffucio, fu indotto da sogni frequenti e minacciosi a scavare in un luogo preciso della roccia; da qui apparvero le sortes tagliate nella quercia e iscritte con caratteri antichi. Secondo Cicerone il luogo in questione, ancora ai suoi tempi recintato da sacri limiti, si  trovava accanto al simulacro di Fortuna raffigurata in atto di allattare Giove e Giunone fanciulli, culto che veniva celebrato in modo castissimo dalle madri. L’autore ricorda, inoltre, che nel luogo del tempio della Fortuna un ulivo aveva trasudato miele e che con il legno di questa pianta era stata costruita un’arca destinata a conservare le sortes.

Da questa preziosa fonte si evince chiaramente la duplicità delle prerogative della Fortuna Prenestina, divinità oracolare e protettrice delle madri. Questa duplicità si ritrova nello sdoppiamento dei poli di culto nell’ambito del santuario: il luogo di culto delle matres, che veneravano Fortuna per gli aspetti collegati alla maternità, e il luogo di consultazione delle sortes, dove la stessa divinità assumeva caratteri divinatori e funzione di protezione relativamente alla sfera dell’ordine cosmico e planetario con influenza nel potere politico-militare e della tutela cittadina. Una preziosa testimonianza iconografica del duplice aspetto del culto di Fortuna è costituita dal gruppo prenestino delle Fortune su ferculum; questa rappresentazione delle divinità, raffigurate fino al ginocchio e poste su una portantina, sembra essere un chiaro riferimento a un momento preciso della pratica cultuale, ovvero alle immagini delle divinità portate in processione (cfr. Macr., Sat., I, 23). A questa bivalenza del culto, peraltro comune alla Fortuna venerata ad Anzio, allude Stazio quando parla di praenestinae sorores (Silv., I, 3, 80).

Tali peculiarità del culto prenestino sono il presupposto per comprendere la struttura stessa del santuario e la fruizione del luogo da parte dei fedeli. Il santuario si sviluppa con orientamento nord-sud sulle pendici scoscese del monte Ginestro e, adattandosi alla morfologia del terreno, si articola in terrazze impostate su una prima sostruzione in opera poligonale che funge da basamento a tutto il complesso. Da qui due scalinate laterali permettevano di accedere a una terrazza dotata di vasche lustrali e spazi funzionali ai rituali di purificazione; in questi ambienti si conservano tracce della decorazione parietale in primo stile pompeiano. Da questo punto aveva inizio l’ascesa, non priva di un intrinseco valore simbolico-religioso, attraverso due rampe addossate alla sostruzione, simmetriche e convergenti. Nella parte interna delle rampe il passaggio era scoperto e il pavimento di basoli di calcare; nella parte esterna, invece, il pavimento era di cocciopesto e il passaggio era coperto a volta con un porticato dorico, i cui capitelli, inclinati rispetto all’asse della colonna, seguivano la pendenza dell’architrave. Nel percorso ascensionale verso la divinità il fedele procedeva dalla concentrazione mistica, favorita dal passaggio delle rampe, chiuse verso l’esterno, all’apertura suggestiva e liberatoria sull’immenso panorama che si apriva alla vista nel punto di arrivo delle rampe. Da qui una scalinata assiale consentiva di accedere alla Terrazza degli Emicicli oppure di continuare la salita e raggiungere così il tempio sommitale, attraversando la Terrazza dei Fornici a Semicolonne, la Terrazza della Cortina e la cavea teatrale che si apriva sul lato di fondo di quest’ultima terrazza; è probabile che il teatro fosse allestito allo scopo solo in occasione delle celebrazioni che prevedevano ludi scaenici in onore della divinità.

La Terrazza degli Emicicli si caratterizza come il luogo dove le matres praticavano il loro culto e veneravano la divinità dal carattere squisitamente materno. Qui, nell’emiciclo orientale della terrazza, era la statua di Giunone che, come descritto da Cicerone, allattava i divini fanciulli: si conserva ancora la base sulla quale era collocato il simulacro e la testa della dea, recuperata nel pozzo delle sortes, il luogo saeptus religiose del racconto ciceroniano, sormontato da un monopteros corinzio. Sappiamo invece da Plinio (Nat. hist., XXXIII, 61) che la statua di culto del tempio sommitale era di bronzo dorato. La presenza del santuario ebbe un ruolo determinante nella definizione urbana di P., mantenendo nel tempo la funzione di elemento ordinatore dello sviluppo urbanistico della città. L’intensa fase di rinnovamento e di fervore edilizio che portò alla ricostruzione del santuario nelle forme monumentali appena descritte interessò anche molti degli edifici pubblici dell’antica P., fino a trasformarne profondamente l’assetto urbano già alla fine del II sec. a.C.

Importanti interventi coinvolsero l’area dell’antico foro corrispondente all’odierna piazza Regina Margherita, dove in corrispondenza della cattedrale di S. Agapito si trovava un tempio più antico (IV sec. a.C.?), in opera quadrata di tufo, forse da identificare con quello di Iuppiter Imperator; da qui Cincinnato, conquistata la città, avrebbe asportato la statua di culto per portarla a Roma e dedicarla sul Campidoglio (Liv., VI, 27-29). Gli edifici principali, costruiti in opera incerta e riferibili alla fase di ristrutturazione edilizia degli ultimi decenni del II sec. a.C., si trovavano sul lato settentrionale del foro, delimitato da un colonnato a due ordini, dorico quello inferiore, corinzio quello superiore. Questa soluzione architettonica era un espediente di grande effetto scenografico, probabilmente di ispirazione pergamena, per compensare il dislivello tra questi edifici e il piano pavimentale della piazza del foro che si trovava a un livello più basso.

Quanto resta del complesso risulta in parte inglobato nelle strutture dell’ex Seminario Vescovile, in questi anni interessate da un progetto di ristrutturazione che ha dato modo di condurre nuove indagini e di recuperare nuovi dati sulla fase antica dell’edificio. L’area in questione era occupata dall’erario della città, identificato con certezza grazie all’iscrizione che ne ricorda la costruzione, e dalla basilica, suddivisa in quattro navate con colonne in stile corinzio-italico. Rispettivamente a est e a ovest della basilica si trovano due ambienti la cui destinazione d’uso rimane ancora incerta. La prima, la cosiddetta Aula Absidata, consiste in una sala rettangolare che termina sul lato nord con un ambiente absidato; da qui fu asportato il celebre mosaico pavimentale policromo raffigurante un vivace paesaggio nilotico descritto durante la piena del fiume. Dalle sorgenti alla foce sono illustrati i paesaggi rocciosi dell’Alto Egitto, animati da cacciatori negri e da animali identificati ciascuno dal nome scritto in greco, fino alle città della costa con i loro edifici monumentali. Si tratta di un grandioso esempio di mosaico ellenistico, opera di artigiani alessandrini attivi in Italia tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C., lo stesso ambito artistico al quale è riferibile il grande mosaico con la battaglia tra Alessandro Magno proveniente dalla Casa del Fauno a Pompei.

L’errata identificazione del mosaico del Nilo con il lithostroton che, secondo Plinio (Nat. hist., XXXVI, 189), Silla avrebbe collocato nel delubrum Fortunae condizionò a lungo l’interpretazione dell’Aula Absidata come il luogo di culto della divinità; così anche l’ambiente a ovest della basilica, il cosiddetto Antro delle Sorti, sarebbe stato il luogo dove, secondo il racconto ciceroniano, sarebbero state rinvenute le sorti. Tutta l’area quindi veniva ad assumere un valore squisitamente religioso – a lungo, infatti, la zona della basilica fu anche denominata Area Sacra – tanto che da questa interpretazione ne derivò la definizione di Santuario Inferiore, comprendendo in questi termini tutte le strutture sopra descritte. Nell’Antro delle Sorti rimane tuttora in situ un altro mosaico pavimentale policromo raffigurante un fondale marino con ogni varietà di pesci e tratti della riva dove si innalza un piccolo santuario probabilmente dedicato a Poseidone.

Anche per questo mosaico, realizzato sul posto con tessere minutissime, è stata riconosciuta una matrice ellenistica di stampo alessandrino. Una delle ipotesi riguardo la funzione dei due ambienti che affiancano l’edificio basilicale propone di riconoscervi due luoghi di culto, rispettivamente un Iseo e un Serapeo. Il rapporto con l’Egitto, infatti, sarebbe avvalorato, oltre che dal soggetto nilotico del mosaico, dal rinvenimento di alcuni frammenti appartenenti a due piccoli obelischi di granito rosso con geroglifici di imitazione romana. Va inoltre considerato che Fortuna e Iside sono spesso associate in un antico sincretismo religioso che tende ad assimilare divinità con prerogative simili; una manifestazione di questa assimilazione è la statua di marmo bigio raffigurante Iside-Foruna.

Sempre nell’ambito di quella fase di ristrutturazione edilizia che impegna gli ultimi decenni del II sec. a.C., veniva innalzato un grandioso “propileo” perfettamente in asse con il santuario e con gli edifici del foro. Si tratta di una complessa struttura in opera incerta comprendente un sistema di vasche e nicchie di fontana destinate a ninfeo. Il monumento è situato lungo l’attuale via degli Arcioni, in corrispondenza del limite meridionale della città più antica, della quale  costituiva con tutta probabilità l’ingresso monumentale.

Agli inizi del I sec. a.C., nel corso delle lotte civili tra Mario e Silla, la scelta politica di P. di parteggiare per Mario ebbe gravissime conseguenze. La crudele repressione sillana eliminò fisicamente tutti i cittadini maschi, risparmiando solo donne e bambini; scomparvero così tutti gli esponenti delle antiche gentes che avevano partecipato alle fortune della città nell’epoca precedente e da questo momento in poi il ruolo di P. risulta radicalmente mutato (App., Bell. civ., I, 397-439). La deduzione della colonia sillana sposta a valle il centro cittadino e il nuovo foro, localizzato al di sotto della via degli Arcioni, presso Madonna dell’Aquila. In questo momento l’area della cosiddetta Città Bassa è oggetto di una nuova pianificazione urbanistica, anche se il sito aveva già conosciuto una occupazione stabile e strutturata (III-II sec. a.C.) e ha restituito tracce di frequentazione che risalgono all’età arcaica e tardoarcaica.

Un nuovo slancio vitale della città si avverte in età augustea, quando la presenza di un prestigioso prenestino, Verrio Flacco, precettore dei nipoti di Augusto, ha certamente una funzione di mediazione tra P. e Roma, dove il grammatico godeva del favore dell’imperatore. Una statua di Verrio Flacco era collocata secondo Svetonio nel foro di P. (Gramm.,17, 2); questa, insieme ai rilievi cosiddetti Grimani, chiara espressione artistica dell’ideologia augustea, potrebbe far parte del monumento dove erano collocati i Fasti Prenestini, identificato nell’esedra messa in luce dagli scavi del 1907 in piazza Regina Margherita, luogo del foro più antico. In epoca più tarda i celebri rilievi furono trasferiti nella parte bassa, riutilizzati in un edificio con pianta a ferro di cavallo in opera listata e già identificato con il Macellum, che doveva trovarsi in questa zona. Tuttavia le caratteristiche dell’edificio a ferro di cavallo e la presenza dell’altare dedicato al divo Augusto hanno fatto supporre per questo edificio una diversa destinazione, probabilmente connessa alla pratica del culto imperiale.

La fase positiva per la città continua con il regno di Tiberio, quando l’imperatore, riconoscente per essere guarito da una grave malattia durante il soggiorno nella villa imperiale prenestina, concede nuovamente a P. lo status di municipium. La villa in questione potrebbe essere quella nota in località La Colombella, attribuita ad Adriano per il rinvenimento della statua di Antinoo, già costruita da Augusto e ancora frequentata al tempo di Marco Aurelio (Gell., XVI, 13). È invece nota solo dalle fonti (Plin., Ep., VI, 6, 45) la residenza di Plinio a P.: l’autore, descrivendo la sua villa in Toscana, dice di preferirla di gran lunga a quelle di Tuscolo, Tivoli e P.

Una ricca documentazione epigrafica testimonia la frequentazione del territorio da parte di altri personaggi di alto rango; tra questi è da annoverare Q. Fabius Postuminus, praefectus urbis sotto Traiano. Al monumento funerario di questo illustre personaggio è probabilmente da riferire il rilievo raffigurante il trionfo di Traiano, rinvenuto presso la città, in località La Cona. Dediche di statue a donne della famiglia imperiale, a eminenti personaggi pubblici e all’imperatore stesso documentano la vivacità della vita politica e associativa di P. ancora nel III e IV sec. d.C. In particolare, una dedica a Giuliano l’Apostata mostra la continuità del consenso alla politica imperiale e la resistenza della città alla penetrazione del cristianesimo, quest’ultima confermata dalla predilezione per la città da parte di Simmaco, irriducibile sostenitore del paganesimo.

Nuovi dati per la ricostruzione del tessuto urbano sono emersi da recentissime indagini archeologiche non ancora ultimate. Nel settore ovest della città entro le mura urbane, tra piazza della Liberazione e corso Pierluigi da Palestrina, sono emerse le strutture di fondazione di un imponente edificio in opera quadrata di tufo, probabilmente un tempio, vista la presenza dell’adiacente stipe votiva; i materiali rinvenuti attestano la frequentazione del sito almeno dal periodo mediorepubblicano. Nell’area della Città Bassa, invece, in località Santa Lucia, le indagini hanno riportato in luce una grande domus, con ricche decorazioni parietali e pavimentali, e un settore di un santuario arcaico, in parte noto da precedenti rinvenimenti. Entrambe le scoperte risultano particolarmente preziose, in quanto vengono a integrare un quadro assai complesso, fatto di notizie sporadiche e rinvenimenti occasionali avvenuti in un’area di fondamentale importanza, compresa in un quadrilatero delimitato da antichi assi stradali ancora oggi ricalcati dai moderni tracciati viari. Qui la fisionomia della città antica non è ancora sufficientemente definita, quando non irreparabilmente compromessa da una incontrollata espansione edilizia che in passato interessò questo settore della moderna P.

Bibliografia

Per la bibliografia completa fino al 1996 si rimanda a: A. Pinci, Bibliografia archeologica di Palestrina, in Miscellanea Greca e Romana, 20 (1996), pp. 207-45.

Si segnalano inoltre:

L. Quilici, L’impianto urbanistico della città bassa di Palestrina, in RM, 87 (1980), pp. 177-214.

Urbanistica e architettura dell’antica Praeneste. Atti del Convegno di Studi Archeologici (Palestrina, 1988), Palestrina 1989.

La necropoli di Praeneste. Atti del Convegno di Studi Archeologici (Palestrina, 1990), Palestrina 1992.

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Id., La pompé di Tolomeo Filadelfo e il mosaico nilotico di Palestrina, ibid., pp. 102-37.

S. Gatti, I Latini di Praeneste: nuove acquisizioni, in Atti del Convegno Internazionale “Nomen Latinum” Latini e Romani prima di Annibale (Roma, 24-26 ottobre 1995), Roma 1997, pp. 95-122.

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