L’ottica

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Giorgio Strano
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Keplero e Cartesio perfezionano la teoria della visione e approfondiscono lo studio delle lenti. Cartesio stabilisce che la velocità di incidenza e quella di riflessione della luce sono uguali e che l’angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione; afferma inoltre che il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e il seno dell’angolo di rifrazione è costante (legge Snell-Cartesio). Nella seconda metà del secolo sono formulate due teorie sulla natura della luce, una corpuscolare e una ondulatoria. A Newton si devono i maggiori progressi nell’ottica; su basi sperimentali e matematiche Newton stabilisce una nuova teoria sulla luce i colori: la luce bianca non è omogenea, ma composta dai colori dello spettro solare. I colori, dunque, non derivano da una modificazione della luce, ma sono costitutivi della luce stessa. Allo stesso grado di rifrangibilità è associato sempre lo stesso colore e viceversa.

Keplero e Descartes

Gli sviluppi della prospettiva lineare, una migliore conoscenza dell’anatomia dell’occhio, così come la camera oscura, influenzano le ricerche di Keplero sulla visione. Lo scienziato tedesco propone una nuova teoria: i corpi esterni consistono in aggregati di punti, ciascuno dei quali emette in tutte le direzioni raggi di estensione indefinita. I raggi, rifratti dalla cornea e dalla parte interna dell’occhio, formano un nuovo cono, la cui base è la pupilla e il cui vertice è un punto sulla retina. Keplero stabilisce un’analogia tra l’occhio e la camera oscura e riconosce (nei Paralipomena ad Vitellionem, 1604) che la retina, e non il cristallino – come allora si riteneva – è l’organo della vista e che l’immagine retinica è capovolta. Dopo aver letto il Sidereus nuncius (1610) di Galileo, Keplero si dedica allo studio delle lenti e pubblica nel 1611 il trattato dal titolo Dioptricae, in cui esamina le proprietà di diversi tipi di lenti.

Sin dall’inizio della propria carriera scientifica, probabilmente già alla metà degli anni Venti, Cartesio si dedica allo studio delle lenti e dell’ottica. Nel 1637 pubblica la Dioptrique, in cui tratta della visione, dell’occhio, dei sensi in generale e delle proprietà della luce. Cartesio ritiene che ciò che noi vediamo sia una costruzione della nostra mente, ovvero che l’immagine del mondo che noi abbiamo non è altro che una risposta della mente a una serie di stimoli esterni di carattere meccanico.

Per Cartesio la luce è moto della materia, ovvero una tendenza al moto e una pressione delle particelle di materia del primo elemento, di cui sono formate le stelle e il Sole, che trasmettono il moto alle particelle sferiche del secondo elemento. La luce è dunque una pressione che si propaga dalla sorgente luminosa all’occhio, lungo linee che costituiscono i raggi luminosi; la propagazione avviene istantaneamente, come la vibrazione che passa in un istante da un’estremità all’altra di un bastone. La riflessione è spiegata in termini meccanici, come urto di particelle su una superficie levigata e rigida, e pertanto deve obbedire alle leggi del moto, in particolare alla legge di conservazione del moto. Cartesio scompone il moto della luce in due componenti: quella perpendicolare alla superficie riflettente e quella parallela. La superficie impedisce il moto lungo la perpendicolare, ma non quello lungo la parallela. La velocità della luce non è modificata dalla superficie riflettente e ciò che muta è la direzione del moto, non la velocità; quindi, conclude Cartesio, la velocità di incidenza e quella di riflessione sono uguali e l’angolo di incidenza è uguale a quello di riflessione. La rifrazione è spiegata facendo uso dell’analogia con il moto di una palla che passa dall’aria all’acqua e la variazione di velocità è attribuita alla differente densità del mezzo in cui passa la luce. Cartesio ritiene (erroneamente) che la velocità della luce sia maggiore nei mezzi di maggior densità che in quelli meno densi. Stabilisce che la velocità di incidenza è uguale al prodotto della velocità di rifrazione per una costante caratteristica del mezzo: vi= nvr. A partire da questa relazione tra le velocità, Cartesio conclude che il rapporto tra il seno dell’angolo di incidenza e il seno dell’angolo di rifrazione è costante: sin i/sin r = n, una costante che dipende dal mezzo e che oggi è nota come indice di rifrazione.

La stessa legge è formulata, anche se in modo differente, dall’inglese Thomas Hariot all’inizio del secolo e dall’olandese Willebrord Snell negli anni Venti, ma in termini puramente sperimentali. Cartesio la incorpora invece in una teoria di tipo fisico-matematico. Nelle Meteore Cartesio prende in esame il fenomeno dell’arcobaleno e afferma che i colori sono prodotti dalla rifrazione dei raggi luminosi che colpiscono le gocce d’acqua e derivano da una modificazione della luce solare – conclusione che egli conferma per mezzo di un esperimento con un prisma di vetro. La spiegazione cartesiana è di natura meccanica: la formazione dei colori è prodotta dai differenti moti rotatori delle particelle sferiche dell’etere causati dalla rifrazione.

La natura della luce

Nella seconda alla metà del secolo sono formulate due differenti teorie sulla natura della luce: l’una si può definire ondulatoria, in quanto concepisce la luce come una vibrazione, una perturbazione del mezzo; l’altra corpuscolare, poiché implica il trasporto di materia da una fonte luminosa all’occhio. Va detto che la linea di demarcazione tra queste due concezioni non è netta e alcuni scienziati fanno uso dell’una e dell’altra in base ai fenomeni da spiegare. Come Cartesio, il filosofo inglese Thomas Hobbes ritiene che la luce sia un moto del mezzo e formula una teoria della luce che potremmo definire proto-ondulatoria: la sorgente luminosa pulsa e, così facendo, produce un moto ondulatorio nel mezzo.

La scoperta della diffrazione, cui giungono indipendentemente Francesco Maria Grimaldi e Robert Hooke, è ritenuta una prova a favore della teoria ondulatoria. Pubblicata postuma nel 1665, la Physico-mathesis de lumine coloribus et iride del gesuita Grimaldi descrive un nuovo fenomeno, che oggi chiamiamo diffrazione. Con diffrazione si intende in generale quel fenomeno che si determina quando sul percorso della luce vengono a trovarsi ostacoli di dimensioni dello stesso ordine di grandezza della lunghezza d’onda. Quando un fascio di raggi luminosi provenienti da una sorgente puntiforme attraversa un foro dal diametro piccolissimo di uno schermo opaco, su un secondo schermo, posto ad una certa distanza dalla sorgente, non si vedrà l’immagine del foro circondata da un’ombra netta, come ci si dovrebbe aspettare, ma una figura formata da aloni concentrici o frange di diffrazione, alternativamente chiare e oscure. Hooke elabora una teoria della luce di carattere ondulatorio, stabilendo un’analogia tra la propagazione della luce e le onde che si producono nell’acqua. La luce, per Hooke, è un moto vibratorio prodotto in un mezzo omogeneo; essa si propaga linearmente a velocità costante. Le vibrazioni, secondo Hooke, generano onde sferiche i cui piani sono perpendicolari alla direzione di propagazione. Nella Micrographia (1665), Hooke studia la formazione dei colori nelle lamine sottili di materiale trasparente (ad esempio la mica) – un fenomeno che oggi attribuiamo all’interferenza – e giunge alla conclusione che i colori mutano con lo spessore della lamina. Nel 1669 è scoperto un nuovo fenomeno relativo alla luce: lo scienziato danese Erasmus Bartholin osserva la doppia rifrazione, prodotta dal cosiddetto cristallo di Islanda, la calcite o spato di Islanda. La peculiarità di questi cristalli sta nel fatto che l’immagine di oggetti osservati attraverso di essi è sdoppiata. La scoperta di Bartholin suscita grande interesse e stimola le indagini di Huygens che, nel Traité de lumière (1690), perfeziona la propria teoria per spiegare il fenomeno della doppia rifrazione. Stabilendo un’analogia tra suono e luce, Huygens afferma che la luce ha natura ondulatoria: mostra che due o più fasci di luce che si propagano in direzioni diverse si incrociano senza disturbarsi a vicenda – il che non potrebbe avvenire qualora si incrociassero flussi di corpuscoli; è dunque convinto che la luce sia un moto vibratorio. La luce si propaga attraverso l’etere, sostanza dotata di uniforme elasticità, composta di sfere in contatto tra loro, e capace di penetrare tutti i corpi. Per Huygens la luce ha origine da ciascun punto di un oggetto luminoso, il quale, vibrando, trasmette impulsi attraverso l’etere. La luce è un movimento dell’etere per onde sferiche: l’onda è il luogo dei punti nei quali il fenomeno luminoso si manifesta ad un dato istante.

Negli anni Settanta del Seicento, l’astronomo danese Olaus Rømer, membro dell’Académie des Sciences di Parigi, effettua una delle prime misurazioni accurate della velocità della luce. Nell’elaborare le tavole dei moti dei satelliti di Giove, Rømer spiega i ritardi delle eclissi del primo satellite come effetto dei diversi tempi necessari alla luce per percorrere la distanza Giove-Terra in differenti periodi dell’anno. Sulla base di accurati calcoli, Rømer stabilisce che la velocità della luce è 214.000 km/s – mentre quella oggi accettata è di circa 300.000 km/s.

Luce e colori

Nelle Meteore Cartesio, discutendo dell’arcobaleno, afferma che la luce non è semplicemente un agente ausiliario che rende visibili i colori (come aveva ritenuto gran parte dei filosofi medievali), ma costituisce la fonte stessa dei colori. I colori, secondo Cartesio, derivano da una rotazione delle particelle di materia sottile.

Boyle esamina il problema dei colori in termini sperimentali: la sua opera sui colori, dal titolo Experiments and considerations touching colours (1664), è soprattutto una raccolta di osservazioni e di esperimenti, in particolare di carattere chimico. Boyle formula ipotesi sull’origine dei colori, che considera una modificazione della luce stessa. Ritiene che i colori non risiedano nell’oggetto stesso, ma che la luce sia influenzata dalla conformazione della superficie degli oggetti, apparendo quindi colorata quando è riflessa.

L’ottica di Newton

La teoria newtoniana della luce e dei colori è frutto di una fusione di matematica e ricerche sperimentali. Newton comunica la propria teoria dei colori alla Royal Society con una lettera inviata a Oldenburg nel 1672. La memoria è poi pubblicata nelle Philosophical Transactions dello stesso anno con il titolo New Theory about light and colours (“Nuova teoria sulla luce e sui colori”). In questa memoria Newton presenta la teoria della luce e una serie di esperimenti volti a provarla: la luce bianca – afferma Newton – non è omogenea, ma è formata da raggi aventi un differente grado di rifrangibilità, a ognuno dei quali è associato un colore: al grado massimo di rifrangibilità corrisponde il viola, al minimo il rosso. Newton fa penetrare, attraverso un piccolo foro praticato nella persiana, un fascio di luce in una stanza oscurata e nota che, mettendo il prisma a una certa distanza dalla finestra, sul muro, situato ad alcuni metri dal prisma, si osserva la formazione dello spettro, un’immagine oblunga in cui sono presenti tutti i colori dell’arcobaleno. Newton mostra inoltre per mezzo di un prisma che è possibile separare, senza perturbare, le diverse componenti della luce nei colori primari. In seguito, per mezzo di un prisma e di una lente, ricompone i raggi ottenendo così nuovamente luce bianca. La sua conclusione è che i colori non hanno origine da una modificazione della luce bianca, ma dalla sua scomposizione. Newton considera gli esperimenti eseguiti col prisma la prova sperimentale di una nuova teoria della luce, ovvero che il prisma non modifica la luce bianca, ma la scompone nei suoi componenti e che il grado di rifrazione corrisponde a differenti colori e viceversa.

Per provare che i colori non sono generati da una modificazione della luce, Newton include nella memoria del 1672 il cosiddetto experimentum crucis, esperimento che a suo avviso costituisce una conferma definitiva della sua teoria sulla luce e i colori. In questo esperimento, eseguito con due prismi e due diaframmi forati, Newton fa ruotare il primo prisma intorno al suo asse, fa così passare solo un raggio alla volta attraverso i fori praticati nei due diaframmi. I raggi raggiungono il secondo prisma, che proietta sul muro ciascun raggio senza alterarlo, ma lo proietta con un angolo di rifrazione che corrisponde a quello ottenuto con il primo prisma: il raggio viola è rifratto maggiormente del rosso. Newton conclude che “la luce è composta di raggi diversamente rifrangibili i quali, senza alcun rapporto con l’angolo di incidenza, a parità di mezzo, sono più rifratti di altri e perciò si trasmettono attraverso il prisma nelle diverse zone della opposta parete a seconda del loro particolare grado di rifrangibilità”.

Hooke e Huygens condividono solo una parte della teoria newtoniana, ossia la corrispondenza di ogni colore a un determinato grado di rifrangibilità, ma non credono che la natura eterogenea della luce bianca sia provata sperimentalmente. Inoltre, sia Hooke che Huygens sono contrari alla teoria corpuscolare della luce, contenuta nella parte finale della memoria. A tali obiezioni Newton risponde affermando che nella propria teoria sulla luce e i colori non vi è nulla che non sia provato sperimentalmente. Inoltre, nella risposta a Hooke datata 11 luglio 1672, afferma di aver parlato di corporeità della luce in maniera ipotetica e giunge fino ad ammettere che la propria teoria sulla luce sia compatibile anche con la concezione ondulatoria.

Nel 1675 Newton comunica alla Royal Society un’ipotesi sulla luce e sulle sue proprietà. A differenza della lettera del luglio 1672, in questa comunicazione espone alcune sue ipotesi in maniera più libera; egli fa ricorso all’etere, che definisce come un mezzo più raro, più sottile e più elastico dell’aria, le cui vibrazioni sono più rapide e di minore ampiezza di quelle dell’aria. La luce, secondo questa ipotesi, sarebbe prodotta da un flusso di corpuscoli che interagiscono con l’etere.

Le ricerche newtoniane di ottica confluiscono nell’ Opticks (1704), opera che si compone di tre libri, il primo dei quali tratta problemi che oggi definiremmo di ottica geometrica e di composizione della luce bianca; il secondo espone i fenomeni di interferenza della luce nelle lamine sottili; nel terzo tratta della diffrazione, della polarizzazione e di una serie di problemi di varia natura, definiti da Newton “questioni” (queries), o ipotesi non confermate, in cui affronta temi riguardanti la struttura della materia e le forze a corto raggio.

Dei colori delle lamine sottili, fenomeno poi noto come “interferenza”, Newton tratta in più occasioni e, nella comunicazione alla Royal Society del 1675, lo spiega come effetto della condensazione e rarefazione periodica dell’etere contenuto nella pellicola di aria. Nel secondo libro dell’ Opticks tratta in maniera diffusa dei fenomeni di interferenza prodotti da bolle di sapone, lamine sottili ecc. Studia sperimentalmente l’interferenza facendo riflettere la luce bianca su di una lastra di vetro posta a contatto con una lente convessa di grande raggio di curvatura e osserva la presenza di una serie di anelli colorati (noti appunto come “anelli di Newton”), dovuti alla formazione di frange di interferenza sulla pellicola sottile d’aria, di spessore gradatamente crescente compresa fra la lente e la lastra di vetro. Illuminando il sistema con luce monocromatica, si forma, per riflessione, una parte centrale oscura e intorno ad essa una serie di anelli alternativamente del colore della sorgente ed oscuri. Noi sappiamo che le parti oscure e luminose si hanno dove lo spessore della lamina d’aria è tale da produrre un’interferenza rispettivamente distruttiva e costruttiva fra le onde riflesse dalla prima superficie e dalla seconda; il raggio degli anelli è massimo per la luce rossa e minimo per la luce viola, per cui, eseguendo l’esperienza con luce bianca, si ottengono anelli diversamente colorati. Questi fenomeni indicano che la luce ha proprietà periodiche e Thomas Young li spiegherà, sulla base della teoria ondulatoria della luce, come effetto dell’interferenza. Newton li esamina in maniera sperimentale e formula anche una teoria per spiegare il fenomeno - una teoria che differisce alquanto da quella del 1675. Nell’Opticks egli afferma che si formano in successione anelli colorati e oscuri e stabilisce delle relazioni numeriche tra varie grandezze, quali il diametro dell’anello, lo spessore della lamina d’aria (e di acqua), l’angolo di incidenza e di rifrazione nell’aria (e nell’acqua). Newton afferma che le lamine riflettono e rifrangono i raggi di luce secondo i propri spessori e densità: un medesimo tipo di raggio, afferma Newton, a uguali angoli di incidenza su una qualsiasi lamina sottile trasparente, è alternativamente riflesso e trasmesso. Nella memoria del 1675 Newton aveva attribuito il fenomeno alla differente densità dell’etere, che può essere sufficientemente denso da riflettere i raggi o sufficientemente raro da trasmetterli. Nell’Opticks non si fa più riferimento all’etere, il fenomeno degli anelli è interpretato come interazione tra i raggi e le vibrazioni del mezzo da essi prodotte: “quando un raggio qualsiasi sta in quella parte della vibrazione che cospira col suo moto, esso passa facilmente attraverso una superficie rifrangente, mentre, quando sta nella parte contraria della vibrazione che quindi gli impedisce il moto, esso è facilmente riflesso”. Newton dà quindi una definizione del fenomeno: Chiamerò accessi (fits) di facile riflessione i ritorni della disposizione di un raggio alla riflessione, chiamerò la sua disposizione ad essere trasmesso accessi di facile trasmissione.

Avendo negato che la luce possa deviare dalla direzione rettilinea quando passa attraverso fenditure sottili, Newton spiega i fenomeni della diffrazione descritti da Grimaldi come effetto di un’interazione di tipo attrattivo e repulsivo tra raggi e corpuscoli dei corpi rifrangenti. Egli sostiene che i corpi agiscono sulla luce anche a una certa distanza – una teoria che poggia sulla concezione corpuscolare della luce e sulle forze attrattive e repulsive che Newton introduce nelle Questioni dell’ Opticks. Nella questione 29 formula l’ipotesi seguente: “Non sono forse i raggi luminosi corpuscoli emessi dalla materia luminosa? […] I corpi trasparenti agiscono a distanza sui raggi di luce rifrangendoli, riflettendoli, inflettendoli. I raggi a loro volta agiscono sul corpo dal momento che, a distanza, inducono le sue parti a moti vibratori e le riscaldano. Queste azioni e reazioni sono molto simili ai fenomeni della forza di attrazione dei corpi”.

Isaac Newton

Nuova teoria sulla luce e i colori

Trinity College, Cambridge

febbraio 1671-2

Signore,

per adempiere alla mia precedente promessa, vi informerò senza altre cerimonie che all’inizio dell’anno 1666 (...) mi procurai un prisma triangolare di vetro per fare con esso esperimenti sui famosi fenomeni dei colori. E avendo in ordine a ciò oscurata la mia camera e praticato un piccolo foro nell’imposta della mia finestra, per consentire il passaggio della luce del sole in quantità conveniente, collocai il prisma all’ingresso di esso in modo che così potesse essere rifratta sulla parete opposta. Vedere i vividi e intensi colori prodotti, fu da principio uno svago molto piacevole; ma applicatomi dopo un momento ad esaminarli in maniera più circostanziata, rimasi sorpreso di vederli disposti secondo una forma oblunga mentre, per le note leggi di rifrazione, mi attendevo che essa fosse circolare. Erano delimitati sui lati da linee rette, ma alle estremità l’indebolimento della luce era così graduale da rendere difficile determinare correttamente quale ne fosse la figura; tuttavia essi sembravano disposti a semicerchio. La lunghezza con la larghezza di questo spettro colorato, la trovai di circa cinque volte più grande: un divario così fuori dall’ordinario che stimolò in me una curiosità straordinaria di ricercare da che cosa potesse derivare. Non riuscivo a credere che i diversi spessori del vetro, oppure la vicinanza con l’ombra o il buio, potessero avere sulla luce un’influenza tale da produrre un simile effetto; ritenni tuttavia non inopportuno esaminare in primo luogo queste circostanze e verificare in tal modo che cosa sarebbe accaduto se avessi trasmesso la luce attraverso parti di vetro di diverso spessore, o attraverso fori di diversa grandezza praticati nella finestra, oppure se avessi collocato il prisma all’esterno, così che la luce dovesse passare attraverso esso, e venire rifratta prima d’essere delimitata dal foro. Ma trovai che nessuna di quelle circostanze era importante. Il comportamento dei colori era il medesimo in tutti questi casi, allora che questi colori dovessero essere tanto dilatati o in conseguenza di un qualsiasi difetto nella regolarità del vetro, o in conseguenza di un’altra contingente irregolarità. Per provare ciò presi un altro prisma simile al primo e lo collocai in modo tale che la luce, passando per entrambi, potesse venire rifratta in direzioni opposte e quindi, per effetto del secondo prisma, rinviata lungo quella direzione dalla quale il primo l’aveva deviata. Pensavo, infatti, che così procedendo gli effetti regolari del primo prisma sarebbero stati annullati dal secondo prisma, quelli irregolari invece aumentati grandemente per effetto della molteplicità delle rifrazioni. Il risultato fu che la luce, diffusa per effetto del primo prisma in forma oblunga, fu ricondotta dal secondo ad una forma anulare con altrettanta regolarità di quando la luce non passava attraverso essi. Sicché, qualunque fosse la causa di quell’allungamento, esso non era dovuto ad alcuna irregolarità contingente. (...) dicevo, per tornare all’argomento, che la luce non è similare o omogenea ma che consta di raggi difformi, alcuni dei quali sono più rifrangibili di altri: in modo che fra quelli che sono diversamente incidenti sul medesimo mezzo, alcuni saranno più rifratti di altri, e ciò non per effetto di una qualche virtù della lente né per effetto di un’altra causa esterna, ma a causa di una predisposizione in forza della quale ciascun raggio particolare deve subire un particolare grado di rifrazione. Vengo adesso ad informarvi di un’altra, più notevole, difformità dei raggi, nella quale è coinvolta l’origine dei colori. Un naturalista non si aspetterebbe di vedere la scienza di quelli diventare matematica, e tuttavia oso affermare che in essa vi è altrettanta certezza che in qualsiasi altra parte dell’ottica. Ciò che dirò al riguardo non è un’ipotesi bensì una conseguenza estremamente rigida, non congetturata con la semplice inferenza: è così perché non è diversamente, oppure perché essa soddisfa tutti i fenomeni (modulo universale dei filosofi), ma ricavata con la mediazione di esperimenti che concludono direttamente e senza ombra di dubbio. Continuare la narrazione storica di questi esperimenti comporterebbe un discorso troppo tedioso e confuso, formulerò piuttosto, in primo luogo, la dottrina, e dopo, al fine dell’esame di essa, vi darò uno o due esempi degli esperimenti, come saggio dei restanti.

La dottrina è compendiata e illustrata nelle seguenti proposizioni.

1. I raggi di luce, come differiscono per i gradi di rifrangibilità così differiscono nella loro attitudine ad esibire questo o quel particolare colore. I colori non sono qualificazioni della luce, derivanti dalla rifrazione o dalla riflessione dei corpi naturali (come generalmente si crede), bensì proprietà originali e connaturate, diverse nei diversi raggi. Qualche raggio è atto a esibire il colore rosso e nessun altro, qualcuno il giallo e nessun altro, qualcuno il verde e nessun altro, e così via per i rimanenti. Né vi sono solamente i raggi propri e particolari ai colori principali, ma anche quelli propri a tutte le gradazioni intermedie di essi.

2. Al medesimo grado di rifrangibilità appartiene sempre il medesimo colore, e al medesimo colore appartiene sempre il medesimo grado di rifrangibilità. I raggi minimamente rifrangibili sono tutti atti a esibire il colore rosso e, inversamente, quei raggi che sono atti a esibire il colore rosso, sono tutti minimamente rifrangibili. Analogamente, i raggi massimamente rifrangibili sono tutti atti a esibire il colore violetto cupo e, inversamente, quelli atti a esibire un tale colore violetto sono tutti massimamente rifrangibili. Allo stesso modo, ai colori intermedi disposti in una serie continua appartengono gradi intermedi di rifrangibilità. E questa analogia fra colori e rifrangibilità è assolutamente esatta e rigida: sempre i raggi o concordano rigorosamente in entrambi o differiscono proporzionalmente in entrambi.

3. La specie di colore e il grado di rifrangibilità, propri a un qualsiasi particolare tipo di raggio, non sono mutabili né per effetto della rifrazione né per effetto della riflessione causate da corpi naturali, né per effetto di qualsiasi altra causa che finora abbia potuto osservare. Quando un qualsiasi tipo di raggio sia stato ben diviso da quelli di altro genere, esso ha successivamente conservato ostinatamente il proprio colore, nonostante i miei reiterati tentativi di mutarlo. L’ho rifratto per mezzo di prismi e riflesso per mezzo di corpi che alla luce del giorno erano di altro colore; l’ho intercettato per mezzo di un sottile strato colorato d’aria contenuta fra due lastre di vetro sovrapposte; l’ho trasmesso attraverso mezzi colorati e attraverso mezzi irradiati con altri tipi di raggi, e che lo delimitavano diversamente: tuttavia non ho mai potuto estrarne un colore diverso. Per effetto della contrazione o della dilatazione esso poteva diventare più vivido o più tenue, e, per effetto della perdita di molti raggi, in alcuni casi poteva diventare molto oscuro e tenebroso: ma mai l’ho osservato mutato in specie.

4. Tuttavia, apparenti mutamenti di colore possono venire effettuati dove ci sia una qualsiasi mescolanza di diversi tipi di raggi. In tale mescolanza, infatti, i colori componenti non appaiono in quanto, per effetto del proprio mutuo attenuare, danno luogo a un colore intermedio. Per questa ragione, se per effetto di una rifrazione o di una qualsiasi altra delle cause prima dette, i raggi dissimili, latenti in tale mescolanza, vengono separati, ne emergeranno colori diversi dal colore composto. I quali colori sono non novellamente originati, ma soltanto resi evidenti dalla separazione; infatti, se vengono mescolati di nuovo e fusi insieme, essi comporranno ancora quel colore che avevano prima della separazione. Per la medesima ragione, i mutamenti effettuati mediante la fusione di diversi colori non sono reali, infatti quando i raggi dissimili vengono di nuovo separati, essi esibiranno assolutamente i medesimi colori che possedevano prima di essere composti. Non altrimenti polveri azzurre e gialle ben mescolate appaiono verdi a occhio nudo, e tuttavia i colori dei corpuscoli componenti non sono a causa di ciò realmente mutati, ma soltanto miscelati. Infatti, quando vengono osservati con un buon microscopio, essi appaiono ancora, disseminati qua e là, azzurro e giallo.

5. Vi sono quindi due specie di colori. L’una originaria e semplice, l’altra composta da questa. I colori originari o primari sono il rosso, il giallo, il verde, l’azzurro e il violetto che tende al porpora, insieme all’arancione, all’indaco e a un’indefinita varietà di gradazioni intermedie.

Isaac Newton, Scritti di ottica, a cura di A. Pala, Torino, UTET, 1978

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