L'Ottocento: biologia. Neurofisiologia e neuroistologia

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: biologia. Neurofisiologia e neuroistologia

Guido Cimino

Neurofisiologia e neuroistologia

Gli studi sul sistema nervoso attuati nel corso dell'Ottocento conseguono grandi risultati, tanto che si è soliti parlare di 'rivoluzione' compiuta in questo secolo: una rivoluzione che trasforma dapprima gli strumenti concettuali e tecnici con cui si impostano nuove ricerche e raccoglie poi i suoi frutti, soprattutto negli ultimi decenni del secolo, grazie all'elaborazione di fondamentali teorie morfologiche e fisiologiche.

Alla fine del Settecento si poteva registrare un certo progresso per quanto concerne l'anatomia macroscopica del sistema nervoso: tutte le sue parti principali, infatti, dai nervi al midollo e all'encefalo erano state identificate e descritte. Per quanto riguarda la sua fisiologia, invece, erano state proposte ipotesi incerte, con scarsa base sperimentale, spesso di carattere più speculativo che empirico; tra tutte si era affermata la teoria di Haller basata sulla distinzione tra 'sensibilità' e 'irritabilità' (o contrattilità). Nel nuovo secolo, le conoscenze anatomiche tradizionali saranno integrate dagli straordinari sviluppi dell'istologia che culmineranno nella formulazione della 'teoria del neurone' alla fine dell'Ottocento; le dottrine fisiologiche saranno totalmente rivoluzionate con la scoperta della natura elettrica dell'impulso nervoso, delle 'vie' nervose motorie, sensitive e sensoriali, del meccanismo dei movimenti riflessi, e con l'identificazione della funzione specifica di varie parti dell'asse cerebrospinale, tra cui la corteccia cerebrale, oggetto privilegiato d'indagine negli ultimi decenni del secolo.

Agli inizi dell'Ottocento lo schema di funzionamento del sistema nervoso, nelle linee generali, era ancora quello prospettato da René Descartes di un apparato che presiede alle funzioni sensitive e motorie. Si pensava, da un lato, che gli stimoli del mondo esterno, dopo aver toccato gli organi di senso, attraverso i nervi e il midollo e per mezzo di un 'fluido nervoso' (di natura imprecisata e, alla fine del Settecento, assimilato da alcuni al 'fluido elettrico'), raggiungessero un centro cerebrale, detto sensorium commune, dove si aggregavano e integravano, dando luogo alla percezione sensoriale. Questo centro, tuttavia, non era stato chiaramente identificato e localizzato dai diversi medici e anatomisti, i quali avevano ipotizzato per esso varie strutture dell'encefalo. Dall'altro lato, si riteneva che tutti i movimenti del corpo fossero controllati anch'essi da un centro cerebrale, che trasmetteva un impulso nervoso lungo il midollo e i nervi fino a raggiungere i muscoli, provocando in tale maniera la loro contrazione e la risposta motoria. Tuttavia, neanche questo centro, supposto nell'encefalo e in genere non coincidente con quello della sensazione, era stato individuato con certezza.

Per quanto riguarda le attività psichiche o mentali, alla fine del Settecento si credeva che esse ‒ secondo l'impostazione dualistica cartesiana ‒ fossero espressione di una mente o anima, la quale entrava in rapporto con il corpo tramite una struttura cerebrale che rimaneva però del tutto indeterminata; oppure si pensava ‒ secondo l'impostazione materialistica di parte della cultura illuministica (tra gli altri, per es., Pierre-Jean-Georges Cabanis) ‒ che le attività psichiche fossero funzioni oppure proprietà di uno o più organi cerebrali, anch'essi tuttavia di difficile identificazione.

Nell'uno e nell'altro caso, tutte le ipotesi apparivano vaghe e incerte, di carattere speculativo e prive di base sperimentale. In fondo, a prescindere dalla considerazione dei fenomeni mentali come espressioni di un'anima o come funzioni di organi del cervello, agli inizi dell'Ottocento ancora non si era riusciti a individuare con certezza a quale parte dell'encefalo fosse in qualche modo collegata l'attività psichica nel suo complesso, comunque la si volesse intendere; ovvero non vi era stata alcuna determinazione scientifica della sede o dell'organo della mente, tanto è vero che Marie-François-Xavier Bichat, nella celebre e per molti aspetti innovativa opera Recherches physiologiques sur la vie et la mort del 1800, ancora considerava il cervello sede dell'intelletto ma non delle passioni, che poneva nel cuore. In ogni caso, salvo alcune eccezioni (per es., Thomas Willis nel XVII sec.), era stata ignorata quasi del tutto la corteccia cerebrale, che si pensava svolgesse solamente una funzione nutritiva, tanto che non è raro trovare in pubblicazioni francesi dell'epoca, in riferimento alla sostanza grigia, il termine cervelle, usato in riferimento all'alimento al posto dell''anatomico' cerveau.

Questa dunque, a grandi linee, era la situazione per quanto riguarda la conoscenza del sistema nervoso alle soglie del XIX sec., una situazione che ‒ come si può ben comprendere ‒ lasciava una gran quantità di problemi insoluti: occorreva capire, da un lato, quale fosse la natura dell'impulso nervoso, quali le vie e i centri sensitivi e motori, quale il meccanismo dell'azione riflessa; e, dall'altro lato, quale 'luogo' del cervello fosse collegato con l'attività mentale. Tali problemi saranno affrontati nel corso dell'Ottocento e tradotti in ricerche sperimentali sulla fisiologia degli organi di senso e motori, dei nervi spinali e cranici, del midollo spinale e allungato, del cervelletto e delle altre strutture encefaliche ‒ tra cui la corteccia cerebrale ‒ e, in particolare, in ricerche sulla fisiologia di tutti quei segmenti del sistema nervoso posti sempre più e sempre meglio in luce dall'indagine istologica; quest'ultima, grazie ai progressi della microscopia, culminerà negli anni Settanta e Ottanta nella completa descrizione della cellula nervosa con tutti i suoi prolungamenti.

La neurofisiologia nel corso dell'Ottocento consegue dunque risultati rilevanti e in generale è possibile affermare che i maggiori successi si realizzano nell'ambito di due principali settori d'indagine, di due 'programmi di ricerca': quello riguardante il processo nervoso che interviene tra la stimolazione sensoriale e la risposta motoria e quello volto all'identificazione del substratum della mente.

La neurofisiologia senso-motoria

Un primo grande campo di studi è rivolto, dunque, alla catena di eventi fisico-chimici che si interpone tra lo stimolo esterno, la percezione sensoriale e la contrazione muscolare e ha alla base l'idea portante, di derivazione cartesiana, secondo la quale l'attività del sistema nervoso deve essere concepita e studiata come un 'processo senso-motorio', ossia come una funzione analizzabile in termini di sensazione e di movimento. Non si pensa più, naturalmente, a un sistema puramente meccanico e si comprende che i fenomeni implicati nella sensazione e nel movimento sono di natura fisico-chimica; tuttavia non muta lo schema meccanicistico di fondo. Con tale impostazione, si cerca allora di avviare a soluzione i problemi della natura dell'impulso nervoso, dei movimenti riflessi, delle vie nervose sensitive e motorie, dei centri di controllo della sensazione e del movimento, del rapporto tra organi di senso e neurasse, delle connessioni tra muscoli e nervi.

La natura dell'impulso nervoso

Nell'ambito di queste ricerche, un primo importante risultato è ottenuto con la dimostrazione conclusiva, a opera di Carlo Matteucci (1811-1868) ed Emil Du Bois-Reymond (1818-1896) anticipati da Luigi Galvani (1737-1798), che l'impulso nervoso è un fenomeno di natura elettrica, superando in tal modo ogni residua dottrina degli 'spiriti animali' o del 'fluido nervoso' o della vis nervosa.

Galvani, con i suoi famosi esperimenti sulla rana, credeva di aver dimostrato la presenza di 'fluido elettrico' nei nervi e nei muscoli dell'animale e, quindi, di aver trovato una 'prova' della natura elettrica dell'impulso nervoso. In particolare, pensava che l'elettricità fosse distribuita dai nervi attraverso la loro sostanza interna, considerata un buon conduttore, e giungesse ai muscoli, i quali, a somiglianza della bottiglia di Leida, finirebbero per avere una carica negativa all'esterno e una positiva all'interno. Il meccanismo del movimento consisterebbe, allora, nella scarica di fluido elettrico attraverso il muscolo, scarica che stimolerebbe le fibre muscolari 'eccitabili', provocando la loro contrazione. Tuttavia dopo la sconfitta della sua teoria dell'elettricità animale da parte di Alessandro Volta (1745-1827), che aveva formulato la 'teoria generale del contatto' e in base a essa aveva costruito la pila, molti avevano supposto che l'elettricità fosse solo uno stimolo esterno (e non una corrente interna) a cui il nervo reagisce attivando il 'fluido nervoso' o la vis nervosa, e suscitando la contrazione muscolare.

Le ricerche di Galvani furono proseguite da Leopoldo Nobili (1784-1835) e, soprattutto, da Matteucci, il quale tra gli anni Trenta e Quaranta, con ingegnosi esperimenti, giunse a dimostrare un flusso di corrente elettrica e quindi una differenza di potenziale ('potenziale di demarcazione' da cui deriverà il moderno concetto di 'potenziale di riposo'), tra la superficie e una sezione interna del muscolo. Egli arrivò a osservare una diminuzione di corrente durante la contrazione del muscolo, cioè una variazione negativa del potenziale di demarcazione (il fenomeno che sarà chiamato 'potenziale d'azione'). Tuttavia, nonostante queste importanti scoperte (allora interpretate correttamente da Antoine-César Becquerel) che inducevano ad assimilare l'impulso nervoso al fluido elettrico, con opinioni spesso oscillanti Matteucci preferì sostenere che l'elettricità si limita ad attivare una 'forza nervosa' peraltro sconosciuta, ha solo il compito ‒ secondo anche l'autorevole parere di François-Achille Longet (1842) ‒ di 'eccitare', così come farebbe un 'irritante' meccanico o chimico, una "forza nervosa intrinseca".

A partire dal 1841, Du Bois-Reymond cominciò a ripetere gli esperimenti di Matteucci con strumenti (i galvanometri) e procedure più raffinati e pervenne a dimostrare chiaramente e a interpretare correttamente il fenomeno dell'oscillazione negativa del potenziale di demarcazione nei nervi (e non solo nei muscoli), cioè il 'potenziale d'azione'; in tal modo pensò che si potesse identificare l'impulso nervoso con la corrente elettrica. Le sue scoperte e la sua teoria, più volte aggiornata, sono esposte nel trattato Untersuchungen über thierische Elektricität (Ricerche sull'elettricità animale, 1848).

Nel 1850, tuttavia, Hermann von Helmholtz (1821-1894) misurò la velocità dell'impulso nervoso e trovò che era molto più lenta di quanto ci si potesse aspettare per il passaggio di corrente elettrica in un conduttore. Questo risultato portò allora Du Bois-Reymond a rivedere la sua concezione dell'impulso nervoso e a ritenere che il segnale elettrico rivelato nel nervo non fosse altro che una manifestazione esterna di un sottostante meccanismo di conduzione nervosa ancora poco chiaro. Si deve invece a Ludimar Hermann (1838-1914) la dimostrazione che ciò che si propaga nel nervo non è tanto una corrente elettrica, quanto un''onda negativa' che lo percorre passo dopo passo. In questo modo si apriva la strada alla moderna teoria dell'impulso nervoso, identificato con un fenomeno elettrochimico basato sulla polarizzazione della membrana della fibra nervosa e sulla sua permeabilità al passaggio di ioni di sodio e di potassio.

I riflessi e i movimenti volontari

Allo studio delle vie nervose sensitive e motorie diede il via una grande scoperta, compiuta da François Magendie (1783-1855) nel 1822 e forse parzialmente anticipata da Charles Bell (1774-1842) nel 1811 (per questo sarà chiamata 'legge di Bell-Magendie'); con i loro esperimenti questi studiosi riuscirono a dimostrare che le radici posteriori e quelle anteriori dei nervi spinali svolgono, rispettivamente, le funzioni sensitive e le funzioni motorie e che, quindi, in questi nervi vi sono fibre distinte per le due funzioni, contro l'opinione precedente che attribuiva genericamente al nervo il compito di trasportare un impulso nervoso in direzione sia centripeta sia centrifuga. Tale distinzione prelude alla ricerca, favorita dai progressi dell'istologia, di altrettante, differenti e separate, vie nervose motorie, sensitive e sensoriali nel midollo e nell'encefalo. A questo punto nasce il problema dell'individuazione dei centri o strutture cerebrali cui fanno capo queste vie e che, presumibilmente, controllano i movimenti e le sensazioni.

Un altro importante risultato, realizzato da Marshall Hall (1790-1857) nella prima metà del secolo, è la spiegazione dell''arco riflesso' (termine da lui coniato) con il definitivo coinvolgimento del midollo spinale, il cui intervento nel controllo dei movimenti involontari era stato già ipotizzato nel Settecento da Robert Whytt, Johann August Unzer, Georg Prochaska e altri, con esperimenti su animali decapitati. Hall chiarisce in modo dettagliato che un movimento riflesso implica sempre: (a) uno stimolo esterno su un recettore sensoriale; (b) una fibra nervosa afferente che trasporta l'impulso nervoso dal recettore al midollo; (c) un centro midollare che converte ('riflette' donde il termine 'riflesso') un impulso centripeto in impulso centrifugo; (d) una fibra nervosa efferente che conduce l'impulso dal midollo alla periferia e al muscolo. Tale movimento si distingue, allora, sia dal movimento volontario direttamente comandato dal cervello, sia da quello respiratorio innescato dal bulbo, sia ancora da ogni altro movimento involontario indotto dall'applicazione diretta di uno stimolo alla fibra nervosa o al muscolo. In tal modo, a suo parere, si possono identificare entro l'asse cerebro-spinale un "sistema diastalico o eccito-motorio" (che comprende non solo il midollo spinale, ma in parte anche il midollo allungato) preposto al movimento involontario e inconscio, un "sistema cerebrale" che presiede all'attività volontaria e cosciente, "un sistema ganglionico" che controlla i movimenti della vita vegetativa.

Sulla scia di Hall, la maggior parte dei fisiologi ottocenteschi tende a dare al concetto di riflesso il significato di meccanismo semplice e rigido, di 'arco' lineare che mette in contatto diretto, tramite il midollo, uno stimolo specifico e una risposta muscolare isolata. Il comportamento animale è dunque sostanzialmente interpretato in termini di movimenti riflessi e movimenti volontari separati tra loro: i primi regolati dal midollo, i secondi da un centro cerebrale. Tale impostazione prevalente, tuttavia, aveva trovato alcuni critici, tra cui Johannes Peter Müller (1801-1858) ed Eduard Friedrich Wilhelm Pflüger (1829-1910), i quali, contrari a concepire il riflesso come un meccanismo elementare e delimitato, 'segmentario' e locale, pensavano che potesse riguardare, in modo più articolato e complesso, diverse strutture nervose anche a livello più elevato.

Con l'approfondimento delle conoscenze sull'impulso nervoso e sull'istologia dell'asse cerebro-spinale, lo studio dei riflessi progredisce rapidamente grazie al contributo di Rudolph Wagner, di Ivan Michajlovič Sečenov, di Pflüger e di molti altri. La concezione troppo 'segmentaria' di Hall tende a essere superata, sia perché si sviluppano le ricerche sull'encefalo, sia perché l'atto riflesso comincia a essere analizzato in sede clinica e a essere introdotto in patologia, nel senso che si interpretano le sue alterazioni come sintomi su cui fondare una diagnosi. Nel passaggio dal laboratorio del fisiologo all'osservazione clinica del patologo ci si rende conto di dover considerare l'arco riflesso nel contesto di tutto l'organismo visto nella sua integrità. Tale cambiamento d'impostazione, favorito dagli studi di John H. Jackson, alla fine del secolo apre la porta all'opera di Charles Sherrington.

Oltre ai meccanismi dell'azione riflessa, nel corso dell'Ottocento sono indagati anche i movimenti volontari, da sempre considerati dipendenti da strutture cerebrali. Grazie ai progressi della neuroistologia, si cominciano a tracciare le vie piramidali che dal cervello raggiungono il midollo spinale e si studiano le loro caratteristiche in ogni tratto del neurasse. Si conferma, in particolare, l'incrocio delle fibre al di sotto del bulbo, ma si mette in luce anche il fascio piramidale diretto. Inoltre, si pone il problema del centro motore più elevato da cui le vie motorie trarrebbero origine; e, per merito di Magendie prima e dei fisiologi inglesi Robert B. Todd (1809-1860) e William Bowman (1816-1892) poi, i corpi striati sono identificati come il centro motore encefalico da cui partirebbero le vie piramidali. Anche Pierre-Paul Broca, che pure aveva avanzato l'ipotesi del controllo del linguaggio da parte della corteccia cerebrale, nel saggio del 1861 ancora parla di lesioni dei corpi striati come causa di paralisi emiplegiche. A questa struttura, inoltre, rimane assegnato il controllo dei movimenti volontari prima che, nell'ultimo trentennio del secolo, si 'apra la caccia' ai centri motori corticali.

L'idea di un'implicazione della corteccia, abbozzata dapprima da Jean-Baptiste Bouillaud, inizia a svilupparsi solo negli anni Sessanta grazie alle brillanti e accurate osservazioni cliniche (in particolare, relative a paralisi e a convulsioni epilettiche) di Jackson. Tuttavia, bisognerà attendere il 1870 perché Gustav Theodor Fritsch ed Eduard Hitzig riescano a dare la prima dimostrazione sperimentale dell'esistenza della corteccia motoria, effettuando esperimenti di stimolazione elettrica (una tecnica ritenuta poco affidabile e da loro posta invece in primo piano) sui lobi frontali del cane. I loro esperimenti sono ripresi in modo sistematico e approfondito soprattutto da David Ferrier (1843-1928), il quale vuole estendere alle scimmie e ad altre specie le scoperte compiute sui cani ed effettua la stimolazione usando corrente faradica, ritenuta più adatta di quella galvanica a porre in luce movimenti intenzionali. Nell'opera The functions of the brain (1876) giunge così a dare una prima delimitazione della corteccia motoria, determinando anche quindici aree specifiche per altrettanti movimenti.

Lo studio del controllo del movimento è legato anche alle ricerche sul cervelletto. A questa struttura encefalica, descritta fin dall'Antichità classica, era stata attribuita una gran varietà di funzioni diverse; ma è solo agli inizi dell'Ottocento, con Luigi Rolando (1773-1831), che il cervelletto è collegato alla funzione motoria. Un passo avanti è compiuto nel 1824 da Marie-Jean-Pierre Flourens, che dimostra come esso presieda alla coordinazione dei movimenti volontari, alla postura e all'equilibrio, agendo in modo 'equipotenziale' come un organo unitario.

L'interpretazione fisiologica del cervelletto si affina solo alla fine del secolo, grazie anche alla conoscenza delle sue caratteristiche istologiche, dovuta alle osservazioni microscopiche di Jan Evangelista Purkynje prima (da cui le 'cellule di Purkynje') e di Camillo Golgi poi. Si possono rammentare in particolare le ricerche di Sherrington, che considera il cervelletto come la principale struttura preposta al sistema propriocettivo, regolatrice del tono muscolare, e gli studi di Joseph Babinski (1857-1932), che ne approfondisce il ruolo nella conservazione dell'equilibrio. Tuttavia sono soprattutto le indagini di Luigi Luciani (1840-1919) sui cani e sulle scimmie che chiariscono meglio le funzioni del cervelletto, dimostrando come lesioni prodotte sperimentalmente provocano atonia o perdita del tono muscolare, astenia o diminuzione dell'energia dei muscoli, atassia o alterazione nella contrazione muscolare e nell'esecuzione dei movimenti.

Gli organi, le vie e i centri sensoriali

Per quanto riguarda le funzioni sensoriali, nel corso del XIX sec. si studiano attentamente i rapporti tra il neurasse e gli stimoli esterni. In questo campo, un contributo fondamentale è fornito da Müller, che formula la cosiddetta 'legge delle energie specifiche dei sensi' (enunciata nel 1826 e presentata in forma più elaborata nel suo celebre Handbuch der Physiologie des Menschen, Manuale di fisiologia umana, 1833-1840). In breve, tale legge asserisce che ogni apparato sensoriale reagisce sempre allo stesso modo (con la medesima sensazione) a stimoli diversi (per es., a stimoli meccanici, termici, luminosi, elettrici e d'altro genere); e, viceversa, uno stesso stimolo provoca in differenti organi di senso risposte sensoriali dissimili. Con questa legge, in fondo, Müller intendeva sostenere che per ogni qualità sensoriale (per ogni genere di sensazione visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile) vi sono differenti e specifici tipi di recettori, di nervi, di centri nervosi, e che solamente essi, e non altri, hanno la capacità di suscitare quella determinata sensazione, in maniera relativamente indipendente dalla natura fisica dello stimolo. In tal modo si superava l'idea tradizionale di un sistema nervoso alquanto indifferenziato adibito al semplice trasporto degli stimoli esterni a un sensorium commune, la sola struttura preposta alla sensazione; e si apriva la strada all'approfondimento delle caratteristiche della mediazione sensoriale del neurasse e, quindi, allo sviluppo delle ricerche sulla fisiologia e sull'anatomia degli organi di senso. Per lo studio di questi ultimi, una pietra miliare è posta alla metà del secolo dai trattati di Hermann von Helmholtz (1821-1894) sulla vista (Handbuch der physiologischen Optik, Manuale di ottica fisiologica, 1856-1867) e sull'udito (Die Lehre von den Tonempfindungen als physiologische Grundlage für die Theorie der Musik, La scienza della percezione dei toni come fondamento fisiologico della teoria della musica, 1863).

Fin dall'antica civiltà egizia, l'occhio e il fenomeno della visione erano stati oggetto di studio e di speculazione da parte di medici e di filosofi. Tuttavia è solamente nel XVII sec. che si giunge a una discreta conoscenza anatomica dell'occhio, si arriva a comprendere il ruolo di recettore sensitivo della retina e si cominciano a seguire i percorsi del nervo ottico nel cervello. Durante il Settecento si pone in evidenza l'incrocio delle fibre nel chiasmo ottico (osservazione anticipata da Isaac Newton e confermata da Johann Gottfried Zinn), sono messi in luce i corpi genicolati come termine dei 'tratti ottici' (Giovanni Domenico Santorini), è descritta una particolare struttura bianca della corteccia nella zona calcarina del lobo occipitale denominata 'stria di Gennari' (dal nome del suo scopritore Francesco Gennari), ma non le è assegnato alcun ruolo nella funzione visiva.

I progressi della microscopia durante il XIX sec. conducono a un approfondimento della conoscenza della struttura della retina (Gottfried Reinhold Treviranus, Friedrich Heinrich Bidder, Adolph Hannover, Heinrich Müller, Alfonso Corti), grazie alla distinzione morfologica e funzionale tra i bastoncelli e i coni (Rudolf Albert von Kölliker, Hermann Rudolf Aubert e soprattutto Max Johann Sigismund Schultze negli anni Sessanta, cui seguono gli studi di Henri Parinaud e Augustin Charpentier) e alla scoperta della rodopsina, o porpora retinica, collegata ai bastoncelli compiuta da Franz Christian Boll negli anni Settanta. Solo alla fine del secolo, tuttavia, grazie al metodo microscopico della 'reazione nera', Golgi e Santiago Ramón y Cajal (1852-1934) giungono a chiarire che i recettori della retina non sono terminazioni del nervo ottico ma cellule indipendenti, collegate alle cellule bipolari, le quali sono a loro volta connesse con le cellule gangliari da cui partono le fibre ottiche.

Un'altra questione affrontata nel XIX sec. riguarda i centri di arrivo delle vie ottiche. Prima che l'indagine si spingesse alla corteccia cerebrale, si riteneva che fosse il talamo (e in particolare, per alcuni, i corpi genicolati laterali) a costituire il centro cerebrale che presiede alla funzione visiva. Per la verità, nella prima metà dell'Ottocento, vi erano stati alcuni accenni a un possibile ruolo della corteccia; gli anatomici Pierre Gratiolet e Theodor Hermann Meynert avevano espresso l'opinione che alcune fibre ottiche si portassero dal talamo alla corteccia occipitale e parietale; Bouillaud, Albrecht von Graefe e, soprattutto, Bartolomeo Panizza (1785-1867), sulla base di osservazioni cliniche ed esperimenti su animali, avevano esplicitamente suggerito che la corteccia potesse essere implicata nella visione. Del resto, lo stesso Flourens aveva posto in luce come l'ablazione di parte degli emisferi rendesse cieco l'animale; ma aveva attribuito questo fatto alla perdita di una funzione psichica (la percezione) collegata all'insieme della corteccia e non alla perdita della funzione sensoriale della vista, che invece riteneva dipendesse da strutture sottocorticali. Fu, tuttavia, soltanto negli anni Settanta, a partire dagli esperimenti (in questo caso errati) di Ferrier (nel 1876 e nel 1878), che si cominciarono a ricercare i centri corticali della visione e, da parte di Hermann Munk, nel 1881, con il concorso di Luciani e Augusto Tamburini, nel 1879, e di Edward Albert Sharpey-Schäfer, si giunse a identificare in modo corretto l'area visiva nella corteccia occipitale.

Parte delle indagini sulla fisiologia dell'occhio riguardava la percezione dei colori. Agli inizi del XIX sec., Thomas Young (1773-1829) aveva elaborato una teoria fisiologica 'tricromatica', secondo la quale esisterebbero tre sensazioni elementari di colore (identificate dapprima nel rosso, giallo e blu, e poi nel rosso, verde e violetto), corrispondenti a tre specie diverse di 'elementi' della retina: le varie percezioni di colore sarebbero la risultante di queste tre sensazioni primarie, più o meno intense. Alla metà del secolo Helmholtz riprende la teoria di Young arricchendola con numerose conferme sperimentali ma anche con alcune modifiche, tanto che essa diverrà nota come 'teoria tricromatica di Young-Helmholtz' sulla visione del colore. In base alla dottrina delle 'energie specifiche dei sensi' di Müller, Helmholtz pensa che vi siano tre specie diverse di fibre nervose che, stimolate da differenti lunghezze d'onda, danno origine rispettivamente alle sensazioni del rosso, verde e violetto; in tal modo la luce omogenea, con le sue varie lunghezze d'onda, stimolerebbe in diversa misura queste fibre, dalla cui azione combinata gli occhi normali possono distinguere tutti i colori. Nel frattempo, gli sviluppi della microscopia giungono a collegare la visione dei colori ai coni disposti nella fovea centralis o 'macchia gialla della retina', ma fanno sorgere il problema di distinguere da un punto di vista istologico tre tipi di recettori per i tre colori primari. Non riuscendo a ottenere tale distinzione (che sarà compiuta solo più tardi nel XX sec.), si avanza allora l'ipotesi che ogni cono della retina sia in qualche modo preposto a tutti e tre i colori fondamentali.

A partire dagli anni Settanta, alla teoria di Young-Helmholtz si oppone in parte Karl Ewald Hering (1834-1918), che si riallaccia alla tradizione di Goethe ripresa da Purkynje e studia l'aspetto soggettivo della visione. La sua teoria si basa sull'idea che i colori primari percepiti siano quattro e non tre come affermato dalla dottrina tricromatica: al rosso, al verde e al blu egli affianca infatti il giallo. Sostiene poi che sono da considerarsi come colori opposti, da un lato, il giallo e il blu e, dall'altro lato, il rosso e il verde ('teoria dei colori opposti'), e che, nella scala filogenetica, alla visione in bianco e nero si sarebbero poi aggiunte in successione quella in giallo-blu e, infine, quella in rosso-verde. Formula inoltre l'ipotesi che la visione cromatica dipenderebbe da particolari 'eventi chimici' che si verificano a livello dei recettori ("assimilazione o dissimilazione") in conseguenza delle diverse lunghezze d'onda dello stimolo luminoso. Il modello di Hering spiegava molti fenomeni, tra cui la visione in bianco e nero, il contrasto dei colori, la persistenza dell'immagine retinica e alcune forme di daltonismo (protanopia e deuteranopia); tuttavia, malgrado gli aspetti innovativi, non ebbe il consenso della maggioranza degli scienziati.

Per quanto concerne l'udito, riprendendo idee e osservazioni di Antonio Maria Valsalva, Joseph-Guichard Duverney e Haller, Domenico Cotugno (1736-1822) nella seconda metà del XVIII sec. aveva elaborato un'articolata teoria della sensazione uditiva, fondata sulla trasmissione del suono attraverso un mezzo liquido (da lui scoperto negli acquedotti dell'orecchio interno) anziché aeriforme, come sostenevano le dottrine tradizionali. Nella prima metà dell'Ottocento, le ricerche di Bell, Müller, Flourens, Ernst Heinrich Weber, Adam Politzer, Ernst Reissner e, soprattutto, di Alfonso Corti (1822-1876) chiarirono molti aspetti dell'anatomia e della fisiologia dell'orecchio. In particolare Corti, nel 1851, con accurate osservazioni microscopiche, oltre a identificare alcune tra le più importanti formazioni contenute nella coclea, descrisse sulla membrana basilare una serie di 'pilastrini' (grosse cellule a bastoncello) su cui poggiavano le cellule sensoriali ciliate, individuando l'organo recettore degli stimoli uditivi (chiamato in suo onore 'organo del Corti'), con cui sono in rapporto le terminazioni del nervo acustico.

Sulla base delle più aggiornate ricerche anatomiche e conoscenze di acustica, poco tempo dopo Helmholtz elaborò una 'teoria della risonanza' che, malgrado critiche e modifiche, rimase per molti anni un punto di riferimento negli studi sull'audizione. Secondo questa teoria, il padiglione raccoglie le onde sonore che raggiungono il timpano e lo fanno vibrare; la catena di ossicini, poi, agisce come un sistema di leve che amplifica la vibrazione; si crea così una pressione sui liquidi dell'orecchio interno che mettono in tensione i pilastrini della membrana basilare. Questi funzionerebbero allora come 'risonatori', alcuni producendo i suoni alti e altri i suoni bassi; ogni risonatore è collegato a sua volta con una fibra nervosa per inviare il suo specifico messaggio al cervello.

Oltre all'anatomia e fisiologia dell'orecchio, si studiano anche le 'vie uditive' nell'encefalo, specialmente da parte di Otto Friedrich Karl Deiters, Vladimir Bekhterev, Sigmund Freud, Hans Held, Kölliker, Ramón y Cajal. Si distinguono, in tal modo, un ramo cocleare e un ramo vestibolare del nervo; si comprende che il primo è preposto alla trasmissione degli stimoli uditivi e prende origine dall'organo del Corti; il secondo presiede invece agli stimoli connessi con l'equilibrio e proviene dall'apparato labirintico non acustico. Le fibre uditive penetrano quindi nel bulbo, distribuendosi ai nuclei cocleari anteriore e dorsale, e proseguono attraverso il corpo genicolato mediale fino a raggiungere il lobo temporale, identificato da Ferrier alla metà degli anni Settanta come il centro della sensazione uditiva.

Gli organi, le vie e i centri nervosi dell'olfatto, del gusto e del tatto cominciano anch'essi a essere studiati e compresi, sebbene i maggiori risultati si ottengano a partire dagli ultimi decenni del secolo. In particolare, si registrano progressi nella classificazione degli odori e nella fisiologia dell'apparato olfattivo (Hippolyte Cloquet), nell'identificazione dei cosiddetti 'odori primari' da cui deriverebbero tutti gli altri (Hendrik Zwaardemaker), nella individuazione delle caratteristiche chimiche degli stimoli olfattivi (Weber, William Ramsay, John B. Haycraft), nell'istologia dei recettori dell'olfatto (Conrad Eckhard, Schultze), nello studio del nervo e delle vie olfattive (Magendie, Gabriel Gustav Valentin, Moritz Schiff, Kölliker, Golgi, Ramón y Cajal), nella ricerca del centro corticale dell'olfatto (dagli studi clinici di William Ogle e Jackson ai tentativi di localizzazione di Ferrier), nelle indagini psicofisiche sulla percezione olfattiva (con la costruzione da parte di Zwaardemaker del primo 'olfattometro' nel 1887). Risultati significativi si acquisiscono anche nella classificazione dei cosiddetti 'sapori primari' (a partire dalla distinzione di Haller tra dolce, amaro, acido e salato, fino alle classificazioni di Valentin, Edward B. Titchener, Federico Kiesow) e nella determinazione delle loro basi chimiche. Successi si raggiungono inoltre nello studio dei recettori del gusto individuati non solo nelle papille della lingua ma anche in altre parti del cavo orale (Bell, Müller), nella loro discriminazione in base al genere di sapore suscitato (Kiesow, Hjalmar Öhrwall) e nella spiegazione del meccanismo di attivazione del recettore (Haycraft); e ancora nella scoperta dei 'bottoni gustativi' da parte di Gustav Schwalbe e Christian Lovén. Alquanto incerta invece, almeno fino al XX sec., rimane l'identificazione dei nervi cranici e delle aree corticali coinvolti nella sensazione gustativa.

Per quanto riguarda l'organo cutaneo e la sensazione tattile, contributi importanti sono forniti da Magnus Blix, Alfred Goldscheider, Henry Donaldson, Filippo Pacini, Max von Frey e altri, anche se la fisiologia e l'istologia del complesso apparato diviene più chiara solo nel XX secolo. Occorre anche notare che, a mano a mano che si approfondiva la conoscenza dei rapporti tra la struttura del recettore e lo stimolo fisico, facevano la loro comparsa problemi propriamente psicofisici. Questo accadde specialmente nelle ricerche sulla sensibilità tattile, nella quale lo stimolo agisce quasi direttamente sui nervi, senza la mediazione di un complicato apparato recettore come l'occhio e l'orecchio. Dobbiamo a Ernst Heinrich Weber (1795-1878) le prime vere ricerche a carattere psicofisico, condotte a Lipsia tra il 1830 e il 1850, e riprese in seguito da Gustav Theodor Fechner (1801-1887) che, nel 1860, pervenne alla formulazione della legge del rapporto logaritmico tra lo stimolo e la sensazione ('legge di Weber-Fechner'), la quale costituirà una tappa fondamentale per la nascita della psicologia scientifica.

La ricerca di una sede della mente

Nello studio del processo nervoso che collega la stimolazione sensoriale e la risposta motoria si registrano dunque, nella prima metà dell'Ottocento, notevoli risultati, con brillanti scoperte sull'impulso nervoso, sui movimenti riflessi e volontari, sugli organi e le vie sensoriali, sui centri nervosi sottocorticali, quali per esempio il cervelletto, il talamo, i corpi striati. Accanto a questo vasto e principale campo di indagini, però, è presente anche un certo interesse nei riguardi dell'individuazione del 'luogo' della mente, ossia una struttura cerebrale da considerare come sede od organo dell'attività psichica. È proprio nell'ambito di questo secondo campo di studi che si comincia a comprendere l'importanza della corteccia cerebrale, senza tuttavia realizzare passi avanti decisivi fino al 1870, allorché si aprirà la grande stagione delle localizzazioni corticali.

La storia di questa lunga rincorsa all''organo' delle attività mentali e la spiegazione del 'ritardo' nelle indagini sugli emisferi cerebrali passa attraverso le figure di Franz Joseph Gall e di Flourens. Nella prima metà del secolo, infatti, furono soprattutto questi due scienziati a rivolgere la maggiore attenzione alla corteccia cerebrale e a porsi il problema riguardo alle funzioni psichiche; tuttavia i risultati in parte errati da essi conseguiti furono di ostacolo a una corretta impostazione degli studi sulle localizzazioni corticali.

Gall

Di famiglia di origine italiana, Franz Joseph Gall (1758-1828) compì gli studi medici a Strasburgo e a Vienna, dove esercitò con successo la medicina e pubblicò un primo lavoro (1791), nel quale anticipava i temi della sua dottrina. Accusato di sostenere tesi di carattere materialistico, contrarie alla morale e alla religione, dovette lasciare Vienna e si recò a Parigi, dove iniziò una proficua collaborazione con Johann Gaspar Spurzheim (1776-1832), insieme al quale compì le più importanti ricerche neuroanatomiche, rese pubbliche in una memoria presentata all'Institut de France nel 1808. Negli anni seguenti, tenne corsi d'insegnamento e pubblicò le opere maggiori (Anatomie et physionomie du système nerveux en général et du cerveau en particulier, 1810-1819, in quattro volumi di cui i primi due in collaborazione con Spurzheim; Sur les fonctions du cerveau et sur celles de chacune de ses parties, 1822-1825), circondato da seguaci e ammiratori ma anche da critici severi.

Come anatomico, Gall rinnovò i metodi di dissezione del cervello e formulò l'idea, suggerita dall'anatomia comparata, che il midollo spinale rappresenti l'elemento primitivo del sistema nervoso e che il cervello ne sia un'estensione, sovrapposta al midollo allungato. Studiò a lungo la corteccia cerebrale, fino ad allora trascurata, ponendo in evidenza la continuità e l'unità di questa struttura malgrado l'apparente frantumazione in tante circonvoluzioni; e ne sottolineò l'importanza, considerandola come il 'livello' più elevato del sistema nervoso, origine delle fibre bianche: nessuno, prima di lui, aveva dato tanto risalto a questa struttura.

La fama di Gall, tuttavia, è legata soprattutto alla sua teoria delle funzioni del cervello. Influenzato dalla dottrina di Johann Gottfried von Herder e ispirandosi ad alcuni temi della biologia romantica, considerò gli animali e l'uomo parte di un unico piano che postulava una continuità di strutture e funzioni fra tutti i viventi e fra questi e la Natura; quindi concepì la fisiologia del cervello come un insieme di conoscenze volto a spiegare il comportamento dell'uomo e degli animali nel loro ambiente naturale, conoscenze fondate sulla comprensione del funzionamento differenziato della corteccia cerebrale. A tal fine, traendo spunto dall'organologia di Charles Bonnet e dalla fisiognomica di Johann Caspar Lavater, suddivise la corteccia del cervello e del cervelletto in tanti territori distinti, come fosse una carta geografica, e interpretò ogni area corticale come un 'organo' separato dagli altri, al quale è possibile associare una determinata facoltà psichica. Ritenne quindi che l'attività mentale dovesse essere classificata non tanto nelle tradizionali facoltà 'generali' (percezione, immaginazione, memoria, intelletto, volontà e simili), quanto in nuove facoltà 'particolari' che fossero in grado di chiarire meglio il comportamento dell'uomo e degli animali nel loro ambiente naturale, di spiegare piuttosto le differenze che le somiglianze; facoltà che suppose innate, non però nel senso delle idee o principî innati e a priori della tradizione razionalistica ma nel senso di 'potenzialità', 'capacità', 'disposizioni' biologiche date, differenti da specie a specie e da individuo a individuo, e 'attivate' dall'esperienza dei sensi.

Cercò allora d'identificare in maniera empirica ‒ con riferimento al comportamento dell'uomo e degli animali ‒ un elenco di 'nuove' facoltà psichiche (variamente designate anche con i termini: instinct, disposition, penchant, sentiment, sens, talent, esprit), considerate primitive (cioè non riducibili a elementi più semplici) e indipendenti l'una dall'altra, giungendo a individuarne e classificarne ventisette, ripartite in tre gruppi. Le prime dieci sono comuni all'uomo e a tutti i vertebrati (per es., l'istinto di riproduzione, l'amore per la prole, l'istinto di conservazione, ecc.); altre nove (dall'undicesima alla diciannovesima) sono quelle che l'uomo condivide solamente con i vertebrati superiori (per es., la memoria degli oggetti, dei luoghi e delle parole, il senso dei colori e dei suoni, ecc.); le ultime otto sono proprie esclusivamente dell'uomo (per es., lo spirito metafisico, il talento poetico, il senso morale, il sentimento religioso, ecc.). Collegò, infine, basandosi sempre su osservazioni empiriche, ciascuna di queste facoltà a un organo corticale: le prime diciannove "forze fondamentali, qualità e facoltà primitive" furono poste in aree cerebrali situate nella parte posteriore e centrale del cranio; le altre otto "facoltà intellettuali e qualità morali che distinguono essenzialmente la specie umana" furono dislocate in aree della parte anteriore. In tal modo, Gall costruì un particolare tipo di 'organologia'.

A queste prime ipotesi Gall ne aggiunse altre, che diedero vita alla 'cranioscopia', divulgata da Spurzheim come 'frenologia'. Suppose che ogni organo corticale fosse tanto più sviluppato quanto più lo era la facoltà a esso connessa e che la dimensione dell'organo potesse essere rilevata dall'esame della corrispondente protuberanza o depressione della scatola cranica. In questo modo, esaminando la conformazione, l''orografia' del capo, si sarebbe potuto risalire alla consistenza degli organi corticali sottostanti e, quindi, allo sviluppo delle facoltà psichiche a essi collegate: ne sarebbe derivata una ricostruzione delle attitudini, e in generale del carattere e della personalità, di ogni individuo.

L'opera di Gall fu subito soggetta a molte critiche e assai aspre furono le polemiche contro la frenologia. Si rimproverava soprattutto al medico tedesco di aver costruito un castello teorico poggiato sulla sabbia e di aver preferito un metodo osservativo (il metodo cranioscopico), di dubbio valore scientifico, al metodo sperimentale da lui ritenuto insufficiente e che invece stava divenendo il cardine del rinnovamento degli studi fisiologici. Nonostante i dubbi e le critiche suscitati, la frenologia costituì un movimento scientifico e culturale di vasta portata, che si diffuse ampiamente in Francia (soprattutto a opera di François-Joseph-Victor Broussais), in Inghilterra (specialmente sotto la spinta di George Combe), in Italia (con l'intervento di Jean-Antoine-Laurent Fossati), nel resto dell'Europa e negli Stati Uniti.

Se da un punto di vista strettamente scientifico le tesi dei frenologi oggi non presentano alcun interesse, da un punto di vista storico, invece, è stato riconosciuto loro un ruolo di primo piano nel processo di sviluppo della neurofisiologia del XIX secolo. Esse hanno avuto, infatti, il grande merito di promuovere lo studio anatomico del cervello, di indirizzare la ricerca verso lo studio della corteccia cerebrale (in precedenza tenuta in poco conto), di avvalorare e rendere familiare il concetto delle localizzazioni cerebrali (pur se le localizzazioni proposte erano assai discutibili e non frutto di indagini sperimentali), di riaffermare la tesi secondo cui tutti i fenomeni psichici (non solo l'intelletto ma anche le passioni) sono funzioni del cervello (in analogia con tutti gli organi e funzioni del corpo), di contribuire al distacco della psicologia dalla filosofia per avvicinarla alle scienze biologiche, di accelerare (grazie alla cranioscopia) il progresso dell'antropologia fisica.

Flourens

Lo scienziato che, invece, nella prima metà dell'Ottocento, affrontò in modo 'sperimentale' il problema della localizzazione della mente nel cervello fu il neurofisiologo francese Marie-Jean-Pierre Flourens (1794-1867). A partire dagli anni Venti, compì una serie di esperimenti sul sistema nervoso di animali vivi, utilizzando punture, lesioni e ablazioni al fine di comprendere quali funzioni svolgessero le diverse parti dell'asse cerebrospinale, e pubblicò i suoi risultati nell'opera Recherches expérimentales sur les propriétés et les fonctions du système nerveux dans les animaux vertébrés del 1824.

Lavorando con tali tecniche, pervenne ad alcuni risultati nuovi, a vere e proprie scoperte: in particolare, alla precisa localizzazione del centro bulbare della respirazione (in parte anticipato da Anne-Charles de Lorry e Julien-Jean-César Legallois) e alla determinazione della funzione del cervelletto come organo di coordinazione dei movimenti di locomozione. Fornendo la prima dimostrazione sperimentale della dipendenza dalla corteccia cerebrale di tutte le funzioni psichiche o mentali mise in evidenza il ruolo preminente di questa struttura. Prima dei suoi esperimenti di ablazione della corteccia, infatti, ancora incerta e indeterminata era la sede dell'attività mentale, la struttura alla quale collegare le funzioni intellettive, e gli emisferi erano considerati il 'luogo' della psiche solamente sulla base delle discutibili osservazioni effettuate da Gall. Flourens invece dimostrò che, asportando successivamente parti sempre più ampie di corteccia cerebrale, nell'animale venivano meno, fino a scomparire, facoltà che egli interpretò come mentali e designò con il termine 'intelligenza', e cioè le cinque percezioni della vista, dell'udito, dell'odorato, del gusto e del tatto, la capacità di ricordare ossia la memoria, l'abilità di connettere tra loro le esperienze o giudizio, la capacità di compiere certe azioni vale a dire la volontà.

Tuttavia, accanto a questi risultati positivi, bisogna registrare anche alcune conclusioni che, alla luce delle conoscenze successive, non soltanto devono essere considerate errate, ma ebbero anche un certo peso negli sviluppi delle ricerche neurofisiologiche. Flourens, infatti, da un lato affermò che gli emisferi cerebrali non erano collegati alla sensazione e al movimento e, dall'altro lato, che non era possibile suddividerli in aree funzionalmente distinte. Negò quindi che alla corteccia appartenessero centri sensitivi e motori (che continuò a porre nelle strutture sottostanti) e asserì, inoltre, che in essa non potevano essere individuate specifiche aree preposte a funzioni o facoltà mentali diverse, come in fondo sosteneva la teoria frenologica.

Ispirandosi al dualismo cartesiano, concepì invece la corteccia cerebrale come una struttura unica e indivisibile che fungeva da 'sede' della mente e interpretò anche quest'ultima come qualcosa di unitario invece che come una somma di molteplici facoltà. Respinse perciò qualsiasi ipotesi di localizzazione di singole facoltà psichiche, così come aveva suggerito la dottrina di Gall. Gli emisferi cerebrali, sede della 'intelligenza', erano in tal modo separati dal resto del sistema nervoso e, in particolare, dai centri motori e sensitivi, con i quali entravano in rapporto in maniera non chiarita.

Queste conclusioni di Flourens, che attualmente riconosciamo sbagliate, per un verso erano certamente dovute a una tecnica sperimentale, la stimolazione meccanica e l'ablazione, ancora troppo rozza per operare in modo attendibile su una struttura così fine e delicata come è la corteccia cerebrale. Per un altro verso, erano conseguenza della concezione del dualismo interazionista circa i rapporti mente-cervello, concezione accettata da Flourens e resa esplicita nei suoi scritti di carattere filosofico. In ogni caso, le sue conclusioni, così nette e autorevoli, non rimasero senza conseguenze. Se da un lato, infatti, egli era riuscito a dimostrare sperimentalmente quale fosse il luogo delle attività mentali e a rivelare tutta l'importanza della corteccia cerebrale, dall'altro lato però aveva separato quest'ultima dal resto del neurasse finendo in tal modo per ostacolare ulteriori approfondimenti della fisiologia degli emisferi.

Le sue affermazioni errate divennero per molti anni quasi un dogma che fu impresa lunga e faticosa rimuovere. Il superamento avvenne solo nel 1870, quando due scienziati tedeschi, Gustav Theodor Fritsch ed Eduard Hitzig, compiendo esperimenti di stimolazione elettrica della corteccia (una tecnica sperimentale non adoperata da Flourens), dimostrarono che alcune sue aree controllano la contrazione muscolare. Con questo risultato, aprirono la strada a un'indagine sistematica ‒ che fiorì negli ultimi decenni dell'Ottocento ‒ sugli emisferi cerebrali per localizzare in essi le funzioni motorie e sensoriali e, più in generale, le funzioni psichiche.

Verso lo studio della corteccia cerebrale: il contributo di Jackson

Dopo la battaglia vittoriosa di Flourens contro Gall, alla possibilità di localizzazioni corticali era stato lasciato aperto uno spiraglio in seguito alle ricerche dei neurologi francesi Jean-Baptiste Bouillaud (1796-1881) e Pierre-Paul Broca (1824-1880), che avevano subito il fascino della frenologia. Bouillaud, suggestionato dall'ipotesi di Gall di una localizzazione della 'memoria verbale' nei lobi frontali, aveva cercato di dimostrare il nesso esistente tra le lesioni riguardanti quest'area e la perdita della parola. Broca, anatomopatologo e antropologo, aveva deciso di sottoporre a verifica la tesi di Bouillaud e, con una famosa autopsia eseguita nell'ospedale parigino di Bicêtre su un uomo che per molti anni era stato incapace di parlare, aveva individuato nella terza circonvoluzione frontale sinistra della corteccia il centro del linguaggio articolato. In tal modo, per la prima volta, era stato possibile dimostrare, in modo scientificamente convincente, che una piccola area della corteccia controllava una funzione mentale specifica. Si riaccese perciò un nuovo interesse per la differenziazione funzionale degli emisferi cerebrali, in genere accantonata per il discusso credito dei frenologi e per la conclusione unitaristica di Flourens che teorizzava una 'equipotenzialità' di tutta la corteccia. Quest'ultima, infatti, interpretata o come composta da tanti organi quante sono le facoltà psichiche oppure come sede unitaria dell'anima, finiva per essere considerata separata dal resto del sistema nervoso, preposto invece alle funzioni nervose 'inferiori', cioè al controllo della sensazione, del movimento e della vita vegetativa.

La situazione cambiò in modo notevole a partire dagli anni Settanta, grazie soprattutto al contributo sperimentale di Fritsch e Hitzig, per alcuni versi anticipati da Broca e Jackson. I due tedeschi pubblicarono un lavoro (Über die elektrische Erregbarkeit des Grosshirns, Sull'eccitabilità elettrica del cervello, 1870) in cui dimostrarono per la prima volta che gli emisferi controllano anche attività motorie, cioè funzioni 'inferiori' ritenute fino ad allora legate solamente a strutture nervose sottocorticali. I loro esperimenti si inserivano in un mutato clima culturale ed erano il risultato di una profonda trasformazione concettuale, per la quale diveniva insostenibile l'idea di una separazione dell'asse cerebrospinale in due parti distinte: una responsabile delle funzioni psichiche e l'altra della sensazione, del movimento e della vita vegetativa.

Si fa strada, dunque, un nuovo modo di concepire l'architettura funzionale del sistema nervoso. In primo luogo, esso è considerato come un unico apparato privo di fratture essenziali, di cui la corteccia è non soltanto una parte integrante ma possiede anche un ruolo rilevante. In secondo luogo, esso è interpretato come un sistema di parti gerarchicamente ordinate, dalla cui coordinazione e integrazione dipenderebbero tutte le funzioni, sia le cosiddette 'inferiori' sia le asserite 'superiori'. La corteccia diviene, allora, oggetto di approfonditi studi e si compie un grande sforzo allo scopo di individuare in essa le aree specifiche capaci di controllare le funzioni motorie, sensitive e sensoriali, nonché le funzioni più propriamente mentali.

Nasce in tal modo il programma di ricerca delle localizzazioni corticali, favorito anche da una concezione di parallelismo psicofisico per quanto riguarda il problema filosofico dei rapporti mente-cervello. Tale posizione, espressa per esempio da Jackson e da Ferrier, si presentava come un superamento delle opposte dottrine del dualismo interazionista e del monismo materialistico, dottrine, queste, che, ispirando rispettivamente le indagini di Flourens e di Gall, avevano contribuito al fallimento della loro fisiologia cerebrale.

La nuova impostazione della ricerca neurofisiologica è promossa, tra gli altri, dal clinico e psichiatra inglese John H. Jackson (1835-1911), divenuto noto per i suoi studi concernenti le paralisi e l'afasia compiuti a partire dagli anni Sessanta del secolo. Ispirandosi all'associazionismo evoluzionistico di Herbert Spencer, sulla scorta delle osservazioni effettuate su diversi pazienti malati di mente o con danni neurologici, Jackson spazza via ogni residua tentazione di fare della corteccia un organo speciale e interpreta tutto il sistema nervoso come una macchina senso-motoria, ovverosia come un sistema la cui funzione precipua è quella di coordinare le sensazioni e i movimenti attraverso diversi centri nervosi, a mano a mano più complicati fino a quelli posti nella corteccia.

La teoria dell'evoluzione aveva indotto a prospettare un principio di continuità nell'organizzazione funzionale del sistema nervoso: se essa era vera, e i centri nervosi più elevati non erano altro che uno stadio evolutivo più avanzato, allora anche questi ultimi andavano interpretati con il modello stimolo-risposta, pure se il meccanismo appariva assai più complesso. Jackson avanza quindi l'ipotesi che esista una serie di centri nervosi strutturati gerarchicamente, in modo tale cioè da formare tre livelli o gradi di organizzazione anatomica e funzionale, venutisi a creare in fasi successive nel corso della filogenesi. A suo parere, il processo evolutivo avrebbe aggiunto ai centri inferiori, più semplici, più automatici e più organizzati, i centri superiori, più complessi, più volontari e meno organizzati, responsabili delle funzioni mentali più elevate. Inoltre, egli suppone che le varie manifestazioni patologiche, nervose e mentali, a seconda della loro caratteristica e gravità, dipendano da una 'dissoluzione' del sistema nervoso, cioè da un processo degenerativo, involutivo, che parte dai centri senso-motori più elevati fino a toccare via via quelli inferiori.

Con la teoria jacksoniana è dunque superata la frattura tra una corteccia cerebrale, sede delle facoltà psichiche, e i centri motori e sensoriali posti al di sotto di essa, dai quali trarre informazioni sul mondo esterno e sui quali agire per produrre le 'risposte', ed è affermata una continuità gerarchica di strutture e di funzioni. Cadeva così tutto l'oscuro gioco delle interazioni tra la mente, gli emisferi e i centri sensitivi e motori sottocorticali. Pur rinunciando a qualsiasi forma d'interazionismo, Jackson tuttavia non ridusse tout court lo psichico al fisico ma adottò per il mind-body problem la soluzione del parallelismo psicofisico, che allora stava guadagnando molti proseliti.

In questo nuovo clima filosofico-culturale e dopo le cruciali scoperte di Fritsch e Hitzig, altri neurologi proseguirono l'indagine sulla corteccia cerebrale, effettuando esperimenti di stimolazione elettrica, meccanica e di ablazione. A queste tecniche di neurofisiologia sperimentale, che erano condotte in laboratorio su specie diverse di animali vivi, si affiancarono i metodi osservativi più tradizionali della clinica e dell'anatomia patologica applicati a pazienti con danni neurologici, metodi indispensabili per avere informazioni sul cervello dell'uomo. Inoltre, per poter estendere a quest'ultimo i risultati ottenuti sugli animali, cominciarono a essere utilizzate anche tecniche di neurochirurgia, con stimolazioni su cervelli umani nel corso di operazioni chirurgiche. Si tenne conto, infine, delle indagini dei neuroanatomisti, i quali tendevano a identificare e classificare territori istologicamente diversi e a costruire una 'citoarchitettonica' e una 'mieloarchitettonica' del cervello. Spesso uno stesso scienziato operava a un tempo come neurofisiologo e clinico, come istologo e neurochirurgo.

Ebbe inizio, così, quella che è stata chiamata "l'età d'oro delle localizzazioni cerebrali" (Hécaen 1977), che si protrasse fino alla Prima guerra mondiale e in cui si giunse a individuare le principali aree motorie, sensitive e sensoriali, nonché a indicare altre zone legate a funzioni psichiche o mentali, quali il linguaggio. A quest'ultimo e ai suoi disturbi, dopo gli studi di Broca, si interessarono Jackson, Henry C. Bastian e soprattutto Carl Wernicke (1848-1905), che distinse il centro di Broca per l'emissione del linguaggio (afasia motoria) da un centro da lui scoperto per la sua ricezione e comprensione (afasia sensoriale), considerati tuttavia non nettamente separati ma reciprocamente collegati e coordinati. In definitiva, si disegnarono varie mappe della corteccia cerebrale, tentando di identificare e separare campi funzionalmente differenti, quali risultavano dalle ricerche di neurofisiologia sperimentale e di anatomia patologica, e di porli in rapporto con le aree citoarchitettoniche messe in luce dai neuroistologi.

Tutto questo insieme di ricerche sulle localizzazioni cerebrali riprende l'idea portante della tradizione frenologica, cioè quella di territori corticali distinti da collegare a funzioni diverse, sviluppandola però in termini del tutto nuovi. In primo luogo, si tratta di un'investigazione sperimentale e non di ipotesi incontrollate quali erano quelle dei frenologi; in secondo luogo, le aree corticali indagate sono considerate come 'centri nervosi' (collegati tra loro, con i centri sottostanti, con i recettori sensoriali e con i muscoli) e non come 'organi' separati, preposti ciascuno a una determinata facoltà; in terzo luogo, le aree sulle quali si concentra prevalentemente l'attenzione sono quelle motorie e sensoriali, diversamente dagli interessi della frenologia che considerava queste funzioni non appartenenti alla corteccia. Infine, anche quando si ricercano eventuali altre aree connesse alle funzioni mentali, non si compie un'indagine su facoltà o inclinazioni o attitudini secondo la classificazione adottata da Gall, bensì sulle più tradizionali funzioni del linguaggio, della memoria, dell'intelletto, dell'emozione, e così via. Anzi, si tende a operare un rovesciamento nel rapporto tra categorie psicologiche e categorie neurofisiologiche, nel senso che non si cerca tanto di localizzare una funzione psicologica quanto di individuare i centri funzionali (in genere senso-motori) e capire a quali attività mentali sono collegati.

Nonostante si disponga presto di un ricco bagaglio di risultati sperimentali, non sempre si giunge a interpretazioni concordi. I problemi in discussione sono molteplici e riguardano la questione generale del modo d'intendere la differenziazione funzionale della corteccia. Ogni scienziato tenta di dare una propria risposta e finisce per costruire una propria teoria delle funzioni del cervello, che almeno per qualche aspetto differisce dalle altre. Malgrado le differenze e le innumerevoli sfumature, in generale e in modo un po' schematico, è possibile affermare che, negli ultimi decenni dell'Ottocento e nei primi del Novecento, si delineano e si confrontano due principali orientamenti teorici, caratterizzati dal modo più o meno 'rigido' o 'flessibile' di intendere la differenziazione funzionale della corteccia.

Il primo è quello di quanti pensano che sia possibile localizzare con precisione in determinate e distinte aree corticali funzioni motorie, sensitive e sensoriali specifiche. È questa la tendenza che, negli ultimi trent'anni dell'Ottocento, fa capo principalmente al tedesco Hitzig, all'inglese Ferrier e al francese Jean-Martin Charcot. Il secondo orientamento, alquanto composito, è quello di quanti sono propensi ad assumere un atteggiamento più 'flessibile' sulle localizzazioni cerebrali e a ritenere che ogni funzione debba dipendere in modo complesso da più di un centro corticale, fino a implicare larghi territori della corteccia. Tra i neurologi più prossimi a tale impostazione troviamo, alla fine del secolo, Meynert, Munk, Wernicke, Luciani. Infine, sembra opportuno ricordare anche che, in piena aetas localizzatrice, persiste un orientamento neounitaristico, il quale, partendo da Flourens, passa attraverso Edme-Felix-Alfred Vulpian e Charles-Édouard Brown-Séquard fino a giungere a Friedrich Leopold Goltz e alla sua Scuola di Strasburgo; orientamento che, pur risultando in un primo momento sconfitto, eserciterà tuttavia un'influenza nel moderare alcune tendenze estreme dei localizzatori e riprenderà vigore in termini nuovi nel XX sec. tra le due guerre mondiali.

La neuroistologia e l'opera di Golgi

L'idea di 'rete nervosa'

Dopo la vigorosa ripresa, nella prima metà dell'Ottocento, delle ricerche microscopiche (ristagnate nel corso del Settecento e rifiorite invece nel XIX sec. grazie alla costruzione di nuovi microscopi in grado di correggere le aberrazioni) e la formulazione della teoria cellulare (Schleiden e Schwann alla fine degli anni Trenta), anche per il sistema nervoso ha inizio una fase di approfondite indagini istologiche, uno studio sistematico della sua più intima struttura.

I progressi compiuti furono strettamente legati allo sviluppo degli strumenti e delle tecniche d'osservazione microscopica. Non solo, infatti, si ebbero a disposizione microscopi sempre più potenti e perfezionati, ma si misero a punto e si affinarono anche tecniche di preparazione del materiale da osservare sempre più adeguate (tecniche di fissazione, di inclusione, di sezionamento, di colorazione). Tra esse, in particolare, acquistarono una grande importanza i metodi di colorazione, dovuti da un lato ai progressi dell'industria chimica dei coloranti, dall'altro lato all'idea che i vari tessuti, e quindi i diversi tipi di cellule del corpo, reagiscono in maniera differente alle diverse sostanze, colorandosi in modo dissimile.

Grazie alle osservazioni di Valentin, Purkynje, Robert Remak, Benedict Stilling, e all'introduzione della tecnica di 'taglio' con microtomi, che sostituiva la più rozza pratica della dissezione anatomica con il coltello e dello sfibramento mediante pinzetta di pezzi induriti di tessuto, verso la metà del secolo si giunse a una buona descrizione della struttura di molte parti dell'asse cerebrospinale. Un altro importante passo avanti fu compiuto grazie all'impiego dei primi metodi di colorazione al carminio, soprattutto da parte di Meynert e Gerlach, i quali permisero di osservare e di distinguere sempre meglio i corpi cellulari e i filamenti nervosi. Tuttavia, uno spartiacque per la neuroistologia venne posto da Camillo Golgi nel 1873 con la scoperta della tecnica di colorazione detta della 'reazione nera'.

Prima di Golgi, l'istologia del sistema nervoso era poco conosciuta. Si sapeva che la sostanza bianca era formata da fibre nervose costituite da un cilinder axis e da una guaina mielinica, e la sostanza grigia da "cellule gangliari" ‒ come allora si chiamavano ‒ cioè da corpi cellulari che presentavano alcuni prolungamenti. Erano stati osservati più in particolare alcuni tipi di cellule, come le cellule di Purkynje e le cellule giganti di Betz, alcune strutture ramificate, un'indeterminata sostanza di natura correttiva e qualche altro elemento.

Tutte queste ricerche istologiche, tuttavia, presentavano un alto grado di approssimazione nonché di imprecisione, tanto che i neuroanatomisti dovevano ricorrere a molteplici e azzardate interpretazioni, dando vita a teorie differenti. Fra queste, un certo credito ebbe la teoria di Otto Friedrich Karl Deiters (1834-1863), il quale in una pubblicazione postuma (1865) fornì una buona descrizione della cellula nervosa dimostrando che, tra i prolungamenti delle cellule del midollo, ve ne è uno destinato a formare il cilindrasse di una fibra nervosa, e generalizzò questa osservazione ritenendo che la stessa cosa accadesse, come 'legge costante', per tutte le cellule del sistema nervoso.

La teoria più affermata e diffusa era però quella di Joseph von Gerlach (1820-1896), il quale in alcuni articoli (1871 e 1872) sostenne che, negli organi nervosi centrali, i prolungamenti protoplasmatici (o dendriti), suddividendosi e anastomizzandosi con quelli delle cellule vicine, formano una rete ('rete protoplasmatica' di Gerlach), a cui si collegherebbero in modo continuo le fibre nervose. Vi sarebbe dunque una struttura reticolare complessa, composta di filamenti non tutti bene identificati ma prevalentemente di derivazione dendritica, interposta tra le cellule e le fibre nervose.

Una variante della teoria di Gerlach era quella di Max Johann Sigismund Schultze (1825-1874), il quale intravide all'interno della cellula nervosa una struttura neurofibrillare che si estendeva ai prolungamenti e ipotizzò che tali neurofibrille, passando attraverso la rete di dendriti, andassero a costituire il cilindrasse delle fibre nervose. Pertanto, secondo Schultze, la cellula gangliare non sarebbe che una 'stazione di passaggio' delle neurofibrille e, quindi, delle vie nervose, e non la loro origine o terminazione. In tal modo, anticipava le successive 'teorie neurofibrillari' di Stephan (István) Apáthy, Albrecht Bethe, Franz Nissl, Hans Held.

La teoria di Gerlach era il frutto più maturo ed elaborato di un'idea sulla struttura del sistema nervoso che si era affermata in contrasto con la dottrina cellulare e che sarà dominante sino alla fine degli anni Ottanta. Si trattava dell'idea che, dal punto di vista morfologico, il sistema nervoso fosse costituito da una struttura reticolare. Dalle osservazioni microscopiche allora compiute, infatti, il tessuto nervoso non appariva formato da un insieme di tante unità cellulari distinte (come accadeva per gli altri organi e come affermava la teoria di Schleiden e Schwann), ma si presentava invece, specialmente nel cervello, con l'aspetto di un'intricata matassa di fili, all'interno della quale si potevano distinguere alcuni corpi cellulari. Si affermò allora l'opinione che il carattere proprio del substratum della mente fosse quello di essere foggiato a rete. Quest'idea, inoltre, si accordava bene sia con l'interpretazione fisiologica del neurasse come sistema preposto alla trasmissione di un impulso nervoso di natura elettrica, sia con la dottrina, allora dominante, di Flourens contraria alle localizzazioni cerebrali, secondo la quale il concetto di rete era quello che meglio di ogni altro garantiva l'unità funzionale della corteccia cerebrale.

La teoria cellulare pareva dunque presentare un'eccezione per quanto riguarda il sistema nervoso, la cui componente di base non sarebbe tanto la cellula quanto la fibra: secondo immagini allora correnti, esso sarebbe formato da 'strade', da 'binari', da 'fili elettrici', lungo i quali si troverebbero le cellule come tante 'stazioni di passaggio' o come 'pali telegrafici'. In tal modo, il presupposto atomistico-riduzionistico che sottendeva la teoria cellulare ‒ secondo il quale ogni organo del corpo è formato da un gruppo discreto di cellule specifiche e manifesta funzioni e processi morbosi che sono la somma delle funzioni e delle alterazioni delle singole cellule ‒ si rovesciava in un'assunzione di carattere olistico, per la quale il neurasse era considerato come una struttura continua e le sue funzioni come derivate dall'attività di tutto un complesso, da un'azione collettiva. L'idea di 'rete' funge allora da schema di riferimento per la ricerca dei primi neuroistologi: le loro osservazioni microscopiche cercheranno di stabilire di che tipo di rete si tratta e di costruire quindi una teoria specifica, la quale sarà appunto modellata sull'idea generale di rete.

Il metodo istologico della 'reazione nera' e la morfologia delle cellule nervose

Quando Camillo Golgi (1843-1926), alla fine degli anni Sessanta dell'Ottocento, inizia le sue ricerche di neuroistologia si trova di fronte un quadro concettuale praticamente dominato dall'idea di 'rete nervosa' e dalla teoria di Gerlach. Egli comprende che, per compiere sostanziali progressi, è necessario perfezionare i metodi di indagine istologica e, in particolare, le tecniche di colorazione. Animato da tale convinzione, nel 1873 riesce a mettere a punto un importante metodo di ricerca microscopica, una particolare tecnica di colorazione dei tessuti chiamata della 'reazione nera' o della 'reazione cromo-argentica', la quale permetterà di compiere un enorme passo avanti nella conoscenza della 'fine struttura' del sistema nervoso.

La tecnica consisteva nel fissare il tessuto nervoso con bicromato di potassio e nell'impregnarlo con nitrato d'argento. Si otteneva un preparato che al microscopio rivelava tutte le strutture della cellula nervosa, colorate in nero e perfettamente nitide, con una visualizzazione sufficientemente completa e precisa dei contorni cellulari e dello sviluppo dei prolungamenti. Fino ad allora le cellule nervose erano state osservate mediante la colorazione al carminio o all'ematossilina; con queste tecniche, però, non si riusciva a distinguere bene le varie parti cellulari e, in particolare, i numerosi filamenti. Il metodo di Golgi mostrava invece, con estrema chiarezza, tutta la conformazione cellulare, incluse l'estensione e la ramificazione dell'assone e dei dendriti.

Dopo aver dato notizia della sua nuova tecnica microscopica (Sulla struttura della sostanza grigia del cervello, 1873), Golgi prende in esame numerose parti del sistema nervoso, dalla corteccia cerebrale al cervelletto, dalle strutture sottocorticali al midollo e ai nervi, e pubblica diversi articoli in riviste specialistiche, parte dei quali raccoglierà poi nel volume Sulla fina anatomia degli organi centrali del sistema nervoso (1886, tradotto anche in tedesco nel 1894).

Negli anni successivi, continua le ricerche sul tessuto nervoso, accumulando nuovi dati e precisando le sue interpretazioni. Entra in polemica con Ramón y Cajal per difendere la propria teoria della 'rete nervosa diffusa' contro la rivale 'teoria del neurone' dell'istologo spagnolo. Nel 1898 scopre nel citoplasma della cellula una nuova struttura a forma di rete, da lui chiamata "apparato reticolare interno" e in seguito conosciuta come 'apparato o corpo di Golgi'. Nel 1906 riceve il premio Nobel per la fisiologia assieme a Ramón y Cajal.

Grazie al suo nuovo metodo d'indagine microscopica, Golgi perviene a importanti risultati. In breve e assai sommariamente, si può ricordare come egli fornisca una descrizione completa e precisa della cellula nervosa, distinguendo bene il neurite dai prolungamenti protoplasmatici; offra una stimolante classificazione delle cellule in base alla struttura del loro prolungamento nervoso, il quale può andare a formare il cilindrasse di una fibra nervosa oppure suddividersi in un fitto intrico di rami; dimostri che i prolungamenti protoplasmatici, dopo essersi ramificati, terminino 'liberi', ovverosia non vadano a formare una rete anastomizzandosi con i dendriti di altre cellule, così come sosteneva la teoria allora molto accreditata di Gerlach.

Sulla base delle osservazioni compiute, Golgi prospetta invece una propria teoria anatomofisiologica del sistema nervoso. A suo parere, esiste nella sostanza grigia un'intricatissima, fine e fitta rete di filamenti provenienti dai neuriti di diversi tipi di cellule, chiamata "rete nervosa diffusa". Questa struttura, che ha origine dai prolungamenti nervosi ed è perciò essenzialmente diversa da quella ipotizzata da Gerlach, appare ai suoi occhi come l'organo principale del sistema nervoso, quello da cui partono e a cui arrivano molte fibre nervose e che collega tra loro anatomicamente e funzionalmente le cellule di diverse regioni cerebrali. La 'rete nervosa diffusa' è quindi la struttura che trasmette l'impulso nervoso in ogni direzione, attraverso un insieme esteso di maglie, impulso che così può raggiungere diverse aree cellulari nel cervello e varie fibre nervose.

Golgi pensa che, con tutta probabilità, si tratti di una rete nel senso proprio della parola, cioè che vi sia anastomosi tra filamenti nervosi provenienti da cellule diverse. Tuttavia, non avendo elementi osservativi certi a sostegno di tale interpretazione, ammette anche la possibilità (e questo prima della formulazione della 'teoria del neurone') che si abbia solamente un 'intreccio' di filamenti, senza anastomosi tra loro. In ogni caso, sia che si tratti di rete sia di intreccio, l'esistenza di questa struttura reticolare è per Golgi un fatto certo e non una ipotesi. Questa convinzione è anche alla base del suo rifiuto della teoria delle localizzazioni cerebrali, in quanto l'esistenza della rete in tutta la sostanza grigia a suo parere renderebbe tutte le aree della corteccia anatomicamente uniformi e omogenee e pertanto inadatte a compiere funzioni differenziate.

Come si può facilmente comprendere, alla luce delle conoscenze attuali, se appaiono corrette e fondamentali le sue ricerche sulla morfologia della cellula nervosa e sulla struttura istologica di molte parti del sistema nervoso (oltre che, naturalmente, la sua scoperta del metodo microscopico della 'reazione nera'), risultano però errate le sue conclusioni e teorie anatomo-fisiologiche, in modo particolare la teoria della 'rete nervosa diffusa'. Per comprendere come Golgi sia arrivato alla sua formulazione, non basta prendere atto che egli credeva di vedere nei preparati impregnati con nitrato d'argento una rete di filamenti nervosi, bisogna anche tener conto del fatto che la pratica microscopica, almeno nel XIX sec., non offriva osservazioni assolutamente oggettive, su cui tutti potessero concordare. Non era sufficiente mettere l'occhio al microscopio per affermare con sicurezza quale fosse la vera struttura degli elementi nervosi, occorreva sempre interpretare, generalizzare, estrapolare, in altre parole formulare teorie istologiche. Anzi, a ben vedere, le teorie dei microscopisti non erano mere dottrine solo morfologiche, bensì anche fisiologiche, in quanto il disegno di una certa struttura nervosa implicava sempre determinate modalità di trasmissione dell'impulso nervoso e ipotesi circa le funzioni delle diverse zone dell'asse cerebrospinale.

Negli anni Sessanta e Settanta dell'Ottocento le teorie a un tempo istologiche e fisiologiche dei microscopisti erano sottese dall'idea-guida, dall'immagine dominante secondo la quale il sistema nervoso possiede una struttura reticolare e trasmette l'impulso nervoso mediante un'azione d'insieme. Questo nucleo concettuale olistico-reticolarista è pertanto alla base del primo programma di ricerca concernente l'istologia del sistema nervoso. Lo ritroviamo nelle teorie dei microscopisti elaborate in questi anni (in particolare nella teoria della 'rete protoplasmatica' formulata da Gerlach, che si era imposta a tutte le altre) ed è presente anche nella mente di Golgi, condizionando le sue ricerche morfologiche e interpretazioni funzionali.

Nonostante la tecnica della 'reazione cromoargentica' rappresentasse una vera rivoluzione, un decisivo salto di qualità negli strumenti di indagine microscopica del sistema nervoso, e benché i risultati ottenuti da Golgi con il suo impiego, a partire dal 1873, fossero di grande valore, sia l'una sia gli altri furono conosciuti con un certo ritardo dagli scienziati europei. Il suo metodo fu dapprima apprezzato e utilizzato da Eugen Bleuler e Auguste-Henri Forel; tuttavia riuscì a imporsi nella comunità internazionale grazie all'autorità di Rudolf Albert von Kölliker, che ne divenne un convinto sostenitore dopo che Golgi gli ebbe inviato alcuni preparati colorati con il suo metodo.

Nel 1887 la tecnica microscopica della 'reazione nera' fu conosciuta anche da Ramón y Cajal, che ne comprese subito l'importanza e iniziò ad applicarla sistematicamente, apportandovi alcuni miglioramenti. Raccolse così molti dati osservativi, i quali però risultarono in contrasto con la teoria della rete nervosa diffusa, suggerendogli, infatti, una diversa interpretazione. A partire dal 1888, cominciò allora a elaborare quella dottrina anatomo-fisiologica (dapprima abbozzata da Forel, Wilhelm His e Fridtjof Nansen indipendentemente l'uno dall'altro) che sarà chiamata 'teoria del neurone' (il termine 'neurone' fu coniato da Wilhelm Waldeyer nel 1891 per designare la cellula nervosa con tutti i suoi prolungamenti, intesa come un'entità separata dalle altre) e che, in contrasto con tutte le teorie reticolari, sosterrà l'individualità morfologica, funzionale, genetica (o embriologica), rigenerativa (o trofica), reattiva (cioè un'individualità nel reagire ai processi morbosi) della cellula nervosa. Questa teoria, completata dalla legge (o principio) della 'polarizzazione dinamica' enunciata da Ramón y Cajal e Arthur van Gehuchten e dalla nozione di 'sinapsi' di Sherrington, incontrò l'opposizione sia dei vecchi reticolaristi come Golgi, sia dei nuovi sostenitori delle reti neurofibrillari, quali Apáthy, Bethe, Nissl e Held, e riuscì ad affermarsi pienamente solo nei primi decenni del XX secolo. Ramón y Cajal è stato indubbiamente il maggiore architetto della teoria del neurone, ma senza Golgi sarebbe difficile comprendere e spiegare l'opera dello spagnolo; si può perciò affermare che entrambi, pur con ruoli e meriti diversi, siano all'origine di uno dei maggiori risultati scientifici dell'Ottocento.

Con la teoria del neurone, è possibile forse affermare che abbia idealmente termine la fase 'rivoluzionaria' degli studi sul sistema nervoso; quella fase, iniziata nei primi decenni del XIX sec., in cui la neurofisiologia e la neuromorfologia dovevano trovare un nuovo assetto. Al quadro incerto e nebuloso tramandato dai secoli precedenti si sostituisce nell'Ottocento, grazie a una serie di svolte metodologiche, teoriche e tecniche, un sistema organico di conoscenze e sono poste le basi delle teorie attuali.

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