La civiltà islamica: teoria fisica, metodo sperimentale e conoscenza approssimata. L'ottica

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: teoria fisica, metodo sperimentale e conoscenza approssimata. L'ottica

A. Mark Smith
Graziella Federici Vescovini
Eyal Meiron

L'ottica

L'eredità dell'ottica araba nel mondo latino

di A. Mark Smith

Come in molti altri campi scientifici, anche nell'ottica la tradizione araba influenzò profondamente il pensiero degli autori latini medievali e rinascimentali, orientandone gli sviluppi lungo alcune direttrici principali; in particolare sono state evidenziate quattro linee di influenza.

La prima, che può essere definita euclidea, si basa sugli insegnamenti di Ya῾qūb al-Kindī (m. 870 ca.), che ci sono pervenuti soltanto attraverso la traduzione latina di una sua opera intitolata Liber de causis diversitatum aspectus, nota come De aspectibus. La seconda, che è una diramazione della prima, è rappresentata da un certo numero di opere greche filtrate nella tradizione latina direttamente dall'arabo, tra le quali la più significativa è senza dubbio l'Ottica di Tolomeo, tradotta dall'arabo in latino verso la metà del XII secolo. La terza linea d'influenza è quella originata dalla scuola galenica di studi anatomici e fisiologici di cui facevano parte gli scritti di Ḥunayn ibn Isḥāq (noto nel mondo latino come Johannitius, m. 873) sull'anatomia e la fisiologia oculare, e vari trattati, fra i quali il Canone di Avicenna e i commentari di Averroè al De anima di Aristotele, dove la teoria aristotelica della percezione è interpretata nei termini della fisiologia pneumatica di Galeno. Infine, la quarta linea d'influenza, quella che indubbiamente esercitò il maggiore influsso sullo sviluppo dell'ottica occidentale medievale e rinascimentale, è riconducibile al Kitāb al-Manāẓir (Libro dell'ottica) di Ibn al-Hayṯam (m. 1040 ca.). Quest'opera, tradotta in latino intorno al 1200 sempre con il titolo di De aspectibus, svolse un ruolo fondamentale nell'evoluzione della tradizione ottica nota come perspectiva, che prese corpo negli scritti di Ruggero Bacone (1265 ca.), Witelo (1275 ca.) e Giovanni Peckham (1280 ca.).

Le ricerche di derivazione euclidea

Benché non si possa escludere che al-Kindī abbia avuto la possibilità di consultare l'Ottica di Tolomeo, dai suoi scritti pervenutici sull'argomento non sembra che egli abbia messo a frutto tali conoscenze, come nel caso del De aspectibus. Opera di stampo euclideo, il De aspectibus di al-Kindī costituì un'autorevole fonte di riferimento per concetti fondamentali quali, per esempio, la propagazione in linea retta della luce, la formazione delle ombre e l'uguaglianza degli angoli di riflessione. Oltre a Bacone, che fece largo uso di quest'opera, non solo nella Perspectiva, ma anche nel De multiplicatione specierum (1260 ca.), esistono varie citazioni del De aspectibus da parte di Peckham e di Witelo, il quale tuttavia non ne indica la fonte. La versione latina del De aspectibus, attribuita a Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187), è sopravvissuta in quattordici esemplari manoscritti; di questi, tre risalgono al XIII sec. o agli inizi del XIV, sei al XIV o agli inizi del XV sec. e cinque al XVI secolo.

Al-Kindī può definirsi un euclideo in senso lato, poiché, al pari di Euclide, fu sostenitore di una teoria della visione basata sulla proiezione del raggio visivo e, sia nell'identificazione dei problemi sia nell'impostazione metodologica, si servì di basi analitiche euclidee, come si evince dal De aspectibus. Tuttavia, egli prese le distanze da Euclide su almeno tre punti fondamentali. In primo luogo, diversamente da questi egli nega la realtà dei raggi visivi come entità fisiche discrete, postulando invece l'esistenza di un cono ottico perfettamente continuo e non composto da singoli raggi. In secondo luogo, al-Kindī non concorda con Euclide per quel che riguarda la fisica della radiazione e, invece di postulare l'emissione di un flusso fisico da parte dell'occhio, attribuisce a quest'ultimo la capacità di trasformare il mezzo intermedio fra l'occhio stesso e gli oggetti visibili, rivelando una certa affinità con le dottrine stoiche e galeniche. In terzo luogo, al-Kindī sposta sulla superficie anteriore della cornea l'origine dell'emissione visiva che Euclide collocava invece all'interno dell'occhio. Su queste tre premesse si fonda il modello d'irraggiamento delineato nella prop. 14 del De aspectibus.

Tale proposizione inizia supponendo che l'arco ABG rappresenti la parte otticamente sensibile dell'occhio, e che EZ sia tangente all'arco nel punto medio B. Si suppone, inoltre, che HT e IK siano tangenti all'arco rispettivamente nei punti estremi A e G, e che l'arco HEILTZK, concentrico rispetto ad ABG, rappresenti l'oggetto visibile. Ne consegue che, se prendiamo come fonti di emissioni ottiche i punti A, B e G, l'arco HT rappresenta il campo d'irradiazione di A, l'arco EZ il campo d'irradiazione di B e l'arco IK il campo d'irradiazione di G. Più ci avviciniamo a L, più aumenta la sovrapposizione fra questi campi d'irradiazione, fino a raggiungere il massimo grado in L stesso. Ecco perché la visione è più chiara lungo l'asse ottico LB e diminuisce costantemente a mano a mano che la direttrice visuale si allontana da L. È evidente, quindi, che il centro D dell'occhio non svolge alcun ruolo funzionale nella fisica della radiazione, e che il 'raggio' di al-Kindī (rappresentato da BL) è una convenzione analitica e non un'entità reale. Il contributo più importante di al-Kindī all'ottica occidentale resta quindi il modello proposto nella prop. 14 del De aspectibus, utilizzato da tutti i più importanti esponenti della perspectiva (ossia Bacone, Witelo e Peckham) per scomporre la sfera di propagazione in raggi virtuali. E fu proprio grazie a questa scomposizione che i seguaci della prospettiva riuscirono a interpretare l'analisi puntiforme delle emissioni di luce e di colore proposta da Ibn al-Hayṯam.

Un'altra opera di al-Kindī da menzionare è il De radiis stellarum. Della versione latina, che probabilmente risale al tardo XII sec., restano 20 copie manoscritte. Nonostante sia un trattato più rivolto all'astrologia che non all'ottica, il De radiis è interessante per la sua tesi centrale, secondo la quale ogni entità nel Cosmo irradia una forza, o influsso, verso tutte le altre entità; di conseguenza, tutte le cose sono legate le une alle altre in una rete di influssi reciproci. Sebbene non vi siano riferimenti diretti a tale concetto negli scritti di ottica di autori latini, e in particolare in quelli dei teorici della perspectiva, è possibile coglierne un'eco inequivocabile nei testi di ottica sia di Bacone sia del maestro di questi, Roberto Grossatesta (1175-1253). La sua influenza è particolarmente evidente nel De multiplicatione specierum di Bacone, in cui si sostiene che gli oggetti influiscono di continuo gli uni sugli altri per mezzo di specie particolari che si propagano da ciascuno di essi in tutte le direzioni. L'insistenza di Bacone nella Perspectiva sul fatto che le specie sono emanate sia dall'occhio sia dall'oggetto visibile si fonda presumibilmente sulla credenza in tali influenze reciproche.

Gli influssi greco-arabi

Oltre all'Ottica di Tolomeo, appartengono al filone greco-arabo altre due opere, che tuttavia rivestono un'importanza marginale: il De speculis di Tideo, un'opera tardo-antica, e il De speculis pseudoeuclideo, consistente in una raccolta di teoremi tratti dall'Ottica e dalla Catottrica di Euclide e dalla Catottrica di Erone di Alessandria. Di questi due brevi scritti, che si ritiene siano stati tradotti in latino da Gherardo da Cremona, esistono rispettivamente 15 e 18 esemplari manoscritti. Il trattato di Tideo, data la sua natura discorsiva e priva di teoremi, ha esercitato sulla tradizione ottica latina un'influenza di tipo generico e difficilmente rilevabile. Infatti, nonostante Bacone citi nella Perspectiva Tideo (il quale sosterrebbe che, se l'occhio non irradiasse qualcosa verso gli oggetti, per noi sarebbe impossibile valutarne la distanza), non esistono prove evidenti di un'influenza specifica né su Bacone, né su altri studiosi di ottica occidentali. Il De speculis pseudoeuclideo presenta invece un insieme di teoremi geometrici, e pertanto la sua influenza è più facilmente rintracciabile rispetto all'opera di Tideo. Per esempio, è evidente che la prop. 11 del De speculis pseudoeuclideo è alla base della prop. 35 del Libro II della Perspectiva di Witelo, in cui si sostiene che più i raggi di luce si allontanano dal punto-sorgente, più tendono a disporsi su linee parallele. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, il De speculis pseudoeuclideo sembra essere stato utilizzato come sostegno alle tesi contenute in altre opere più celebri, quali la Catottrica di Euclide (in particolare, l'ultima proposizione sulle proprietà focali degli specchi sferici concavi) e la Catottrica di Erone di Alessandria.

L'Ottica di Tolomeo, di gran lunga la più importante del filone greco-arabo, oltre a essere notevolmente più estesa di tutti gli altri trattati menzionati finora, abbraccia un orizzonte più vasto e mostra una maggiore coerenza nell'analisi. Infatti, sebbene si tratti apparentemente di un'opera dedicata esclusivamente all'ottica fisica (cioè alla teoria dei raggi), il trattato di Tolomeo propone un'ampia analisi della percezione visiva considerata non soltanto in relazione ai suoi fondamenti fisici, ma anche alle sue basi psicologiche e, in certa misura, fisiologiche. L'unica versione pervenutaci è la traduzione latina realizzata nel XII sec. dall'ammiraglio Eugenio di Sicilia che, secondo quanto afferma egli stesso, si basò su due esemplari arabi; non ci sono copie in lingua greca o araba. Così come ci è pervenuto il trattato è gravemente mutilo, poiché mancano il Libro I e la sezione finale del Libro V e tutto concorre a indicare che tali lacune fossero già presenti nella tradizione araba; è certo, per esempio, che fossero presenti anche nel testo utilizzato all'inizio dell'XI sec. da Ibn al-Hayṯam. L'importanza attribuita all'Ottica di Tolomeo dagli studiosi europei è dimostrata dalla sopravvivenza di tredici manoscritti completi e due incompleti, un numero piuttosto elevato considerate le dimensioni e le caratteristiche tecniche dell'opera. Per quanto riguarda gli esempi documentabili della sua influenza, il primo a utilizzare l'Ottica di Tolomeo in modo sistematico fu Bacone, che la considerava il complemento naturale al De aspectibus di Ibn al-Hayṯam, nonostante la teoria dell'introiezione di quest'ultimo fosse in netto contrasto con quella della proiezione visiva, sostenuta apertamente da Tolomeo. Di fatto Bacone considerava l'opera ottica di Ibn al-Hayṯam poco più di un'elaborazione di quella di Tolomeo, un giudizio non del tutto infondato, visto l'enorme debito di Ibn al-Hayṯam nei confronti di Tolomeo. Di conseguenza, Tolomeo e Ibn al-Hayṯam sono spesso citati insieme sia nel De multiplicatione specierum sia nella Perspectiva.

Il contributo più significativo di Tolomeo alla tradizione ottica occidentale fu senza dubbio l'analisi della rifrazione; la sua spiegazione quasi dinamica di questo fenomeno ottico, basata sulle differenze di densità dei mezzi ottici, spinse Ibn al-Hayṯam e i suoi seguaci europei a pensare alla radiazione in termini di materia in movimento, seppure virtuale, e alla rifrazione in termini d'impatto fisico e di deviazione. In maniera analoga, la sua tabulazione degli angoli d'incidenza e di rifrazione nel passaggio dei raggi dall'aria all'acqua, dall'aria al vetro e dall'acqua al vetro svolse un ruolo importante nella comprensione della rifrazione da parte degli studiosi europei. Per esempio, Witelo nella sua Perspectiva riporta quasi letteralmente le tabulazioni di Tolomeo (che per qualche motivo Ibn al-Hayṯam omette) ed è per il tramite di Witelo che esse pervennero a René Descartes (1596-1650); non è escluso che quest'ultimo abbia mutuato da Tolomeo, seppure indirettamente, l'approccio sperimentale all'analisi della rifrazione (basata su un cerchio il cui diametro rappresenta l'interfaccia ottica).

Esistono motivi sufficienti per ritenere che l'Ottica di Tolomeo abbia svolto un ruolo nella rinascita della teoria della proiezione visiva durante il Rinascimento, forse motivato, almeno in parte, dall'emergere della tecnica della prospettiva pittorica, che incentrava l'analisi sul cono visuale anziché su quello di irraggiamento. Indipendentemente dalla validità di questa ipotesi, può essere interessante notare che otto delle tredici copie manoscritte complete dell'Ottica risalgono al XVI sec., epoca in cui la tecnica della prospettiva pittorica stava acquistando popolarità in tutta Europa. Tuttavia, tolte queste eccezioni, la teoria proiezionista della visione di Tolomeo fu respinta dalla maggior parte dei teorici latini, che propendevano per la teoria dell'introiezione sostenuta da Ibn al-Hayṯam e dai suoi seguaci teorici della perspectiva. L'Ottica di Tolomeo avrebbe esercitato un'influenza ancora maggiore sull'evoluzione dell'ottica occidentale se non fosse stata soppiantata dalla versione latina del De aspectibus di Ibn al-Hayṯam, che destò grande interesse presso gli studiosi. L'opera di Tolomeo non fu però dimenticata, come dimostra il fatto che Bacone la ritenesse una fonte autorevole e che il testo sia sopravvissuto nel corso del Medioevo e del Rinascimento, a testimonianza di un interesse più che occasionale nei confronti dell'opera. Regiomontano (Johann Müller, 1436-1476), noto per la profonda conoscenza dell'astronomia tolemaica, si adoperò senza risultato per fare stampare l'Ottica, mentre circa settant'anni più tardi Georg Hartmann si rammaricava di non potere pubblicare l'opera per mancanza di un esemplare manoscritto sicuro.

Gli studi galenici e la mediazione araba

Galeno influenzò notevolmente l'Occidente latino attraverso i trattati di medicina araba e in particolare quelli anatomici e fisiologici, sui quali aveva esercitato un forte ascendente. Per quel che riguarda l'anatomia e la fisiologia oculare, l'intermediario più importante fu Ḥunayn ibn Isḥāq, il cui Kitāb al-῾Ašr maqālāt fī 'l-῾ayn (Libro dei dieci trattati sull'occhio) fornisce una trattazione sistematica di nozioni contenute principalmente nel De usu partium e nel De placitis. La versione latina del Kitāb al- ῾Ašr maqālāt risale alla fine dell'XI sec., due secoli prima che l'opera di Galeno su cui esso si basa fosse tradotta in latino con il titolo De usu partium. Ḥunayn si attiene a Galeno per quel che riguarda l'identificazione delle varie tuniche e umori dell'occhio e, come Galeno, sottolinea la funzione centrale svolta dal cristallino quale sede della sensazione visiva. Anche quando esamina le parti dell'occhio dal punto di vista della loro funzione, Ḥunayn si rifà a Galeno e dà risalto al cristallino, che rappresenta 'ciò a vantaggio del quale' è concepito l'intero sistema oculare, le cui varie parti servono a proteggere e coadiuvare il cristallino nel suo ruolo di sensore visivo. Essendo quindi centrale sul piano della funzionalità, conclude Ḥunayn, il cristallino deve essere centrale anche sul piano fisico, e in questo senso egli si emancipa completamente da Galeno, che invece poneva il cristallino nella parte anteriore del globo oculare.

Secondo Ḥunayn, ciascun occhio è collegato al cervello tramite il nervo ottico cavo, che ha origine nella parte anteriore del cervello e, spingendosi in avanti, s'incrocia con il suo gemello nel chiasmo ottico, prima di raggiungere la parte posteriore del globo oculare. Il cervello, da parte sua, possiede quattro ventricoli (o cavità), colmi di pneuma psichico, un distillato dello pneuma vitale prodotto nel ventricolo sinistro del cuore. Fuoriuscendo da tali cavità sotto forma di pneuma visivo, questo flusso spirituale scorre lungo il nervo ottico diffondendosi nell'occhio fino a raggiungere il cristallino, che diviene in tal modo sensibile alla visione. Permeando il cristallino di sensibilità visiva, questo flusso pneumatico fornisce anche il mezzo attraverso il quale le impressioni visive formatesi nel cristallino sono trasmesse a ritroso al cervello, mediante i nervi ottici, per la valutazione percettiva. La confluenza dei nervi a livello del chiasmo ottico, quindi, permette la fusione delle impressioni visive provenienti da entrambi gli occhi, sicché l'immagine che vediamo è singola e non doppia.

Pur ammettendo che il cervello svolge un ruolo cruciale nella percezione visiva, Ḥunayn non spiega in quale modo esso adempia a questo compito. Per risolvere tale questione, alcuni autori arabi, quali al-Ġazālī, Avicenna e Averroè, svilupparono una teoria della percezione e della cognizione fondata sulla psicologia delle facoltà di Aristotele e sul modello di cervello proposto da Galeno, che diede come risultato il cosiddetto modello cognitivo dei 'sensi interni' (sensus de intus) o delle 'facoltà interiori' (vires interiores). Secondo tale modello, il cervello consiste di tre cavità interconnesse disposte una dietro l'altra dalla fronte all'occipite (a volte la cavità anteriore è rappresentata 'a forma di corna' e quindi doppia). Pervasa di spiriti animali (equivalenti allo pneuma psichico di Galeno), ogni cavità presiede a determinate funzioni percettive e cognitive in virtù delle specifiche facoltà che risiedono al suo interno. Tali facoltà formano una gerarchia che, in ordine inverso, va dal senso comune, attraverso l'immaginazione, alla fantasia (tutte e tre specifiche della percezione), per giungere quindi, tramite il ragionamento, alla memoria intellettuale. L'impressione sensoriale visiva che arriva al cervello attraverso il nervo ottico è elaborata e raffinata per stadi, essendo sottoposta anzitutto al giudizio percettivo nelle cavità anteriori (una o due), quindi all'apprendimento intellettuale nella cavità intermedia e infine alla ritenzione mnemonica nella cavità occipitale. Questo modello cognitivo forma la base, se non esplicita, quanto meno implicita, della teoria della percezione e della certificazione, o conoscenza, visiva di Ibn al-Hayṯam. Di fatto, una volta appreso dalle fonti arabe il modello cognitivo dei sensi interni, i discepoli latini di Ibn al-Hayṯam del XIII sec., e in particolare Bacone, fecero propri questi assunti e li resero perfettamente espliciti. Di conseguenza, il modello dei sensi interni restò il punto di riferimento canonico dell'analisi della percezione visiva nell'Occidente latino fino all'inizio del XVII secolo.

Come per il modello dei sensi interni, così anche per il modello di anatomia e fisiologia oculare di Galeno-Johannitius, Ibn al-Hayṯam rappresenta una fonte di importanza cruciale per i teorici latini dell'ottica, che da lui derivarono la propria concezione della struttura dell'occhio. Particolarmente importante è il risalto dato da Ibn al-Hayṯam al cristallino quale sede della sensibilità visiva. Per quel che riguarda la sua influenza diretta, tuttavia, le ripercussioni più significative della diffusione del modello anatomo-fisiologico dell'occhio proposto da Ḥunayn si ebbero nella comunità medica latina. La prova più evidente della sua influenza è la convinzione, molto diffusa fra gli studiosi occidentali di medicina, che il cristallino si trovi al centro dell'occhio, convinzione che risale come minimo all'inizio del XII sec. (per es., nel De oculis eorumque egritudinibus et curis di Benvenuto Grasso). Accolta anche da studiosi di discipline non mediche quali Leonardo da Vinci e Francesco Maurolico, autore dei Photismi de lumine (pubblicato postumo nel 1611), questa idea, peraltro errata, trovò credito persino presso i più colti anatomisti del XVI secolo. L'esempio più eclatante è quello di Andrea Vesalio, il pionieristico autore del De fabrica (1543), la cui abilità di dissettore, che gli consentì di rilevare le inesattezze di certe affermazioni anatomiche di Galeno, non gli impedì tuttavia di 'vedere' il cristallino nel centro fisico dell'occhio. Fu soltanto verso la fine del XVI sec., quando Felix Platter (m. 1614) mise in discussione la funzione del cristallino come recettore sensibile, che questa idea cominciò a vacillare. La dimostrazione di Kepler che il cristallino è semplicemente un dispositivo di messa a fuoco collocato nella parte anteriore dell'occhio, contenuta nell'Ad Vitellionem paralipomena (1604), compromise definitivamente tale nozione.

Ibn al-Hayṯam e la perspectiva

L'autore che maggiormente influenzò lo sviluppo dell'ottica europea medievale e rinascimentale fu Ibn al-Hayṯam con il De aspectibus; infatti fu lungo le direttrici del suo pensiero che la scienza ottica si affermò nell'Occidente latino sotto forma di perspectiva. Questa corrente, rappresentata da quattro opere fondamentali ‒ il De multiplicatione specierum e la Perspectiva di Bacone, la Perspectiva di Witelo e la Perspectiva communis di Giovanni Peckham ‒, ha costituito il principale quadro di riferimento di tutti gli studi sulla visione e sulla luce che furono realizzati in Europa fino all'inizio del XVII secolo.

L'importanza della tradizione della perspectiva è dimostrata dal numero di esemplari manoscritti e a stampa in cui sono pervenute le opere più rappresentative di tale corrente. Del De aspectibus di Ibn al-Hayṯam, per esempio, esistono ventidue copie manoscritte, delle quali diciassette complete o quasi; esiste anche una copia di una versione italiana del XVI secolo. Dei ventinove manoscritti della Perspectiva di Witelo, venti sono completi o praticamente tali. Il De aspectibus e la Perspectiva furono pubblicati da Friedrich Risner nel 1572, mentre la Perspectiva di Witelo venne data alle stampe addirittura prima, in un'edizione del 1535 ristampata sedici anni più tardi. La Perspectiva di Bacone, dal canto suo, sopravvive in quasi quaranta manoscritti e in un'edizione a stampa del 1614, mentre della Perspectiva communis di Peckham esistono oltre sessanta manoscritti e undici edizioni a stampa che sono apparse fra il 1482 e il 1627. Infine, del De multiplicatione specierum di Bacone, che sia per il contenuto sia per l'approccio riveste un'importanza secondaria, esistono ventiquattro manoscritti. Per valutare appieno l'importanza di queste cifre, che a un primo sguardo possono apparire poco significative, occorre considerare le dimensioni e la complessa natura tecnica di tali opere, specialmente il De aspectibus di Ibn al-Hayṯam e la Perspectiva di Witelo. La prima, infatti, conta oltre 200.000 parole, la seconda almeno la metà, ed entrambe richiedono la conoscenza delle sezioni coniche.

L'influenza di Ibn al-Hayṯam sull'evoluzione e la diffusione della scienza della perspectiva durante il Medioevo e il Rinascimento fu tanto vasta quanto profonda. La perspectiva, nella maggior parte dei casi, costituisce poco più di un'elaborazione, o delucidazione, delle teorie della luce e della visione proposte da Ibn al-Hayṯam nel De aspectibus, come dimostra, per esempio, la diffusione del modello di irradiazione della luce e del colore di Ibn al-Hayṯam. Secondo questo autore, la luce e il colore sono naturalmente capaci d'irradiare le proprie forme attraverso un mezzo trasparente. Pertanto, qualsiasi corpo luminoso può essere pensato come un mosaico di punti luminosi, ciascuno dei quali diffonde la propria forma laddove la trasparenza del mezzo lo consente. Il risultato è una sfera di propagazione che può, a sua volta, essere scomposta in innumerevoli raggi, ciascuno dei quali delinea la linea di propagazione di un determinato punto-forma di luce. Quando raggiungono l'occhio, i raggi generano su di esso un'impressione visibile e di conseguenza la nostra impressione visiva complessiva degli oggetti esterni risulta dalla combinazione di una moltitudine di tali punti-forma.

Le implicazioni aristoteliche di questa spiegazione sono piuttosto ovvie, tuttavia a renderle esplicite sono i teorici della perspectiva, e in particolare Bacone, che per formulare la sua spiegazione sceglie il linguaggio della moltiplicazione delle specie. Egli spiega che la luce è una qualità intrinseca degli oggetti luminosi; in tale stato è detta lux e possiede la capacità inerente di riprodursi in un mezzo trasparente creando la propria species, ossia il lumen. Quest'ultimo, pertanto, è la causa formale della lux, mentre il mezzo trasparente continuo ne è la causa materiale. Inoltre, la trasmissione ‒ o moltiplicazione ‒ del lumen attraverso il mezzo continuo è un fenomeno spazio-temporale, nella misura in cui ogni punto di lumen crea la propria specie nella parte del mezzo a esso adiacente, e così via. Di conseguenza, il raggio si forma grosso modo come una traiettoria e l'irradiazione della luce assume un'evidente connotazione cinetica, in quanto la specie o punto-forma è analoga a un proiettile fisico lanciato dal punto-sorgente di luce originale.

La spiegazione della luce e della sua azione fisica proposta da Ibn al-Hayṯam si fonda proprio sull'analogia del proiettile, come dimostra l'esempio della teoria della rifrazione. La sua analisi si basa sull'impedimento costituito dal mezzo rifrangente, come l'aria o il vetro, la cui densità ottica è, in un certo senso, una funzione della densità materiale. Simile a un proiettile fisico, la luce colpisce la superficie del mezzo rifrangente lungo una determinata traiettoria rappresentata dal raggio incidente; a seconda della resistenza esercitata dal mezzo, la luce, penetrandolo, perde vigore. Tale perdita, che è minima se la luce colpisce la superficie perpendicolarmente, aumenta con l'angolo di incidenza fino a quando, finalmente, non riuscendo più ad attraversare il mezzo, la luce si riflette. Da un punto di vista dinamico, prosegue Ibn al-Hayṯam, ciò che si verifica nella rifrazione è analogo a quanto accade quando si colpisce un corpo solido con una spada. Il colpo è più forte se inferto direttamente (per es., in perpendicolare) e tanto più debole quanto più è obliquo. In ogni caso, finché il colpo riesce a penetrare nel corpo ‒ per esempio, quando la spada fende ad angolo un ceppo ‒ la lama tende a deviare verso la normale poiché cerca il percorso più efficace, che tende alla perpendicolare, lungo la quale il colpo manifesta la sua massima forza. Questo è il motivo per cui la luce, quando è rifratta in un mezzo più denso, tende verso la normale; in questo modo, essa tenta di recuperare la perdita che subirebbe nel proseguire lungo il percorso originale, cercando così naturalmente il percorso più efficiente possibile. Ripresa dai teorici della perspectiva discepoli di Ibn al-Hayṯam, quest'analisi dinamica della rifrazione produsse i suoi frutti migliori molti secoli dopo, con la 'prova' di Descartes della legge del seno nella Dioptrique (1637).

Ibn al-Hayṯam e i teorici della perspectiva attribuirono alla luce e al colore anche alcune proprietà dinamiche, al fine di spiegare la selezione di immagini visive coerenti da parte del cristallino. Dopo tutto, se ogni punto del cristallino è bombardato da punti-forma provenienti da ogni punto della superficie dell'oggetto che si ha di fronte, come è possibile che ne derivi un'immagine definita? La risposta risiede nella struttura fisica e fisiologica dell'occhio. Il globo esterno, con centro nel punto A e consistente nella sclerotica e nella cornea, contiene una sfera più piccola, l'uvea, con centro in B. La sfera uveale ha un'apertura anteriore, la pupilla, e una posteriore per il nervo ottico cavo. Situato nella parte anteriore dell'occhio, il cristallino è composto da due sfere intersecantisi, di cui quella che forma la sua faccia anteriore ha centro in A. Pervaso dagli spiriti visivi che penetrano nell'occhio attraverso il nervo ottico, il cristallino è sensibilizzato in modo da poter 'sentire' visivamente le impressioni fisiche di luce e colore che lo colpiscono. Tuttavia, esso è concepito per sentire, e quindi accettare, soltanto le impressioni che lo colpiscono perpendicolarmente; le altre, oblique e più deboli, sono semplicemente ignorate. In tal modo il cristallino seleziona intenzionalmente una rappresentazione visibile puntiforme dell'oggetto originale.

Il cristallino è rifrangente anche grazie all'umore glaciale di cui è pieno; perciò, i punti-forma di luce e colore che lo colpiscono lungo la perpendicolare l'attraversano direttamente senza rifrangersi, mentre gli altri sono deviati uscendo dal campo di azione. Continuando verso il retro del cristallino, dove l'umore glaciale s'incontra con il più denso umore vitreo che riempie l'uvea, i punti-forma sono rifratti e convogliati nel giusto ordine verso il nervo ottico cavo. Trasmessa quindi al cervello tramite gli spiriti visivi, questa rappresentazione sensibile ‒ o immagine visiva ‒ è sottoposta a un'attenta analisi percettiva, basata sulle ventidue intenzioni visibili che caratterizzano tutti gli oggetti materiali. Di queste (che rappresentano un elenco molto ampliato dei sensibili di Aristotele), due ‒ vale a dire la luce e il colore ‒ sono acquisite tramite la 'vista semplice' (aspectus simplex). Le altre sono catturate per inferenza mediante una scansione percettiva detta 'intuizione' (intuitio), che è svolta dalla 'facoltà discriminante' (virtus distinctiva) e permette l'acquisizione delle caratteristiche o intenzioni determinanti dell'oggetto rappresentato, e quindi della forma universale. Tale forma, o 'specie', caratterizza l'oggetto nella sua massima generalità; con essa, pertanto, si è giunti al livello concettuale di cui si occupa l'intelletto.

Sebbene questa teoria della percezione visiva, così complessa e raffinata, abbia costituito, per gli studiosi di ottica dell'Europa latina, il lascito più importante di Ibn al-Hayṯam, non bisogna sottovalutare le applicazioni metodologiche e tecniche della sua opera. In particolare, il risalto dato da Ibn al-Hayṯam alla sperimentazione (a sua volta mutuato da Tolomeo) si ritrova nell'analisi della luce operata dai teorici della perspectiva, come dimostra chiaramente la descrizione dettagliata, fatta da Witelo nel Libro V della Perspectiva, dell'elaborato apparato ideato da Ibn al-Hayṯam allo scopo di fornire la conferma visiva della legge dell'uguaglianza degli angoli di riflessione la cui costruzione è descritta nel Libro IV del De aspectibus.

Il contributo di Ibn al-Hayṯam fu notevole anche da un punto di vista matematico. Il suo impiego delle sezioni coniche per risolvere quello che nel XVII sec. divenne 'il problema di Alhazen' (cioè, dati un centro di visione e un punto-sorgente di luce, trovare il punto di riflessione su uno specchio sferico convesso o concavo) spinse Witelo a dedicare alla matematica tutto il libro iniziale della Perspectiva, in cui espone le premesse necessarie per la sua successiva applicazione al fenomeno della riflessione. Inoltre, la trattazione di Ibn al-Hayṯam del problema degli specchi ustori parabolici costituì la base da cui prese le mosse Bacone per l'analisi del problema nel suo De speculis comburentibus. Ibn al-Hayṯam, dunque, svolse un ruolo significativo nel trasmettere all'Occidente latino le conoscenze sulle sezioni coniche.

Il filo rosso che legava la tradizione ottica araba a quella latina fu spezzato all'inizio del XVII sec., quando Kepler pubblicò il suo Ad Vitellionem paralipomena. In realtà, il contenuto di quest'opera non era affatto un emendamento, ma una confutazione a tutto campo della teoria della visione propugnata dai seguaci della perspectiva. La questione centrale per Kepler era la funzione di filtro sensibile dei raggi perpendicolari che si supponeva fosse svolta dal cristallino. Che accadrebbe, si chiedeva, se il cristallino non fosse più privilegiato di un qualsiasi altro corpo rifrangente? Utilizzando come corpo rifrangente un'ampolla sferica piena d'acqua, egli esaminò il percorso seguito dai raggi nell'attraversarla e stabilì che l'ampolla focalizzava, sul lato opposto, tutti i raggi emessi da ciascun punto-sorgente di luce. Data questa premessa, se ogni oggetto visibile consiste in una moltitudine di tali punti-sorgente, ciascuno di essi sarà dotato di un fuoco specifico (non considerando l'aberrazione sferica). Da ciò risulta, come comprese Kepler, una rappresentazione puntiforme capovolta (pictura) dell'oggetto che è proiettata, e chiaramente delineata, su uno schermo curvo posto dietro l'ampolla. In base a ciò, egli giunse alla conclusione che la vera funzione del cristallino non è né quella di astrarre un'immagine sensibile intenzionale dalle impressioni ortogonali, né quella di selezionare i raggi perpendicolari per il successivo passaggio attraverso il complesso ottico. Essa è, invece, quella di focalizzare tutti i raggi in arrivo sulla retina, su cui è rappresentata l'immagine visibile risultante. In sostanza, dunque, Kepler trasformò l'occhio da un percettore attivo d'immagini in un ricevitore passivo di luce e, così facendo, spostò definitivamente l'asse dell'indagine ottica dal processo soggettivo della visione all'azione oggettiva della luce. Tuttavia, vale la pena notare che, per quanto rivoluzionarie siano state le conseguenze di tale trasformazione, i mezzi con cui essa si attuò lo furono in misura ben minore, in quanto gli strumenti analitici impiegati da Kepler per raggiungere questo risultato furono esattamente gli stessi di cui disponevano anche i teorici della perspectiva.

L'ottica araba nella tradizione italiana: l'esordio della 'perspectiva pingendi'

di Graziella Federici Vescovini

Le opere di ottica araba, nelle traduzioni latine dall'arabo o dall'ebraico, si diffusero a macchia d'olio in tutto l'Occidente medievale, e ricevettero una particolare accoglienza negli ambienti dotti delle università dell'Italia settentrionale e centrale. Le facoltà delle arti e di medicina, a Bologna, Padova e Pavia (che erano distinte da quelle di diritto e di teologia), estesero il loro campo d'interesse nei confronti del sapere arabo, verso il quale le altre istituzioni cristiane avevano invece mostrato una grande diffidenza, se non un'aperta riprovazione (ne sono un esempio le condanne del 1270-1277). A partire dalla fine del XIV sec., poi, gli artisti italiani rivolsero un'attenzione crescente ai problemi della rappresentazione visiva, e quindi all'ottica o 'perspettiva', come si usava dire allora. Si assiste a uno sviluppo dalla 'perspettiva naturale' od ottica naturale ispirata agli scienziati arabi ‒ al-Kindī, Ibn al-Hayṯam, Ibn Mu῾āḏ ‒ alla 'perspettiva artificiale', la perspectiva artificialis o pingendi del Rinascimento italiano.

L'eredità di al-Kindī

Studi recenti sulle dottrine scientifiche nel Medioevo latino hanno permesso di approfondire la conoscenza dell'influsso esercitato dalle dottrine di al-Kindī attraverso le traduzioni latine (Alkindi latinus). La loro influenza sulle scienze latine medievali è stata spesso sottaciuta o sottovalutata, in quanto il pensiero di al-Kindī è stato quasi sempre collocato all'interno di un Plato arabus, ossia in relazione alla Theologia Platonis e quindi in riferimento alla filosofia di al-Fārābī o di Avicenna. L'opera di al-Kindī è stata considerata alla luce degli articoli di condanna di Egidio Romano (1245-1316), autore di un Liber de erroribus philosophorum, che includeva gli 'errori' dello scienziato arabo, individuati prevalentemente nella sua Theoria artium magicarum o De radiis, il cui originale arabo è andato perduto. Di conseguenza, al-Kindī appariva negli ambienti cristiani come un autore da condannare per la sua dottrina magica.

L'opera di al-Kindī, il quale sosteneva che la filosofia era strettamente legata alle scienze e che la matematica era indispensabile alla conoscenza del filosofo, è celebrata dal matematico, medico, astrologo e ingegnere Gerolamo Cardano (1501-1576); oltre a lodare al-Kindī ponendolo fra i maggiori eruditi dell'umanità, egli ricordava un suo testo di matematica, citato come Libellus de ratione sex quantitatum. Nello stesso periodo, anche l'umanista urbinate Bernardino Baldi (1553-1617), abate di Guastalla, nella sua opera Vite de' matematici ritrae al-Kindī come uno dei più grandi matematici arabi. Baldi, oltre ai riferimenti alle opere matematiche in latino, di cui si sa ben poco ("un libro de le proporzioni commentato"), ha rivolto la sua attenzione anche all'opera di farmacologia e medicina De gradibus ("D'Alchindo parimento è un libro de gradi de medicamenti che s'ha ancora oggi per le mani") e ha riassunto fedelmente gli otto capitoli dell'opera di meteorologia De mutatione temporis sive de imbribus, secondo l'edizione di Venezia del 1507 e quella di Parigi del 1540.

L'opera scientifica più importante di al-Kindī conosciuta dai Latini è il suo trattato di ottica, Kitāb al-Manāẓir (noto nella versione latina come De aspectibus), che ebbe una notevole diffusione manoscritta ed è citato da Bacone, Witelo e Alberto Magno (1193 ca.-1280). Nel XIV sec., tuttavia, quest'opera fu eclissata dalla fortuna di un altro trattato di ottica araba, il De aspectibus di Ibn al-Hayṯam. Degli altri trattati scientifici di al-Kindī, i Latini conobbero il già menzionato De gradibus (il cui incipit recita "Quia primos"), discusso da Averroè, il quale contribuì così a farlo conoscere. Tradotto forse da Gherardo da Cremona, la sua concezione è alla base degli Aphorismi de gradibus di Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.); a partire dal XIV sec., il De gradibus, che considera la materia come equilibrio di pondus, ha influenzato gli sviluppi non solo della farmacologia, ma anche della medicina e della fisica, per quanto riguarda la misurazione delle variazioni intensive nella luce, il calore e la velocità, e ha in questo modo contribuito a mettere in disparte i concetti metafisici aristotelici di materia come pura privazione, e di elemento come qualità sostanziale.

La notevole influenza di questo corpus, l'Alkindi latinus, è attestata dalla circolazione, dalla diffusione delle numerose copie manoscritte, nonché dalle citazioni degli autori latini. Esso conteneva una serie di idee rilevanti e originali, che hanno costituito la base di una nuova tradizione della scienza latina medievale. Queste idee, inoltre, hanno dato vita a una nuova terminologia scientifica latina, per esempio nell'elaborazione del pensiero di Bacone, di Alberto Magno, di Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347), fino a Biagio Pelacani da Parma (1354 ca.-1416) e a Cardano. Il termine impressio, usato per definire il raggio (radius), con tutte le sue diverse articolazioni concettuali (nella dottrina della visione del De aspectibus e nella teoria dell'armonia universale del De radiis) si lega a una riflessione che ha portato a una concezione attiva della realtà naturale e della luce definita come azione 'radiale'. Siamo di fronte a un'idea centrale nel pensiero di al-Kindī, in tutte le sue ramificazioni cosmologiche, gnoseologiche, ottiche, magiche, astrologiche e meteorologiche, che conobbe importanti sviluppi tanto nella filosofia quanto nella scienza latine medievali. Al concetto di azione come impressio si collega il risalto dato al concetto di raggio (actio radialis): da tutti i punti della realtà partono raggi che si diffondono secondo regole matematiche.

Il concetto di visione come impressione di un'azione radiale che parte da una sorgente luminosa e arriva all'occhio e all'anima dell'uomo ha una singolare eco nelle opere di Bacone, quali la Perspectiva e il De multiplicatione specierum. In quest'ultimo trattato, la nozione ontologica di species come forma sostanziale d'ispirazione aristotelica si trasforma, sotto l'influenza dell'ottica di al-Kindī, nell'idea secondo cui essa è una impressio oppure un'actio al modo di raggio di un agente su un paziente. Di conseguenza sembra opportuno sottolineare l'influenza del concetto di radius correlato a quello di impressio del De aspectibus di al-Kindī ("radius vero est impressio corporum luminosorum in corporibus obscuris"), nell'opera di Bacone, in relazione alla dottrina ontologica del De multiplicatione specierum. Egli fa sua l'idea di al-Kindī, il quale afferma, tanto nel De radiis quanto nel De aspectibus, che tutta la realtà è attiva.

Nelle prime pagine della sua opera di ottica, Bacone scrive che molte "dottrine egli prese da altri autori, come al-Kindī e Tideo ed Euclide e dai libri De visu e De aspectibus secondo quanto gli pareva più adatto" e aggiunge: "anche se Euclide e Alkindi ne hanno trattato troppo poco". Egli probabilmente allude ad altre opere più estese, come quella di Ibn al-Hayṯam, che cita ripetutamente, nonostante la critichi per ragioni gnoseologiche e psicologiche. La dottrina della forma visiva, dell'immagine o della specie, intesa come impressio o actio radiale di un agente su un paziente, è essenziale nel pensiero di Bacone, per il quale la specie è l'effetto di un raggio, naturalmente prodotto dall'agente naturale, ed è generata dall'intimo della potenza della materia; nel caso si tratti di una forma naturale l'effetto è incompleto. A questo proposito, le teorie di Bacone riprendono uno dei punti centrali del pensiero di al-Kindī, che si ritrova nel De quinque essentiis, nel De aspectibus e nel De gradibus, e costituisce un'idea comune sia allo stoicismo sia al neoplatonismo, ossia quella di materia come principio primo non totalmente passivo ma virtualmente attivo, che emana raggi, e del corpo come realtà materiale che si traduce in luce.

Lo stesso concetto, anche se più genericamente, è citato da Giovanni Peckham nella Perspectiva communis, forse da una fonte indiretta a proposito della discussione se i raggi partano dall'occhio, oppure dalla cosa vista, come aveva sostenuto Ibn al-Hayṯam. L'opera di Peckham, che all'epoca era il manuale utilizzato nell'insegnamento dai maestri italiani ed europei di ottica, trasmette, anche se in forma molto indiretta, il pensiero di al-Kindī; inoltre, probabilmente era nota anche a Leonardo da Vinci, così come emerge dall'elenco dei libri da lui "reposti nel cassone", descritto nel codice conservato nella Biblioteca Nazionale di Madrid (mss. 8936 e 8937) e dalle digressioni sulla perspectiva contenute nel De pictura.

Ibn al-Hayṯam nella tradizione italiana: Giovanni Fontana e Domenico di Chivasso

È soprattutto il Kitāb al-Manāẓir, l'opera di ottica di Ibn al-Hayṯam, ad aver avuto una singolare risonanza nel mondo occidentale, in particolare tra gli artisti italiani del primo Rinascimento. La fortuna di quest'opera, tradotta probabilmente intorno al XII sec., si evince dal cospicuo numero di manoscritti latini dei secc. XIV e XV e anche XVI e XVII che la contenevano. Accanto all'opera originale di Ibn al-Hayṯam ne circolò anche la parafrasi molto accurata di Witelo, la quale, tuttavia, si basava su una diversa filosofia della scienza. Le due opere, infatti, nonostante le somiglianze nelle spiegazioni ottiche e matematico-geometriche, sono differenti. I dotti latini dei secoli successivi ne furono certamente consapevoli, considerato che le copie manoscritte di Ibn al-Hayṯam non furono eclissate da quelle della parafrasi di Witelo ma circolarono in numerose copie e che i due autori erano citati spesso insieme.

Anche il trattato di catottrica di Ibn al-Hayṯam, De speculis comburentibus, aveva esercitato una notevole influenza in Occidente. Ibn al-Hayṯam, che in quest'opera dimostrava di possedere notevoli conoscenze matematiche di tipo archimedeo sulle coniche, sviluppava le regole della riflessione da specchi ustori di varia forma, di cui aveva trattato a lungo anche nei Libri IV e V del De aspectibus. Gli specchi di cui tratta Ibn al-Hayṯam sono sferici, cilindrici, conici, sia concavi sia convessi, ed egli li studia in modo sperimentale nonché teorico e stabilisce perché i raggi di incidenza e di riflessione sono uguali rispetto alla perpendicolare, dandone una spiegazione meccanica. Il testo è citato anche da Bacone ed è utilizzato probabilmente nel suo De speculis comburentibus.

Quest'opera è studiata e commentata tra la fine del XIV e l'inizio del XV sec. da Giovanni Fontana da Venezia, doctor artium presso l'Università di Padova nel 1418. Egli, secondo quanto racconta nel Liber de omnibus rebus naturalibus (1454), fu allievo di Biagio Pelacani da Parma e di Prosdocimo de' Beldomandi, a sua volta allievo di Pelacani, nonché di Paolo Veneto. Fontana redasse alcune note al De speculis comburentibus o ardentibus di Ibn al-Hayṯam, e scrisse di avere estratto dall'opera alcuni passi riguardanti il modo di costruire uno specchio ustorio concavo. Una delle note concerne la costruzione di una sezione parabolica, mukefi, trascrizione del termine arabo.

In epoca medievale furono attribuite a Ibn al-Hayṯam due opere che in realtà non sono state redatte da lui, lo Speculi almukefi compositio, d'ispirazione araba, e il trattatello De crepusculis et nubium ascensionibus scritto probabilmente da un suo discepolo, Ibn Mu῾āḏ. Il De crepusculis tratta della rifrazione e della riflessione nei fenomeni atmosferici (per es., al tramonto del Sole) ed era spesso unito nei codici delle versioni latine al De aspectibus di Ibn al-Hayṯam; fu anch'esso tradotto in volgare italiano.

Domenico di Chivasso (Dominicus de Clavasio o Chivaxo, attivo tra il 1349 e il 1357), italiano di origine, ma insegnante a Parigi presso la Facoltà delle arti e di medicina, scrisse un'opera di ottica, Quaestiones perspectivae, che è un commento alla Perspectiva communis di Peckham. Egli cita a più riprese Ibn al-Hayṯam (come Alasen) quasi sempre in oppositum, cioè come autorità contro le dottrine comuni della perspectiva di Peckham. Per esempio, se si afferma che la luce e i colori non agiscono sulla vista la tesi opposta è sostenuta da Ibn al-Hayṯam, del quale si riporta la teoria della luce e del colore; per concludere la discussione egli scrive: "a conferma dico che Alhazen parla contro quanti sostengono che i raggi escono dall'occhio". Egli cita ancora Ibn al-Hayṯam a proposito della negazione della dottrina secondo la quale il lume è di 'infinita virtù', e riporta interamente la sua fisiologia e anatomia dell'occhio nella quarta questione, insieme all'interpretazione di Bacone, di Witelo e di Peckham; nella sua quinta questione riprende la dottrina matematico-meccanica di Ibn al-Hayṯam dell'immagine visiva in forma di piramide ottica, il cui vertice è nel centro dell'occhio e la cui base è la superficie della cosa vista. Tale dottrina è in netto contrasto con quella dei filosofi che discutono se questa piramide sia sostanza o accidente, secondo l'ontologia di Aristotele. Gli avversari di Ibn al-Hayṯam sostengono che la sua dottrina è falsa, poiché porterebbe alla conclusione che l'operazione sensitiva della vista sia anche un'operazione intellettiva dell'anima, cosa impossibile, essendo i sensi separati dall'intelletto nelle operazioni 'formali' conoscitive dell'anima.

Domenico di Chivasso, come i veri seguaci di Ibn al-Hayṯam, quale Pelacani qualche decennio dopo, non arretrò di fronte a tali difficoltà di principio filosofico-gnoseologico mosse dagli avversari di Ibn al-Hayṯam, come Peckham e Bacone. Quest'ultimo aveva criticato la teoria di Ibn al-Hayṯam della recezione meccanica dell'immagine visiva secondo la piramide ottica, la quale era correlata all'idea dell'attività delle facoltà interne dell'anima, come la cogitativa, l'estimativa e la memoria: queste facoltà razionali-sensoriali interne avrebbero la funzione di organizzare le impressioni visive esterne e, operando, in particolare, con l'attività razionale distintiva dell'anima, ricostruirebbero l'immagine visiva 'certa' secondo 'scienza e sillogismo'. Per Bacone questa dottrina è insostenibile, perché presupporrebbe il riconoscimento di un'autonomia alle funzioni interne dell'anima sensoriale, basandosi su un fondamento filosofico-materialista dell'anima razionale, le cui funzioni verrebbero a essere strettamente correlate alle condizioni sensoriali del nostro apprendimento, con implicazioni gravi per la dottrina della sua immortalità. Bacone, infine, sostiene che in base a questa teoria della costruzione dell'immagine ottica di Ibn al-Hayṯam, anche gli animali ragionerebbero quando vedono.

Le Quaestiones perspectivae di Biagio Pelacani

Biagio Pelacani da Parma (1354 ca.-1416), che nelle Quaestiones perspectivae dimostra di avere assimilato le idee più nuove di Ibn al-Hayṯam, costituisce l'anello di congiunzione tra questi e la perspectiva artificialis, nella forma data da Leon Battista Alberti, ossia come prospettiva piana. Si tratta di quella costruzione 'legittima' che, in seguito, fu modificata da Piero della Francesca (1406/1412 ca.- 1492), autore del De prospectiva pingendi: il quadro è l''intercisione' (il taglio) della piramide visiva di Ibn al-Hayṯam, o 'velo', ossia è una finestra pittorica. Tuttavia, affinché la tecnica geometrica della perspectiva artificialis potesse avere origine bisognava, da un lato, individuare il problema della commisurazione della distanza che deve sempre essere percettiva e, dall'altro lato, ricondurre la costituzione dell'immagine ottica all'attività soggettiva razionale matematico-percettiva dell'osservatore. Infatti, Ibn al-Hayṯam, andando oltre Euclide e Tolomeo, aveva sottolineato che la grandezza dell'immagine visiva non dipendeva esclusivamente, in modo soltanto astratto, dall'ampiezza dell'angolo ottico, ma si riferiva sempre alla distanza della cosa dall'occhio ed era delimitata dalla piramide ottica dell'osservatore.

Secondo Pelacani la visione è sempre scientifica, cioè certa, perché è un'apprensione matematica delle cose viste da parte dell'osservatore. La verità dell'immagine visiva dipende dai rapporti proporzionali che la vista e l'intelletto stabiliscono tra i corpi; soltanto così si corregge l'errore della visione puramente visiva o sensibile. In questo modo, per esempio, anche se vediamo il Sole sotto un angolo minore, a causa della grande distanza da noi, non per questo lo riteniamo più piccolo della Terra che si vede sotto un angolo maggiore, perché sappiamo che l'angolo ottico decresce con la distanza dall'oggetto ‒ il Sole in questo caso ‒, distanza che è maggiore di quella sotto il cui angolo si vede la Terra. Quindi, in base alla conoscenza ottico-matematica, scientifica, mai si dirà che il Sole è più piccolo della Terra anche se si vede sotto un angolo minore.

Questo problema, già impostato e risolto da Ibn al-Hayṯam e chiamato da Erwin Panofsky (La prospettiva come forma simbolica, 1984) 'l'assioma degli angoli', è l'interpretazione dell'assioma di Euclide riguardante il rapporto tra la grandezza visuale, la distanza dell'oggetto e l'ampiezza dell'angolo ottico. Secondo Ibn al-Hayṯam, che aveva presentato una sua dottrina originale, l'apparenza visiva non dipende tanto dall'ampiezza dell'angolo ottico, quanto dall'opposizione o frontalità, ossia dalla posizione perpendicolare del punto del corpo posto di fronte all'occhio, e quindi dalla determinazione dei punti che costituiscono la superficie di base della piramide ottica, commisurata alla distanza e all'ampiezza dell'angolo. All'attività (virtus) distintiva dell'anima, cui si deve la certificazione o conoscenza ottica, non è sufficiente, per la comprensione della grandezza, la considerazione dell'ampiezza dell'angolo, bensì è necessario qualcosa d'altro. Infatti, soltanto quando la virtù distintiva dell'intelletto avrà misurato la quantità dell'angolo, della lunghezza delle linee radiali, degli spazi che sono gli intervalli delle loro parti estreme e li avrà proporzionati tra loro, essa comprenderà la quantità della cosa vista nel suo essere. Le grandezze visive pertanto, per Ibn al-Hayṯam, come per Pelacani, saranno le superfici, le loro parti, i termini e gli spazi che s'infrappongono tra i visibili distinti, secondo le piramidi ottiche così delimitate. L'immagine ottica è dunque il risultato di un insieme di percezioni che sono contemporaneamente sensazione e calcolo razionale sia delle dimensioni delle figure sia del colore secondo determinate relazioni matematiche delle cose viste.

Pelacani condivide le posizioni di Ibn al-Hayṯam, che aveva discusso nei primi tre libri del De aspectibus il problema gnoseologico della costituzione dell'immagine ottica 'vera'. Egli tratta la questione in un modo che presuppone la conoscenza scientifica della cosa non più in senso ontologico-metafisico qualitativo, ma matematico quantitativo-percettivo. Rispetto all'ottica antica, il problema della spiegazione ottica della vista è impostato in un modo che va oltre gli assiomi puramente geometrici di Euclide, che non presuppongono necessariamente una teoria gnoseologica. Infatti, si può dare una spiegazione ottica della visione senza prendere in considerazione la validità conoscitiva della percezione, cioè la sua relazione con l'osservatore. È possibile avanzare una spiegazione geometrica del meccanismo della visione oculare, come aveva fatto, per esempio, Avicenna, senza però riconoscere valore conoscitivo all'immagine sensoriale visiva. Si può fondare, come ha fatto Euclide, un'ottica geometrica che fissa le regole di propagazione in linea retta della luce, senza per questo preoccuparsi di stabilire se tali leggi giustificano o meno la vera o 'precisa' apparenza delle cose; questo problema diventerà centrale nella rappresentazione pittorica degli artisti del Rinascimento. Fissando la regola secondo la quale la grandezza ottica varia soltanto con il cambiare dell'angolo ottico, Euclide prescindeva dalla considerazione della distanza 'relativa', dalla posizione in perpendicolare della figura, dal colore, dalla profondità delle cose viste senza stabilirne però le modalità psico-gnoseologiche, come invece faranno Ibn al-Hayṯam e successivamente Pelacani.

Quest'ultimo cita la teoria del colore bianco, o della bianchezza, di Ibn al-Hayṯam, richiamando un suo libretto dal titolo Libellus de speciebus in cui per specie non s'intende affatto qualcosa che rinvia al concetto comune della filosofia medievale, dove la specie è la forma, l'essenza ontologica della cosa, ma è invece una proprietà colorata dei corpi o della materia. Non sappiamo di quale opera di Ibn al-Hayṯam si tratti, e nemmeno se sia un frammento di un altro trattato. Pelacani ne parla nel suo commento manoscritto al De anima di Aristotele (Libro II, quaest. 18), in cui paragona la propagazione del suono a quella del colore e il rapporto tra la qualità del suono o del colore (il bianco in questo caso) e il corpo odoroso o colorato.

[Come] il suono di un corpo produce il suono in un mezzo, così la bianchezza che esiste nel substrato (subiective) produce il chiarore nell'occhio attraverso il medio. Questo è evidente ed è quanto dicono alcuni dotti e specialmente Alhazen nel suo libretto sulle specie (De speciebus). [Egli afferma] che duplice è la bianchezza: una è la bianchezza permanente come quella che è fissa in un sostrato la quale non dipende altro che dal suo sostrato; un'altra è la bianchezza che si propaga in successione attraverso il medio, aria o acqua, e che dipende da questo sostrato e dalla bianchezza che è fissa, così il raggio dipende dal sole e il lume dalla cosa luminosa. Pertanto si dice che questa bianchezza successiva si produce nell'occhio e nel mezzo. (BAV, Chig. O.IV.41, f. 179v)

In altri termini, Pelacani ritiene che il colore di una cosa dipenda sempre dal suo sostrato e che non si diversifichi nella visione secondo le differenze di questa, ma secondo quelle della luce che parte dai corpi attraverso il medio. Egli usa il termine 'specie' rifacendosi a Ibn al-Hayṯam, non per indicare alcunché di metafisico od ontologico, ma soltanto alcune proprietà fisiche, come il colore e l'odore che si propagano meccanicamente. Questa teoria del colore bianco riferita a Ibn al-Hayṯam si ritrova poi nelle Quaestiones perspectivae, dove egli espone le diverse scuole di pensiero sul problema del colore, tra le quali quella di Ibn al-Hayṯam per il quale "colores et quodlibet aliud accidens habere dependentiam a suo subiecto".

Il volgarizzamento italiano di Ibn al-Hayṯam: Lorenzo Ghiberti e Leon Battista Alberti

L'influenza di Ibn al-Hayṯam in Italia è documentata anche dalla circolazione agli inizi del XV sec. a Firenze della versione in volgare italiano del suo De aspectibus, organizzata in sette libri con il titolo De li aspecti, che è stata largamente utilizzata da Lorenzo Ghiberti (1378-1455) nella stesura del suo Commentario terzo di ottica. Redatto in ambienti dotti con influenze dialettali veneto-emiliane attorno alla metà o seconda metà del XIV sec., il De li aspecti è anonimo e non è noto da quale redazione latina sia stato tratto; l'opera è unita alla versione in volgare del De crepusculis di Ibn Mu῾āḏ, sotto il titolo Trattato de li crepuscoli e de le ascensioni de le nuvole.

Dalla collazione tra il testo della versione in volgare italiano e il Commentario terzo si desume come alcuni passi dell'opera di Ghiberti, che erano apparsi di grande oscurità ai suoi lettori non preparati in filosofia, non sono altro che lunghi brani della teoria psicognoseologica dei Libri I e II dell'opera di Ibn al-Hayṯam. Già nel XVI sec. lo storico Giorgio Vasari si era accorto che questo libro di Ghiberti "mostra […] essere stato fatto da altri" (Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti, I, p. 564). Per la sua difficile e sofisticata teoria gnoseologica, che è diversa da quella aristotelica o platonico-neoplatonica, in quanto di tradizione stoico-epicurea empirista, Ibn al-Hayṯam aveva foggiato termini nuovi, tradotti in latino e poi resi in italiano in modo letterale; per esempio, aspiciens fu tradotto letteralmente dal volgarizzatore italiano con 'aspiciente', intentio con 'intentione', aspectus con 'aspetto', forma certificata con 'forma certificata', praecedens cognitio con 'cognitione precedente', e così via.

Ghiberti riporta testualmente ampie parti della teoria della conoscenza visiva di Ibn al-Hayṯam nelle sue tre articolazioni, per 'aspetto', per 'intuizione' e per 'cognizione precedente', e da alcuni di questi brani risulta che, per la teoria dell'aspetto e quella della perpendicolarità dell'immagine, detta anche 'per intuizione', egli non aveva ben compreso il testo, tanto che Vasari lo rimprovera di non aver fatto un lavoro molto utile. Quest'affermazione, tuttavia, è discutibile, poiché i passi riportati da Ghiberti rappresentano, a livello teorico, le parti più originali della perspettiva di Ibn al-Hayṯam e, al contempo, testimoniano la scelta intelligente compiuta da Ghiberti. La teoria riguardante la diversità della distanza della cosa vista, determinata guardando attraverso i fori di alcune pareti poste in successione, e la teoria della bellezza come proporzionalità e in quanto prodotto della nostra attività matematico-percettiva hanno certamente contribuito alla diffusione di una concezione della bellezza intesa come proporzione che scaturisce dall'osservazione del nostro occhio, correlato alla mente e all'oggetto, così importante per gli artisti del Rinascimento.

Molto probabilmente le Quaestiones perspectivae di Pelacani e il volgarizzamento italiano di Ibn al-Hayṯam hanno permesso a Filippo Brunelleschi (1377-1446) e poi a Leon Battista Alberti (1404-1472) di arrivare alla felice scoperta della tecnica di rappresentazione pittorica su quadro delle figure a tre dimensioni, la perspectiva pingendi o artificialis. Brunelleschi, nelle sue tavolette (1403-1425), andate però perdute, aveva fornito nella pratica un esempio di rappresentazione prospettica. Le notizie in proposito non sono precise; tuttavia, è noto che a Firenze in quegli anni circolava il De li aspecti, in cui il problema della determinazione della distanza di tutti i punti delle superfici di base delle piramidi visive era fondamentale. In seguito alla scoperta della regula della perspettiva artificiale nel primo Quattrocento, la questione della determinazione della diminuzione e dell'accrescimento della distanza delle figure dall'occhio era divenuta basilare, come poi terrà a sottolineare Leonardo. A proposito delle tavolette prospettiche di Brunelleschi, con le vedute del Battistero e di piazza della Signoria, sappiamo che "Filippo mise in atto, lui proprio, quello ch'i dipintori oggi dicono prospettiva, perché ella è una parte di quella scienza che è in effetto porre 'bene' e 'con ragione' le diminuzioni et accrescimenti che appaiono agli occhi degli uomini delle cose di lungi e da presso […] di quella 'misura che s'appartiene a quella distanza' che li mostra di lungi, e da lui è nata la regula, ch'è la 'importanza' di tutto quello che di ciò s'è fatto da quel tempo in qua" (Antonio di Tuccio Manetti,Vita di Filippo di Ser Brunelleschi, p. 9).

Per quanto riguarda Leon Battista Alberti, possiamo ricavare utili indicazioni da quello che egli stesso racconta nella versione latina (migliore e diversa rispetto a quella in volgare) del suo trattato di prospettiva De pictura. Negli anni in cui Alberti redige l'opera, nella quale si rivolge ai dotti pittori che siano anche valenti matematici, il De li aspecti di Ibn al-Hayṯam circolava sicuramente, quanto meno nell'utilizzazione di Ghiberti. Inoltre, le Quaestiones perspectivae di Pelacani, così vicine alle idee di Ibn al-Hayṯam, risultano copiate ancora una volta a Firenze nel 1428 da Bernardo Andrea di Firenze. Alberti riprende da Pelacani e da Ibn al-Hayṯam l'idea che l'immagine visiva, o species, si costituisce come piramide 'radiosa'; le species non sono altro che i raggi ottici e l'immagine distinta è quella del raggio perpendicolare che arriva dalla base della piramide al centro dell'occhio. Egli presenta quindi la spiegazione matematico-meccanica dell'immagine visiva di Ibn al-Hayṯam e di Pelacani (la piramide 'radiosa' o 'radiale'), che è sempre correlata alla distanza dall'occhio ed è chiusa e delimitata. Insiste sull'importanza della frontalità dell'oggetto visivo e sulla necessità di spostare l'occhio in modo da avere sempre l'oggetto di fronte in perpendicolare, e ricorda che questo è il punto chiaro e distinto in relazione alla determinazione della distanza dell'oggetto dall'osservatore. Alberti interpreta l'idea di Ibn al-Hayṯam e di Pelacani secondo la quale l'immagine visiva è sempre relativa all'attività razionale dell'osservatore, ossia alla percezione ottica relativa alla distanza con le sue modalità matematico-geometriche.

L'idea che il quadro non sia altro che il 'velo' o finestra, ossia l'ideale intercisione (taglio) della piramide visiva, e quella conseguente del punto di fuga e del punto di vista, sono un'originale scoperta di Alberti. Nel De pictura, infatti, tratta continuamente l'aspectus, termine di forte significanza per intendere l'immagine visiva superficiale delimitata dai raggi visivi che costituiscono un'immagine più o meno chiara, ossia una 'piramide ottica o radiosa', a seconda degli intervalli dei raggi sub aspecto. Secondo la 'costruzione legittima' di Alberti, il quadro è un'intersezione piana della piramide visiva per costruire un alzato laterale, per determinare sulla perpendicolare di intersezione gli intervalli di profondità cercati e trasportati senza fatica nel sistema già disponibile delle ortogonali orientate verso il punto di fuga. Questa dottrina rinvia a Ibn al-Hayṯam, che nel suo De aspectibus aveva dato una definizione della visione per aspetto, diversa da quella per intuizione (quest'ultima per il solo raggio perpendicolare): 'aspetto' era il termine impiegato da Ibn al-Hayṯam e Pelacani per definire l'intera immagine visiva, generale e superficiale, come la superficie di base della piramide ottica, di cui uno solo era il punto chiaro (quello frontale) dal quale perveniva il raggio perpendicolare.

Ibn al-Hayṯam aveva scritto che la vista ha un'immagine semplice per aspectum di una cosa quando tutti i punti della piramide visiva che colpiscono l'occhio costituiscono la superficie della cosa e danno un'immagine generale. Il motivo è da ricercare nel fatto che i raggi laterali forniscono immagini meno distinte del raggio perpendicolare, perché sono rifratti o deviati entro gli umori dell'occhio in quanto laterali e non perpendicolari. Sia per Ibn al-Hayṯam, dunque, sia per Pelacani, l'aspectus è l'immagine visiva dell'intera superficie dell'oggetto, legata alla luce e alla vis videndi o visendi dell'occhio; Alberti comprende che l'aspetto delimita la superficie del corpo visibile, che a sua volta è definita nel contorno proprio dai raggi visivi che colpiscono l'occhio. L'immagine non dipende, quindi, soltanto dalla capacità della receptio luminis, come si sosteneva in epoca medievale, ma anche dalle caratteristiche della superficie così come si delimita nella base della piramide visiva (aspetto), unitamente alla vis comparationis dell'osservatore rispetto alla distanza dall'occhio.

Anche se la soluzione tecnico-matematica della perspectiva artificialis o pingendi è sicuramente originale e propria di Alberti, tuttavia egli poteva trovare nelle opere di ottica del suo tempo (da quella di Pelacani al De li aspecti di Ibn al-Hayṯam, dal Commentario terzo di Ghiberti ad altri commenti al De visu di Euclide) elementi di rappresentazione visiva ‒ in senso geometrico, percettivo o empirico ‒ delle cose in quanto riferite esclusivamente all'occhio del pittore 'percettivo'. Alberti riteneva che ogni superficie rinviasse alla sua piramide in luci e colori, ma le superfici possono mutare e alterarsi, apparire più grandi o più piccole secondo 'accidenti' quali per esempio le diversità delle distanze, le quali si possono conoscere soltanto per comparazione, ossia richiedono la vis comparationis dell'occhio. In altre parole, quell'attività di misura e di confronto tra le cose delimitate in uno spazio, definito dalla piramide ottica relativa alla nostra capacità visiva di ampiezza dell'angolo ottico, è sempre in relazione alle distanze dall'occhio (per aspectum).

Anche la teoria di Alberti sul colore e la luce bianca sembra riferirsi a quella formulata da Pelacani e da Ibn al-Hayṯam. Tutti e tre gli autori stabiliscono una dipendenza del colore non soltanto dalla luce, ma soprattutto dal sostrato corporeo (che per Alberti è la superficie delimitata dai raggi visivi della res visa secondo l'elaborazione della teoria della visione per aspectum di Ibn al-Hayṯam). La teoria dei colori di Alberti è prospettica, cioè tridimensionale, motivo per cui egli critica l'uso dell'oro nella pittura, che tende a schiacciare eliminando l'effetto distanza. I colori, per Ibn al-Hayṯam, Pelacani e Alberti, sono 'apparizioni' vere della recezione della luce, sempre secondo il sostrato corporeo, che è delimitato nel suo aspectus dalla superficie di base della piramide visiva secondo i raggi che colpiscono l'intero occhio.

L'influenza di Ibn al-Hayṯam sui perspettivi naturali della fine del Medioevo e sugli artisti del primo Rinascimento fiorentino inventori della perspectiva artificialis è osservata anche da Leonardo, che sottolinea gli elementi comuni: "prospettiva, investigazione e invenzione sottilissima delli studi matematici, la quale per forza di linie fa parere remoto quello ch'è vicino e grande quello ch'è piccolo" (Libro di pittura, 45). In seguito, la 'prospettiva' (termine introdotto in italiano) è divisa in tre tipi, così come sostenevano gli autori della perspectiva nel XIV sec. ma in accezione diversa: "Sono di tre nature prospettive: la prima s'astende intorno alla ragione del diminuire (e dicesi prospettiva diminutiva) le cose che si allontanano dall'occhio. La seconda contiene in sé il modo del variare i colori che si allontanano dall'occhio. La terza e ultima s'astende alla dichiarazione come le cose devono essere men finite quanto più s'allontanano" (Parigi, Bibliothèque de l'Institut de France, ms. A, f. 98).

Sebbene gli influssi dell'opera di Ibn al-Hayṯam sull'ottica italiana possano avere seguito un itinerario più complesso di quello qui descritto, sono tuttavia dati innegabili la compilazione del testo in italiano De li aspecti di Ibn al-Hayṯam, l'insegnamento di Pelacani più attento alle idee originali di Ibn al-Hayṯam che alla perspectiva communis di Peckham e l'utilizzazione del volgarizzamento italiano di Ibn al-Hayṯam nel Commentario terzo di Ghiberti. Tutte queste opere circolavano a Firenze negli anni di attività dei grandi artisti del Rinascimento fiorentino e, in particolare, della redazione del De pictura di Alberti.

L'ottica italiana nel XVI sec.: Francesco Maurolico e Giambattista Della Porta

Il De aspectibus di Ibn al-Hayṯam, insieme alle parafrasi di Witelo, godrà di nuova fortuna nella seconda metà del XVI sec., con l'edizione a cura di Pietro Ramo (1515-1572) e di Friedrich Risner (m. 1580) con il titolo grecizzante di Opticae thesaurus (1572). Nella prefazione a tale edizione, dedicata alla regina Caterina de' Medici, Risner narra le vicende della ricerca di Pietro Ramo in numerose biblioteche dei manoscritti del De aspectibus di Ibn al-Hayṯam, dei quali infine trovò una copia che consegnò a Risner perché la pubblicasse a Basilea; questa stessa vicenda è raccontata anche da Bernardino Baldi. È assai ragionevole supporre che l'opera di Ibn al-Hayṯam abbia circolato e quindi influenzato gli scritti di uno dei più noti ottici italiani del XVI sec., Francesco Maurolico da Messina (1494-1575), benché l'edizione sia coeva agli ultimi anni della sua vita, così come, successivamente, quelli di Giambattista Della Porta (1535 ca.-1615).

Maurolico, nei Grammaticorum rudimentorum libelli sex (1528), nell'Index lucubrationum (completato nel 1568) e nella lettera dedicatoria al cardinale Bembo posta all'inizio della sua Cosmographia (1558), fornisce un lungo elenco delle sue opere, tra cui quelle di perspectiva (egli usa ancora questo termine medievale per 'ottica'). Egli afferma di avere raccolto tutto il materiale esistente, anche quello riguardante la perspectiva, e di averlo rielaborato e fatto progredire. Con questo intento scrive la sua prima opera di ottica, sulla propagazione diretta e sulla riflessione, intitolata Photismi de lumine et umbra ad perspectivam et radiorum incidentiam facientes (1611), ordinata per definizioni, supposizioni e teoremi. Le definizioni generali riflettono l'impostazione di Ibn al-Hayṯam, in quanto si ritiene che da ogni punto dei corpi luminosi detti 'lucidi' il lumen irraggi secondo la linea retta. Il lucido si definisce o come luminoso per sé stesso (il Sole) o per altro (come il lumen ricevuto dalla Luna). L'ombra è assenza di lumen.

A questa prima opera ne segue una seconda dal titolo De diaphanis, divisa in tre libri, che tratta della rifrazione in generale con tutti i suoi fenomeni, l'arcobaleno e l'anatomia dell'occhio. Maurolico, che non parla di species ma di punti raggianti, sostanzialmente riprende la dottrina di Ibn al-Hayṯam secondo la quale la luce con tutti i suoi fenomeni di propagazione esiste indipendentemente dall'occhio, mentre l'occhio che vede ha regole sue proprie di recezione meccanica della luce e di psicologia della percezione. Così, nel De diaphanis, edito insieme ai Photismi, Maurolico tratta dei corpi perspicui, cioè trasparenti (in modo minore o maggiore e quindi anche opachi), avvicinandosi a Ibn al-Hayṯam e allontanandosi invece da Aristotele. Per quest'ultimo, il diafano era il mezzo fisico senza particolari caratteristiche ottiche, anzi era il fondamento della teoria del moto successivo del continuo. Maurolico, invece, considera il diafano in modo ottico, secondo le leggi della riflessione e della rifrazione della luce del Sole in mezzi come l'aria, l'acqua, il vetro o le lenti composite. In tali mezzi, in base alle loro differenti caratteristiche di densità, opacità e trasparenza, si hanno propagazioni diverse dei raggi luminosi, retti, riflessi o variamente deviati rispetto alla perpendicolare incidente.

Nel De diaphanis Maurolico segue apparentemente la divisione tradizionale in tre parti della perspectiva, anche se in realtà la trasforma, poiché l'arricchisce di una parte, la terza, riguardante la fisiologia dell'occhio. Questa sezione, che sembra improntata all'anatomia di Ibn al-Hayṯam, è stata rivista secondo le concezioni del medico di Bruxelles Andrea Vesalio, come lo stesso Maurolico dichiara alla fine dell'opera. Nel Libro II, sull'iride o arcobaleno, egli sostiene di essere stato il primo a spiegare perché il raggio solare passando per qualunque foro si presenta in forma circolare, cosa che chiarisce la ragione della rotondità e del colore diverso dell'iride. Questa spiegazione, sostiene Maurolico, non fu conosciuta prima dall'autore della perspectiva vulgata (cioè comune), Peckham.

Il De diaphanis è seguito da una serie molto interessante di Problemata ad perspectivam et iridem spectantes, in cui Maurolico passa in rassegna molte delle principali questioni dell'ottica medievale e del suo tempo, come le seguenti: perché la prospettiva non può essere divisa in quattro parti invece di tre (e qui egli riassume gli argomenti fondamentali dei sette libri del De aspectibus di Ibn al-Hayṯam); perché lo studio dell'ottica è difficile; perché sono difficili le dimostrazioni; qual è la causa dell'iride (l'arcobaleno); perché i colori fondamentali dell'iride sono quattro; e numerosi altri quesiti.

Il contributo di Maurolico alla spiegazione dell'arcobaleno, secondo quanto lui stesso afferma, è consistito essenzialmente in un recupero della dottrina di Ibn al-Hayṯam e di Teodorico di Vriberg (1240 ca.-1311), a partire dalla quale ha sviluppato un modo per arrivare alla comprensione della forma a semicircolo dell'iride, insistendo sui fenomeni misti di rifrazione e di riflessione su corpi sferici quali le piccole gocce di acqua della pioggia. L'iride avviene per rifrazione di raggi del Sole riflessi "tamquam a superficie convessa et concava" in piccole gocce sferiche. Di conseguenza, nel teorema XXX, egli polemizza con le spiegazioni di alcuni studiosi che erano ritornati alla dottrina dei Meteorologica di Aristotele spiegando l'iride come solo fenomeno della riflessione. Le difficoltà nella spiegazione dell'iride riguardavano soprattutto la forma a semicircolo dei colori dell'arcobaleno e la forma sferica delle gocce d'acqua entro e fuori delle quali avvenivano i fenomeni ottici dell'arcobaleno: "huiusmodi refractio fit in circumferentia circuli, ideoque circularis apparet. Hinc patet illorum stultitia, qui non attendentes similes iridis colores ad aequale infractionum anguli undique oportet inflecti eius rotunditatis causam a nubis concavitate querunt" (De diaphanis, teorema XXV). Ibn al-Hayṯam, nei Libri V, VI e VII del De aspectibus, aveva fornito molti elementi per spiegare le regole della riflessione e della rifrazione in corpi sferici trasparenti, concavi e convessi, come potevano essere le piccole gocce di acqua dell'arcobaleno, in sezione meridiana di un cerchio quando al suo orlo arrivava un fascio di raggi paralleli, poi su un cilindro rettangolare retto e così via.

Anche Giambattista Della Porta è debitore delle concezioni di Ibn al-Hayṯam, sia per gli argomenti del Libro XVII della sua Magia naturalis, nell'ultima edizione del 1589, sia per il contenuto del De refractione (1592). Egli tratta della costruzione delle lenti spiegando i diversi ingrandimenti, rimpicciolimenti e deformazioni delle immagini attraverso una piccola sfera cristallina o lenticchia di diversa curvatura, secondo quanto era noto anche in base alle regole di incidenza e deviazione stabilite da Ibn al-Hayṯam nei Libri VI e VII del De aspectibus; questi aveva studiato tali fenomeni anche in una palla cristallina e ne aveva parlato in un'opera a sé. Della Porta sviluppa un'altra idea di Ibn al-Hayṯam, secondo il quale l'occhio è come uno strumento ottico di forma sferica con un piccolo foro di apertura che fa passare un solo raggio visivo luminoso, chiaro e distinto (il perpendicolare) attraverso un filtro che è il cristallino; ed elabora così la camera oscura. L'impianto dell'ottica di Della Porta è sia sperimentale sia di osservazione, come già era stata in buona parte la trattazione di Ibn al-Hayṯam, in cui lo scienziato di ottica era ritenuto un 'esperimentatore' che si basa sull'osservazione (i῾tibār).

Alcuni capitoli dei primi libri della Magia naturalis, che sono dedicati alle spiegazioni ottiche di fenomeni meravigliosi, rientravano nella tradizione scientifica di spiegazione ottico-razionale matematica dei cosiddetti fenomeni di incantationes o illusione visiva. Infatti, gli studiosi latini di perspectiva, soprattutto nei secc. XIV e XV, avevano fornito alcune spiegazioni di tali fenomeni escludendo qualunque azione sovrannaturale, come Pelacani e molti filosofi e scienziati del XVI sec., tra cui Pietro Pomponazzi (1462-1525), che nel suo De incantationibus era ricorso alle regole dell'ottica geometrica.

Gran parte della terminologia di Della Porta risale alla tradizione latina di Ibn al-Hayṯam. Questi aveva affermato, per esempio, nel proemio del suo Libro VI dedicato alla riflessione speculare, che egli avrebbe trattato gli errori (le deformazioni) delle immagini che derivavano dalla dipendenza della forma degli specchi. Infatti, per la riflessione ‒ scrive ‒ non si comprende la verità delle forme, così, negli specchi concavi l'immagine della figura appare distorta; per questo egli spiegherà in questo libro il 'modo' (modus) dell'errore in dipendenza dalle figure geometriche degli specchi e dalla mescolanza dei colori sulla superficie degli specchi. Il termine latino 'errore' (error) è sostituito qualche volta con 'fantasma' (phantasma) e molto spesso con 'allucinazione' (allucinatio) delle immagini degli specchi. In Della Porta ritroviamo molti di questi termini, soprattutto quando lo scienziato si pone alcuni interrogativi: per esempio, nei primi libri della Magia naturalis si domanda perché in uno specchio piano si vedano la testa in basso e i piedi in alto; perché appaiono figure gialle o bianche come spettri variamente colorati (ciò dipende dalla colorazione di fondo dello specchio); oppure perché una figura risulti deforme (e ciò a causa della superficie irregolare dello specchio). Egli esamina anche come ottenere ingrandimenti di lettere che si possono produrre mediante uno specchio piano e uno concavo; e come sia possibile vedere oggetti sospesi in aria combinando uno specchio piano e uno concavo. Si tratta di un'esperienza ottica simile a quella di cui aveva già parlato Pelacani nel suo Libro III delle Quaestiones perspectivae, dove aveva spiegato con fenomeni di riflessione dei raggi del Sole un'apparizione meravigliosa che era stata vista per tre giorni consecutivi nel cielo di Busseto presso Parma nell'anno 1403.

L'idea fondamentale della lente costruita come una palla cristallina o semisfera (lenticchia) di diversa curvatura può essere stata suggerita a Della Porta dalle opere di Ibn al-Hayṯam, che aveva dedicato molti studi ai fenomeni di riflessione e di passaggio della luce in palle cristalline sferiche; in particolare, nel suo De speculis comburentibus aveva già trattato l'aberrazione sferica longitudinale. Le spiegazioni meccaniche della riflessione e della rifrazione date da Ibn al-Hayṯam sono state messe in pratica da Della Porta anche senza poterne dare una giustificazione matematica. Soprattutto nel De refractione, egli studia una palla cristallina sottoposta ai raggi del Sole considerando sia la sua superficie convessa sia quella concava, come aveva già fatto Ibn al-Hayṯam; Della Porta nel Libro XVII della Magia naturalis pone l'occhio a guardare entro la sferetta e sviluppa un lungo studio sulle immagini quali si vedono attraverso questa lenticchia. Per questo motivo egli si vantò di avere scoperto il cannocchiale, anche se il merito definitivo fu di Galilei.

L'appropriazione ebraica dell'ottica greco-araba

di Eyal Meiron

A differenza degli autori appartenenti al mondo islamico o all'Occidente latino, gli studiosi ebraici medievali non mostrarono un particolare interesse per la scienza dell'ottica, né è attestata l'esistenza di trattati ebraici medievali dedicati specificamente all'ottica. Esistono nondimeno alcuni testi non specialistici, che rivelano qualche interesse per l'ottica e un certo grado di conoscenza della materia.

Tralasciando in questa sede gli aspetti anatomici e fisiologici dell'ottica, che riguardano più propriamente la tradizione medica, i testi nei quali i pensatori ebraici medievali fanno riferimento all'ottica fisica e matematica possono essere suddivisi in due gruppi principali: (a) la letteratura di carattere scientifico, vale a dire i compendi, i commentari ai trattati di ottica e i tentativi di applicare le conoscenze ottiche alla soluzione di problemi scientifici di altri campi; (b) i riferimenti occasionali a questioni o a nozioni di ottica nella letteratura non scientifica (per es., esegesi biblica o testi giuridici ebraici).

L'ottica nella letteratura di carattere scientifico

Iniziamo questa trattazione con una breve rassegna dei trattati di ottica tradotti dall'arabo in ebraico. L'Ottica di Euclide fu tradotta dall'arabo in ebraico, probabilmente da Ya῾aqōv ben Machir (1236-1305), con il titolo Sēfer Ḥillûf ha-mabbāṭîm (Libro della diversità delle prospettive); è possibile che il traduttore abbia utilizzato più di un manoscritto arabo. Dei sei manoscritti superstiti di questa traduzione, si presume che alcuni siano stati prodotti in Spagna nel XIII o XIV sec. e la maggioranza in Italia nel XV o XVI secolo. Probabilmente, anche la Catottrica, attribuita a Euclide (e nota agli studiosi latini come Liber de speculis o Perspectiva), fu tradotta in ebraico con il titolo Sēfer ha-Mar᾽îm (Libro degli specchi) da Ya῾aqōv ben Machir, che anche in questo caso potrebbe aver utilizzato più di un manoscritto arabo. Dell'opera sono pervenute sette copie, sei delle quali negli stessi codici contenenti l'Ottica di Euclide; la traduzione ebraica presenta molte varianti rispetto sia alla Catottrica greca, sia alla versione latina. Nel IX sec. Ṯābit ibn Qurra tradusse un breve commentario manoscritto all'Ottica di Euclide (Mantova, Comunità Israelitica, 3, 3). Furono tradotti anche i commenti di Averroè al De sensu, per esempio il manoscritto 3149 (148,5) conservato a Roma nella Biblioteca Casanatense, al De anima, il manoscritto conservato a Cambridge presso il Trinity College, f. 12 35 (124,1) e ai Meteorologica di Aristotele, il manoscritto conservato a Monaco (Bayer., 208, 3); sebbene non siano trattati di ottica, questi commentari includono la trattazione di temi correlati, come lo status della scienza ottica, la natura e la velocità della luce, il meccanismo di formazione dei colori e dei fenomeni atmosferici, la propagazione della vista e così via.

Recentemente, oltre le opere tradotte in ebraico, ha suscitato un notevole interesse il ritrovamento di testi arabi di ottica trascritti in caratteri ebraici, a uso dei lettori ebrei che comprendevano l'arabo ma avevano poca dimestichezza con il suo alfabeto. I testi di ottica di questo genere che ci sono pervenuti sono molto pochi, e soltanto in due casi sono parzialmente conservati: la prima pagina di un trattato sul crepuscolo redatto nello Yemen; un breve frammento tuttora non identificato; uno scritto del IX sec. sull'ottica e gli specchi ustori di Aḥmad ibn ῾Īsā, che si avvale di nozioni di ottica e astronomia per dimostrare la sfericità del cielo. La scarsità di traduzioni dei testi di ottica in ebraico, specialmente in confronto all'abbondanza di traduzioni di opere classiche in arabo (per non citare gli scritti arabi originali) testimonia una relativa mancanza di interesse degli studiosi ebraici per l'ottica. Ciononostante, il numero di copie superstiti delle due traduzioni citate (per un totale di sette manoscritti) non è del tutto irrilevante e indica che, in realtà, in determinati periodi, i dotti ebrei in Spagna e in Italia s'interessavano alla materia.

Oltre alle traduzioni dall'arabo, il lettore di lingua ebraica poteva contare su un certo numero di trattazioni enciclopediche dei problemi ottici. Infatti, quasi tutte le opere enciclopediche ebraiche medievali affrontavano temi di ottica. Direttamente o indirettamente, gli autori di tali enciclopedie utilizzarono come fonti i testi arabi disponibili. Fra le opere enciclopediche che contengono una sezione dedicata esclusivamente all'esposizione di problemi di ottica vi è, in primo luogo, Yesod ha-tevûnāh û-migdal hā-emûnāh (I fondamenti della ragione e la torre della fede) di Avrāhām ibn Ḥiyyā al-Ṣaydanānī (Savasorda, m. 1136 ca.), che comprende trattazioni sistematiche dello stato dell'ottica rispetto alle altre scienze, della disputa riguardante il fondamentale problema della direzione di propagazione della vista, dei principî della teoria del cono visivo di Euclide e dei diversi tipi di visione riflessa. Vi sono inoltre i due trattati di Šēm ṭÔv ibn Falaqera, composti nella seconda metà del XIII sec.: šît ḥokhmāh (L'inizio della conoscenza) e Sēfer ha-Mevaqqēš (Libro del ricercatore). Il primo contiene una definizione del campo d'indagine dell'ottica (in particolare, della catottrica), seguita dall'esposizione dei diversi tipi di propagazione della vista e da brevi cenni agli aspetti pratici della scienza ottica; il secondo offre una trattazione generale dell'ottica in rapporto alle altre scienze.

In altre enciclopedie è possibile trovare alcune nozioni di ottica nel contesto della trattazione di temi differenti. Nella sua opera enciclopedica Midraš ha-ḥokhmāh (La ricerca della sapienza), Yehûdāh ha-Kōhēn ibn Marqāh (prima metà XIII sec.) fa riferimento ad alcune questioni di ottica sia nel corso dell'esposizione dei fenomeni meteorologici sia durante la trattazione della scienza della logica e di altri argomenti. Anche nel De῾ot ha-fîlôsôfîm (Le opinioni dei filosofi), nella sezione che riassume i fenomeni meteorologici, Falaqera accenna al meccanismo di formazione dei colori e dell'arcobaleno. Lo stesso vale per lo Ša῾ar ha-šāmayim (Le porte del firmamento) di Gēršôm ben Šelōmōh di Arles, stampato a Rödelheim nel 1801 e a Varsavia nel 1875, redatto durante l'ultimo quarto del XIII sec.; nell'ambito della discussione sulla potenza della vista, Gēršōm offre anche un lungo resoconto del dibattito tra i seguaci della teoria della proiezione visiva e quelli dell'introiezione, del meccanismo della visione e dei suoi aspetti fisici. Infine, nel suo Liwyat ḥēn (Ornamento della grazia), composto alla fine del XIII sec., Lēwî ben Avrāhām ben Ḥayyîm accenna agli specchi ustori, e forse persino alle lenti ustorie, durante la trattazione di alcuni problemi di fisica.

Possiamo riassumere alcune caratteristiche generali dell'approccio ai problemi di ottica nelle opere di carattere enciclopedico: la trattazione è relativamente breve (non più di qualche pagina); tutti i resoconti sono parziali e non possono essere considerati vere e proprie rassegne delle conoscenze in campo ottico; la trattazione riguarda principalmente gli aspetti fisici dell'ottica e, a volte, i resoconti integrano tradizioni diverse, fra loro incompatibili.

Per quanto riguarda il genere esegetico e la letteratura ebraica originale, sappiamo che alcuni dotti ebraici scrissero propri commentari alle opere di ottica tradotte dall'arabo. Appartengono a questo genere: un commentario ebraico anonimo all'Ottica di Euclide (Mantova, Comunità Israelitica, 3,4) molto breve (poco più di una pagina), che è l'ultima parte di un commentario a tre opere euclidee, di cui le altre due sono gli Elementi e i Dati (in ebraico Sēfer ha-Mattānôt); un commento manoscritto al compendio o Epitome di Averroè dei Meteorologica di Aristotele, redatto da Salomone di Urgul, il quale, pur ammettendo la propria incompetenza in campo matematico, tenta di applicare l'ottica geometrica ai fenomeni meteorologici (Parigi, BN, héb. 964,2; Steinschneider 1893); e un commento manoscritto anonimo al commento medio di Averroè ai Meteorologica (Los Angeles, University of California, 111, ff. 18-39). Il commento più importante ai Meteorologica, per lo meno dal punto di vista dell'ottica, è però quello di Lēwî ben Gēršôm (Gersonide, 1288-1344).

L'ottica di Lēwî ben Gēršôm

Anche se Lēwî ben Gēršôm non compose mai un trattato sistematico di ottica, è possibile dedurre i principî teorici del suo approccio soprattutto dal modo in cui egli tratta due fenomeni meteorologici: l'arcobaleno e l'alone. La trattazione occupa la maggior parte del Libro III del suo commento all'Epitome di Averroè dei Meteorologica di Aristotele. Secondo lo scienziato, che a questo proposito si attiene ad Averroè, esistono due diversi approcci allo studio dell'ottica: uno fondato sulla fisica (in ebraico ha-ḥokhmāh ha-tiv᾽it), l'altro sulla matematica (in ebraico ha-limudiot). L'ottica fisica studia sia i principî fisici della formazione delle immagini e delle illusioni ottiche (per es., l'ipotesi dell'esistenza di raggi luminosi, quella dell'esistenza di corpi capaci di riflettere la luce, ecc.) sia le condizioni fisiologiche (e patologiche) della vista. L'ottica matematica, d'altro canto, s'interessa dell'analisi geometrica della visione. Lēwî ben Gēršôm dichiara che, data la mancanza di traduzioni ebraiche degli importanti scritti di Ibn al-Hayṯam (di cui ha appreso l'esistenza da Averroè), fornirà al lettore una rassegna dettagliata di alcuni principî fondamentali dell'analisi geometrica.

Per comprendere la posizione di Lēwî ben Gēršôm rispetto al problema classico della trasmissione delle informazioni visive all'osservatore, occorre tenere presente la suddetta distinzione all'interno della scienza ottica. Dal punto di vista dell'ottica fisica, egli tenta una fusione dei due approcci tradizionali, applicando il modello dell'introiezione al meccanismo della percezione degli oggetti luminosi, e il modello della proiezione alla percezione degli oggetti colorati non luminosi (Lindberg 1978); dal punto di vista dell'ottica matematica e dei relativi calcoli geometrici, i due modelli sono considerati praticamente equivalenti. Secondo Lēwî ben Gēršôm, i principî fondamentali cui si deve fare riferimento per la spiegazione dei fenomeni ottici sono tre: la trasmissione in linea retta dei raggi luminosi, l''inversione' (in ebraico hithapkhut) di questi e la loro riflessione (in ebraico nezorut). Sebbene gli ultimi due termini non siano usati sempre coerentemente in questo trattato ed esistano pareri discordanti sul significato esatto di hithapkhut, è sufficientemente chiaro che nezorut significa riflessione, mentre è possibile che hithapkhut denoti un certo tipo di rifrazione. Apparentemente, entrambi i meccanismi soddisfano la legge dell'uguaglianza degli angoli (cioè, il raggio incidente e il raggio riflesso o rifratto formano angoli uguali con la superficie riflettente o rifrangente).

La spiegazione dell'alone fornita da Lēwî ben Gēršôm si basa sul meccanismo detto hithapkhut. L'autore rivela le sue doti di esperto matematico e acuto teorico soprattutto nello studio del problema dell'arcobaleno. La sua spiegazione amplia e allo stesso tempo critica quella aristotelico-averroista, ma esclusivamente sulla base del meccanismo della luce riflessa. Da questo punto di vista, la sua teoria è arretrata rispetto al livello degli studi raggiunto in questo stesso periodo sia nel mondo latino sia in quello islamico (per es., nelle opere di Roberto Grossatesta, Teodorico di Friburgo e di Kamāl al-Dīn al-Fārisī). In questo contesto va sottolineato il fatto che, nella sua trattazione dell'ottica, Lēwî ben Gēršôm non cita alcuna fonte. L'evidente mancanza di dimestichezza con le suddette opere arabe e latine, tuttavia, sembra suggerire che l'autore non avesse una conoscenza profonda degli scritti di ottica (o di altre materie) in tali lingue, sebbene non si possa escludere che egli avesse ottenuto oralmente informazioni su questo o quell'argomento.

Nel modello di formazione dell'arcobaleno proposto da Lēwî ben Gēršôm, il Sole è posto alla distanza astronomica dall'osservatore (è interessante notare che il valore della distanza solare impiegato qui dallo scienziato si avvicina maggiormente alla stima di Tolomeo che non a quella dell'autore stesso). Quest'innovazione tecnica porta a risultati impliciti, in quanto risolve la palese contraddizione fra l'astronomia aristotelica, che situa il Sole al di sopra della sfera della Luna, e la spiegazione meteorologica aristotelica dell'arcobaleno, che situa il Sole nella sfera sublunare insieme alla nuvola che ne riflette i raggi. Un attento esame dell'analisi geometrico-ottica della riflessione prodotta dalla nuvola, secondo questo modello modificato, suggerisce che Lēwî ben Gēršôm avrebbe potuto ignorare l'assunto aristotelico, secondo cui la nuvola è composta di gocce microscopiche che fungono da minuscoli specchi; tuttavia, egli ammette questo assunto, presumibilmente basandosi sulle sue osservazioni circa la possibilità di ottenere un arcobaleno spruzzando acqua nell'aria. Di fatto il suo è un modello teorico macroscopico che considera la nuvola uno specchio coerente, invece di studiare la geometria della riflessione all'interno delle singole gocce che compongono la nuvola (si pensi, in confronto, all'analisi del percorso dei raggi luminosi nelle gocce d'acqua, condotta principalmente da Teodorico di Friburgo e da al-Fārisī).

Per spiegare il fatto che in Natura si materializza soltanto uno dei tre possibili modelli geometrico-ottici di riflessione, Lēwî ben Gēršôm introduce alcune limitazioni fisiche, postulando una determinata relazione fra la distanza del Sole dal centro della nuvola riflettente e la distanza dell'osservatore da quello stesso centro; solamente il modello che rispetta tale limitazione si materializza. La sua spiegazione dei colori dell'arcobaleno e dell'inversione dell'ordine dei colori nell'arcobaleno secondario rispetto a quello primario si fonda sull'ottica fisica aristotelica, vale a dire sull'ipotesi che i colori dello spettro sono generati dal graduale indebolimento della luce (Aristotele, Meteorologica, III, 4, 374 b 9-17); tuttavia la sua dettagliata analisi geometrica differisce da quella aristotelica.

Lēwî ben Gēršôm tratta altri temi di ottica nella sua Astronomia, contenuta nella prima parte del Libro V del suo trattato filosofico principale in sei libri, intitolato Sēfer milḥamôt Adōnāy (Le guerre del Signore). Egli accenna brevemente al tema delle immagini stenopeiche (camera obscura), ossia ottenute attraverso una sottile apertura, tuttavia, il suo obiettivo non è quello di formularne una teoria; egli s'interessa invece all'utilità della camera oscura come strumento per le osservazioni astronomiche, compresa la misurazione del diametro del Sole in rapporto alla sua distanza dalla Terra (di cui si serve per confermare la sua preferenza per l'eccentricità), la determinazione delle proporzioni di un'eclisse solare o lunare, e perfino il tentativo di misurare le dimensioni di Venere e Giove. Lēwî ben Gēršôm descrive in modo corretto il fenomeno fondamentale delle immagini stenopeiche (un risultato notevole, se si considera che spesso le descrizioni del fenomeno che circolavano in Occidente erano errate) e analizza accuratamente il percorso dei raggi luminosi attraverso l'apertura e la conseguente formazione di immagini parzialmente arrotondate sullo schermo. Egli sembra essere stato il primo astronomo occidentale a rendersi conto che, per le misurazioni quantitative, si devono prendere in considerazione le dimensioni dell'apertura.

Sebbene gli storici della scienza abbiano espresso giudizi contrastanti sulla soluzione di Lēwî ben Gēršôm al problema delle immagini stenopeiche, la maggior parte è concorde nel ritenere che egli avesse individuato correttamente i principî teorici del fenomeno, pur senza spiegarli in maniera esplicita. Agli inizi del XIV sec. Egidio di Baisiu propose una teoria delle immagini stenopeiche che sembra essere una formulazione esplicita della spiegazione implicita di Lēwî ben Gēršôm e non si può escludere, senza ulteriori approfondimenti, che egli ne conoscesse l'opera; considerazioni di carattere cronologico fanno tuttavia propendere per l'ipotesi che si tratti di risultati autonomi, ottenuti senza il contributo dell'opera di Lēwî ben Gēršôm.

Nell'Astronomia egli descrive anche un esperimento da lui effettuato allo scopo di stabilire l'eccentricità dell'occhio che gli fu suggerito da esigenze astronomiche pratiche, ossia poter utilizzare con precisione il suo strumento di misurazione astronomica, il baculus Jacob (bastone di Giacobbe); l'accuratezza del risultato sarebbe stata eguagliata soltanto 250 anni più tardi, a opera di Harriot, in Inghilterra (Goldstein 1991). Inoltre, nell'Astronomia, un punto di contatto più interessante fra ottica e astronomia è rintracciabile nei nuovi modelli del moto lunare di Lēwî ben Gēršôm, che sembrano basarsi implicitamente su un'analogia ottica che implica la riflessione.

Non meno degno di nota, infine, è il fatto che Lēwî ben Gēršôm conoscesse le proprietà dello specchio parabolico, che egli utilizzò in modo creativo. Nell'ambito dei suoi studi astronomici, si servì degli specchi parabolici per far convergere la luce lunare e quella delle candele su uno stesso punto. In un altro contesto, egli propose di utilizzare in modo innovativo lo specchio parabolico come strumento di ingrandimento, una specie di protomicroscopio, al fine di studiare i piccoli organismi animali invisibili a occhio nudo; tuttavia, non è stato possibile stabilire se Lēwî ben Gēršôm abbia messo effettivamente in pratica questa idea.

L'ottica nella letteratura ebraica di carattere non scientifico

Gli studiosi ebraici medievali si servivano a volte di teorie o nozioni attinte dall'ottica a sostegno di un'affermazione filosofica o esegetica, dimostrando così che la familiarità con i principî di base di questa scienza era più diffusa di quanto non farebbe pensare l'assenza di trattati specialistici di ottica. Alcuni esempi di questa consuetudine si ritrovano in opere filosofiche. Il filosofo e poeta neoplatonico Šelōmōh ibn Gabīrōl (Avicebron, 1020-1057 ca.) ricorre a un'analogia fra le forze che emanano da tutte le sostanze semplici e la luce emessa dal Sole. Per quanto riguarda i testi di esegesi biblica, i riferimenti più espliciti all'ottica ricorrono nel contesto delle discussioni sull'arcobaleno in Genesi 9. È così che nel commentario ad loc. di ᾽Avrāhām ibn ῾Ezrā᾽ (1092-1167; incluso nella Bibbia rabbinica, Miqrā᾽ôt gedôlôt), troviamo citata 'l'opinione dei saggi greci' a proposito della formazione dell'arcobaleno.

Mōšeh ben Naḥmān (Nahmanide, 1194-1270), nel suo commentario (anch'esso presente in Miqrā᾽ôt gedôlôt), accenna ai Greci e all'osservazione dell'aspetto dell'arcobaleno visibile in un contenitore di acqua guardato controsole. Baḥya ben ᾽Ašer (fine del XIII sec.), nello stesso contesto, fonda le sue brevi osservazioni sull'arcobaleno sull'autorità dei 'saggi della ricerca' e su quella di Averroè; quindi fornisce una descrizione piuttosto particolareggiata dell'arcobaleno e dei suoi colori. Infine, tra i testi giuridici ebraici, ricordiamo che Mosè Maimonide (1135-1204), nel commentario a uno dei trattati della Mišnāh, appartenente all'ordine dedicato alle leggi della purezza rituale (Kelim, 30:1), menziona lo schermo trasparente e la distorsione delle immagini degli oggetti osservati attraverso esso e accenna brevemente anche alla 'scienza della visione' che studia tali distorsioni.

Durante il Medioevo, quindi, gli Ebrei manifestarono scarso interesse per l'ottica. Le opere tradotte dall'arabo in ebraico (o trascritte nell'alfabeto ebraico) furono poche e, per quanto ne sappiamo, non furono mai composti testi originali in ebraico dedicati esclusivamente a questa disciplina. La maggior parte delle fonti ebraiche sull'argomento è costituita da compendi divulgativi o riferimenti occasionali, il che sta a indicare che l'ottica non era considerata una materia da approfondire. Vale la pena notare, viceversa, che fra gli Ebrei era molto più diffuso lo studio dell'astronomia, un'altra scienza che fa grande uso della matematica. In questo caso, l'interesse era motivato da fattori che apparentemente non sussistevano per l'ottica, ossia l'importanza dell'astronomia per la determinazione del calendario (motivazione religiosa) o i suoi collegamenti con l'astrologia. L'unica figura di spicco in questo panorama è Lēwî ben Gēršôm, anche se la sua trattazione dell'ottica non è sistematica e si presenta piuttosto come il prodotto secondario di ricerche effettuate in altri settori, soprattutto nell'astronomia. Egli integra nella teoria ottica tradizionale alcune componenti innovative, applicando meticolosamente le sue conoscenze matematiche. L'opera di Lēwî ben Gēršôm nel campo dell'ottica rispecchia il suo atteggiamento di fondo nei confronti della scienza, ossia la tendenza a integrare armoniosamente le diverse discipline, atteggiamento per il quale sono state individuate ‒ per esempio da uno studioso come Freudenthal (1992, 1996) ‒ precise premesse e implicazioni filosofiche realiste, cioè non strumentali.

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