La civiltà islamica: antiche e nuove tradizioni in matematica. La rinascita degli studi geometrici nel mondo latino

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: antiche e nuove tradizioni in matematica. La rinascita degli studi geometrici nel mondo latino

Menso Folkerts

La rinascita degli studi geometrici nel mondo latino

La tradizione euclidea

Le numerose traduzioni medievali dall'arabo in latino di opere di geometria, quasi tutte realizzate in Spagna nel XII sec., ampliarono considerevolmente le conoscenze geometriche nell'Europa latina e stimolarono gli studiosi europei a intraprendere ricerche indipendenti, che talvolta raggiunsero livelli notevoli. I testi di geometria tradotti furono soltanto in minima parte originali arabi; molte versioni misero a disposizione del mondo latino opere greche che, a loro volta, erano già state tradotte in arabo, perlopiù nel IX secolo. Molti sforzi furono dedicati dai traduttori all'opera matematica più importante dell'Antichità greca, gli Elementi di Euclide, e alla letteratura matematica a essa collegata. Anche se gli Elementi non racchiudono l'intero sapere matematico dei Greci (mancano in particolare le coniche), tuttavia essi fornivano i fondamenti della materia con l'ausilio dei quali era possibile effettuare ulteriori e più specializzate ricerche matematiche. La maggior parte degli Elementi si occupa di problemi geometrici: dei tredici libri non apocrifi, i Libri dal I al IV e il VI trattano di geometria piana, mentre i Libri dall'XI al XIII sono dedicati alla stereometria, ossia lo studio dei solidi. Si contano tre traduzioni latine degli Elementi di Euclide condotte a partire dall'arabo; tutte risalgono al XII sec. e, a quanto sembra, furono realizzate in modo indipendente da Adelardo di Bath, da Ermanno di Carinzia e da Gherardo da Cremona. La traduzione di Adelardo ci è pervenuta in una forma relativamente incorrotta, mentre le versioni attribuite a Ermanno di Carinzia e a Gherardo da Cremona mostrano tracce di rielaborazioni posteriori.

Comunque, neppure la traduzione di Adelardo, nota solitamente come Adelardo I, che risale probabilmente a non prima del 1120, ci è pervenuta per intero; mancano infatti il Libro IX e fino alla prop. 35 del Libro X. Il testo latino, come avviene anche per altre traduzioni di Adelardo, contiene una serie di termini arabi, alcuni dei quali non si trovano in nessuna delle altre traduzioni di Euclide dall'arabo; si nota, inoltre, una certa incoerenza nel tradurre determinati termini tecnici, come se Adelardo fosse ancora alla ricerca dell'equivalente latino più adeguato. Del resto, non si può tuttora affermare con sicurezza su quale testo arabo si basi la sua traduzione, soprattutto perché, nonostante gli intensi studi degli ultimi anni, non si è ancora chiarita in tutti i punti la tradizione testuale araba degli Elementi; esistono grandi analogie tra Adelardo I e il frammento della traduzione siriaca degli Elementi che contiene parte del Libro I ma ne sono pervenuti soltanto cinque manoscritti e non si ha notizia di citazioni presso autori posteriori.

Della traduzione che Ermanno di Carinzia effettuò presumibilmente poco prima del 1140 rimane un solo manoscritto, che oltretutto si interrompe al Libro XII; purtroppo il testo in esso contenuto non è quello originario, dato che in un secondo manoscritto (BAV, Vat. reg. lat. 1268) si trova una versione di Euclide basata in parte sulla traduzione di Ermanno, la quale, tuttavia, risale a un testo più genuino. Presumibilmente, Ermanno traduceva da un manoscritto della tradizione di al-Ḥaǧǧāǧ ibn Yūsuf ibn Maṭar (fine dell'VIII-IX sec.), ma non è stato trovato finora alcun codice arabo in cui si possa ravvisare il testo del quale si è servito. Nella sua traduzione di Euclide, come di consueto, Ermanno reinterpreta liberamente l'originale arabo, ampliando e rimaneggiando in molti punti il testo di partenza.

Come accennato, anche il più importante dei traduttori dall'arabo, Gherardo da Cremona, tradusse in latino, nella seconda metà del XII sec., gli Elementi di Euclide. Gherardo è noto per essere un traduttore di straordinaria fedeltà letterale, sicché le versioni latine da lui effettuate lasciano in genere trasparire chiaramente il testo arabo di base. Tuttavia, il testo di Euclide non è 'arabizzato' nella stessa misura degli altri, benché la sua origine araba e la mano di Gherardo siano evidenti; quindi, la traduzione originaria deve essere stata rielaborata e ripulita stilisticamente in un secondo tempo. A favore di questa ipotesi depone anche il fatto che gli undici manoscritti che ci sono pervenuti sono relativamente recenti. Si presume, comunque, che Gherardo si sia servito di un manoscritto della versione di Isḥāq ibn Ḥunayn (m. 873 o 876) corretta da Ṯābit ibn Qurra (m. 901), sebbene si sia valso anche della traduzione di al-Ḥaǧǧāǧ. Nel suo testo si trovano, infatti, alcune dimostrazioni alternative che, a quanto afferma lo stesso Gherardo, provengono "da un altro libro" (forse un manoscritto di al-Ḥaǧǧāǧ).

Queste tre traduzioni ebbero però scarsa diffusione nel Medioevo. Sotto questo profilo, ben più importante fu un rifacimento che attinse non soltanto alle traduzioni di Adelardo e di Ermanno, ma anche a quella degli Elementi che Boezio aveva effettuato dal greco intorno al 500 (di questa traduzione nel XII sec. circolavano alcuni estratti). Questo rifacimento, noto come Versione II (detto un tempo anche Adelardo II), fu compilato poco prima del 1140, con ogni probabilità da Roberto di Chester, che all'epoca si trovava in Spagna insieme a Gherardo da Cremona. Sembra che Roberto abbia dapprima raccolto i soli enunciati (cioè i teoremi senza le dimostrazioni), i quali, pochi anni dopo, furono inseriti da Teodorico di Chartres (m. dopo il 1155) nel suo compendio delle sette arti liberali, lo Heptateuchon. Soltanto in seguito furono aggiunte le dimostrazioni; molte di esse però, anziché essere svolte per esteso, sono date in forma abbreviata e, a volte, consistono solamente in un breve riferimento ai teoremi da applicare.

Nel tardo XII sec. e nel corso del XIII la Versione II rappresentò la più importante traduzione di Euclide in Occidente. Tuttavia, verso la fine di questo periodo essa fu soppiantata da un altro rifacimento, redatto poco prima del 1260 da Campano da Novara (1210 ca.-1296); con circa 130 manoscritti giunti fino a noi, questo è il più diffuso testo latino di Euclide del Medioevo: quando nei secc. XIV e XV in Europa si parlava di Euclide, ci si riferiva in genere alla versione di Campano. Nel Tardo Medioevo il testo di Campano fungeva da manuale per lo studio del quadrivio nelle università (anche se in genere ci si limitava allo studio dei primi sei libri, o addirittura solo del primo) e nel 1482 fu uno dei primi testi di matematica dati alle stampe a Venezia; esso fu più volte stampato anche in seguito. La versione di Campano tradisce più di un elemento di vicinanza con la Versione II. In particolare, gli enunciati sembrano ripresi quasi alla lettera, mentre le dimostrazioni se ne discostano molto: alcune sono molto più estese e arrivano a includere notevoli aggiunte o tentativi di spiegazione di problemi controversi. Particolarmente degni di nota sono la dimostrazione della somma degli angoli dei poligoni stellati (aggiunta alla prop. 32 del Libro I); i commenti riguardo all''angolo di contingenza', ossia l'angolo tra arco di circonferenza e tangente (Libro III, prop. 15); e le riflessioni sulla definizione di proporzione e sull'uguaglianza di proporzioni (def. V). Nelle dimostrazioni traspare l'intento didattico dell'autore. Campano aggiunse anche materiale tratto dai suoi contemporanei, soprattutto dall'Arithmetica di Giordano Nemorario.

A parte le tre traduzioni di Euclide e le due rielaborazioni (la Versione II e quella di Campano), nei secc. XIII-XV esistevano numerosi altri testi che a questi si rifacevano, dimostrando come l'eredità greco-araba abbia dato i suoi frutti. Degne di particolare menzione sono le Quaestiones super geometriam Euclidis di Nicola Oresme (1320 ca.-1382). Nella tipica forma per quaestiones della Scolastica, quest'opera tratta tra l'altro i temi delle serie infinite, del rapporto tra diagonale e lato di un quadrato, della proprietà degli angoli e dell'uniformità e difformità di qualità, in particolare, delle velocità. Le quaestiones di Oresme a Euclide sono un buon esempio di come la Scolastica studiasse gli Elementi per risolvere, con il loro ausilio, le domande indotte dalla lettura degli scritti aristotelici e dei relativi commenti. Gli Elementi divennero in tal modo un libro di testo adottato nell'insegnamento presso le facoltà universitarie di arti liberali. Lo studio degli Elementi di Euclide determinò in modo essenziale anche lo sviluppo di contributi originali in campo matematico: ne sono esempi le riflessioni sulla continuità e l'infinito, la rappresentazione grafica della dipendenza funzionale e la riduzione in formule dei processi dinamici con l'ausilio della teoria delle proporzioni.

Fra i vari compendi di geometria, basati sulle conoscenze che i rifacimenti di Euclide, e specialmente la versione di Campano, avevano reso disponibili in Occidente, quello che ebbe più ampia risonanza fu la Geometria speculativa di Tommaso Bradwardine (1290-1349), concepito probabilmente come un prontuario per gli studenti relativo a questioni di matematica e a problemi d'interpretazione aristotelica. Bradwardine si occupa dei tradizionali teoremi sulle figure piane e sui solidi, ma anche di altri temi sentiti come attuali alla sua epoca, quali i poligoni stellati, l'angolo di contingenza, i problemi isoperimetrici e la teoria delle proporzioni.

Oltre agli Elementi, nel XII sec. furono tradotti in latino dall'arabo anche alcuni commenti. Quello di al-Nayrīzī (IX sec., noto in latino come Anaritius) ai Libri I-X fu tradotto in latino da Gherardo da Cremona; mentre il testo arabo si interrompe al principio del Libro VII, i manoscritti latini contengono l'intero commento. Esso non deve avere goduto di una grande diffusione in Occidente: le uniche tracce del suo utilizzo si trovano in Ruggero Bacone (1214-1294), in un commento a Euclide attribuito ad Alberto Magno, e in altri due commenti latini anonimi agli Elementi. Per quanto riguarda il Libro X degli Elementi, che concerne la classificazione delle incommensurabilità, sono rimasti soltanto l'inizio della versione latina del commento di Pappo (III sec.), compilata da un traduttore ignoto a partire dalla traduzione in arabo di Abū ῾Uṯmān al-Dimašqī (IX sec.), e un secondo commento che deriva da un originale arabo sul quale i pareri sono discordi, tradotto in latino da Gherardo da Cremona. Molti altri commenti in lingua araba agli Elementi di Euclide non furono tradotti in latino; ciò vale in particolare per i commenti al postulato delle parallele, al punto tale che i contributi arabi su questo tema diventarono noti in Europa occidentale soltanto a partire dalla fine del XVI secolo.

La tradizione archimedeae i trattati di misurazione

La traduzione dei Libri I-IV e VI degli Elementi rese noti all'Europa medievale i teoremi essenziali della geometria piana (comprese le proprietà del cerchio), mentre quella dei Libri XI-XIII divulgò i fondamenti della stereometria e le relazioni tra i solidi regolari. Di questi temi, e anche del metodo di esaustione, con cui i Greci avevano risolto i problemi infinitesimali, si occupavano anche altri testi tradotti in latino dall'arabo, e in primo luogo gli scritti della tradizione archimedea, sia quelli che risalgono all'Antichità greca sia le opere arabe originali. Delle opere di Archimede, se si prescinde da una traduzione dal greco effettuata da Guglielmo di Moerbeke intorno al 1260, che ebbe scarsa risonanza, fino al XV sec. soltanto La misura del cerchio e parti del Della sfera e del cilindro erano note nel mondo latino. Soprattutto La misura del cerchio riscosse una grande attenzione; nel XII sec. essa fu tradotta dall'arabo per due volte, prima probabilmente da Platone di Tivoli (tra il 1134 e il 1145) e successivamente da Gherardo da Cremona, la cui versione era piuttosto diffusa. Nel periodo seguente tutte e tre le proposizioni di quest'opera furono rielaborate più volte; sono noti oltre dieci rifacimenti. Un procedimento del tutto diverso per quadrare il cerchio si trova nel Liber de triangulis Jordani, scritto nel XIII sec. e un tempo attribuito a Giordano Nemorario, nelle propp. 14-16 del cap. 4; queste potrebbero derivare dalla traduzione di un testo arabo, opera forse di Ibn al-Hayṯam.

Dello scritto di Archimede Della sfera e del cilindro furono tradotti sei enunciati, forse da Gherardo da Cremona; il testo latino corrisponde quasi letteralmente alla versione araba contenuta in un manoscritto conservato a Istanbul (Fatih 3414, ff. 8v 10-9r 2, 9r 7-9, 46r 4-6; Lorch 1989). Alcune parti dello scritto di Archimede erano disponibili in Occidente anche nella traduzione di un'opera araba che si ricollega alla tradizione archimedea, il Kitāb Ma῾rifat misāḥat al-aškāl al-basīṭa wa-'l-kuriyya (Libro per conoscere l'area delle figure piane e sferiche) dei Banū Mūsā (i tre figli di Mūsā ibn Šākir, attivi nel IX sec.), tradotto in latino da Gherardo da Cremona e noto con il titolo Liber trium fratrum o più spesso come Verba filiorum Moysi. Quest'opera contiene, fra l'altro, alcuni teoremi sull'area del cerchio, sul volume e sulla superficie della sfera e del cono; in essa vengono trattati inoltre la formula detta 'di Erone' per determinare l'area del triangolo, il problema della trisezione dell'angolo e la determinazione di due medie proporzionali tra due grandezze assegnate (equivalente, come già dimostrato dai Greci, al problema della duplicazione del cubo). I Verba filiorum ebbero grande diffusione in Occidente; nel XIII sec. furono utilizzati tra gli altri da Leonardo Fibonacci e da Ruggero Bacone.

Alla tradizione archimedea appartiene anche un trattato intitolato Kitāb ῾Amal al-dā᾽ira al-maqsūma bi-sab῾at aqsām mutasāwiya (Libro sulla costruzione di un cerchio diviso in sette settori di identica area), tradotto da Ṯābit ibn Qurra. Ci sono pareri controversi riguardo alla costruzione del lato dell'ettagono contenuta in questo scritto: si discute se sia di derivazione greca oppure genuinamente araba. A ogni modo, il testo arabo si rivela imparentato strettamente con un breve testo latino tradotto dall'arabo, probabilmente da Gherardo da Cremona; questo frammento latino fu ripreso nel XIII sec., quasi letteralmente, nel citato Liber de triangulis Jordani, nella prop. 23 del cap. 4.

La 'formula di Erone', dimostrata tra l'altro anche nel Liber trium fratrum e attribuita ad Archimede da vari autori arabi, era nota nei testi latini dell'Occidente fin dal primo Medioevo grazie agli scritti romani di agrimensura. Tuttavia, soltanto nel XII sec. se ne trovano dimostrazioni, o in opere tradotte dall'arabo, come quella dei Banū Mūsā o, seppure in forma leggermente diversa, come testo a sé stante in alcuni manoscritti che contengono anche alcuni lavori di Giordano Nemorario.

Secondo quanto afferma Pappo, Archimede avrebbe scoperto tredici poliedri semiregolari, cioè solidi delimitati da poligoni regolari non tutti uguali. Alcuni di questi corpi sono menzionati anche in scritti occidentali del Medioevo: Giovanni di Murs (XIV sec.) ne cita alcuni nel cap. 11 del suo De arte mensurandi; parte di essi e altri ancora si trovano nel Trattato di aritmetica, algebra e geometria e nel De quinque corporibus regularibus di Piero della Francesca (1416 ca.-1492), nonché nel Divina proportione (1498) di Luca Pacioli (m. dopo il 1509). Anche se finora non sono stati trovati testi a cui farle risalire direttamente, c'è da supporre che queste conoscenze derivino da fonti arabe.

Il Liber divisionum di Euclide, perduto in greco, fu tradotto in arabo da Ṯābit ibn Qurra e quindi in latino da Gherardo da Cremona, ma sembra che della traduzione di Gherardo non resti alcun manoscritto. L'unica traccia dell'opera di Euclide nella tradizione latina è un trattato dal titolo De superficierum divisionibus liber Machometo Bagdedino ascriptus, pubblicato da John Dee e Federico Commandino a Pesaro nel 1570, il cui autore, uno studioso arabo non ancora identificato, mostra di avere attinto allo scritto di Euclide apportando parziali rielaborazioni.

Infine, vi sono tre trattati di misurazione, tradotti dall'arabo da Gherardo da Cremona, che nei manoscritti compaiono sempre insieme. Questi testi, dal titolo latino Liber Saydi Abuothmi, Liber Aderameti e Liber mensurationum, si occupano del calcolo di aree e volumi. Sugli originali arabi non si possiedono ancora dati sicuri. L'autore del Liber Saydi Abuothmi potrebbe rimandare all'opera di Abū ῾Uṯmān Sa῾īd (attivo intorno al 1000). Il Liber mensurationum si presenta invece come opera di un certo Abū Bakr, la cui identità non è però stabilita con certezza. In questo scritto, come in altri testi arabi appartenenti alla 'scienza della misurazione' (misāḥa), si applicano procedimenti algebrici a problemi geometrici con lo scopo di dimostrare come risolvere equazioni di primo e secondo grado. In particolare, è notevole il fatto che in quest'opera ‒ in cui tra l'altro vengono sommate indiscriminatamente aree e lati ‒ si utilizzino metodi simili a quelli usati anche dalla matematica babilonese.

Le sezioni coniche

Le sezioni coniche avevano un ruolo importante nella matematica araba. L'opera greca più importante su questo tema, le Coniche di Apollonio (III sec. a.C.), fu tradotta in arabo e diede spunto a ulteriori ricerche, soprattutto in relazione a questioni di ottica. Tuttavia, soltanto una minima parte di questi scritti fu tradotta in latino. Delle Coniche di Apollonio ci rimane in lingua latina solamente una piccola sezione dell'inizio, tradotta da Gherardo da Cremona, che fungeva da introduzione alla traduzione latina dello scritto di Ibn al-Hayṯam sugli specchi ustori Fī 'l-marāyā al-muḥriqa bi-'l-quṭū῾ (Gli specchi ustori parabolici), che ebbe il titolo latino di Liber de speculis comburentibus.

Dalla tradizione araba giunse poi un breve scritto sull'iperbole, di cui ci è ignoto l'autore; nella prima metà del XIII sec. fu tradotto in latino dall'arabo con il titolo De duabus lineis semper approximantibus sibi invicem et numquam concurrentibus da Giovanni da Palermo, che operava presso la corte dell'imperatore Federico II. Questo scritto è uno dei pochi testi disponibili in lingua latina nel Medioevo che tratti delle coniche senza riferimenti all'ottica. Noto nel Tardo Medioevo nella sua traduzione latina, esso fu utilizzato più volte: nel XIV sec. influenzò l'opera, anonima, sullo specchio parabolico Speculi almukefi compositio e nella prima metà del XVI sec. fu impiegato da Johann Werner per il suo scritto sulle sezioni coniche, il Libellus super vigintiduobus elementis conicis (1522).

Nei testi di ottica esistono altre tracce della teoria delle sezioni coniche. Ne fanno parte in primo luogo le traduzioni degli scritti di Ibn al-Hayṯam; oltre al già citato De speculis comburentibus (tradotto presumibilmente ancora da Gherardo da Cremona), un traduttore ignoto compilò una versione latina della sua opera principale sull'ottica, il Kitāb al-Manāẓir, nota sotto il titolo Perspectiva. La Perspectiva di Ibn al-Hayṯam fu una delle fonti principali di Witelo (1225 ca.-dopo il 1275), il quale, probabilmente poco dopo il 1270, scrisse la sua Perspectiva in dieci libri: il Libro I tratta dei fondamenti matematici dell'ottica e i Libri dal V al IX della catottrica. Witelo, che nel 1268 o 1269 conobbe Guglielmo di Moerbeke a Viterbo, aveva con ogni probabilità una conoscenza diretta delle Coniche di Apollonio. La Perspectiva di Witelo fu utilizzata nel XIV sec. da Nicola Oresme e nel XV sec., tra gli altri, da Lorenzo Ghiberti (1378-1455), Regiomontano (m. 1476), Luca Pacioli e Leonardo da Vinci.

Va collocata presumibilmente a metà del XIV sec. la già citata opera sullo specchio parabolico, Speculi almukefi compositio, nella quale si dimostrano in maniera originale teoremi sulle caratteristiche delle parabole e delle iperboli. Questo scritto indusse Jean Fusoris (1365 ca.-1436) e Regiomontano a occuparsi di specchi sferici e, in tale contesto, anche di coniche.

La geometria applicata ai problemi astronomici

Il più importante strumento astronomico del Medioevo, l'astrolabio, si basava sul principio della proiezione stereografica, vale a dire la proiezione di una sfera su un piano: i cerchi sulla sfera celeste sono raffigurati sull'astrolabio mediante cerchi. Le caratteristiche di questa tecnica di proiezione erano note già a Tolomeo. Ermanno di Carinzia tradusse dall'arabo il Planisphaerium di Tolomeo, e anche alcune annotazioni a quest'opera di Maslama al-Maǧrīṭī (attivo intorno al 1000); inoltre due persone, di cui non si conoscono i nomi, tradussero altre annotazioni di Maslama e materiale a esse correlato. Può darsi che alcuni testi della tradizione di Maslama abbiano influenzato Giordano Nemorario, la cui opera sull'astrolabio, De plana sphaera, ebbe una certa diffusione, in diverse versioni.

Per risolvere i problemi astronomici, i Greci avevano sviluppato una 'geometria della sfera'. Così, nel suo scritto De sphaera quae movetur, Autolico (m. 310 a.C. ca.) si era occupato dei cerchi massimi, dei paralleli sulla sfera e delle intersezioni con i piani; Teodosio (I sec. a.C. ca.) e Menelao (I sec. d.C.) avevano stabilito nei loro scritti i fondamenti geometrici per il calcolo delle figure su di una sfera, adattando a essa i teoremi sui triangoli piani che si trovano negli Elementi di Euclide. Tutti e tre gli scritti, quello di Autolico, quello di Teodosio e quello di Menelao, erano disponibili in traduzione araba e, nel XII sec., furono tradotti dall'arabo in latino da Gherardo da Cremona. Degli Sphaerica di Teodosio esiste, oltre alla traduzione eseguita da Gherardo, anche una versione più lunga, opera presumibilmente attribuibile a Campano; vi è inoltre un commento agli Sphaerica di Menelao nella traduzione di Gherardo, anch'esso scritto probabilmente da Campano.

Per eseguire calcoli sulla sfera era necessario operare con segmenti correlati agli angoli o agli archi. I matematici greci scelsero a questo fine la corda che sottende un arco di cerchio; l'odierna trigonometria dei seni, che opera con semicorde, fu sviluppata soltanto dagli Indiani e dagli Arabi. Il teorema che costituiva uno dei fondamenti della trigonometria sferica dei Greci era il cosiddetto 'teorema delle trasversali', che Menelao applicò sulla sfera e che fu usato da Tolomeo per effettuare calcoli su di essa. Gli Arabi, com'è noto, hanno contribuito in modo essenziale all'evoluzione della trigonometria. Inoltre, hanno scoperto che esistono diciotto modi per esprimere il teorema delle trasversali, trattati per esteso e dedotti con una dimostrazione aritmetica da Ṯābit ibn Qurra nel suo scritto tradotto in latino da Gherardo da Cremona con il titolo De figura sectore.

Gherardo è anche il traduttore di due scritti di Aḥmad ibn Yūsuf (noto anche con il nome latinizzato Ametus filius Josephi, attivo intorno al 900), il Liber de arcubus similibus e l'Epistola de proportione et proportionalitate. Nel primo vengono dedotti teoremi su archi di cerchio e corde che vanno oltre il contenuto del Libro III degli Elementi di Euclide. Il secondo tratta della teoria delle proporzioni composte, che riveste grande importanza per l'astronomia sferica, e anche qui l'autore presenta risultati che vanno al di là delle conoscenze greche; egli fa notare che queste proporzioni si possono esaminare nel modo migliore sulla figura delle trasversali, e dimostra per via geometrica le possibili forme. Quest'opera ebbe ampia risonanza in Occidente e fu utilizzata tra gli altri da Leonardo Fibonacci, Campano da Novara, Tommaso Bradwardine e Luca Pacioli.

Le traduzioni dei due scritti sul teorema delle trasversali di Ṯābit ibn Qurra e di Aḥmad ibn Yūsuf stimolarono gli autori occidentali a occuparsi più attentamente di questo problema. Il passo sui diciotto possibili modi di esprimere il teorema delle trasversali è contenuto sia nel De proportionibus di Giordano Nemorario, che lo riprende dallo scritto di Ṯābit ibn Qurra, sia nel De proportione et proportionalitate di Campano, che lo attinge invece dall'opera con lo stesso titolo di Aḥmad ibn Yūsuf; entrambi gli autori, comunque, rielaborarono il materiale delle loro fonti. Inoltre, Campano è quasi sicuramente anche l'autore di un altro testo che espone con molta chiarezza il contenuto del trattato di Ṯābit ibn Qurra. In seguito questi scritti influenzarono altri studiosi come Ruggero Bacone e Regiomontano, che rielaborò lo scritto di Giordano Nemorario.

Una trigonometria delle corde piuttosto sviluppata la si trova comunque già nel Libro I dell'Almagesto di Tolomeo, in cui sono incluse anche tavole delle corde a intervalli di 30 e un metodo per calcolarle. Dato che l'Almagesto fu tradotto in latino due volte nel XII sec. (la prima volta direttamente dal greco, la seconda dall'arabo a opera di Gherardo da Cremona), tali procedimenti divennero noti anche in Occidente. I matematici dei paesi dell'area islamica, inoltre, recepirono e svilupparono ulteriormente le nozioni per il calcolo delle tavole trigonometriche tramandate sia dai Greci sia dagli Indiani. Grazie alle traduzioni, alcuni dei loro scritti giunsero anche in Occidente.

Gli Zīǧ al-Sindhind (Tavole astronomiche indiane) compilate attorno all'830 da al-Ḫwārizmī, che contengono tra l'altro una tavola dei seni e furono rielaborate da al-Maǧrīṭī, furono tradotte in latino da Adelardo di Bath ai primi del XII sec.; una revisione della traduzione di Adelardo si deve a Roberto di Chester. In tale contesto va ricordata anche la grande opera di astronomia di Muḥammad ibn Ǧābir al-Battānī (attivo fra la seconda metà del IX e l'inizio del X sec., noto in latino come Albatenius o Albategni), al-Zīǧ al-ṣābi᾽ (Tavole astronomiche sabee, dall'appellativo di al-Battānī, la cui famiglia professava originariamente la fede dei Sabei di Ḥarrān). Tradotta in latino con il titolo Opus astronomicum da Platone di Tivoli, nel XII sec., e stampata nel 1537, essa rappresentò un'altra importante fonte per la conoscenza della trigonometria in Occidente e in particolare del teorema dei seni per il triangolo rettangolo.

Per quanto concerne la regione dell'Andalus, una notevole influenza ebbe l'Iṣlāḥ al-Maǧisṭī (La rettifica all'Almagesto), scritto nel XII sec. a Siviglia da Ǧābir ibn Aflaḥ; quest'opera, presto tradotta in latino da Gherardo da Cremona, intendeva sostituire i teoremi sulla figura delle trasversali con teoremi sui triangoli sferici, come il teorema dei seni per i triangoli rettangoli sferici e per i triangoli sferici in generale. Anche le spiegazioni alle Tavole di Toledo, i Canones sive regule super tabulas Toletanas (attribuiti ad al-Zarqālluh, attivo nell'XI sec.), esercitarono un profondo influsso in Europa occidentale grazie alla traduzione in latino, dovuta quasi sicuramente, ancora una volta, a Gherardo da Cremona. I Canones contengono due tavole dei seni e il procedimento per calcolare il valore dei seni spiegato in quest'opera fu utilizzato tra gli altri da Giovanni di Lignères (XIV sec.) e da Giovanni di Gmunden (XV sec.) per compilare le loro tavole dei seni. Sulla base delle tavole di al-Zarqālluh, inoltre, furono redatte intorno al 1270 in lingua castigliana le cosiddette Tavole alfonsine (compilate presso la corte del re Alfonso X di Castiglia, 1252-1284), tradotte poi in latino con alcune modifiche e ristampate più volte a partire dal 1483. Tra i Libros del saber de astronomía, compilati nel 1276/1277 e provenienti sempre dalla cerchia di Alfonso X, si trova anche una tavola dei seni e una delle cotangenti che rimanda ad al-Battānī. Sulle tavole astronomiche provenienti da testi arabi si basano poi i Canones tabularum primo mobilis redatti da Giovanni di Lignères nel 1322; essi contengono anche una tavola dei seni. La più completa esposizione del sapere trigonometrico in Occidente prima della fine del XV sec. si trova comunque in Riccardo di Wallingford, soprattutto nei suoi due scritti Quadripartitum e De sectore, redatti anteriormente al 1335.

Anche se numerosi importanti testi arabi di geometria non furono tradotti in latino durante il Medioevo, è comunque grazie alle traduzioni latine che una parte non irrilevante del sapere geometrico degli Arabi divenne nota in Occidente. Le traduzioni non ispirarono soltanto rielaborazioni e rifacimenti, ma influirono anche sui diversi rami della matematica e su altre discipline. Così, la teoria delle proporzioni, che si sarebbe rivelata di grande importanza per l'astronomia matematica, favorì anche un approccio quantitativo ai problemi della fisica, per esempio per esprimere il rapporto tra forza motrice, resistenza e velocità secondo la teoria di Aristotele. Inoltre, le riflessioni sulle questioni relative alla continuità anticiparono i paradossi della teoria degli insiemi. Si può anche ricordare la teoria delle latitudini delle forme, che culmina nel cosiddetto 'teorema di Merton', ovvero in una descrizione del rapporto tra tempo e distanza percorsa nel caso di un moto uniformemente accelerato. L'astronomia matematica in Europa occidentale, infine, si servì dei metodi trigonometrici degli Arabi e anzi non è concepibile al di fuori del loro contributo. Alle traduzioni di opere matematiche in latino dall'arabo non si deve, tuttavia, soltanto il fatto che nel Basso e Tardo Medioevo la matematica abbia raggiunto in Europa vette notevoli; si può affermare che la matematica moderna, nata nel XVII sec., non si basa soltanto sulla matematica del Rinascimento ma anche sui progressi di questa disciplina divulgati in Occidente nei secc. XII e XIII grazie alle traduzioni dall'arabo.

Bibliografia

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