L'Ottocento: chimica. Una nuova scienza

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: chimica. Una nuova scienza

David M. Knight

Una nuova scienza

Se per scienza si intende un corpus di conoscenze empiriche regolato e ordinato dalla teoria, allora si può affermare che la chimica del XIX sec. fu sin dall'inizio una nuova scienza. Essa emerse al termine di un periodo di grandi sovvertimenti teorici, di una "rivoluzione", come disse Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), lo scienziato che con il suo libro pubblicato nel 1789 aveva dotato la chimica di nuove concezioni e di un nuovo linguaggio. Nel XIX sec., con la diffusione delle teorie di Lavoisier in tutti i paesi europei, la chimica cominciò a emanciparsi dal ruolo di pratica empirica funzionale all'industria farmaceutica, metallurgica e alla produzione di coloranti. Anche se nel corso dell'Ottocento il suo insegnamento continuò a essere impartito nelle scuole di medicina, intorno alla metà del secolo la chimica aveva già assunto le caratteristiche di una scienza pienamente matura: un corpus di conoscenze condiviso e un programma di ricerca sostenuto, nella maggior parte delle nazioni europee, da associazioni culturali e professionali con proprie riviste specializzate. Nel 1860 si tenne a Karlsruhe il primo congresso internazionale di particolare importanza. A quell'epoca la Germania aveva assunto, a scapito della Francia, il ruolo di nazione all'avanguardia nella ricerca chimica: nella seconda metà del secolo, l'esperienza lavorativa in un laboratorio tedesco divenne un requisito obbligatorio per ottenere una cattedra di chimica in un'università inglese. Scienza sostanzialmente europea per tutto l'Ottocento, all'inizio del secolo seguente la chimica cominciò ad affermarsi negli Stati Uniti d'America. Le due date del 1800 e del 1900, pur essendo puramente arbitrarie, segnano comunque l'inizio di due periodi estremamente significativi nella storia del progresso scientifico.

Un tempo, l'attenzione degli storici della chimica si concentrava essenzialmente sugli aspetti intellettuali e pratici della disciplina, che si riteneva avesse lo scopo di indagare le proprietà di tutti i generi irriducibilmente diversi della materia e dei loro composti, così come sui possibili usi di queste conoscenze in una vasta gamma di attività produttive. Vi era inoltre la tendenza a presentare un'immagine positiva della chimica, tacendo sulla produzione di veleni o sulle sue applicazioni militari e insistendo sulla scoperta di nuovi medicinali, fertilizzanti e coloranti. Anche la storia sociale della chimica è stata nel complesso piuttosto trascurata, benché naturalmente essa assumesse un notevole rilievo nei necrologi dedicati ai chimici più eminenti, pubblicati sugli organi di stampa delle associazioni professionali e, a volte, sulla stampa commerciale. Come si diventava chimici, quali erano le competenze necessarie, come si svolgeva l'insegnamento e quali erano le possibilità di carriera di un chimico sono domande che chiunque sia interessato a conoscere il passato della scienza non può fare a meno di porsi.

L'Ottocento fu, da molti punti di vista, l'età d'oro della scienza. Il secolo si aprì con l'annuncio dell'invenzione della pila elettrica, realizzata da Alessandro Volta: un campanello d'allarme per tutti gli uomini di scienza europei, come affermò Humphry Davy (1778-1829). Quest'ultimo e Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) pensavano che l'aver identificato nell'elettricità la forza responsabile dell'affinità chimica facesse di loro i Newton della chimica. Comunque va riconosciuto ai due scienziati il merito di aver trasformato la chimica in una scienza dinamica, superando la concezione statica sulla quale si fondavano le ricerche di Lavoisier, concentrate sullo studio dei pesi di combinazione. John Dalton, loro contemporaneo, formulò una nuova teoria atomica. I suoi predecessori (per es., Lucrezio, Newton e Robert Boyle) ritenevano che la materia fosse composta in ultima analisi di particelle o corpuscoli e i libri di chimica del Settecento e di inizio Ottocento esordivano generalmente con un capitolo dedicato alle diverse forze agenti sulle particelle: la coesione o aggregazione, che univa le particelle simili; l'affinità, che legava tra loro quelle dissimili; la repulsione, che le teneva separate; infine l'attrazione universale o gravità. Tutto questo non aveva alcun rapporto reale con la scienza sperimentale descritta nei capitoli successivi, tuttavia faceva parte di ciò che Lavoisier e dopo di lui il filosofo positivista Auguste Comte avrebbero definito 'metafisica'. L'approccio di Dalton era radicalmente diverso; i suoi atomi non erano ipotetici corpuscoli indivisibili, riconducibili presumibilmente a un ristretto numero di varianti, bensì le più piccole particelle delle sostanze semplici, o elementi chimici. Il variare delle proporzioni e delle disposizioni di queste particelle dava origine ai diversi composti chimici. A differenza di quelle precedenti, tale teoria implicava conseguenze verificabili sperimentalmente.

La teoria del 'dualismo elettrochimico' di Berzelius e quella atomica di Dalton ponevano, tuttavia, una serie di problemi apparentemente insolubili, che spinsero molti celebri chimici dell'epoca a respingerle entrambe. La scienza del Novecento ha sostanzialmente confermato le intuizioni, ancora alquanto imprecise, di Davy e Berzelius, benché la moderna teoria atomica abbia ben poco in comune con gli atomi a 'palla da biliardo' di Dalton. Grazie a queste due teorie, comunque, la chimica assunse ai primi dell'Ottocento il ruolo di scienza fondamentale, preposta allo studio della materia e delle forze, a differenza della meccanica che, come disse Joseph Priestley, si interessava soltanto della superficie delle cose. Gli sforzi compiuti dai chimici per mettere ordine in un numero tanto elevato di atomi, distribuendo gli elementi in uno schema tassonomico, e per evidenziare gli aspetti intellettuali della propria professione, sempre più caratterizzata dalla capacità di elaborare formule e di risolvere equazioni piuttosto che dalla semplice compilazione di 'ricette', attirarono alcune delle migliori menti dell'epoca verso gli studi di chimica, considerati un'attività estremamente valida e appagante.

Esisteva tuttavia anche un aspetto pratico della chimica, che in primo luogo era una disciplina utile. Le analisi chimiche, che permettevano di stabilire di quali sostanze fossero composti gli oggetti materiali, nel corso dell'Ottocento divennero sempre più precise; si giunse così a identificare, isolare e sintetizzare i componenti attivi di sostanze naturali, come le alghe o la corteccia di cincona. Nelle grandi città il cibo e i medicinali provenivano da luoghi a volte molto distanti ed erano spesso adulterati; i chimici possedevano le conoscenze necessarie per verificare la qualità della farina, del latte o della birra e controllare quali sostanze entrassero nella composizione delle varie panacee in vendita nelle farmacie ancora artigianali dell'epoca. Poiché le industrie chimiche erano altamente inquinanti, i governi cominciarono a creare apposite agenzie incaricate di regolarne l'attività, come l'ispettorato sugli alcali, composto da analisti chimici. Da questi sviluppi ebbe origine il concetto di controllo della qualità e al tempo stesso si affermò un nucleo di funzionari pubblici incaricati di svolgere attività scientifiche. I chimici divennero in tal modo responsabili sia dell'introduzione di nuove sostanze, sia del controllo della produzione e della qualità di queste.

A partire dal 1840, quando i chimici cominciarono a fondare associazioni per accrescere la propria influenza, sorse immediatamente il problema di stabilire chi avesse il diritto di farne parte. Si discuteva se per essere un chimico bastava aver studiato questa materia all'università, da semplice studente o dopo aver conseguito un dottorato di ricerca, o se poteva fregiarsi del titolo chiunque si fosse impadronito delle competenze necessarie per seguire un processo chimico industriale. Inoltre, i chimici che lavoravano nelle università o nelle scuole desideravano comunicare all'associazione i risultati delle loro ricerche nella speranza di veder pubblicate le proprie scoperte. Nell'industria la situazione era diversa: nessuno voleva far conoscere alla concorrenza i risultati del proprio lavoro, perché la ricompensa del successo non era la pubblicazione di un articolo, bensì un brevetto e un cospicuo profitto. Infine, i consulenti avevano bisogno di un'associazione di tipo professionale, simile per molti aspetti a un sindacato di 'colletti bianchi', che avrebbe dovuto garantire l'accesso ad alcuni incarichi pubblici solo ai chimici qualificati e concordare gli emolumenti da essi percepiti. A volte, come in Gran Bretagna, le richieste degli accademici e quelle dei professionisti si rivelarono incompatibili portando alla creazione di due società distinte, benché in parte sovrapposte.

L'altro aspetto pratico della chimica era costituito dall'indispensabile attività di sperimentazione. Un fisico poteva essere privo di capacità manuali, ma una spiccata propensione per la matematica applicata era sufficiente a compensare questa carenza. Un chimico, invece, non poteva fare a meno della manipolazione e l'unico libro scritto da Faraday era dedicato proprio alla 'manipolazione chimica'; egli, infatti, figlio di un fabbro ferraio, era orgoglioso, come altri chimici, della propria abilità manuale. Le attrezzature di vetro dovevano essere spesse per resistere alle sollecitazioni meccaniche e sottili per non spaccarsi al calore del fuoco, non esistendo ancora i pratici giunti di vetro smerigliato. Le varie parti dell'apparecchiatura dovevano essere congiunte tra loro con tappi di sughero perforati o per mezzo di giunture 'lutate' con un cemento speciale lievemente flessibile, preparato da ciascun chimico sulla base di una propria personale ricetta. Intorno alla metà del secolo furono prodotti i primi giunti di gomma e con i fornelli di Robert Bunsen (1811-1899) i chimici ebbero a disposizione una fonte di calore potente e facilmente controllabile, che sostituì rapidamente le fornaci e i bagni di sabbia utilizzati fino ad allora. Queste innovazioni facilitarono il compito dei chimici, permettendo loro di ottenere risultati più omogenei e verificabili. L'apparecchiatura necessaria poteva essere in parte acquistata (e le illustrazioni inserite nei manuali servivano in effetti a volte come pubblicità), ma in gran parte doveva essere fabbricata: Faraday descrive la costruzione di provette e di apparecchi per la distillazione frazionata a partire da un tubo di vetro, e quella di filtri di carta a partire da fogli di 'carta assorbente'. La chimica era la scienza delle qualità secondarie di cui avevano parlato Galilei e John Locke: colori, sapori e odori, e un bravo chimico doveva sapersi servire di tutti i suoi sensi.

Oltre al fastidio dei cattivi odori, vi era il pericolo delle esplosioni. Molti chimici subirono gravi danni a causa dei loro esperimenti, come per esempio Pierre-Louis Dulong, che rimase seriamente ferito nel corso delle sue ricerche sul tricloruro e sul triossido di azoto. La salute di altri ricercatori fu danneggiata dai gas che avevano inalato o dalle sostanze che avevano inavvertitamente ingerito attraverso una pipetta o con cui erano entrati in contatto. Il tirocinio di un chimico costituiva un'esperienza aggregante, simile per alcuni aspetti al servizio di leva: i chimici andavano giustamente fieri di appartenere a un corpo di persone coraggiose e risolute. Con il tempo, tuttavia, si cominciò a lavorare su quantità più piccole di sostanze e in laboratori sempre più attrezzati anche sotto il profilo della sicurezza. Alla fine del XIX sec., le misure precauzionali, come occhiali di protezione, guanti, grembiuli e cappe per i fumi, erano divenute la norma in quasi tutti i laboratori.

Siamo così giunti nel campo della storia sociale della scienza. Nell'Ottocento, la chimica era la materia scientifica studiata nel maggior numero di corsi accademici. Già all'inizio del secolo, gli studenti di medicina dovevano superare un esame di chimica: in Gran Bretagna, per esempio, a partire dal 1815 la frequenza di un corso di chimica divenne un requisito indispensabile all'esercizio della professione medica, mentre in precedenza i medici generici che operavano nelle piccole città e nei villaggi si limitavano a imparare il mestiere durante un periodo di praticantato.

In Germania, il corso di laurea in chimica tenuto da Justus von Liebig presso l'Università di Giessen attirava una grande quantità di studenti, che una volta laureati trovavano facilmente occupazione nell'industria chimica e farmaceutica o nella professione medica. In Gran Bretagna le possibilità di impiego erano più limitate e i chimici lavoravano quasi unicamente come consulenti esterni, interpellati quando occorreva risolvere un problema o c'era bisogno di una perizia specialistica. Intorno alla metà del secolo, tuttavia, viene segnalata nelle industrie tessili di Manchester la presenza di chimici addetti alla produzione, quasi sempre di origine tedesca, che nei decenni successivi si incontrano in tutti i principali settori industriali della nazione.

La natura stessa della chimica esigeva un tirocinio in laboratorio. Le lezioni accademiche erano accompagnate da dimostrazioni pratiche, come quelle organizzate prima da Davy e poi da Faraday nella grande sala delle conferenze della Royal Institution. Il successo di queste iniziative, scrupolosamente curate in ogni dettaglio, fu tale che, nelle serate in cui si svolgevano le conferenze, Albemarle Street veniva trasformata in una via a senso unico per evitare gli ingorghi. Le dame e i gentiluomini alla moda che frequentavano questi incontri e assistevano con stupore alle dimostrazioni non avevano naturalmente alcuna intenzione di diventare chimici: per loro la chimica rappresentava l'equivalente di uno spettacolo sportivo. In tal modo però si raggiunse lo scopo di renderne la conoscenza indispensabile al bagaglio culturale di ogni persona istruita.

Le lezioni tenute durante il giorno nello stesso edificio da William T. Brande agli studenti di medicina avevano invece tutt'altro carattere, poiché vi era un programma di studi da rispettare e un esame da sostenere. Brande scrisse anche un manuale per gli studenti del corso, sforzandosi di renderlo il più interessante possibile, ma il suo vero obiettivo era quello di formare chimici professionisti. Ben presto si comprese che per ottenere un'adeguata preparazione degli studenti non era sufficiente farli assistere agli esperimenti condotti dallo stesso Brande, ma era necessario consentire loro un'esperienza diretta in laboratorio. Le lezioni di chimica pratica entrarono così a far parte dei corsi accademici inizialmente come seminari facoltativi. A partire dal 1840 questo tipo di insegnamento divenne obbligatorio nelle università e fu esteso lentamente anche alle scuole secondarie. L'abitudine dei professori di scrivere i manuali adottati nei loro corsi si mantenne e si rafforzò con la diffusione degli istituti di chimica (che comprendevano i laboratori didattici e di ricerca) nelle diverse sedi universitarie e con la crescente specializzazione delle scienze.

Davy, come molti suoi contemporanei, poteva ancora passare con facilità dallo studio della chimica agricola e fisiologica alla scoperta e all'analisi di nuovi elementi e dei loro composti nonché alle ricerche sull'elettricità, tuttavia, alla fine del secolo la chimica organica, inorganica e fisica erano divenute materie scientifiche nettamente distinte, caratterizzate da metodi, tradizioni e luoghi di ricerca separati. Ogni specializzazione aveva la propria associazione e la propria rivista; con lo sviluppo scientifico scomparve la figura ottocentesca del genio enciclopedico, incarnata per esempio da Berzelius. Volenti o nolenti, i filosofi chimici dell'epoca di Davy si trasformarono dapprima in chimici tout court, poi in specialisti in chimica inorganica o in un'altra branca particolare della disciplina, così come i filosofi naturali dell'Ottocento divennero fisici. Il termine 'scienziato' fece la sua comparsa nella lingua inglese nel 1833, ma entrò nell'uso comune solamente dopo mezzo secolo, quando esisteva già un consistente gruppo di persone che traevano dalla scienza i propri mezzi di sostentamento. Il timore che gli scienziati potessero trasformarsi in specialisti dalla mentalità ristretta, costretti ad accumulare conoscenze in un campo sempre più limitato, diede origine a lunghi ed estenuanti dibattiti sull'educazione scientifica e sul suo ruolo all'interno di una società di tradizione liberale.

Nell'Ottocento la maggior parte dei chimici era convinta che gli organismi fossero tenuti in vita da una qualche forza vitale, che probabilmente era anche responsabile dello sviluppo dell'embrione. Lavoisier e i suoi contemporanei avevano dimostrato che la respirazione era realmente simile alla combustione pur trattandosi di un processo particolare a bassa temperatura. La materia negli organismi viventi sembrava obbedire a leggi differenti da quelle del mondo inorganico; dopo la morte, i normali processi chimici prendevano il sopravvento e aveva inizio la decomposizione. Anche quando Friedrich Wöhler sintetizzò l'urea, nel 1828, lo fece in condizioni molto diverse da quelle riscontrabili in una creatura vivente, cosicché fino alla fine del secolo la maggior parte dei chimici continuava a credere in una qualche forma di vitalismo. Ciononostante la chimica organica, intesa come scienza dei composti del carbonio, si sviluppò in modo sufficientemente ampio e autonomo da divenire un ramo separato della chimica, grazie soprattutto ai nuovi metodi di analisi introdotti da Liebig e dai suoi allievi. A partire dal 1860, i chimici organici iniziarono a costruire modelli molecolari, servendosi di sfere e di filo metallico, e portarono a termine le prime grandi sintesi di prodotti naturali, come l'indaco, e di sostanze artificiali, come i coloranti all'anilina.

Davy, Faraday e gli altri scienziati che si erano occupati di elettrochimica avevano studiato le condizioni in cui si producono le reazioni chimiche, scoprendo che era possibile farle andare 'avanti' o 'indietro' con l'applicazione di una corrente elettrica. Lavoisier aveva studiato il calore prodotto dalle reazioni chimiche, ma le sue ricerche non portarono a risultati definitivi e si dovette attendere la metà del secolo per assistere a una ripresa di questi studi, principalmente a opera di Germain Henri Hess e altri. Con l'affermarsi della termodinamica (che restituì alla fisica il ruolo di scienza fondamentale, che si occupa della materia e dell'energia) e l'uso dello spettroscopio nelle analisi chimiche, introdotto nel 1860 da Bunsen e da Gustav Robert Kirchhoff, maturarono le condizioni per la nascita della chimica fisica. I suoi fondatori furono Friedrich Wilhelm Ostwald e Jacobus Henricus van't Hoff; in questo territorio di frontiera tra la chimica e la fisica Svante August Arrhenius formulò, verso la fine del secolo, l'idea della dissociazione degli elettroliti, seguendo le orme del suo compatriota Berzelius.

Nel frattempo, la chimica inorganica era stata profondamente trasformata dalla tavola periodica di Dmitrij Ivanovič Mendeleev, che facilitava notevolmente la memorizzazione delle proprietà dei singoli elementi. Infatti era sufficiente conoscere il comportamento di un gruppo ristretto di elementi tipici per essere in grado di dedurre le proprietà di qualunque altro elemento dalla posizione che esso occupava nella tavola. La scoperta del sistema periodico fece di Mendeleev il Linneo della chimica, aprendo di conseguenza la strada alla formulazione di ipotesi su un'evoluzione di tipo darwiniano della materia inorganica, a cui lo stesso Mendeleev rimase tuttavia completamente estraneo. Inoltre, lo studioso aveva lasciato nella sua tavola alcune caselle vuote in vista della scoperta di nuovi elementi, che furono effettivamente isolati pochi anni più tardi. Questo successo diede ai chimici la soddisfazione di vedere confermate dai fatti le proprie previsioni, un'impresa portata a termine prima di allora solo dagli astronomi e da altri settori della fisica.

A questi trionfi però fece seguito, verso la fine del secolo, un periodo di incertezza: l'attenzione generale era calamitata dal darwinismo e dalla genetica. Ci si chiedeva se fosse ancora possibile considerare la sobria chimica dell'epoca, che aveva trovato nella termodinamica una nuova base teorica e nella spettroscopia un metodo analitico più efficace, una scienza indipendente e fondamentale, o se fosse necessario classificarla tra le branche della fisica. I cambiamenti rivoluzionari prodottisi a cavallo del secolo nella fisica e il clima di grande eccitazione intellettuale da essi suscitato sembrarono privare la chimica di quell'aura magica da cui era circondata all'epoca di Davy. Anche se nessuno ne metteva in dubbio l'utilità, erano in molti a pensare che essa fosse riconducibile in ultima analisi alla fisica, la scienza cui appartenevano i principî fondamentali sui quali essa doveva necessariamente basarsi. I fisici avevano sempre mostrato la tendenza a considerare i chimici come una sorta di 'cuochi' scientifici, e i chimici accusavano a loro volta i fisici di essere eccessivamente inclini alla metafisica e di accontentarsi troppo facilmente di spiegazioni di principio in merito alle proprietà della materia che rivestivano un interesse fondamentale nella chimica, come l'affinità. Molti chimici cercarono di opporsi alla svalutazione della loro disciplina, affermando che la dipendenza della chimica dalla fisica non era maggiore di quella dell'architettura: nessun architetto può permettersi di ignorare la legge di gravità, ma sarebbe assurdo che se ne lamentasse o si ritenesse per questo privato di ogni possibilità di autonomia creativa. Lo stesso poteva dirsi dei chimici, paragonabili ad architetti molecolari in grado di creare nuove sostanze. Questa tesi, tuttavia, non appariva del tutto convincente e lasciava ampio spazio alle opinioni più pessimistiche.

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