La costruzione dell'economia unitaria

L'Unificazione (2011)

La costruzione dell’economia unitaria

Guido Pescosolido

Il ruolo della componente economica nella storia del Risorgimento e dello Stato unitario assunse un rilievo storiografico significativo a partire dagli ultimi anni del XIX secolo. Non erano mancati in precedenza analisi e studi sulle condizioni delle province italiane preunitarie e sui processi di trasformazione dell’Europa contemporanea. La stagione dei congressi, lo sforzo del mondo della cultura scientifica a favore di una lega doganale nel corso degli anni Quaranta dell’Ottocento, la componente economica nella formazione culturale e politica di Cavour e di altri protagonisti di primo piano del movimento nazionale erano stati ben presenti a quanti avevano iniziato a ricostruire gli eventi risorgimentali. Tuttavia, i primi storici del Risorgimento non ebbero mai dubbi sul fatto che il processo di formazione dello Stato unitario avesse origine e natura prioritariamente, se non esclusivamente, politica e diplomatico-militare. Per tutti era scontato che l’avvento di un più moderno e dinamico quadro istituzionale e politico avrebbe favorito anche un miglioramento della vita economica e sociale della penisola, ma per la storiografia di ogni tendenza sino alla fine dell’Ottocento non era stata certo quella economica la motivazione principale del movimento nazionale e tanto meno dell’opera di Giuseppe Mazzini e Vincenzo Gioberti, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II, Camillo Benso di Cavour e Bettino Ricasoli, e neppure di Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari.

Nato lo Stato unitario, la dimensione politica e diplomatico-militare aveva continuato a occupare nel sentire dell’opinione pubblica e nell’agenda del governo e della classe politica uno spazio certo non inferiore ai più prosaici e pure non meno drammatici problemi dell’unificazione economica, sociale, istituzionale, amministrativa. La repressione del brigantaggio, la terza guerra d’indipendenza, la questione romana, e successivamente il congresso di Berlino, l’atteggiamento dei cattolici intransigenti e del movimento operaio e anarco-socialista, lo scacco di Tunisi, i difficili rapporti con la Francia, l’adesione alla Triplice, l’avvio del colonialismo, avevano continuato a impegnare ancora a fondo governo e Parlamento e a occupare uno spazio preminente negli organi di stampa e nell’opinione pubblica.

Ciò non toglie che già all’indomani dell’Unità le emergenze finanziarie ed economico-sociali si fossero imposte con gravità e urgenza assolutamente stringenti. Il Risorgimento aveva ottenuto il riscatto politico e militare della nazione. L’Italia unita era chiamata a realizzare quello economico e civile. La necessità del pareggio del bilancio era stata vista subito, in Italia e all’estero, come la condizione senza la quale sarebbe rientrata in discussione la sopravvivenza stessa del nuovo Stato. Agli osservatori più attenti non era sfuggito che l’unificazione economica e l’attuazione di una politica finalizzata alla modernizzazione e allo sviluppo dell’intera penisola non erano poi tanto meno importanti della repressione del brigantaggio o della conquista del Veneto. Senza uno sviluppo economico, sociale e civile più dinamico ed esteso di quello preunitario, difficilmente si sarebbe potuta avere una finanza pubblica sana e ancor più arduo sarebbe stato realizzare all’interno un allargamento dei livelli della partecipazione ai diritti politici e all’estero una difesa degli interessi nazionali in un contesto in progressiva trasformazione. Che le problematiche di natura finanziaria ed economica avessero assunto un’importanza crescente nella vita parlamentare e nell’azione del governo lo si era d’altronde toccato con mano quando nella caduta della Destra storica erano stati determinanti il problema del riscatto e della gestione della rete ferroviaria e, in una prospettiva più generale, il prevalere di aspettative diverse in materia di politica fiscale e di una diversa visione dei rapporti generali tra Stato ed economia.

La Destra storica si era fatta carico immediato del consolidamento politico del nuovo Regno e della delicatissima situazione finanziaria, ma nel contempo anche della necessità di affrontare i gravi problemi economici e sociali del paese e promuovere un efficace processo di modernizzazione. Ciò aveva stimolato anche una messa a fuoco della genesi storica dei problemi economici e sociali sul tappeto. La clamorosa denuncia, avvenuta nei primi anni Settanta dell’Ottocento ad opera di Pasquale Villari, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino, dell’esistenza, al di là dell’ormai represso fenomeno del brigantaggio, di una grave questione del Mezzogiorno, aveva posto all’attenzione della classe politica e dell’opinione pubblica problematiche economiche e sociali che, per la loro portata e natura, richiedevano inevitabilmente una conoscenza circostanziata delle loro origini storiche vicine e lontane.

Lo sbocco storiografico di questo percorso fu, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, una crescente attenzione per quanto nell’evoluzione delle strutture produttive della penisola era avvenuto tra la fine del Settecento e il 1860, finché per la prima volta all’inizio del nuovo secolo fu proposta un’interpretazione del Risorgimento che vedeva come suo principale fattore propulsivo non più le motivazioni ideali e politiche del movimento nazionale e le mire espansionistiche di casa Savoia, bensì le trasformazioni economiche e sociali avvenute tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento, con la crisi dell’aristocrazia e la crescita di una nuova borghesia alla ricerca di diritti politici e condizioni economiche per essa migliori di quelle esistenti.

Fu una proposta interpretativa la cui formulazione più sistematica e documentata fu offerta nel 1916 dall’opera di Raffaele Ciasca, L’origine del «Programma per l’opinione nazionale italiana» del 1847-48. Essa fu ripresa poi dalla storiografia marxista con Antonio Gramsci e soprattutto con Emilio Sereni, nell’ambito di una lettura della vicenda risorgimentale collocata nelle coordinate del materialismo storico. La confutazione più documentata e circostanziata di essa fu effettuata alla fine degli anni Trenta nello studio di Kent R. Greenfield sulla Lombardia e alcuni anni dopo in quelli di Gino Luzzatto sull’intera penisola. La portata dello sviluppo preunitario di una borghesia capitalistica interessata alla formazione di un mercato nazionale fu drasticamente ridimensionata. Automaticamente ne scaturiva la rivalutazione del ruolo primario del ceto intellettuale liberale e democratico che, attraverso il prioritario mutamento politico aveva inteso anche, ma in via subordinata, stimolare e irrobustire i pochi nuclei borghesi esistenti. Greenfield in particolare accertò quanto fosse stata debole in una delle regioni capitalisticamente più avanzate della penisola la partecipazione diretta degli imprenditori al movimento rivoluzionario risorgimentale. Nel dopoguerra espressero il loro consenso a questa linea Luciano Cafagna e Rosario Romeo. Cafagna sottolineò la scarsa complementarità delle diverse economie regionali, collegate commercialmente più con l’estero che tra di loro, e in particolare la separatezza di quella meridionale dal resto della penisola, deducendo da ciò una generale debolezza della spinta degli operatori economici alla formazione di un mercato nazionale. Romeo riaffermò senza ombra di dubbio che i pilastri sui quali poggiava l’impalcatura ideologica del movimento nazionale erano quelli dell’indipendenza dallo straniero e dell’unità politica della penisola, da conseguire inevitabilmente attraverso la lotta armata, nel nome di una nazionalità che Mazzini basava sulla comunanza di etnia, lingua, cultura, religione, tradizione, costumi, e che trovò per la prima volta la sua affermazione a livello politico-statuale nel regime costituzionale e liberale cavouriano, fondato sul rispetto dei fondamentali diritti dell’uomo e del cittadino.

La riaffermazione della preminenza della dimensione politica del Risorgimento non comportò tuttavia da parte della storiografia italiana e straniera del secondo dopoguerra la sottovalutazione del fattore economico nella storia unitaria. Al contrario, lo stesso Romeo mentre riaffermava il primato della storia politica, sosteneva l’irrinunciabilità della considerazione dell’influenza economica sulla dimensione politica dei processi storici ai fini della loro comprensione e soprattutto del giudizio storico su di essi. Nel giudizio sul Risorgimento e sullo Stato liberale, prodotto di un processo di natura eminentemente politica, la valutazione degli effetti della politica economica da esso attuata e dei risultati da essa conseguiti diveniva comunque assai più importante di quanto non lo fosse stata nell’Ottocento o nella prima metà del Novecento. Oggi la valutazione dei risultati raggiunti dall’Italia unita sul terreno economico e dello sviluppo della vita civile decide del giudizio sulla storia dello Stato liberale e sulla positività della stessa unità nazionale assai più del fatto se l’Italia sia stata o meno una grande potenza militare e coloniale. Lo stesso Romeo legò strettamente la difesa della realtà storica e della tradizione morale del Risorgimento e dell’unità nazionale alla valutazione del ruolo da essi svolto sul terreno della modernizzazione e dell’elevazione dei livelli della vita materiale e civile della popolazione, e fu su questo terreno che egli si misurò con la storiografia marxista del secondo dopoguerra e ancora oggi è questa la valenza maggiore di uno studio delle vicende economiche dell’Italia dei tempi in cui fu realizzata l’unità nazionale.

Un’economia agricolo-commerciale di fronte alla sfida dell’industrializzazione

Per misurare l’impatto dell’azione dello Stato unitario sull’economia della penisola occorre avere ben presenti le sue condizioni al momento dell’Unità, anche in riferimento al contesto internazionale col quale era chiamata, volente o nolente, a confrontarsi. Nel 1861 quella italiana era un’economia eminentemente agricolo-commerciale. Le attività agricole concorrevano per circa il 58% al totale del prodotto lordo privato, contro il 20% delle attività secondarie e il 22% delle attività terziarie. Secondo i dati della Svimez, nel 1861 risultava occupato in agricoltura circa il 60% della popolazione attiva, contro il 23% delle attività secondarie e il 17% di quelle terziarie (Svimez 1961, p. 49). Tuttavia, dato l’alto livello di pluriattività esistente nei piccoli centri e nelle campagne, la popolazione coinvolta nelle attività agricole era assai probabilmente superiore alla quota già alta del 60%. Se si considerano le condizioni di vita materiale delle masse rurali e dei ceti urbani, la tipologia delle abitazioni, la qualità dei consumi alimentari e del vestiario, i dati sulle aspettative di vita alla nascita (poco più di 30 anni a metà Ottocento), i tassi altissimi di natalità e di mortalità, in particolare di quella infantile, si troverà che le condizioni di vita della maggior parte della popolazione italiana erano molto simili a quelle della popolazione di molti paesi sottosviluppati dei nostri giorni. Ma il fatto più rilevante e inquietante nel 1861 era che esisteva in Europa un drappello di paesi in fase di progressiva industrializzazione, che avevano accumulato in termini di produzione, reddito e sistema di trasporti, comunicazioni e servizi, un vantaggio ormai imponente rispetto alle altre economie europee, e che tra di essi non figurava l’Italia.

Va precisato che l’economia italiana prima dell’Unità, in termini assoluti, non era rimasta immobile. Gli studi più recenti non presentano più il quadro del tutto stazionario che la letteratura agiografica sul Risorgimento tese a costruire all’indomani dell’unificazione per dare maggior risalto alle realizzazioni dello Stato unitario. È stato messo in luce come dalla metà del Settecento in poi si fosse spezzata la stagnazione di popolazione, consumi, prezzi, redditi e produzione che perdurava nella penisola da oltre un secolo. Considerata nei confini dello Stato italiano attuale, la popolazione era passata dai 15,3 milioni di abitanti del 1750 ai 17,8 del 1800, ai 24 del 1850, ai 25,8 del 1861, quando si registrava, quindi, un incremento del 45% rispetto al 1800 e del 69% rispetto al 1750. In sincronia si erano mossi i prezzi, soprattutto quelli dei prodotti alimentari e dei generi di prima necessità, con una crescita divenuta particolarmente intensa nel periodo delle guerre napoleoniche e delle carestie del secondo decennio dell’Ottocento. Quindi, dopo un ventennio di ristagno tra il 1820 e il 1840, i prezzi agricoli avevano ripreso a salire e non si sarebbero arrestati che agli inizi degli anni Ottanta dell’Ottocento, quando esplose la crisi agraria.

La produzione agricola era stata stimolata sia nell’area dell’autoconsumo sia in quella collegata al mercato e aveva fatto registrare nell’arco di tempo più che secolare 1750-1860 un aumento abbastanza consistente e non solo nella cerealicoltura, direttamente interessata al soddisfacimento del fabbisogno alimentare primario, ma anche in altri importanti settori come quelli gelsi-bachicolo, vitivinicolo, olivicolo, che producevano sempre più anche per i mercati esteri. L’aumento è segnalato in modo frammentario e parziale dai dati quantitativi disponibili a livello regionale o sub-regionale, ma è confermato con sufficiente attendibilità da una serie di indicatori indiretti, tra cui per primo la stessa crescita della popolazione, che aveva comportato nel secolo precedente l’Unità un incremento del fabbisogno alimentare di almeno il 70% non fronteggiato, se non nei periodi di carestia, da importazioni di cereali dall’estero. È stata poi documentata la travolgente diffusione, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, della coltura del mais nel Settecento e della patata nell’Ottocento e una consistente estensione delle superfici messe a coltura, grazie a una grande ondata di disboscamenti, dissodamenti di terreni sodi e a una serie di bonifiche di acquitrini e paludi, stimate nel 1864 a 208.000 ettari di superficie. Un particolare sviluppo avevano avuto nell’Italia centro-settentrionale, ma anche in molte zone della Campania e della Calabria, la gelsi-bachicoltura e la produzione di seta greggia. Nel Mezzogiorno, a fronte della prevalenza del latifondo a grano e pascolo delle zone interne, avevano cominciato a farsi strada nelle zone costiere i primi nuclei di colture specializzate rivolte al mercato interno ed estero: accanto alla coltura dell’ulivo, erano comparsi i primi vigneti e agrumeti, che ebbero una straordinaria fortuna dopo l’Unità.

Agli incrementi produttivi si erano accompagnati anche non trascurabili cambiamenti nelle forme giuridiche di possesso della terra, nella distribuzione della proprietà fondiaria e nei rapporti di produzione. Ovunque si era avuta un’avanzata della forma privatistico-borghese del possesso fondiario e una moderata estensione di forme capitalistiche di attività produttiva. I cambiamenti di maggior rilievo nelle forme giuridiche di possesso della terra erano avvenuti nel Mezzogiorno continentale e nelle Isole, provocati, nel Settecento, dalle leggi di liquidazione del patrimonio di enti ecclesiastici soppressi, nell’Ottocento dall’abolizione del feudalesimo ad opera di Giuseppe Bonaparte, e infine tra gli anni Venti e Trenta in Sicilia e Sardegna dalla legislazione attinente alle soggiogazioni della proprietà ecclesiastica e nobiliare e ai diritti collettivi delle popolazioni contadine sui terreni demaniali ed ex feudali. Nel Centro-Nord questo tipo di intervento aveva avuto minore impatto in quanto la giurisdizione feudale era stata da secoli ridotta ai minimi termini e le proprietà collettive e gli usi civici erano rimasti a caratterizzare in modo determinante solo la vita di alcune vallate alpine. Nel Centro invece, soprattutto nel Lazio e nell’Umbria, la legislazione napoleonica aveva inciso molto poco sulla selva dei diritti d’uso collettivi e delle proprietà promiscue. Solo nel 1849 un provvedimento pontificio aveva dato il via a una prima fase di attacco al sistema degli usi civici esteso a tutto il territorio dello Stato e non solo a specifiche realtà locali. Tale problematica in quelle zone si sarebbe rivelata poi una pesante eredità per lo Stato unitario.

Si era modificata anche la distribuzione della proprietà fondiaria, ma non in misura pari, specie nel Mezzogiorno, a quanto avvenuto nelle forme giuridiche della proprietà terriera. L’eliminazione della proprietà feudale, la vendita di grandi porzioni del patrimonio di enti ecclesiastici soppressi e del demanio statale e feudale, sottratti alla stretta di vincoli feudali e diritti collettivi, avevano rafforzato il libero mercato della terra e la libera impresa agricola. Tuttavia quel mercato nel Lazio, nel Mezzogiorno e nelle Isole era ancora largamente dominato, nel 1861, dalla grande proprietà latifondistica ex feudale divenuta borghese, che aveva continuato a prevalere in misura schiacciante sulla proprietà media, piccola e sulla microproprietà contadina. In base alla legge eversiva del 1806 il grande baronaggio meridionale era riuscito a salvare la maggior parte degli antichi latifondi feudali, cedendone solo un terzo ai titolari degli antichi diritti di uso. In tal modo era restato in possesso di un’estensione ancora enorme di terreni ex feudali, ora detenuti in proprietà piena e libera. Si era fatta avanti anche una nuova grande possidenza borghese formata da grandi affittuari (massari e gabelloti) e da una parte del ceto civile cittadino.

Quest’ultimo si era assicurato una quota del patrimonio ecclesiastico espropriato dalla fine del Settecento in poi, ma il confronto con la proprietà nobiliare era ancora largamente perdente. La crescita della media e piccola proprietà, coltivatrice e non, era rimasta ancora più limitata e la forte polarizzazione della proprietà fondiaria meridionale tra latifondo borghese da un lato e micro-proprietà contadina dall’altro, tipica della storia del Mezzogiorno in età moderna, era stata scalfita solo di poco. I contadini si erano trovati ben presto nella condizione di dover rivendere ai grandi proprietari le piccole quote di terre demaniali ottenute, con l’aggravante di dover lavorare i latifondi senza neppure la tutela degli usi civici. Oltre a ciò avevano subìto, lungo l’arco della prima metà dell’Ottocento, l’estesa usurpazione di terre demaniali soprattutto da parte di nuovi, intraprendenti e non di rado rapaci proprietari borghesi, senza che il governo borbonico facesse alcunché per rimediare al problema. Non era mancata neppure nel Lazio, sull’onda della vendita di molti beni di enti ecclesiastici e anche di istituzioni pubbliche come la Camera Apostolica, la crescita di un primo nucleo di nuova proprietà borghese. Ma anche qui la parte del leone l’aveva fatta la grande proprietà nobiliare, che si era addirittura rafforzata rispetto alla fine del Settecento, mentre la figura del mercante di campagna, grande affittuario di latifondi equivalente al «massaro» meridionale e al «gabelloto» siciliano, restava ancora il perno intorno al quale ruotava la vita economica della campagna romana e laziale. A favore del medio possesso la struttura della proprietà fondiaria era cambiata molto di più nel Centro-Nord. In modo più contenuto nell’area della mezzadria toscana e della compartecipazione colonica umbro-marchigiana e romagnola, assai più in Piemonte, Lombardia, Veneto, la borghesia finanziaria e commerciale, con buoni inserimenti della nobiltà, aveva saputo approfittare delle vendite delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici soppressi dai governi napoleonici con acquisti di medie dimensioni. In Veneto il predominio borghese era stato più marcato e si era consolidato anche a scapito di patrimoni nobiliari in dissolvimento. L’avanzata borghese era stata ancor più predominante nel Ferrarese, nel Modenese e nel Bolognese. Nel Ravennate, nell’Imolese e nel Reggiano la nobiltà era riuscita invece a tenere abbastanza validamente le proprie posizioni.

Non va poi dimenticato che la maggior parte dei cambiamenti, specie nel Centro-Sud, era avvenuta per opera di una spinta proveniente non tanto dal mondo economico interno, quanto dal mondo politico e con l’impulso decisivo esterno delle armate napoleoniche e dei regimi politici che esse avevano insediato nella penisola. Si spiega così come la vittima maggiore dei cambiamenti nella distribuzione della proprietà fondiaria fosse stata un po’ in tutta la penisola la proprietà ecclesiastica. La nobiltà feudale aveva perso ovunque il potere giurisdizionale, ma dal punto di vista strettamente patrimoniale i cedimenti erano stati molto contenuti. L’avanzata della proprietà borghese grande e media, con interessamento di fasce importanti di borghesia cittadina, era stata stimolata da un’attrazione per la terra vista più come veicolo di rendite sicure che come strumento per un diretto impegno imprenditoriale. Addirittura una parte della nobiltà centro-settentrionale, in particolare quella dei cadetti come Cavour, aveva dimostrato una propensione all’impegno diretto nell’impresa agricola superiore a quella di molti neo-proprietari della borghesia degli affari e delle professioni. Ciò era avvenuto perché la quota di prodotto lordo che la rendita fondiaria riusciva ad assicurarsi in tutta la penisola, al Nord come al Sud, qualunque fosse il sistema agrario in causa (latifondo, mezzadria e altre forme di compartecipazione colonica, piccola, media e grande affittanza capitalistica) era ovunque molto alta, incomparabilmente superiore a quella che essa ottiene ai nostri giorni. Le condizioni di vita delle sterminate falangi di coloni, mezzadri, compartecipanti di ogni genere che costituivano la parte largamente maggioritaria delle masse rurali dell’Italia centro-settentrionale, e quindi dell’intera economia nazionale, non erano di fatto migliori di quelle delle altrettanto folte schiere di contadini meridionali.

Il quadro dei rapporti di produzione nelle campagne, specie nell’Ottocento non risultava significativamente alterato, né tanto meno scardinato, pur essendosi avuto un certo allargamento dell’area dell’impresa agraria capitalistica e dell’economia di scambio e pur essendo intervenuta un’accentuazione dei tratti mercantili interni ai sistemi agrari generalmente considerati pre-capitalistici. Restava saldamente in piedi la tipologia dei tre grandi sistemi agrari che caratterizzavano ormai da secoli l’agricoltura italiana: 1) grande affittanza capitalistica della pianura irrigua lombardo-piemontese, imperniata sul nucleo abitativo-produttivo della cascina; 2) area della compartecipazione imperniata sulla mezzadria toscana del podere e della fattoria e sulle altre forme di compartecipazione dell’area umbro-marchigiana-romagnolo-veneta e della collina laziale, piemontese e lombarda, intercalata a nord dell’Appennino col piccolo affitto; 3) latifondo a cereali e pascolo brado nelle maremme, nella Campagna romana e nelle zone interne del Mezzogiorno continentale e insulare, in quest’ultimo caso accoppiato con le colture specializzate delle aree costiere non paludose.

Il sistema della cascina lombarda come modo di organizzazione della grande azienda capitalistica con l’impiego di manodopera salariata per la produzione cerealicola integrata con foraggi e allevamento bovino stabulare, non era andato al di là dell’area compresa tra Dora Baltea, Oglio, Po e i primi rilievi alpini e restava quindi nettamente minoritario rispetto alle altre forme di utilizzazione della terra. Un rafforzamento dei caratteri capitalistici dell’impresa agraria si era avuto invece in forma molto più estesa nella pianura asciutta e nella collina dell’area piemontese e lombardo-veneta, dove il grande affitto in denaro restava minoritario rispetto alla piccola e media affittanza in natura, alle varie forme di compartecipazione colonica e alla piccola proprietà coltivatrice, ma dove sull’onda della grande espansione della gelsi-bachicoltura si era affermato un ceto di affittuari di professione che aveva allargato decisamente gli spazi dell’impresa agricola legata al mercato. Una trasformazione in senso mercantile, anche se non visibile nella forma giuridica del rapporto, ma praticata nella sostanza delle scelte produttive e delle tecniche, si ebbe anche nella grande area della compartecipazione della pianura e della collina romagnola, veneta, lombarda e piemontese, e soprattutto della mezzadria toscana, dove la priorità dell’autoconsumo delle famiglie coloniche nella decisione delle scelte produttive aveva cominciato a essere messa in discussione dalla crescente pressione dei proprietari interessati alla collocazione della loro quota-parte di prodotto sul mercato e all’introduzione quindi delle piante foraggere nelle turnazioni dei colti, cosa quest’ultima fortemente osteggiata dai coloni. In Toscana i progressi più rilevanti erano avvenuti sul piano dell’organizzazione commerciale con la diffusione tra Sette e Ottocento del sistema di fattoria, che coordinava più poderi in un’unità amministrativa centralizzata, grosso modo equivalente alla cascina lombarda per valore e quantità prodotte e manodopera impiegata.

Nel Mezzogiorno le trasformazioni dei rapporti di produzione erano state legate soprattutto alla drastica falcidia di usi civici e diritti collettivi delle popolazioni contadine e alla trasformazione in proprietà borghese dell’antica proprietà feudale ed ecclesiastica. Il sistema del terraggio, principale forma contrattuale utilizzata nella coltivazione del latifondo e consistente nel pagamento da parte del contadino al proprietario di una quota di raccolto rapportata alla superficie messa a coltura e non al prodotto, era rimasta sostanzialmente invariata e per di più inasprita dall’abolizione degli usi civici. Un certo incremento dei sistemi di conduzione capitalistica era avvenuto nelle aree costiere dei giardini siciliani e delle altre colture specializzate destinate al mercato interno e all’esportazione, nonché nelle aree campane dell’orticoltura in funzione del mercato della capitale. Tuttavia nell’insieme il rapporto tra produzione lorda vendibile delle colture arboree e quella delle colture erbacee era rimasto, come del resto in tutta Italia, nettamente favorevole alle seconde, che nel Centro-Meridione erano praticate nel latifondo a grano e pascolo mediante tutte le figure di operatori ad esso collegate: proprietari latifondisti, grandi affittuari speculatori (massari e gabelloti), lavoratori senza terra o proprietari non autosufficienti (terraticanti, braccianti, contadini).

Tutto ciò delinea confini abbastanza ristretti della portata delle trasformazioni della società rurale e dei dinamismi produttivi dell’agricoltura italiana prima dell’Unità. Nel 1861 oltre l’8% del territorio nazionale era del tutto improduttivo e della superficie agraria e forestale quasi il 10% era incolta, il 19% coperta da boschi, il 23% lasciata permanentemente a pascolo e prato. Solo il 52% di essa era destinata alle colture, e di queste poco più del 4% era costituito da colture arboree, mentre il rimanente 44% era destinato a seminativi (Svimez 1961, p. 146). La schiacciante superiorità dei seminativi era, ma solo in poca parte, temperata dall’estensione dell’alberata tosco-umbro marchigiana. Se si prescinde dalla diffusione del mais, l’indubbio aumento della produzione cerealicola era avvenuto senza miglioramenti rilevanti nelle rese unitarie, ma solo per estensione delle superfici messe a coltura e quindi con rendimenti marginali decrescenti. Una moltiplicazione del seme per sei o per otto nella coltura del frumento nel 1861 era considerata buona non solo nel latifondo, ma anche nelle aziende della cerealicoltura asciutta centro-settentrionale, incluse quelle dell’area padana (Porisini 1971; Coppola 1983; Pescosolido 2004). La pratica delle foraggere era stabile solo nella grande azienda capitalistica delle zone irrigue. Quasi ovunque la loro comparsa era evento eccezionale, di data recente e accolta da coloni e contadini con molta diffidenza, quando non con aperta resistenza. Gli incrementi percentualmente più significativi di produzione e reddito erano stati quelli della gelsi-bachicoltura e delle colture arboree specializzate, che si erano estese in modo consistente soprattutto dalla fine degli anni Trenta quando i rapporti con le aree industrializzate e in via di rapida urbanizzazione ne avevano stimolato la domanda. Ma negli anni Cinquanta dell’Ottocento la pebrina aveva quasi dimezzato l’allevamento del baco e l’oidium aveva attaccato in modo drammatico i vigneti. E tuttavia l’agricoltura restava la componente dell’economia italiana che, nonostante tutti i limiti della sua crescita, meno delle altre aveva perso terreno rispetto alle economie europee più avanzate. La misura maggiore dell’arretratezza dell’economia della penisola rispetto all’Europa non stava tanto, infatti, nell’ancora limitata rivoluzione agronomica o nella configurazione arcaica di larga parte degli assetti produttivi delle sue campagne, quanto nella consistenza minima dell’apparato industriale, nella drammatica carenza di carbone, nella pochezza del capitale fisso sociale, nella fragilità ed eterogeneità del sistema creditizio, nel basso sviluppo dei livelli di alfabetizzazione.

L’entità dei valori produttivi, degli interessi economici, nonché della quota di popolazione coinvolta nelle attività secondarie apparivano in Italia chiaramente inferiori rispetto ai paesi europei più avanzati, e non perché non esistessero in ordine sparso nella penisola alcuni insediamenti industriali di una qualche entità. Qua e là nella penisola erano sorti nuclei di manifatture per lo più tessili e alimentari, con discreta organizzazione finanziaria e dotazione di macchinari, accanto a un certo numero di antichi insediamenti produttivi di carta, ceramica, vetri, utensili vari, la maggior parte dei quali conservava però organizzazione e dimensioni produttive di tipo artigianale. Erano stati frutto quasi esclusivo della sovvenzione pubblica sul finire del Settecento, poi effetto indotto delle guerre, del blocco continentale e delle politiche economiche francesi durante il periodo napoleonico, realizzazioni negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento di ceti imprenditoriali anche stranieri più attenti a quanto stava avvenendo in Europa, comunque sempre al riparo di solide barriere doganali. Tuttavia, al momento dell’Unità, in nessuna area della penisola tali nuclei costituivano un sistema industriale auto-propulsivo, paragonabile a quanto era stato realizzato in Inghilterra e nelle aree industrializzate d’Europa nei precedenti cinque-sei decenni. Il grosso delle attività manifatturiere italiane intorno al 1861 si svolgeva in un certo numero di opifici di entità medio-piccola, sparsi nelle campagne, poco meccanizzati, che realizzavano le prime trasformazioni di prodotti agricoli e tessili. Essi erano immersi nelle fitte maglie della rete dei lavoranti a domicilio, che in parte produceva per sé e per la propria famiglia gli indumenti personali indispensabili, in parte lavorava su commissione di mercanti imprenditori che distribuivano la materia prima e ritiravano il prodotto finito (per lo più telerie e pannilana). La pluriattività della manodopera rurale era molto elevata. Il processo di separazione delle attività industriali da quelle agricole e i livelli di specializzazione produttiva erano ancora molto arretrati. Gli operai nel senso classico del termine, ossia prestatori d’opera in fabbrica retribuiti con un salario da cui traevano in modo esclusivo i loro mezzi di sussistenza, erano molto pochi. I dati sui censimenti da questo punto di vista possono trarre in inganno perché nella voce «addetti all’industria» essi conteggiano senza alcuna distinzione tutti gli addetti alle attività di tipo secondario, quindi lavoratori salariati a tempo pieno e parziale, artigiani e manovali di ogni genere, senza linee di demarcazione precise e stabili per i lavoratori stagionali. Secondo questi criteri nel 1861 l’Italia avrebbe avuto addirittura 3,4 milioni di «addetti all’industria», pari al 23% della popolazione attiva, contro il 60% dell’agricoltura e il rimanente 17% ad «altre attività» (Svimez 1961, p. 49). In realtà la relazione dell’inchiesta sulle attività industriali nel 1874 faceva ascendere a poco meno di 400.000 il totale degli addetti all’industria italiana in senso stretto, che era cifra ben più veritiera e peraltro anch’essa suscettibile di qualche dubbio. La parte di gran lunga maggiore delle manifatturiere operava nei settori della lana e della trattura della seta dal bozzolo, tuttavia nel settore laniero i nuclei più avanzati tecnologicamente (Biella e Schio) erano del tutto eccezionali in un panorama dove gli opifici in bilico tra industria e attività artigianale erano la maggior parte, e anche i centri produttivi più avanzati accusavano comunque, rispetto all’industria laniera europea, un’inferiorità produttiva e un ritardo tecnico mai taciuti dagli imprenditori più lucidi e lungimiranti del settore. Alessandro Rossi negli anni 1850-1860 si era rivolto ripetutamente all’estero per assicurarsi tecnologie e capacità manageriali che in Italia erano o inesistenti o non ancora all’altezza della concorrenza estera, e insistentemente i produttori veneti si erano lamentati della concorrenza delle lanerie della Moravia nel contesto del mercato dell’impero asburgico (Fontana 1993, pp. 55 sgg.). Lo stesso Rossi nel 1869 fece un raffronto oltremodo significativo: per la produzione di pettinati di lana, contro 10-12.000 fusi italiani stavano 1,4 milioni di fusi inglesi, 320.000 tedeschi, 1,75 milioni francesi; per la filatura del lino e della canapa negli anni dell’unificazione l’Italia contava circa 24.000 fusi, contro 150.000 del Belgio, 500.000 della Francia, 1,4 milioni della Gran Bretagna (Fontana 1993, p. 65; Corbino 1981, p. 95). Il discorso si faceva ancora più grave per l’industria del cotone, che pure vantava, rispetto alla lana e alla seta, un più elevato sviluppo tecnologico e organizzativo e una discreta rete di aziende di media dimensione, soprattutto nella fase della filatura, ma che restava comunque molto inferiore sia per numero di occupati che per valore della produzione. E noi sappiamo che quello del cotone era, assieme a quello siderurgico e meccanico, uno dei settori trainanti dell’industrializzazione inglese. Nella prima metà del secolo il ritardo dell’Italia rispetto all’estero si era accresciuto nel caso dell’industria cotoniera in misura assai più grave che per la lana e per la seta. In Inghilterra il consumo di cotone greggio, che nel 1817-19 era di circa 49.000 tonnellate, nel 1860-61 era salito a circa 465.000, mentre in Italia nel 1861 era appena di 12.400 tonnellate. I 453.000 fusi installati in Italia erano ben poca cosa di fronte ai circa 5,5 milioni della Francia e ai circa 30 milioni dell’Inghilterra (Mitchell 1978, pp. 253, 258; Pescosolido 1991, pp. 33-35). Questi corrispondevano a meno dell’1% dell’industria della filatura inglese e il rapporto era anche peggiore per la tessitura.

Il settore più importante per valore della produzione e numero di occupati non solo del ramo tessile, ma dell’intero sistema manifatturiero italiano era quello della seta con 200.000 addetti. Di essi la maggior parte (circa 110.000) lavorava però nella trattura del filo dal bozzolo, che era attività di tipo più primario che secondario e i 74.000 addetti alla torcitura del filo tratto dal bozzolo erano anch’essi per lo più lavoratori stagionali occupati anche in agricoltura. Gli addetti alla tessitura e alla rifinitura del prodotto erano quindi nettamente inferiori agli addetti alla produzione dei semilavorati, greggi e filati, che per la maggior parte erano esportati nei mercati esteri, soprattutto francese e inglese, dove venivano tessuti e rifiniti. Le esportazioni di prodotti serici costituivano la maggiore voce attiva della bilancia commerciale italiana, erano cresciute considerevolmente rispetto ai primi del XIX secolo, stimolando un proporzionale incremento della produzione, attestata dalla grande estensione della gelsi-bachicoltura alla quale abbiamo già accennato, ma erano costituite quasi esclusivamente da seta greggia o «filatoiata», quindi essenzialmente da semilavorati. La fase più complessa della lavorazione, tessitura e finitura, avveniva all’estero, soprattutto in Inghilterra e in Francia, la cui industria, localizzata principalmente a Lione, aveva strappato in modo definitivo ai tessuti serici italiani quel primato nei circuiti internazionali che essi avevano detenuto a lungo nei secoli precedenti. L’Italia era ormai importatrice di tessuti serici, anche se l’adagiarsi sui semilavorati si rivelava estremamente remunerativo. Il valore delle importazioni di tessuti di seta si aggirava intorno a un sesto del valore delle esportazioni costituite quasi integralmente da seta greggia e lavorata e su tale livello il rapporto si mantenne per tutto il ventennio 1861-1880. La seta rimase al primo posto della graduatoria delle esportazioni italiane e tra le maggiori fonti di reddito e di risparmi dell’intera economia nazionale. E tuttavia va sottolineato che le fasi lavorative che portavano alla produzione del filo di seta, erano considerate come appartenenti per l’85% all’agricoltura e solo per il rimanente 15% all’industria; che sotto il profilo strettamente tecnico il settore era quello più arretrato dell’intero ramo tessile, dotato di scarsi collegamenti con altri rami di industria sia a monte che a valle del processo produttivo, e che comunque la seta era un prodotto, per l’epoca, di lusso, mentre gli altri sistemi economici europei puntavano su prodotti di consumo di massa come cotone e lana, meno lucrosi per unità prodotta, ma con un mercato potenziale enormemente più ampio di quello della seta.

Dove tuttavia il confronto con l’estero era praticamente improponibile era nel settore delle industrie metallurgiche e meccaniche, decisive nella rivoluzione industriale inglese e centrali nelle economie di tutti gli altri paesi che avevano intrapreso lo stesso percorso. In questo caso il panorama di arretratezza organizzativa, finanziaria, tecnologica e, ovviamente, produttiva era imbarazzante. Molto aveva influito la mancanza di carbone, che aveva ridotto ai minimi termini la fiducia nelle possibilità di far vivere una siderurgia nazionale competitiva. Sta di fatto che nel 1861 la produzione di ghisa era stimata in Italia a circa 26.500 tonnellate e quella di ferro a 30.000 tonnellate, contro 230.000 dell’Austria, 312.000 del Belgio, 592.000 della Germania, 967.000 della Francia, 3.772.000 del Regno Unito (Mitchell 1978, pp. 216-217). Ma la cosa più inquietante era che questo divario si era creato quasi interamente nell’Ottocento. A fine Settecento, nonostante un decennio di forte crescita, la produzione inglese di ferro si aggirava ancora intorno a 90.000 tonnellate all’anno, mentre quella italiana sfiorava le 30.000. Il rapporto era quindi di 3 a 1. Nel 1861 quel rapporto era divenuto di oltre 120 a 1, perché a fronte dell’impressionante sviluppo inglese l’Italia continuava a produrre all’incirca la stessa quantità di ferro di fine Settecento. C’era stato un certo ammodernamento di tecniche produttive, ma non era stato tale da elevare a più del 10% del totale il numero dei forni italiani che adottavano il puddellaggio, né da evitare che i costi italiani fossero nettamente superiori a quelli inglesi, franco-belgi e tedeschi. Emblematico dello stato della siderurgia italiana era il fatto che un consistente flusso di minerali ferrosi dell’Elba prendeva la via dell’estero e non del mercato interno. I livelli di produzione della siderurgia inglese del 1861 l’Italia li avrebbe raggiunti solo nel 1953. La lavorazione del ferro continuava a svolgersi per lo più nelle piccole fucine artigianali dei fabbri-ferrai, che, soprattutto nel Centro-Sud, producevano oggetti di uso domestico e i pochi rudimentali attrezzi richiesti da un’agricoltura la cui meccanizzazione era quasi tutta da venire.

L’assenza di una moderna siderurgia nazionale era a sua volta un handicap grave per un’industria meccanica le cui poche imprese, tranne quelle della cantieristica, non erano in grado di far fronte che in minima parte alla pur modesta domanda interna di prodotti meccanici complessi (le più significative erano a Milano, Genova, Napoli, Palermo). Le poche ferrovie preunitarie erano state costruite importando dall’estero quasi tutto il materiale, fisso e mobile, tranne qualche tipo di carro. L’industria cantieristica, stando alle quantità di naviglio varato, appariva in uno stato abbastanza fiorente. Ma ciò era dovuto alla costruzione di imbarcazioni a vela e con scafi in legno, per i quali riceveva commissioni anche dall’estero. Nella costruzione di propulsori a vapore e soprattutto di scafi in ferro era rimasta in forte ritardo e le conseguenze si sarebbero viste nel secondo decennio postunitario. In definitiva, l’industrializzazione in Europa, e ormai anche negli Stati Uniti, stava cambiando in modo radicale la vita di masse enormi di individui e non solo di ristrette élites di ricchi privilegiati, ma l’Italia ne appariva sostanzialmente tagliata fuori.

Questo stato di cose aveva spiegazioni molteplici. Sicuramente figurava in primo piano la drammatica mancanza nella penisola di giacimenti di carbone a elevato tenore calorico. Tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento, Inghilterra, Germania, Francia, Belgio, Austria erano riuscite a utilizzare i loro giacimenti di carbone in misura mai conosciuta prima. L’Inghilterra nel 1800 produceva già circa 10 milioni di tonnellate di carbone all’anno. Nel 1861 aveva raggiunto gli 85 milioni, la Francia 9,4, la Germania 18,7, il Belgio 10, l’Austria 3,6. L’Italia produsse quell’anno 34.000 tonnellate di carbone e per di più a basso tenore calorico. All’indomani dell’Unità la composizione dei consumi energetici italiani era ancora quasi interamente basata sulla legna da ardere e sulla forza idrica, mentre quella dei paesi nord e centro-europei era ormai spostata prevalentemente sul carbone. L’inferiorità quantitativa dei consumi italiani era vistosa. Nel 1860-80 il consumo energetico medio annuo pro capite, misurato in tep (tonnellata equivalente di petrolio), fu pari in Italia a un decimo di quello registrato nei paesi che oggi fanno parte dell’Ocse (Colombo 1991, pp. 151-153). Il costo di una tonnellata di carbone al centro della Sicilia era pari a otto volte quello a bocca di miniera in Inghilterra. Ciò comportava una penalizzazione pesantissima non solo nella realizzazione e nel funzionamento di un moderno sistema di trasporti, che era ormai incentrato in modo imprescindibile sulla ferrovia e sulla marineria a vapore, ma anche nello sviluppo tecnologico di tutti i rami di industria, compresa quella leggera.

Alla mancanza di giacimenti di carbone si aggiungeva, quale ulteriore fattore di inferiorità sia pure differenziato da regione a regione, il ritardo accumulato nei sistemi infrastrutturali, nell’alfabetizzazione e nello sviluppo civile in genere a causa delle scelte della classe politica e dei ceti dirigenti. Fino alla fine del Settecento la rete stradale ordinaria e la marineria degli Stati italiani non erano state nel loro insieme troppo inferiori a quelle dei paesi europei più progrediti. La rete di vie di navigazione interna dell’Italia padana era ancora nel 1861 tra le migliori d’Europa. Comunque anche in questo campo nel corso della prima metà del XIX secolo l’Italia aveva perso terreno. Il potenziamento dei canali artificiali era stato Oltralpe decisamente superiore a quello realizzato nell’Italia settentrionale e il vantaggio che questa aveva rispetto ad alcune aree specifiche della Francia si era sensibilmente ridotto, mentre la storica inferiorità rispetto all’Olanda e all’Inghilterra si era accentuata (Pescosolido 1991, p. 40; Di Gianfrancesco 1979, p. 23; Deane 1990, p. 105). Nell’Italia centro-meridionale la costruzione di una rete di canali artificiali interni non era stata mai presa in considerazione anzitutto per gli ostacoli posti dalla configurazione geografica del territorio. Aveva invece grande importanza il piccolo cabotaggio che suppliva per quel che era possibile al grave handicap della mancanza di canali e di strade interne. Tuttavia dagli anni Quaranta era sempre più chiaro a tutti che la modernizzazione dei trasporti terrestri era la via maestra per creare un mercato nazionale e le premesse indispensabili a una qualsiasi forma di industrializzazione. Purtroppo però l’Italia centro-meridionale nel 1861 aveva un sistema di viabilità interna che ancora rendeva preferibile per andare da Civitavecchia ad Ancona e da Bari a Napoli fare il periplo della penisola via mare piuttosto che affrontare la via terrestre. Anche per questo aspetto, nonostante un certo sforzo di alcuni Stati italiani preunitari, il divario rispetto al Nord Europa si era considerevolmente aggravato. In Inghilterra era avvenuta tra Sette e Ottocento un’autentica rivoluzione delle tecniche costruttive di viabilità ordinaria e nei maggiori paesi europei, soprattutto in Francia, erano state realizzate grandi arterie viarie, facilitate per la verità anche dall’assenza di grandi catene montuose interne come quella appenninica. La spinta costruttiva nella penisola italiana era stata non solo più debole di quella estera, ma per di più tutta interna ai diversi ambiti regionali, senza significativi collegamenti interstatuali e longitudinali.

L’aspetto più preoccupante di tutta la problematica delle vie di comunicazione terrestri stava comunque nell’inferiorità accumulata nell’ambito delle strade ferrate, perché era chiaro che il futuro della modernizzazione passava obbligatoriamente attraverso il loro sviluppo. All’inizio degli anni Sessanta l’Italia aveva circa 2.400 km di binari contro gli oltre 3.000 dell’Austria-Ungheria, i 9.000 della Francia, gli 11.000 della Germania, i 14.600 dell’Inghilterra (Mitchell 1978, pp. 315-316). A parte la Torino-Genova e alcuni fondamentali tronchi di collegamento nell’area padana, anche la rete ferroviaria appariva, come quella stradale, subordinata a una logica di sviluppo prevalentemente locale o, al più, regionale, mentre i grandi diaframmi alpini e appenninici non avevano ancora subito attacchi.

Un’inferiorità altrettanto grave si delineava nell’ambito dei trasporti marittimi. Nel 1860 quella italiana, con circa 607.000 tonnellate di stazza, era la quarta marineria d’Europa, dopo quella inglese (4.669.000), quella francese (1.011.000) e quella tedesca (808.000). Lo sviluppo in termini assoluti rispetto alle 235.000 tonnellate del 1820 era stato notevole, tuttavia la distanza dalle maggiori marinerie estere era cresciuta. La partecipazione italiana al tonnellaggio mondiale, che nel 1820 era del 6,4%, era scesa al 5,3% nel 1860 (Di Gianfrancesco 1979, p. 230). Inoltre, e soprattutto, si era profilato un ritardo pesante nella dotazione di grandi scafi in ferro e nell’uso della propulsione a vapore. Intorno al 1860 i piroscafi a vapore italiani non superavano le 10.000 tonnellate di stazza, contro le 68.000 dei francesi, le 23.000 dei tedeschi, le 454.000 inglesi, le 65.000 degli statunitensi.

A tutto ciò si aggiungeva l’alto livello di diffusione dell’analfabetismo, quale ulteriore fattore di ritardo dello sviluppo economico. La più recente storiografia ha molto discusso di soglia educazionale per lo sviluppo. In Italia, al momento dell’Unità, solo Lombardia, Piemonte e Liguria, attestate intorno al 50-54% di analfabeti della popolazione in età scolare, erano vicine a quella soglia. Le rimanenti regioni la superavano largamente. Il Mezzogiorno continentale era quasi all’87%, la Sicilia all’89%, ma sorprende non poco il 78% dell’Emilia-Romagna, il 74% della Toscana, l’83-84% delle Marche e dell’Umbria, per cui se la media nazionale era del 75%, ciò non dipendeva solo dal Mezzogiorno. Peraltro il confronto con l’Europa era ancora una volta negativo. Verso la metà dell’Ottocento il tasso di analfabetismo si collocava in Belgio, Francia e Impero asburgico tra il 40 e il 50%, in Inghilterra e Galles intorno al 30%, in Prussia e Scozia non oltre il 20%, in Svezia sotto il 10% (Cipolla 1971, p. 113).

In definitiva, un’analisi concentrata sulle strutture produttive, sulle infrastrutture e sul grado di alfabetizzazione rivela un livello dell’arretratezza economica italiana addirittura superiore a quello indicato dalle comparazioni del reddito pro capite, che comunque segnalavano una marcata inferiorità di quello italiano rispetto a diversi paesi europei. Secondo le stime più note il reddito italiano pro capite in dollari Usa del 1960 sarebbe stato pari al 74% di quello francese, al 70% di quello belga, al 68% di quello olandese, al 67% di quello svizzero, al 47% di quello inglese (Bairoch 1976, pp. 276-340; 1981, p. 10); secondo altre nel 1860-69 esso sarebbe stato pari addirittura a meno di un quarto di quello inglese e a poco più di un terzo di quello francese (Coppola D’Anna 1946, p. 67). Ed è solo in questo quadro di economia complessivamente arretrata che si può effettuare una valutazione più attendibile e realistica dell’entità dello squilibrio territoriale tra Nord e Sud della penisola al momento dell’Unità.

Nord e Sud nel 1861: due diversi gradi di arretratezza

Sull’entità del divario tra Nord e Sud nel 1861, sull’origine e sulla natura della questione meridionale, che è stato e resta il maggior problema irrisolto dell’intera storia unitaria, esiste, come è noto, una letteratura molto ampia e varia, accumulatasi nel corso di quasi un secolo e mezzo. Correnti storiografiche di estrema sinistra venate di neo-borbonismo, sulla scorta di una rilettura parziale e strumentale della lezione del primo Francesco Saverio Nitti, giunsero a negare l’esistenza di un divario economico tra Nord e Sud d’Italia al momento dell’Unità e attribuirono all’economia meridionale potenzialità di sviluppo capitalistico autonomo e autopropulsivo che la politica economica dello Stato unitario avrebbe troncato relegando il Mezzogiorno al livello di colonia del Settentrione. La sostanziale equivalenza di sviluppo tra Nord e Sud al momento dell’Unità costituiva la premessa funzionale alla drammatizzazione della tesi dello sfruttamento coloniale del Sud da parte di un Nord industrializzatosi grazie all’apporto decisivo dello Stato e della sua politica iniqua nei confronti del Mezzogiorno (Zitara 1971; Capecelatro, Carlo 1972). La tesi della natura coloniale del rapporto tra Nord e Sud, instauratosi però non tanto nel 1861 ma solo dopo la svolta protezionista del 1887, fu sostenuta anche dai meridionalisti di dottrina liberista dei primi del Novecento come Antonio De Viti De Marco, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, senza però ricorrere a una mitizzazione del regime borbonico, del tutto insostenibile, e neppure al postulato di una parità di livelli di sviluppo di partenza alla quale fondatamente essi non credevano.

La tesi che abbiamo definito neo-borbonica fu a più riprese discussa e confutata. La maggior parte della storiografia italiana, sia liberale sia di sinistra, ribadì che un divario tra le due parti del paese esisteva già al momento dell’Unità e che lo sviluppo economico del Mezzogiorno preunitario aveva scarsa consistenza e limiti strutturali che precludevano, almeno a breve, la possibilità di radicali cambiamenti nella cornice del regime borbonico (Villani 1973; Villari 1977; Davis 1979). Non si era mai negato che la politica dello Stato unitario avesse fatto gravare sull’economia meridionale costi onerosi di scelte in qualche caso decisive per l’industrializzazione localizzatasi al Nord, ma si discuteva tra chi riteneva che le politiche economiche postunitarie avrebbero potuto avere già nell’Ottocento un’alternativa alla linea doganale protezionista e filo-nordista adottata nel 1887, e chi, come Romeo, riteneva che il sacrificio del Mezzogiorno fosse inevitabile e che si giustificasse alla luce del superiore interesse nazionale, rappresentato da uno sviluppo industriale sia pure solo settentrionale, grazie al quale soltanto anche il Mezzogiorno avrebbe potuto colmare, in un successivo momento, lo storico ritardo preesistente all’unificazione (Romeo 1998, pp. 179 sgg.).

A questi due tipi di lettura se ne aggiunse un terzo, stando al quale il divario al momento dell’Unità sarebbe stato molto profondo in tutti gli aspetti della vita economica e civile (Cafagna 1989, pp. 187-190) e vi sarebbe stata inoltre una scarsa complementarità tra la sezione settentrionale e quella meridionale dell’economia italiana. Tale separatezza si sarebbe protratta molto a lungo anche dopo l’introduzione della tariffa protezionista del 1887. Sarebbero stati quindi assai limitati tra Sud e Nord non solo gli scambi di capitali e forza lavoro, ma anche quelli di merci, per cui l’importanza del mercato meridionale per i prodotti dell’industria settentrionale sarebbe stata praticamente trascurabile (Cafagna 1994, pp. 7-8). Lo sviluppo economico settentrionale in definitiva nulla o quasi avrebbe dovuto al contesto statual-nazionale e al Mezzogiorno, che era già in forte ritardo al momento dell’Unità e lo rimase a lungo anche dopo.

Di queste tre letture quella che sembra reggere meglio alle verifiche e alle riflessioni più recenti, effettuate anche da chi scrive, appare la seconda, soprattutto per quel che riguarda il ruolo del Mezzogiorno nello sviluppo capitalistico italiano. Invece nella valutazione dell’entità del divario al momento dell’Unità, considerato da essa abbastanza consistente ed esteso sia nelle strutture produttive che nel reddito e nei principali aspetti della vita civile, si tende a distinguere tra il dislivello in materia di capitale fisso sociale e di sviluppo civile in genere e il dislivello in materia di reddito e di strutture produttive. In particolare per quanto riguarda l’agricoltura, come del resto emerge anche dall’analisi delle pagine precedenti, pur sembrando indubitabile che le tecniche di coltura, il grado di liquidazione sia dell’economia del latifondo sia della microproprietà contadina e il generale processo di mercantilizzazione dell’economia rurale nel 1861 erano nel Mezzogiorno in uno stadio sicuramente più arretrato rispetto al Settentrione, è stato tuttavia stimato che tali differenze strutturali non si traducessero ancora al momento dell’Unità in un differenziale molto forte in termini di prodotto lordo e di reddito pro capite (Pescosolido 2007, pp. 138-147). Già le stime del divario calcolate da Richard S. Eckaus avevano indicato uno scarto di non grande entità: nella produzione agricola pro capite di circa il 20% e nel reddito pro capite tra il 15 e il 25% (Eckaus 1961). In realtà, sulla base di alcuni controlli delle fonti usate da Eckaus, è sembrato plausibile che il divario del prodotto agricolo pro capite tra Nord e Sud fosse sicuramente inferiore al 20% e il divario del prodotto pro capite complessivo fosse ben più vicino al 15 che al 25% (Pescosolido 2007, pp. 143-145). A contenere il divario del prodotto pro capite complessivo concorreva anche il fatto che non era di grande entità lo scarto in termini di produzione industriale e di trasporti marittimi. Per la verità per quel che riguarda l’industria le indicazioni di cui disponiamo su scala regionale segnalano una superiorità netta del Nord rispetto al Sud nella dotazione di attrezzature e nei valori della produzione industriale. Piemonte, Lombardia, Veneto e Liguria avevano intorno al 1857 circa 250.000 fusi di cotone contro 70.000 del Regno delle Due Sicilie; i telai di lana nel 1866 sarebbero stati 4.450 contro 1.640; gli occupati nell’industria metalmeccanica, nel 1861, 7.231 contro 2.500; il valore della produzione di carta, nel 1858, 10,9 milioni di lire (senza il Veneto) contro 3; la produzione di cuoio, nel 1866, sarebbe stata di 8.209 tonnellate contro 4.083; la produzione di ferro attorno a 17.000-18.000 tonnellate contro circa 1.500 (Zamagni 1990, pp. 40-41). Da questi dati si ha la sensazione di trovarsi di fronte a due apparati industriali molto distanti tra loro, di cui solo uno sembra avere veramente raccolto la sfida dell’industrializzazione. Tuttavia sappiamo che l’incidenza delle attività secondarie (consistenti soprattutto in attività artigianali) nella formazione del prodotto nazionale ascendeva a meno di un quinto e solo una parte minima era dovuta all’industria in senso stretto. Per quanto riguarda quest’ultima, come era molto chiaro ai contemporanei più direttamente interessati alle sorti delle attività manifatturiere, la misura del grado di sviluppo industriale sia delle regioni settentrionali, sia di quelle meridionali, non era data tanto dal confronto stretto tra di loro, ma da quello di entrambe con i paesi che avevano realizzato un autentico sviluppo industriale e che sulla base dei risultati raggiunti determinavano la lunghezza e le difficoltà del percorso per le economie in ritardo che tentavano di industrializzarsi.

In questa prospettiva il cammino da fare per il Nord, a partire dai due settori guida della prima rivoluzione industriale, cotone e ferro, era praticamente equivalente a quello del Sud. I dati relativi a questi due settori ci dicono che i 250.000 fusi settentrionali erano pari a 3,6 volte i 70.000 meridionali; tuttavia, rispetto ai 30 milioni di fusi inglesi, i primi equivalevano allo 0,83% e i secondi allo 0,23%, per cui, per dar luogo a un autentico sviluppo industriale in quel campo e raggiungere il livello del paese guida, al Nord restava da colmare il 99,17% del divario e al Sud il 99,77%, ossia uno svantaggio praticamente equivalente. Per la siderurgia il discorso è analogo: 17.000 tonnellate di ferro prodotte annualmente nel Settentrione erano pari a oltre undici volte le 1.500 prodotte nel Sud. Tuttavia, rispetto a 3.772.000 tonnellate prodotte nel 1861 in Inghilterra, la produzione del Nord Italia rappresentava lo 0,46% e quella del Mezzogiorno lo 0,04%, ossia due grandezze entrambe irrilevanti che configuravano livelli di arretratezza praticamente simili. Non troppo diversa era la situazione per gli altri prodotti di cui si hanno dati, sia pure parziali e incerti, a partire da quello fondamentale della lana. Di questo stato di cose gli operatori settentrionali erano perfettamente consapevoli. Tutti gli inventari dell’apparato industriale redatti in quel periodo in aree e regioni settentrionali istituivano confronti sistematici con i paesi stranieri per denunciare l’arretratezza italiana. In definitiva nel 1861 l’industrializzazione in Italia settentrionale si presentava come un problema sostanzialmente da risolvere, non meno di quanto lo fosse nel Mezzogiorno.

Anche nell’ambito dei trasporti marittimi le differenze non erano significative e anzi nel confronto tra tonnellaggio della marina mercantile rapportato alla popolazione nel 1859-60 del Sud (Regno delle Due Sicilie) rispetto a quello del Centro-Nord (Stati sardi, Stato pontificio, Granducato di Toscana, Regno del Lombardo-Veneto) si riscontra una prevalenza abbastanza netta del Sud. Da un calcolo inevitabilmente approssimativo da me effettuato partendo dalle cifre fornite da Di Gianfrancesco e dalla Svimez (Di Gianfrancesco 1979, p. 222; Svimez 1961, p. 12), risulterebbe nel Sud una dotazione di 0,035 tonnellate per abitante, contro le 0,027 del Centro-Nord.

Nettamente diversa era invece la situazione in ordine all’entità del capitale fisso sociale e dello sviluppo civile in genere. La rete stradale del Centro-Nord, secondo le valutazioni più attendibili, sarebbe stata di circa 75.500 km contro 14.700 km del Meridione e delle Isole, per una densità corrispondente di 626 km/1.000 kmq contro 108. Densità anche più basse si registravano nel Lazio, con 81,1 km/1.000 kmq e in Sardegna con 41 km/1.000 kmq (Di Gianfrancesco 1979, p. 60). Questa inferiorità e quella in materia di vie d’acqua interne, secondo Cesare Maestri, venivano in parte compensate dal Mezzogiorno con la maggiore consistenza della navigazione di cabotaggio e dal fatto che non esisteva alcuna rilevante località meridionale collocata a distanza superiore a 100 km dalla costa. Tuttavia anche una distanza di 100 km diveniva proibitiva da percorrere con una viabilità ordinaria nello stato in cui era quella meridionale e comunque la differenza tra il sistema viario, e soprattutto idro-viario, padano e quello meridionale era notevole perché, quanto a dotazione di vie ordinarie e vie d’acqua, l’Italia settentrionale era certo inferiore alle aree europee più dotate, ma non di molto. Neppure nell’estensione della rete ferroviaria, per quanto il Nord-Italia accusasse un ritardo significativo rispetto a Inghilterra, Francia, Germania, esistevano differenze paragonabili a quelle accumulate nel settore industriale, cosicché le deficienze del Mezzogiorno – eccezion fatta per la Campania la quale, quanto a chilometri di ferrovie ogni 100.000 abitanti superava Lazio, Umbria, Marche, Emilia, Romagna, Liguria e la stessa Lombardia – si prospettavano come un elemento di inferiorità consistente rispetto al Nord. Dei 2.520 km di ferrovie esistenti in Italia nel 1861, ben 689 erano in Piemonte, 756 nel Lombardo-Veneto, 361 in Toscana. Nel Regno delle Due Sicilie erano in esercizio solo 184 km nei dintorni di Napoli (Svimez 1961, p. 477). Non solo la Sicilia e la Sardegna, ma la Calabria, le Puglie, la Basilicata, l’Abruzzo e il Molise ne erano totalmente prive. Quelli che Romeo definì come prerequisiti indispensabili dell’industrializzazione, apparivano nel Sud continentale e insulare nettamente inferiori non solo rispetto all’Europa, ma anche rispetto all’Italia centro settentrionale.

Infine, era notevole la differenza Nord-Sud in materia di analfabetismo, anche se limitatamente al confronto con Piemonte, Liguria e Lombardia. D’altronde se nel 1860 la spesa pro capite per l’istruzione negli Stati sardi era pari a tre volte quella del Regno borbonico, i risultati non potevano essere molto diversi.

Da tutto ciò si può concludere che il divario Nord-Sud intorno al 1861 sicuramente esisteva, ma che non era generalizzato e profondo come le visioni dualiste più radicali attestano, bensì sensibilmente diversificato a seconda dei vari indicatori del livello della vita economica e dello sviluppo civile da un lato e degli apparati produttivi e del reddito pro capite dall’altro. In questo secondo caso era molto meno accentuato di quanto non divenne a partire dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento in poi, e anche di quanto non sia ancora oggi, quando il reddito pro capite del Mezzogiorno è attestato intorno al 60% di quello del Nord. Va però tenuto ben fermo che le contenute dimensioni del divario di produzione e reddito pro capite tra Nord e Sud nel 1861 non vanno collegate a un particolare sviluppo del Mezzogiorno preunitario, che non era andato oltre il limite di una prima episodica e frammentaria modernizzazione, la quale non aveva minimamente messo in discussione il modello di sviluppo agricolturista dominante e non aveva neppure creato i presupposti per farlo. Esse sono invece da ricondurre ai limiti che lo stesso sviluppo economico del Nord accusava, perché neppure nel Nord il modello agricolo-commerciale era stato in una qualche misura messo in discussione, anche se, e questa era la differenza importante, soprattutto in Piemonte e Liguria, ma anche in Lombardia, si erano cominciate a creare le premesse della modernizzazione economica potenziando infrastrutture e servizi civili. Nord e Sud al momento dell’Unità non presentavano il contrasto profondo tra un’area sviluppata e una arretrata, ma due diversi gradi di arretratezza rispetto all’Europa industrializzata. Un’arretratezza che – ed era il dato di gran lunga più preoccupante – anziché decrescere, aveva per entrambi teso costantemente ad aumentare nel quadro della frammentazione politica ed economica preunitaria. Il che chiama pesantemente in causa il modo di porsi di fronte ai problemi dello sviluppo industriale e della modernizzazione da parte dei governi preunitari, le cui diversità di comportamento non erano state irrilevanti, se è vero che, pur all’interno di un modello di sviluppo agricolo-commerciale, Lombardia, e soprattutto Liguria e Piemonte, almeno in materia di infrastrutture, e in particolare di rete ferroviaria, ma in parte anche di strutture produttive e di strutture creditizie, arrivavano all’appuntamento con l’Unità in condizioni indubbiamente migliori del resto della penisola.

Stati preunitari e modernizzazione

La sfida del nuovo modello di sviluppo economico, che era partito dall’Inghilterra, in Italia era stata sentita in modo veramente stringente soprattutto dal mondo della cultura scientifica ed economica e in particolare dalla fine degli anni Trenta dell’Ottocento. Nelle classi dirigenti si erano profilati atteggiamenti differenziati rispetto al rapporto da stabilire con lo sviluppo industriale e con le economie straniere che ne erano teatro. Le menti e i governi più dinamici avevano ritenuto che con la rivoluzione industriale e con quella commerciale sarebbe stato ineludibile fare i conti. Imitarla fedelmente e integralmente appariva impossibile anzitutto per problemi di ordine energetico. Lo stesso Cavour, data la mancanza di rilevanti giacimenti di carbone, riteneva che sarebbe stato assai arduo costruire un’industria siderurgica e anche parte della meccanica. Tuttavia riteneva che nell’ambito della nuova divisione internazionale del lavoro che stava prendendo corpo ad opera soprattutto dell’Inghilterra e della Francia si poteva e si doveva stabilire un rapporto complementare con le economie industrializzate, potenziando il ruolo dell’economia italiana come fornitrice di derrate alimentari, materie prime, semilavorati, in cambio dell’importazione di prodotti manufatti e soprattutto di beni strumentali. Ciò avrebbe lasciato al Piemonte e all’Italia gli spazi non solo per un grande e immediato sviluppo dell’agricoltura, ma anche per una crescita delle industrie alimentari, tessili e, in alcune particolari produzioni, anche meccaniche e chimiche.

Gli strumenti fondamentali per realizzare questo tipo di cambiamento erano, secondo Cavour, l’abbandono delle politiche proibizioniste in vigore in tutta la penisola e la modernizzazione di tutti i servizi esterni all’impresa, in un quadro di generale innalzamento dei livelli della vita civile ad opera di uno Stato che se ne assumesse deliberatamente il compito. Al contrario i governi più chiusi e conservatori, come quelli dello Stato pontificio e del Regno delle Due Sicilie, al di là di un’iniziale e del tutto parziale attenzione, avevano ritenuto che una rivoluzione industriale di tipo inglese, francese, belga fosse pressoché impossibile per ragioni strutturali, e neppure auspicabile per i pericoli di sovversione sociale, politica e morale che essa recava in sé, con la nascita di una classe operaia, per di più anche femminile e infantile, che avrebbe vissuto e lavorato nelle condizioni allora esistenti nelle fabbriche inglesi, con il capovolgimento di tutto il sistema di relazioni sociali, stili di vita e valori etici e comportamentali propri della società preindustriale.

La scelta di politica economica era stata in questo caso imperniata sul mantenimento dell’alta barriera protettiva a difesa delle poche produzioni nazionali indispensabili e in particolare dei pochi nuclei di industria tessile e cartaria esistenti in Terra di Lavoro e nel Salernitano, di industria siderurgica in Sila, di industria meccanica a Napoli, ma era stata imperniata anche su un debolissimo impegno sul fronte della modernizzazione delle strutture civili indispensabili allo sviluppo della circolazione delle merci e, inevitabilmente, delle idee. Il livello della tassazione e dell’indebitamento pubblico dello Stato borbonico e di quello pontificio era stato inferiore a quello piemontese, ma lo era stata anche di più la dotazione di infrastrutture e servizi civili con cui il Regno delle Due Sicilie e lo Stato pontificio si presentarono all’appuntamento con l’Unità. Tra le due posizioni estreme del Regno meridionale e dello Stato sabaudo-cavouriano si erano collocate le posizioni intermedie della Toscana, abbastanza vicina a quest’ultimo in materia di politica doganale, meno per quel che riguarda l’impegno nell’infrastrutturazione e soprattutto nello sviluppo dell’istruzione elementare (la Toscana giunse all’Unità con il 74% di analfabeti). Quelle del Lombardo-Veneto furono più vicine alla spinta modernizzatrice cavouriana, anche se in misura differenziata (il Veneto aveva un tasso di analfabetismo decisamente superiore a quello della Lombardia), ma in un contesto di subordinazione politica a Vienna che finiva per riflettersi anche sul piano economico e che era sempre meno tollerato dalla borghesia imprenditrice delle due regioni.

Per tutti gli Stati della penisola infine, anche se con diversa intensità e visibilità, c’era stato il fattore frenante della subordinazione e della debolezza politico-militare, di cui risentivano certo gli industriali del Lombardo-Veneto nell’ambito dell’Impero asburgico, ma che esplose nel modo più emblematico in occasione del duro contrasto insorto nel 1837-40 tra l’Inghilterra e lo Stato borbonico a proposito del monopolio dell’estrazione e della commercializzazione dello zolfo. Come è noto, la Sicilia detenne per quasi tutto l’Ottocento il monopolio della produzione dello zolfo. Tale monopolio era tuttavia controllato da imprenditori inglesi che avevano iniziato nel Settecento l’estrazione del minerale, che esportavano quasi integralmente fuori della Sicilia. Nel 1837 la compagnia francese Taix&Aycard aveva proposto al governo borbonico di sottrarre il monopolio agli inglesi e di affidare ad essa l’estrazione e la commercializzazione del minerale a condizioni economiche migliori e per di più con l’impegno a creare in Sicilia un’industria chimica. Il governo borbonico sottoscrisse l’accordo, ma gli imprenditori inglesi si rivolsero al loro governo, che giunse a schierare la flotta davanti al porto di Napoli minacciandone il blocco. Di fronte alla forza navale britannica al Regno delle Due Sicilie non restò che subire l’umiliazione di disdire l’accordo con la Taix&Aycard, restituire agli inglesi il monopolio dell’estrazione dello zolfo e indennizzare la compagnia francese dei danni ad essa arrecati, perché anche la Francia era una potenza che in certe materie sapeva farsi rispettare. In realtà, per tutti, al Nord come al Sud, il cammino per la fuoriuscita da questo stato di arretratezza economica, sociale e civile e di fragilità politica e militare, iniziò solo con la nascita dello Stato unitario avvenuta il 17 marzo 1861.

Unificazione economica e liberismo commerciale

A partire dal 1861 il governo della Destra dovette far fronte a una serie di problemi veramente imponenti. Oltre a che a completare l’unificazione politica, dovette provvedere all’unificazione di economie che erano state separate per secoli e alle sfide poste dall’aumento della pressione demografica e dallo stato di arretratezza economica e civile nel quale la penisola versava mentre l’Europa centrale e settentrionale faceva passi da gigante sulla via della modernizzazione. La popolazione italiana nei primi decenni postunitari continuò a crescere, passando dai 26 milioni di abitanti del 1861 ai 29 del 1881, ai 31 del 1887: più che in Francia, Spagna, Portogallo. Nel contempo il processo di industrializzazione mise in evidenza la piena maturità inglese, francese e belga, austro-boema, svizzera, l’imponente boom tedesco, il profilarsi di nuovi ingressi come quelli della Svezia e più in là della Russia. In Italia, per quanto attiene all’industrializzazione, nel primo ventennio postunitario furono realizzati progressi assai modesti che non ebbero la consistenza né di una espansione ciclica, né tanto meno di un big spurt. Invece fu realizzato un aumento della produzione agraria grazie al quale si fece fronte, almeno fino alla fine degli anni Settanta, al crescente fabbisogno alimentare della popolazione e nel contempo fu realizzata un’accumulazione di capitali che, assunti in gran parte dallo Stato attraverso la leva fiscale e altri strumenti di prelievo, furono impiegati in uno sforzo senza precedenti per la costruzione di infrastrutture e di altre opere pubbliche. Tra il 1861 e il 1880 le linee ferroviarie passarono da 2.520 a 9.290 km, le strade nazionali e provinciali da 22.500 a 35.500 km, gli uffici postali da 1.632 a 3.328, le linee telegrafiche da 9.900 a 26.100 km, la corrispondenza da 108 a 320 milioni di unità, il movimento dei vaglia da 22 a 484 milioni. Tale crescita contribuì molto al consolidamento del mercato nazionale, all’aumento del livello di mercantilizzazione generale dell’economia, alla creazione quindi dei prerequisiti indispensabili allo sviluppo industriale che ebbe un energico avvio nel corso degli anni Ottanta, secondo un modello di sviluppo delineato da Romeo sin dal 1956-59, che è stato variamente discusso dalla storiografia sia economica sia politica per oltre mezzo secolo (Romeo 1998; Pescosolido 2004; Fenoaltea 2006) e che sembra sostanzialmente tenere ancora oggi.

Le risorse necessarie a questa fase di modernizzazione delle infrastrutture e dei servizi civili, che ebbe dimensioni e ritmi dirompenti rispetto a quelli preunitari, furono reperite soprattutto nell’ambito dell’agricoltura nazionale, che realizzò allora una crescita nettamente superiore ai pur apprezzabili progressi fatti segnare soprattutto dagli anni Quaranta in poi. Furono fornite anche da un flusso considerevole di capitale straniero, inizialmente francese e inglese, successivamente anche tedesco. Tuttavia la parte maggiore dei capitali investiti ebbe origine interna, quindi dall’agricoltura. La Destra storica applicò fedelmente a tutta la penisola le linee di politica economica adottate dallo Stato sabaudo nel decennio cavouriano: liberismo commerciale, aumento della pressione fiscale grazie alla creazione di uno dei sistemi impositivi più progrediti dell’epoca, aumento del debito pubblico, vendita di beni demaniali e dell’asse ecclesiastico, adozione del corso forzoso. Caduto il governo della Destra, la Sinistra mantenne elevato l’impegno in materia di infrastrutture e opere pubbliche, e inoltre, di fronte all’esplodere della crisi agraria e alla mancanza di un apparato industriale del livello di quello delle grandi potenze europee, inaugurò tra il 1878 e il 1887 una politica di favore verso l’industria attraverso commesse e sovvenzioni alle produzioni ritenute strategiche per gli interessi nazionali e infine con l’abbandono del liberismo doganale a favore di una politica protezionista tesa a difendere la cerealicoltura e le possibilità di sviluppo dell’industria nazionale.

Fu necessario quindi procedere il più rapidamente possibile all’unificazione monetaria, a quella del debito pubblico degli stati preunitari, a quella del sistema fiscale. L’unificazione monetaria venne realizzata tra il 1861 e il 1863 con una serie di provvedimenti che portarono alla fissazione del tasso di cambio della lira piemontese con le monete degli altri Stati preunitari, tasso che fu poi alla base anche del rapporto di queste ultime con la lira italiana, per la quale fu adottato un rapporto di cambio con la sterlina di 25,3 a 1. Furono rapidamente eliminate le 268 valute metalliche esistenti negli stati preunitari e il sistema bimetallico piemontese fu esteso a tutta la penisola, con la conseguenza che, a causa di variazioni in atto nel corso dell’argento, si ebbe un trasferimento di risorse da tutti gli altri Stati verso i territori del Regno di Sardegna e del ducato di Parma, che erano gli unici a sistema bimetallico. Nella circolazione cartacea fu mantenuta la pluralità degli istituti di emissione.

Assai più repentina fu l’unificazione del debito pubblico disposta nel bilancio dello Stato nel marzo del 1861. L’ammontare del debito complessivo fu di 2.402,3 milioni di lire, di cui 351 iscritti nel Gran Libro come redimibili e il resto come consolidato al 5% e in parte minore al 3%. È stato calcolato che esso corrispondesse a circa il 40% delle stime più recenti del Pil del 1861, che era un livello di indebitamento per l’epoca straordinariamente elevato. La provenienza era per 1321 milioni di lire dal Regno di Sardegna, per 657,8 dal Regno delle Due Sicilie, per 219,3 dalla Toscana, per 151,5 dalla Lombardia, per 22,5 dai territori ex pontifici, per 16,1 dal ducato di Modena, per 14,1 da quello di Parma. I due terzi di esso erano dovuti alle spese per le guerre del Risorgimento, ma è stato calcolato che anche al netto di queste ultime, l’indebitamento pro capite in Piemonte fosse di 188 lire contro le 84 del Regno delle Due Sicilie e le 55 del Granducato di Toscana. L’unificazione del debito non era assolutamente procrastinabile, ma non va dimenticato che, come l’effetto indiretto dell’adozione del sistema bimetallico, anche quello dell’unificazione del debito fu un trasferimento di risorse, sia pure di non eccezionale entità, dai territori meno indebitati, verso quelli più indebitati, in testa ai quali erano quelli dell’ex Regno sardo, che in questo modo scaricarono a posteriori parte degli oneri della costruzione delle loro infrastrutture sul resto della penisola e quindi anche su quelli dell’ex Regno delle Due Sicilie, che comunque avevano il secondo debito pubblico della penisola.

L’ambito nel quale i nuovi ordinamenti e le nuove politiche furono estesi con la maggiore celerità e nella forma più radicale fu quello dei rapporti commerciali con l’estero. La tariffa piemontese, fra le più liberiste d’Europa, fu estesa immediatamente a tutti i territori della penisola man mano che venivano annessi al Regno di Sardegna. Da ultimo fu applicata ai territori dell’ex Regno delle Due Sicilie a decorrere dal 1° gennaio 1861, ossia oltre tre mesi prima della proclamazione del Regno d’Italia. Furono abolite immediatamente tutte le dogane interne, con pochissime eccezioni merceologiche, peraltro temporalmente brevi. L’apparato produttivo dell’ex Regno borbonico si trovò esposto di colpo a una riduzione media di circa l’80% della preesistente barriera doganale. I trattati commerciali sottoscritti con Francia e Inghilterra nel 1863 e le annesse convenzioni di navigazione rafforzarono ulteriormente il carattere liberista della tariffa generale e sancirono il pieno inserimento dell’Italia nell’area commerciale franco-inglese, che si allargò ben presto a quella tedesca.

Dal punto di vista strettamente commerciale, i risultati della politica liberista furono indubbiamente molto positivi. Dal 1861 al 1883 si registrò un vistoso incremento del volume complessivo del commercio speciale e un rapporto tra import ed export che non fu mai più così favorevole in tutta la successiva storia delle relazioni commerciali italiane con l’estero. Dal 1861 al 1876 il valore del commercio speciale aumentò da 1.299 a 2.515 milioni di lire, con un incremento quindi del 94%. Il valore delle importazioni ebbe un incremento del 59% e quello delle esportazioni del 153%. Successivamente l’interscambio si attestò intorno ai 2.300 milioni nel 1879-80, per risalire a 2.405 milioni nel 1881. Il rapporto percentuale tra export e import passò dal 58,2% del 1861 all’82,8% nel 1867, ed eccezionalmente al 111,9% nel 1871. Fino al 1883 si mantenne quasi sempre sopra il 90% (Istat 1958, p. 152). Il saggio di crescita registrato tra il 1867-69 e il 1881-83 fu in linea con i saggi di sviluppo del commercio mondiale, se non al di sopra. Aumentarono vistosamente, con progressione continua arrestatasi solo nel 1888, le esportazioni di prodotti agricoli, semilavorati e minerari. Si ebbe soprattutto un grande flusso di seta greggia, che da sola fornì circa un terzo del valore totale delle esportazioni italiane. In quantità si ebbe un incremento del 44%, in valore del 57%. Ma, subito dopo la seta, uno dei primi posti fu occupato dall’olio, in larga prevalenza meridionale, con un incremento in quantità del 33%. In valore la crescita fu dai 60-100 milioni di lire del primo decennio ai 100-120 del secondo, che corrispondevano a circa un decimo del valore complessivo esportato. Più contenuto l’incremento delle esportazioni di vino, in forte ascesa nelle quantità, ma ridimensionato in valore dalla flessione dei prezzi internazionali, cosa questa che si ripeté anche per la considerevole espansione delle esportazioni di agrumi, in parte vanificata dal cedimento dei prezzi. Dopo le esportazioni di prodotti agricoli e di semilavorati serici, si collocavano quelle di minerali. In testa quelli di ferro, il cui valore salì fortemente tra il 1871 e il 1878 fino a toccare i 25 milioni di lire. In aumento furono anche le esportazioni di rame e soprattutto di piombo e zinco.

L’elevata incidenza dei minerali, metalliferi e non, nella composizione merceologica delle esportazioni, conferma il limitato sviluppo dell’industria nazionale, in particolare della metalmeccanica, cosa d’altro canto ribadita dall’andamento e dalla composizione delle importazioni. Stazionarie o di poco in crescita quelle di lana, furono di un qualche rilievo gli aumenti delle importazioni di cotone greggio. Un incremento consistente in termini percentuali fecero segnare invece le importazioni di rottami di ferro (+480%) (Istat 1958, p. 159). Collegato all’incremento delle importazioni di ghisa, ferro e acciaio lavorati e relativi rottami, esso segnala una risposta parziale dell’industria siderurgica nazionale a una domanda in espansione di prodotti meccanici, che comunque per essere soddisfatta richiese anche un forte incremento nell’importazione di macchine, apparecchi e loro parti. Del resto le importazioni di carbone, pur crescendo in misura percentuale notevole, superarono solo nel 1872 il milione di tonnellate e nel 1878 stazionavano ancora su 1,3 milioni. Le importazioni di prodotti tessili finiti rimasero sempre e largamente al primo posto dell’import totale. Francia e Inghilterra, almeno fino al 1878, trovarono in Italia spazi di mercato crescenti per i loro tessuti di cotone e di lana. L’Italia, infine, fu forte importatrice di tessuti di seta, che fino al 1878 fecero segnare un valore intorno ai 50 milioni di lire, equivalente a circa un sesto del valore delle esportazioni di seta greggia.

In definitiva l’andamento del commercio estero del primo ventennio postunitario ricalcò abbastanza da vicino quello del Piemonte e, in parte, quello della Toscana degli anni Cinquanta. Esso segnala una perdurante difficoltà delle attività manifatturiere più complesse, esposte alla concorrenza di merci estere nettamente più competitive, ma nel contempo un’energica espansione delle produzioni agricole specializzate, dei prodotti dell’allevamento e dei semilavorati tessili destinati all’esportazione, che contribuì in misura sensibile allo sviluppo di redditi, risparmi e investimenti.

I lenti progressi dell’industria nel ventennio 1861-1880 e la divaricazione territoriale Nord-Sud

Sull’andamento della produzione delle attività secondarie durante il primo ventennio postunitario non sussistono vedute discordanti tra gli storici. Incalzata dalla concorrenza estera, l’industria italiana in quegli anni realizzò nell’insieme un certo ammodernamento tecnico, ma non riuscì a conseguire risultati eclatanti sul piano produttivo. Il peso delle attività secondarie rispetto agli altri rami di attività addirittura decrebbe. La loro quota del prodotto lordo privato stimato dall’Istat passò dal 20,3% del 1861 al 17,3% del 1880. Secondo i calcoli di Ornello Vitali, l’andamento del prodotto lordo al costo dei fattori a prezzi costanti delle attività industriali segnò tra il 1861 e il 1880 una crescita molto contenuta da 9,2 a 10,9 miliardi di lire del 1938 (le statistiche di Vitali sono in Ercolani 1975, p. 410) inferiore a quella sia delle attività primarie che delle terziarie. Gli indici della produzione industriale confermano tutti, chi più chi meno, gli scarsi progressi quantitativi del periodo, attestati dai dati e dalle notizie descrittive dell’andamento delle principali produzioni manifatturiere (Fenoaltea 2006, p. 14).

Nell’ambito delle manifatture tessili, la produzione di seta tratta, dopo una crescita da 2.000 tonnellate annue del primo decennio a 3.200 della prima metà degli anni Settanta, tornò a 2.000 tonnellate nel 1876-80. La preminenza del settore in termini di manodopera occupata e di valore della produzione restò inalterata, ma rimasero invariate anche l’arretratezza tecnologica della filatura e la scarsa consistenza della tessitura. Più accentuati i progressi tecnologici e produttivi dell’industria cotoniera. Da 450.000 fusi attivi nei primi anni di vita unitaria si passò a 746.000 nel 1876, con un incremento del 66%. Le importazioni di cotone greggio giunsero quasi a quadruplicarsi, delineando una delle dinamiche più rapide del continente. Comparvero allora su scala nazionale alcuni nomi che sarebbero rimasti a lungo nella storia del settore (Crespi, De Angeli-Frua, Cotonificio Val di Susa, Manifattura di Cuorgné). Busto Arsizio divenne un centro cotoniero su scala nazionale. Tuttavia il ritardo dai maggiori produttori europei rimase stazionario e nei confronti dell’Inghilterra addirittura aumentò sensibilmente. I 30,4 milioni di fusi inglesi del 1861 salirono a 44,2 nel 1876 e il divario tra i due paesi passò da 29,9 a 43,5 milioni di fusi. Analoghe vicende visse l’industria laniera, i cui fusi attivi salirono dai 200.000 del 1867 ai 305.000 del 1876, i telai da 6.480 a 8.560, con un forte incremento di quelli meccanici. Tuttavia neppure in questo caso si ebbe un recupero rispetto ai produttori più avanzati del continente.

Ancor meno favorevole il saldo della metalmeccanica. La siderurgia del Centro-Nord visse un parziale svecchiamento delle tecniche produttive, ma non fece sostanziali passi avanti neppure sul piano della copertura del mercato nazionale, rimpiazzando a stento le chiusure degli stabilimenti meridionali e valdostani. I cambiamenti più significativi consistettero nell’adozione di processi di affinazione a puddellaggio e di forni a recupero Siemens, che permisero il parziale superamento di una delle strozzature tecniche più gravi dei processi di lavorazione del ferro in Italia, ossia l’impossibilità di utilizzare i carboni nazionali a basso tenore calorico (lignite e torba). Gli impianti liguri di Sestri Ponente, Veltri e Savona fronteggiarono la concorrenza tedesca, facilitata dall’apertura del passo del Gottardo, grazie all’importazione per via marittima di rottame e combustibile. Più dura fu la vita delle ferriere lombarde, fra cui si segnalavano quelle di Castro, Tavernole, Carcina, Bongo, Vobarno, Rogoredo. In Piemonte-Val d’Aosta l’unico nucleo significativo restò quello di Pont-Saint-Martin e in Toscana il centro siderurgico di Piombino visse vicende tormentate, nonostante l’adozione di due convertitori Bessemer e di un forno Martin-Siemens.

Nell’insieme tuttavia i progressi tecnici non consentirono neppure di rispondere alla richiesta del mercato interno. Le distanze dagli altri paesi divennero ancora più marcate che nel 1861. L’occasione offerta dalle costruzioni ferroviarie fu in gran parte persa non solo dalla siderurgia, ma anche dalla meccanica. Solo una minima parte delle locomotive fu fornita da stabilimenti italiani, fra i quali primeggiavano quelli dell’Ansaldo di Genova, dell’Elvetica di Milano, di Pietrarsa e dei Granili di Napoli. In genere tutti i macchinari complessi, e non solo quelli ferroviari, dalle motrici a vapore al macchinario tessile e alle macchine per l’agricoltura, furono prevalentemente importati dall’estero. I risultati migliori furono quelli dell’industria cantieristica, che fino al 1870-75 ebbe una crescita veramente significativa nel numero e nel tonnellaggio complessivo delle navi varate. Dalle 25.000 tonnellate del 1862 si passò alle 96.000 del 1869. Nel 1875 furono toccate ancora le 87.000 tonnellate. Poi però si ebbe un autentico crollo fino alle 11.000 tonnellate del 1881, determinato dall’impossibilità di arginare la concorrenza estera nella costruzione di navi in ferro e a vapore. Neppure l’industria chimica diede luogo a sviluppi significativi. La crescente produzione di zolfo siciliano continuò a essere esportata quasi per intero all’estero.

All’interno di questi modesti dinamismi complessivi, cominciò a profilarsi una diversità di dinamiche territoriali che avrebbe assunto più forte consistenza negli anni Ottanta, ma i cui prodromi possono essere ravvisati già nel primo ventennio unitario. Le conseguenze della politica doganale liberoscambista furono minime in Toscana, dove già vigeva un regime di impronta liberista abbastanza decisa. Anche in Lombardia, dopo una prima fase di notevole disagio e di aperta protesta (Romano 1990, pp. 114-115), la difesa delle posizioni acquisite fu meno ardua del temuto. Il settore serico fu in difficoltà a causa della pebrina e non certo del liberismo doganale, che, al contrario, favorì i produttori di seta greggia e filata. Le perdite subite sul mercato viennese furono largamente compensate nei mercati franco-inglesi e il saldo attivo delle esportazioni di seta semilavorata rispetto a quelle dei tessuti si accrebbe. Le manifatture di cotone della Lombardia subirono, sulle prime, gli urti pesanti della concorrenza franco-inglese, ma, a parziale compenso, fruirono della possibilità di importazione di macchinari e cotone greggio a prezzi più bassi che in precedenza e si sottrassero in parte alla concorrenza boema. L’industria cotoniera lombarda, per quanto i suoi maggiori esponenti continuassero a protestare con insistenza contro la politica doganale liberista, riuscì ugualmente a realizzare un ampliamento degli impianti e della produzione, sia pure di non eccezionali dimensioni (Romano 1992, pp. 12-20). Nel Veneto, la cui imprenditoria coglieva lucidamente l’importanza dell’ampliamento del mercato nazionale, gli anni successivi all’ingresso nello Stato italiano furono di crescita per diversi nuclei di industria laniera e canapiera (Fontana 1993, pp. 65 sgg., 219 sgg.). In Piemonte-Val d’Aosta vi furono andamenti alterni. Crisi della siderurgia valdostana, qualche positivo sviluppo del ramo meccanico nella sua componente degli opifici statali e nelle produzioni garantite dalle commesse governative, crisi cotoniera successiva al trattato del 1863, confermarono un quadro già fortemente modellato dalla politica del decennio cavouriano: sostanziale staticità nelle produzioni pesanti e di base e sviluppi di una certa entità nelle produzioni cosiddette «naturali» della seta e delle industrie alimentari (Castronovo 1969, pp. 52-82). Nell’insieme l’industria settentrionale, segnò al proprio attivo, specie nel settore cotoniero, ma anche in quello laniero e in qualche lavorazione secondaria della meccanica, dei modesti progressi, ebbe una buona espansione nella produzione di seta greggia e filatoiata, ma per il resto mantenne le posizioni minimali che aveva nel 1861 e non diede luogo ad alcun fenomeno di sostanziale rottura del modello di sviluppo agricolo commerciale.

Anche più sfavorevoli furono gli effetti della politica economica unitaria per le sorti del già debole e ultraprotetto apparato industriale dello Stato pontificio e del Regno delle Due Sicilie. In entrambi i casi gli effetti negativi della liberalizzazione degli scambi furono limitati dalla modestia stessa degli impianti industriali esistenti e, sulle prime, anche dalla mancanza di un efficiente sistema di trasporti terrestri, che rallentò sensibilmente la penetrazione delle merci estere a danno non tanto di grandi stabilimenti industriali che non c’erano, quanto della fitta rete di lavoratori artigiani e a domicilio. Per quanto attiene ai territori ex pontifici, la crisi fu pesante, anche se vide sopravvivere i pochi nuclei manifatturieri di Terni, Foligno, Fabriano, Civitavecchia, Tivoli. Studi recenti hanno ridimensionato la portata destrutturante del liberismo sulle industrie meridionali. Essa fu esiziale in alcuni settori – soprattutto quelli siderurgico, meccanico e gran parte del laniero – ma non in altri, come il cotoniero e il cartario, nei quali, dopo un’iniziale forte crisi, si ebbe una ripresa e, come anche per il Nord, una circoscritta e moderata crescita. Nel Mezzogiorno nei primissimi anni dell’Unità più gravi di quelli del liberismo furono i danni prodotti dall’insicurezza dei traffici interni determinata dal brigantaggio, i contraccolpi della cessazione della domanda di beni e servizi connessi alla funzione di capitale svolta da Napoli, la diversa destinazione delle commesse e delle concessioni statali. Emblematico il fallimento del lanificio Zino, determinato dalla cessazione delle commesse militari da parte del governo italiano (Cimmino 1982-1986, pp. 121-125).

La concorrenza estera fece avvertire veramente a pieno la sua presenza solo nella seconda metà degli anni 1870-80, quando la rete ferroviaria e il miglioramento della viabilità ordinaria fecero sentire i loro effetti anche nelle aree interne. All’indomani dell’Unità entrarono in seria difficoltà gli stabilimenti più importanti di molitura ubicati nelle vicinanze di Napoli, mentre furono risparmiati i piccoli molini della provincia. Invece l’industria meccanica estera occupò subito larghi spazi di mercato sottratti a una metal-meccanica meridionale largamente inadeguata a rispondere alla domanda di prodotti strumentali complessi. Non mancarono eccezioni a questa tendenza di fondo. Addirittura vi furono imprese meccaniche che sorsero dopo l’Unità. Nel 1864 nacque l’Officina Pattison, che affiancò la Società Napoletana d’Industrie Meccaniche, sorta a sua volta dalla fusione nel 1863 delle Officine di Pietrarsa e della Macry & Henry, entrate in crisi nel 1861 e risollevatesi appunto grazie a questa fusione e a una considerevole ricapitalizzazione (De Rosa 1968, pp. 155-157). Nel 1870 fu la volta dell’Impresa italiana di Costruzioni Metalliche di Alfredo Cottrau. Nel 1865 il cantiere navale di Castellammare di Stabia riprese la costruzione di grandi navi; nel 1883 ad esso si affiancò l’arsenale di Taranto. La Fonderia Oretea dei Florio a Palermo ebbe un apprezzabile sviluppo collegato all’espansione della flotta dello stesso Florio, di cui curava la manutenzione (Cancila 2008, pp. 262-280). La Guppy & C., specializzata nella produzione di macchine a vapore, macchine utensili e impianti idraulici, attraversò una grave crisi, ma riuscì a superarla grazie a una diversificazione di attività e poi a un rilancio delle sue produzioni specifiche (De Rosa 1968, pp. 87-90). Nella produzione siderurgica scomparve il nucleo calabrese e si dovette attendere il nuovo secolo per vedere sorgere un forte stabilimento siderurgico nel Mezzogiorno. Le piccole officine e ferriere del Casertano, del Salernitano, dell’Avellinese, del Beneventano, del Chietino, del Teramano, del Barese, del Foggiano iniziarono un lento, ma irreversibile declino.

Il ramo tessile visse vicende differenziate. La liquidazione di una rete di attività soprattutto laniere e seriche di dimensioni artigianali e a volte familiari, avvenne non subito ma in oltre un ventennio e non senza pause e inversioni di tendenza. Per la seta la diffusione della malattia del baco determinò il collasso del reticolo di filande siciliane, calabresi e campane, le quali, una volta trovato rimedio al morbo, non riuscirono più, a differenza di quelle settentrionali, a recuperare interamente le posizioni pre-crisi. Per la lana, la pesante recessione dei primi anni causata anzitutto dalla fine delle commesse statali e dall’insicurezza nei trasporti indotta dalle vicende belliche e dal brigantaggio, sembrò superabile negli anni Settanta, ma all’inizio degli anni Ottanta il settore depose quasi completamente le armi di fronte alla concorrenza estera e del Nord-Italia. Sopravvisse invece il nucleo cotoniero salernitano degli svizzeri Wenner, Vonwiller e altri, che superarono la crisi dei primi anni grazie a un grande sforzo di riorganizzazione tecnico-amministrativa, realizzato con l’immissione di capitale fresco reperito dai Wenner in ambienti napoletani e genovesi, e poi continuarono a lungo nel XX secolo le loro attività come «Cotoniere meridionali». Tuttavia non riuscirono mai a superare significativamente i circuiti regionali e, all’inizio degli anni Ottanta, furono i cotonieri del Nord ad avviare la conquista del mercato meridionale e non viceversa. Superò la crisi anche l’industria cartaria campana, ma la perdita di peso rispetto ad altre regioni della penisola fu drastica. Negli anni Ottanta la Cirio cominciò ad assumere un rilievo che portò il suo nome ben oltre i confini del Mezzogiorno nel campo dell’industria alimentare, l’unico nel quale il Mezzogiorno dava la sensazione di credere senza timori.

L’industria del Mezzogiorno fu colpita più duramente di quella del Nord dal liberismo commerciale e anche da alcune decisioni specifiche della politica economica dello Stato unitario; tuttavia il confronto con la struttura produttiva settentrionale, dopo un ventennio, non appariva a prima vista irrimediabilmente compromesso. Le distanze tra i due apparati si presentavano modificate solo di poco. La situazione però, guardando più a fondo e non solo al panorama delle concrete realtà produttive, dava già allora segnali abbastanza eloquenti. Nel Sud non solo era stato più alto il grado di mortalità aziendale, ma al termine del ventennio apparivano sulla via dell’estinzione alcuni settori come quello serico e quello laniero, che invece prosperavano nel Nord. Il Sud all’inizio degli anni Ottanta rimaneva punteggiato di realtà manifatturiere anche di apprezzabili dimensioni e qualità, ma che raramente superavano l’orizzonte strategico della singola impresa e ancor meno si inserivano in un progetto più o meno organico di industrializzazione nei settori moderni dei beni di investimento. La situazione non appariva troppo sconvolta semplicemente perché nel primo ventennio uno sviluppo industriale concorrenziale con l’industria franco-inglese non era nato neppure nel Nord, e questo rendeva le distanze tra le due macroaree in termini di struttura produttiva e reddito, ancora molto contenute. Tuttavia nel Nord nel corso del primo ventennio unitario le poche e minoritarie forze industriali, anziché arretrare rispetto alla schiacciante coalizione di forze agrarie e liberiste, erano cresciute soprattutto nella capacità di proporre all’attenzione dell’opinione pubblica le ragioni dell’industria rispetto a quelle dell’agricoltura. Che era esattamente il contrario di quello che avveniva nel Sud, dove, di fronte alle difficoltà presenti e future, appariva sempre più esteso e marcato il disarmo psicologico degli imprenditori, molto più forte la tentazione del rifugio nelle attività agricole e nell’investimento fondiario o anche puramente speculativo.

L’elaborazione di un modello di sviluppo più attento alle ragioni delle attività secondarie e la richiesta di un’adeguata strategia di intervento da parte dello Stato divennero nel Sud via via meno energiche e di più corto respiro rispetto a quelle dell’imprenditoria settentrionale. La strategia dei gruppi industriali superstiti nel Sud si ridusse progressivamente alla mera difesa di singoli gruppi societari o semplici aziende. All’appuntamento con la nuova congiuntura apertasi con gli anni Ottanta dell’Ottocento, il Mezzogiorno arrivò con una pattuglia di imprenditori che, per quanto capace di conseguire alcuni apprezzabili risultati singoli, non era abbastanza forte economicamente, né coesa e determinata ideologicamente, per avere un peso politico e strategico equivalente a quello dell’imprenditoria settentrionale. E fu soprattutto nelle mani di imprenditori del Nord che rimase infine l’iniziativa della battaglia per il cambiamento della politica doganale e di tutta la politica economica dello Stato in tema di attività industriali e di modello di sviluppo. Le forze economiche organizzate, e anche il ceto intellettuale meridionale e meridionalista, conservarono fino alla svolta operata a cavallo dei due secoli da Nitti, l’idea di fondo che l’avvenire dell’economia meridionale risiedesse nelle attività agricole e commerciali e che alternative di sviluppo al di fuori di queste sarebbe stato assai difficile trovarne.

Non è del tutto arbitrario collegare il progressivo disarmo psicologico dell’imprenditoria laniera meridionale anche alle scelte di una politica delle commesse statali che dopo l’Unità si rivolse quasi esclusivamente a imprese del Nord. Come pure non è possibile escludere che la concessione del diritto di cabotaggio anche alle navi inglesi e francesi e l’esclusione delle compagnie napoletane dal servizio sulle linee interne delle navi a vapore avesse rafforzato negli operatori meridionali la convinzione che la politica economica del nuovo Stato finisse nel Mezzogiorno con il precludere possibilità di sviluppi significativi in quasi tutti i settori extragricoli. La marina mercantile napoletana era, al momento dell’Unità, la più consistente della penisola, seguita abbastanza da vicino da quella sarda. La concessione del diritto di cabotaggio alle navi francesi e inglesi colpì soprattutto la marineria napoletana, che, oltre a essere presente, assieme a quella sarda, a quella toscana e a quella pontificia, nel collegamento dei porti della costa tirrenica, controllava in misura largamente preminente i traffici dell’Adriatico da e per i porti pugliesi. Inoltre il governo affidò la rete delle linee di navigazione a vapore tra i principali scali nazionali e mediterranei a due compagnie genovesi (la Rubattino e la Accossato, Peirano e Danovaro), alla palermitana Florio e a una compagnia inglese, la Adriatico Orientale. Rimasero escluse le tre maggiori compagnie napoletane (la Compagnia di Navigazione a vapore delle Due Sicilie, la Calabro-Sicula e la Raspadino), le quali nel giro di un decennio caddero in dissesto e furono poste in liquidazione. Il compartimento marittimo ligure che raccoglieva nel 1864 il 44% del tonnellaggio nazionale, nel 1871 raggiunse il 60%; quello della Campania scese dal 30 al 18% (Di Gianfrancesco 1979, pp. 234-237).

Ciò sicuramente contribuì a orientare in direzione agricolturista le scelte operative dell’imprenditorialità meridionale, ma il ruolo più importante in tal senso lo ebbe sicuramente la congiuntura oltremodo favorevole che i prodotti agricoli del Mezzogiorno e della Sicilia incontrarono fino al 1888 sul mercato sia interno sia soprattutto internazionale. I danni subiti nelle attività secondarie all’indomani dell’Unità furono ampiamente compensati dal grande sviluppo di cui nel Sud godettero almeno fino al 1887 le produzioni agricole specializzate. In termini di reddito pro capite e di potenziamento dei servizi civili, il Sud, prima della fine degli anni Ottanta, non solo non perse terreno rispetto al Nord, ma ne recuperò.

Lo sviluppo dell’agricoltura

L’aumento della produzione agraria nel primo ventennio postunitario fu un fenomeno di grande portata e riguardò il Mezzogiorno non meno del Centro-Nord. Già le statistiche ufficiali ottocentesche attestavano un rilevante incremento di tutti i principali prodotti agricoli. Le stime dell’Istat ne confermano la tendenza in ascesa, anche se in misura più contenuta. Anche le stime del gruppo di lavoro coordinato da Giorgio Fuà (Fuà 1975) concordano sostanzialmente con quelle dell’Istat. All’aumento della produzione di tutte le colture più importanti si unì quello del patrimonio zootecnico e dei suoi prodotti. Fu «uno dei periodi di più rapido progresso che l’agricoltura italiana abbia mai conosciuto, che trova riscontro solo nell’incremento produttivo dell’età giolittiana [...] o di questo secondo dopoguerra» (Romeo 1998, pp. 111-112). Contro questa visione, quando Romeo la prospettò, stava una tradizione storiografica risalente al quadro di perdurante miseria delle masse rurali che era stato disegnato dalle diverse inchieste sulla condizione delle classi agricole e dalla stessa inchiesta Jacini, e che diede poi origine alla grande emigrazione di fine secolo. Ad essa si aggiungevano la visione negativa della storiografia marxista (Gramsci 1949; Sereni 1947 e 1974), che vedeva nel ristagno della produzione l’esito negativo della mancata rivoluzione agraria, e quella della storiografia cattolica abbastanza vicina alle stesse posizioni (Romani 1976). Tutte insistevano sul basso grado di attendibilità delle statistiche ottocentesche e di conseguenza delle elaborazioni dell’Istat ad esse strettamente connesse che attestavano lo sviluppo produttivo riconosciuto invece da Romeo.

Tuttavia le tesi che propendono per una visione sostanzialmente immobilistica della storia agraria dei primi decenni postunitari non hanno al loro attivo una documentazione più sicura, più ampia e più attendibile di quella che prova la crescita produttiva delineata nelle statistiche otto e novecentesche, e non tengono nel dovuto conto il fatto che non necessariamente l’aumento della produzione fisica della produzione agraria si traduce in un miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari, specie se l’evoluzione del rapporto fra offerta e domanda di forza lavoro è sfavorevole a quest’ultima. Anche per questo, ma non solo per questo, si può convenire con Giovanni Federico quando sostiene che, in attesa di un quadro di ulteriori verifiche a livello locale e aziendale, a livello macroeconomico tra il 1861-63 e il 1870-74 «è solo sicuro che vi è stato un progresso tecnico e un conseguente aumento della produzione» (Federico 1982, p. 128). Si può aggiungere, infatti, che l’andamento di indicatori indiretti come i prezzi agricoli, il commercio con l’estero, i canoni di affitto e le altre forme di rendita fondiaria, difficilmente si potrebbe spiegare senza un corrispondente incremento della produzione. Il prezzo medio annuo all’ingrosso nei mercati nazionali tra il 1861-65 e il 1876-80 passò per il frumento tenero da 25,75 a 31,49 lire per quintale, per il granturco da 16,7 a 21,1, per il risone originario da 16,21 a 19,76, per l’olio da 119,59 a 121,42, per il vino comune da 30,44 a 35,19 lire per ettolitro (Istat 1958, pp. 172 sgg.). Sono variazioni confermate dall’aumento anche dei prezzi al minuto di tutti i principali prodotti di largo consumo, su scala sia nazionale che locale. A un aumento della produzione di derrate alimentari rinvia anche l’aumento tra il 1861 e il 1880 dell’esportazione di prodotti agricoli, confermato dal permanere sostanzialmente inalterato del livello medio delle importazioni di grano, mentre la popolazione cresceva di circa il 13%. Gli affitti dei terreni nel ventennio 1861-80 furono ovunque crescenti e in misura nettamente superiore a quella registrata nell’intero secolo antecedente l’Unità.

Nelle apposite relazioni inviate dai prefetti al ministero di Agricoltura, industria e commercio all’inizio degli anni Ottanta non solo fu collegato espressamente a concreti miglioramenti del regime fondiario e della produzione l’aumento generalizzato e consistente degli affitti dei terreni nella maggior parte delle province piemontesi, lombarde, venete, dove esso era largamente presente, ma furono anche segnalati miglioramenti di produzione e produttività per province in cui prevaleva la conduzione diretta o il rapporto mezzadrile come la Liguria, la Toscana, la Romagna, le Marche. E soprattutto i riferimenti a incrementi produttivi non mancarono per il Mezzogiorno, dalla Puglia all’Abruzzo, dalla Campania alla Calabria, alle Isole (Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio 1886; Pescosolido 2004, pp. 71-83). È quanto emerge anche da una serie di studi su microscala realizzati da numerosi autori, e direttamente anche da chi scrive questo saggio, sulle carte contabili di una serie ormai piuttosto nutrita di aziende private. Essi hanno delineato per la stragrande maggioranza dei casi progressi non di rado superiori a quelli segnalati dalle statistiche dell’Otto e del Novecento non solo nel Centro-Nord ma anche nel Sud e nelle Isole, delineandovi un panorama dinamico che neppure Romeo aveva ipotizzato quando scriveva le pagine di Risorgimento e capitalismo (Pescosolido 2004, pp. 85-168). Vi sono dunque oggi ragioni molto più consistenti di quelle di quarant’anni addietro per accogliere quanto meno i dati dell’Istat sulle principali produzioni agricole e sull’incremento della consistenza e dei prodotti del patrimonio zootecnico.

Non vanno certo esagerati i contenuti tecnici, economici e sociali dello sviluppo agricolo di questo ventennio. Non vi fu una rivoluzione radicale degli ordinamenti agrari e un innalzamento di produttività della natura e delle dimensioni di quelli che si sarebbero visti nel XX secolo. Le fragilità strutturali dell’agricoltura italiana alla fine del ventennio restavano notevoli e vennero in piena luce con l’esplodere della crisi agraria. L’inchiesta agraria deliberata dal Parlamento nel 1877, diretta da Stefano Jacini e i cui atti furono pubblicati nel 1883-86 le analizzò dettagliatamente. Sul piano del recupero dei terreni paludosi e della sistemazione fondiaria in genere, l’azione svolta nel quadro del mero esercizio delle funzioni ordinarie del ministero di Agricoltura, industria e commercio risultò ancora largamente insufficiente a risolvere tutti i problemi aperti. Tuttavia non furono affatto trascurabili i miglioramenti del regime fondiario e agrario e delle tecniche di conservazione e distribuzione dei prodotti, che consentirono i grandi successi ottenuti sui mercati internazionali. Lo confermano le stime degli investimenti effettuate dal gruppo Fuà (Fuà 1975) abbastanza attento nelle misurazioni relative a questo periodo. Gli investimenti lordi in agricoltura a prezzi del 1938 passarono da una media annua di 0,233 miliardi di lire nel 1861-65 a una di 1,114 nel 1876-80 e il grosso di essi fu destinato a miglioramenti fondiari, che nel 1876-80 assorbirono 1,077 miliardi di lire in media all’anno, pari al 97% del totale, mentre solo 0,015 miliardi andarono alle bonifiche e 0,021 all’acquisto di macchine e attrezzi agricoli. Dopo il 1880 gli investimenti in agricoltura tornarono a superare la soglia del miliardo di lire solo nel 1927 (Ercolani 1975, p. 462). Il che contraddice la tesi secondo la quale la vendita dei beni nazionali e il fiscalismo dello Stato avrebbe in quel periodo sottratto all’agricoltura capitali decisivi per i miglioramenti fondiari e agrari e pone in discussione anche la tesi secondo la quale la vendita di circa due milioni di ettari di terreni di enti ecclesiastici confiscati dallo Stato a partire dal 1867 avrebbe avuto effetti benefici solo sul piano finanziario e non su quello produttivo e economico. Studi recenti l’hanno fondatamente rimessa in discussione (Montroni 1983; Bogge, Sibona 1987).

Lo Stato liberale non realizzò una rivoluzione agraria a favore della piccola proprietà contadina, la quale peraltro, senza cospicui investimenti che le famiglie contadine non erano in grado di fare, non avrebbe innalzato i livelli di produttività dei terreni più di quanto fecero le aziende capitalistiche medio-grandi e anche quelle a compartecipazione colonica; ma non lasciò certo inalterato il quadro della distribuzione della proprietà fondiaria e dei rapporti produttivi. Attraverso la vendita dei beni demaniali e dell’asse ecclesiastico, solo tra il 1867 e il 1880, passarono nelle mani di proprietari borghesi tutt’altro che assenteisti circa 575.000 ettari di terre che furono fortemente migliorate (Romeo 1998).

Investimenti tanto consistenti in agricoltura, ma anche in opere pubbliche e infrastrutture, furono facilitati non solo dalla crescita della produzione in termini fisici e in valore, ma anche dal contemporaneo contenimento dei consumi delle masse lavoratrici. L’aumento della produzione agraria non si tradusse, infatti, in un incremento uniforme dei redditi per tutti i fattori produttivi. I salari aumentarono in misura assai contenuta e comunque in termini generalmente inferiori all’aumento del prezzo dei prodotti agricoli e delle derrate alimentari di largo consumo. Nell’area della colonia e della mezzadria, all’interno di un quadro che apparentemente restava immutato, si registrò nella sostanza un sensibile indebolimento della forza contrattuale della parte colonica, del cui esteso e cronico indebitamento si hanno molteplici testimonianze per l’intero paese. Se a ciò si aggiunge il forte aumento dell’imposizione fiscale, che venne a gravare, attraverso le sovrimposte erariali, provinciali e comunali, soprattutto sul mondo delle campagne e sui consumi di massa in particolare, non appare del tutto infondato parlare di ristagno, se non di ulteriore peggioramento, delle già precarie condizioni di vita della popolazione rurale e anche dei salariati delle manifatture, i cui livelli di remunerazione erano ancora fortemente collegati a quelli del lavoro agricolo. E difatti laddove il reddito nazionale a prezzi costanti crebbe del 18% tra il 1861-63 e il 1878-80, quello pro capite aumentò nello stesso arco di tempo solo del 5%, ossia in misura quasi insignificante in termini di saggio di sviluppo medio annuo.

Nella crescita produttiva di tutti i principali generi agrari sta dunque la radice non del cambiamento delle condizioni di vita delle masse rurali, ma della grande accumulazione di capitale e di tutti i processi di modernizzazione che furono allora realizzati. E sta anche buona parte della spiegazione del perché il Mezzogiorno credette più nell’agricoltura che nell’industria. A quella crescita, infatti, alcune regioni meridionali, con la Sicilia in testa, parteciparono come segmento forte, di primo piano su scala nazionale. Se la produzione cerealicola migliorò di più nel Nord, sicuramente le colture specializzate vitivinicole, orticole, agrumarie segnarono una crescita senza precedenti e furono per l’80% meridionali. Negli anni Settanta il reddito unitario di un terreno ad agrumi del Palermitano era pari a quello dei terreni della più progredita azienda lombarda (Pescosolido 2010, p. 229). E nessuno pensava che di lì a poco, dopo una congiuntura favorevole che durava da oltre quarant’anni, tutto sarebbe cambiato.

La svolta degli anni Ottanta: crisi agraria, industrializzazione,protezionismo, dualismo Nord-Sud

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento maturò una svolta di importanza cruciale nella storia economica della penisola. Dopo un ventennio di crescita ininterrotta si ebbe una gravissima crisi dell’agricoltura e in contemporanea, dopo un periodo altrettanto lungo di tentativi non riusciti, si ebbe l’avvio di un autentico processo di industrializzazione concentrato soprattutto nel triangolo Torino-Milano-Genova. Si ebbe allora il primo ridimensionamento del peso dell’agricoltura nell’ambito dell’economia nazionale e la prima macroscopica accentuazione postunitaria della differenza di struttura economica e sociale tra Nord e Sud, anche se il divario in termini di reddito pro capite rimase ancora contenuto intorno alle dimensioni del 1861. Nella formazione del prodotto privato il peso dell’agricoltura diminuì sensibilmente dal 55,4% del 1879 al 48,9% del 1887, mentre nel contempo le attività industriali salirono dal 18,5% al 21,5% e le attività terziarie dal 26,1% al 29,6%. Principali fattori di cambiamento furono, sul piano economico, l’arrivo sui mercati europei dei grani americani a prezzi insostenibili per la cerealicoltura italiana ed europea, la crescita dello spirito imprenditoriale del nascente capitalismo industriale soprattutto settentrionale, progressi tecnologici e abbassamento dei prezzi del carbone sul mercato internazionale. Agirono inoltre in modo incisivo fattori di natura politica quali l’esito del Congresso di Berlino del 1878, il protettorato francese sulla Tunisia del 1881, l’adesione dell’Italia alla Triplice alleanza che portarono all’assunzione da parte dello Stato di un atteggiamento in economia decisamente più interventista di quello avuto nel ventennio 1861-1880. Le condizioni preliminari che più favorirono l’avvio dell’industrializzazione furono, oltre al conseguimento del pareggio del bilancio statale nel 1876, l’aumento di capitale fisso sociale realizzato nel corso del ventennio 1861-1880 grazie all’azione propulsiva svolta in tal senso dallo Stato e la blanda copertura doganale protezionista creata dalla tariffa del 1878.

Il pareggio del bilancio consolidò definitivamente la credibilità finanziaria dell’Italia, pose le premesse per eliminare le forme più odiose di tassazione ma soprattutto ridusse drasticamente la necessità del governo di ricorrere ulteriormente al mercato finanziario con emissioni di titoli del debito pubblico e consentì di eliminare di lì a qualche anno il corso forzoso. L’abolizione di quest’ultimo, decisa in seguito a copertura preventiva della circolazione cartacea in eccedenza sul livello di convertibilità, fu seguita da una richiesta di cambio dei biglietti molto inferiore al previsto e si tradusse quindi in un aumento complessivo della liquidità e in una più larga disponibilità creditizia che facilitò la propensione agli investimenti. La circolazione cartacea delle banche passò, tra il 1880 e il 1887, da 600 a oltre 1.000 milioni di lire; il risparmio complessivo salì nel decennio 1881-1890 da 1.550 a quasi 2.500 milioni; sconti e anticipazioni concessi dagli istituti di credito raddoppiarono tra il 1883 e il 1887. Diminuendo nel contempo le opportunità e gli stimoli a investire in un’agricoltura pesantemente in crisi e dalla quale si ebbero in alcuni casi dei veri e propri disinvestimenti, si formò una quantità considerevole di capitali in cerca di nuove forme di impiego. Questa disponibilità trovò sbocco in buona parte nella speculazione edilizia alimentata dall’espansione dei maggiori centri urbani della penisola, primi fra tutti Roma e Napoli, ma, soprattutto nel Nord, si rivolse in misura massiccia verso l’industria manifatturiera, che ora aveva la possibilità di penetrare nel mercato interno in misura molto superiore rispetto a venti anni prima. La rete ferroviaria, che dal 1861 era giunta a quadruplicarsi cucendo lo stivale da Nord a Sud, nel corso degli anni Ottanta continuò a estendersi con linee trasversali che entrarono in sinergia con quelle longitudinali costruite nel ventennio, promuovendo una crescita funzionale di tutto il sistema e una fluidificazione del mercato nazionale senza precedenti.

L’espansione delle attività industriali, a differenza di quanto accaduto nel primo ventennio contribuì sensibilmente allo spostamento degli equilibri interni dell’economia nazionale. Gli indici della produzione dell’industria manifatturiera sono discordi nello stimare la consistenza del fenomeno (Fenoaltea 2006, pp. 14, 61); evidenziano però quasi tutti negli anni Ottanta un’accelerazione nella crescita della produzione industriale rispetto al precedente ventennio, da quello dell’Istat (+25% tra il 1880 e il 1887) a quello di Gerschenkron (+37% tra il 1881 e il 1888). Ma al di là delle differenti valutazioni degli indici sono state documentate per altra via, e abbastanza dettagliatamente descritte sul piano settoriale, trasformazioni tecniche e organizzative che segnano un cambiamento abbastanza netto rispetto al passato nella quantità e soprattutto nella qualità della produzione industriale. Tra il 1880 il 1888 assunsero ritmi di sviluppo superiori al passato non solo i settori che producevano beni di largo e immediato consumo, come l’alimentare o il tessile, ma quelli che producevano beni di investimento, strumentali o di consumo durevole, come la meccanica e soprattutto la siderurgica. Furono certo importanti i progressi dell’industria del cotone, che avviò sin dall’inizio del decennio la conquista del mercato nazionale, nonché quella dei vini scelti (Pedrocco 1994, pp. 326 sgg.), ma l’espansione della siderurgia appare importante non solo per l’aumento della produzione di ferro dalle 95.000 tonnellate del 1881 alle 182.000 del 1889, quanto per l’inizio di una produzione significativa di acciaio (le 3.600 tonnellate del 1881 balzarono a 158.000 nel 1889). Furono realizzati ammodernamenti tecnici estesi, con la drastica riduzione degli altiforni a legna e l’introduzione di nuovi e potenti forni Martin e Bessemer a Savona, Sestri Ponente, Villa Cogozzo (Brescia), Pont-Saint-Martin (Valle d’Aosta), Milano e soprattutto Terni. Qui, nel 1884, sorse il più grande stabilimento siderurgico nazionale. Meno vistoso ma comunque significativo fu lo sviluppo della meccanica, nonostante la crisi attraversata in quegli anni dalla cantieristica e nonostante il basso livello di concentrazione finanziaria e di sviluppo tecnologico rispetto all’estero.

Furono progressi stimolati anzitutto dal mutato atteggiamento del governo in politica estera. La siderurgia fu vista come essenziale per una forte industria degli armamenti e per la nuova cantieristica, a garanzia di un’autonoma capacità di difesa in un’epoca in cui le relazioni internazionali si incamminavano verso le drammatiche contrapposizioni sfociate infine nella prima guerra mondiale. Ma vi fu anche una crescita della domanda del mercato privato. Si consolidò in quegli anni la piena autonomia nazionale nella produzione delle vetture ferroviarie e, con la nascita nel 1886 della Ing. Breda & C., si posero le basi tecniche per entrare anche nel campo delle locomotive e di tutta una serie di produzioni meccaniche la cui domanda continuava comunque a essere ancora coperta dalle importazioni di macchine, apparecchi e loro parti, che passarono dalla media di 14.480 tonnellate annue del 1876-80 a quella di 34.214 del 1881-87. Innovativa fu anche la prima impennata dell’industria chimica che, assieme a quella elettrica, avrebbe costituito la frontiera avanzata dello sviluppo industriale italiano del nuovo secolo. In questo contesto avvenne la prima massiccia affermazione delle forze imprenditoriali di cui la recente letteratura va delineando con precisione caratteristiche e consistenza, e che seppero condizionare e sfruttare al meglio gli indirizzi della politica economica statale.

Comparvero allora per la prima volta e si consolidarono produzioni, nomi, intrecci, alleanze, che rimasero alla base di gran parte della storia industriale e capitalistica del nostro paese: dalla Edison per l’industria elettrica, alla già ricordata Breda, dalla Terni alla Franco Tosi alla Società delle Ferriere. Cominciò a formarsi allora, favorito dalla legge Boselli sulla marina del 1885, quell’asse tra siderurgia e cantieristica che costituì uno degli anelli più forti e duraturi del capitalismo industriale italiano fino alla crisi del 1929. A cementarlo fu anche la già ricordata politica di intervento dello Stato attuata con leggi speciali e commesse a favore dell’industria metalmeccanica e di quella dei trasporti. Alla Navigazione generale italiana, sorta nel 1881 dalla fusione tra le maggiori compagnie di navigazione dell’epoca, la Rubattino di Genova e la Florio di Palermo, furono accordate nel 1883 sostanziose sovvenzioni per la gestione delle linee nel Mediterraneo e in Oriente.

La legge Boselli tentò di rilanciare, mediante sgravi fiscali e premi di fabbricazione, un’industria cantieristica pesantemente in crisi. La legge Brin del 1884 per il potenziamento della marina a vapore si tradusse in un energico sostegno alla cantieristica e ad altre produzioni meccaniche. Alle compagnie ferroviarie, con le quali nel 1885 furono stipulate le nuove convenzioni per la costruzione di nuove linee e la gestione ventennale della rete, furono concesse anticipazioni e altre garanzie per il reperimento dei fondi necessari ai nuovi impegni costruttivi e gestionali. Anche alla Terni furono accordate anticipazioni sui contratti stipulati con la marina per la fornitura di corazze e apparecchiature navali. Infine va sottolineato che fu sempre in questi anni, e non con la nascita delle banche miste nel 1894-95, che si ebbe il primo forte intreccio tra sistema creditizio e industria pesante, imperniato sulla Banca generale e sul Credito mobiliare (due istituti sorti con specifiche finalità di investimento a medio e lungo termine nell’industria), ma anche indirettamente sulla stessa Banca nazionale, intreccio che costituirà una delle caratteristiche di lungo periodo del capitalismo industriale italiano.

La scossa maggiore agli equilibri esistenti venne tuttavia ancora dall’agricoltura, anche se questa volta fu in negativo, ed ebbe origine dall’estero con l’arrivo in Europa dei cereali americani a prezzi assolutamente insostenibili per i produttori del vecchio continente. Prima di quella italiana, ad accusare il colpo furono altre e più forti economie agricole, da quella francese la cui cerealicoltura registrò tra il 1874 e il 1877 una riduzione del valore della produzione da 3,2 a 2,3 miliardi di franchi, a quella inglese. La superficie a grano di Inghilterra e Galles si ridusse tra il 1881 e il 1901 da 8,2 a 5,9 milioni di acri. In Italia dalla fine degli anni Settanta si ebbe una caduta rovinosa del prezzo del grano e, successivamente, anche degli altri prodotti agricoli più importanti (olio, agrumi e anche seta greggia) ad eccezione di quello del vino, fortemente influenzato dalla diffusione della fillossera in Francia. Le importazioni di frumento, dopo un ventennio di sostanziale stazionarietà, salirono dalle 232.400 tonnellate del 1883 fino al milione del 1887. Le superfici a coltura e la produzione di frumento, granturco, riso diminuirono di conseguenza. Ad attenuare parzialmente l’impatto del rovinoso cedimento della produzione cerealicola fu la tenuta di altri prodotti. Mentre le esportazioni di olio e pasta di frumento, dopo i buoni risultati del decennio 1860-70, si stabilizzarono e poi accennarono a cedere, quelle di formaggi, seta, frutta secca e, soprattutto, agrumi e vino crebbero invece vistosamente, esaltate, nel caso del vino, anche da un andamento favorevole dei prezzi. Nel Mezzogiorno la crisi investì i produttori di grano, ma le colture specializzate destinate ai mercati esteri ebbero, al contrario, un’espansione senza precedenti e, per il vino, mai più ripetuta in seguito. L’entità dello sviluppo di quegli anni portò a livello nazionale, secondo le stime dell’Istat, al clamoroso rovesciamento del tradizionale rapporto tra la produzione lorda vendibile delle colture erbacee, costituite per lo più da cereali, e quella delle colture arboree. Nettamente distanziate all’inizio degli anni Sessanta, queste ultime nel quinquennio 1881-85 superarono per la prima volta il valore della produzione vendibile delle colture erbacee.

Considerato che le produzioni in maggiore espansione furono quelle tipiche delle regioni meridionali, sicuramente vi fu anche, nel rapporto tra valore della produzione agraria meridionale e valore di quella settentrionale, uno spostamento a favore della prima, che compensò a livello di reddito pro capite, lo sviluppo industriale del Nord e mantenne inalterate le distanze tra le due macroaree. Questi cambiamenti a livello di produzione lorda vendibile non furono tuttavia tali da portare a un’inversione del rapporto tra cerealicoltura e colture specializzate quanto a rispettivo peso economico e sociale complessivo a livello nazionale. Le fasce di popolazione che traevano lavoro e sostentamento dalla cerealicoltura, e la conseguente mole di interessi che ruotavano intorno ad essa, restavano ancora maggioritari nell’intero paese, al punto che la crisi cerealicola coinvolse pesantemente l’intera economia nazionale, che nel frattempo era alle prese con una crescita demografica inarrestabile – dai 26 milioni di individui del 1861 ai 29,5 del 1880, ai 30,9 del 1887 – e che si trovò ad assistere negli anni Ottanta a un’emigrazione di massa senza precedenti, iniziata non casualmente nelle regioni settentrionali, ma ben presto superata da quella proveniente dal Mezzogiorno.

I dati sull’andamento del commercio estero dimostrano che la performance in quantità delle esportazioni tra il 1880 e il 1887, sostenuta dalle colture specializzate meridionali, dalla seta settentrionale e dalle esportazioni di materie prime in genere, per quanto brillante, non fu in grado di bilanciare l’impetuoso aumento del valore delle importazioni di grano, carbone, impianti e macchinari richiesti da un’economia entrata in una fase di intensa trasformazione. Il saldo della bilancia commerciale peggiorò verticalmente e nel giro di pochi anni creò una situazione della bilancia dei pagamenti sulla quale i critici del protezionismo non si sono mai soffermati abbastanza. Il valore delle esportazioni, dopo aver raggiunto nel 1883 quasi 1.200 milioni di lire, si adagiò sul livello di 1.000 milioni all’anno fino al 1887 (Istat 1958, p. 152), mentre quello delle importazioni, dopo avere oscillato intorno ai 1.200 milioni tra il 1872 e il 1880, salì fino ai 1.600 milioni del 1887. Il rapporto export-import dal 92,2% del 1883 scese al 65,1% del 1885 e al 62,4% del 1887, quando si ebbe il più alto deficit mai registrato negli scambi commerciali con l’estero: 603 milioni, pari a oltre il 50% del valore delle esportazioni. I dati sul reddito confermano la violenza dell’impatto della crisi agraria. Quello nazionale smise di crescere e, a prezzi del 1938, passò da 57 milioni di lire del biennio 1879-80 a 56 in quello successivo, per poi restare sulla media dei 57,1 nel 1883-85. Solo nel 1886-87, quando l’espansione delle colture arboree giunse al culmine, ma soprattutto quando era al culmine la febbre edilizia e la prima espansione industriale, si ebbe con 59 milioni di lire un incremento finale del 3,5% sulla media del 1878-90, comunque minimo se tradotto in termini di sviluppo medio annuo.

Nel corso degli anni Ottanta si ebbe dunque una crisi della base portante dell’economia nazionale, l’agricoltura, e nel contempo il profilarsi di una reale e corposa alternativa di sviluppo in settori diversi da quelli agricoli, che consentivano di impostare il discorso sull’opportunità di una eventuale scelta doganale protezionista su una consistenza strategica delle attività industriali decisamente superiore a quella del primo ventennio postunitario, e soprattutto rendevano il discorso filo-protezionista familiare anche a settori agricoli precedentemente del tutto avversi. Il crollo del prezzo dei cereali e di altri prodotti, dopo un quarantennio di continua ascesa, mise in ben altra evidenza che in passato l’incapacità di uno sviluppo esclusivamente agricolo-commerciale di garantire ritmi di crescita pari a quelli di uno sviluppo industriale sia pure bisognoso di una difesa da parte dello Stato; ma soprattutto aprì una frattura profonda nella potentissima coalizione di interessi agrari che era stata la base materiale di sostegno a livello politico delle teorie liberiste imperanti sin dall’Unità nel mondo accademico e nella cultura economica delle classi dirigenti, nel segno del pensiero di Francesco Ferrara e dell’opera della Società Adamo Smith e della rivista «L’Economista». In quella frattura trovarono spazi di manovra le forze industriali e culturali che sino allora avevano combattuto senza successo una battaglia industrialista e protezionista, che pure aveva preso deciso vigore con l’inchiesta industriale del 1870-74 e si era concretizzata nella fondazione nel 1875 ad opera di Fedele Lampertico e Luigi Luzzatti dell’«Associazione per il progresso degli studi economici» e del suo organo ufficiale, il «Giornale degli Economisti». Se i cerealicoltori non si fossero convinti che solo un deciso intervento protezionista li avrebbe salvati dalla rovina, e non avessero abbandonato al proprio destino viticoltori, agrumicoltori, gelsi-bachicoltori, strettamente legati al mantenimento della politica liberista e alle possibilità di libero accesso ai mercati internazionali che essa garantiva, la tenuta del fronte liberista si sarebbe protratta ben oltre il 1887. E in Parlamento non furono i rappresentanti dei latifondisti meridionali a sollecitare per primi interventi protettivi, ma i deputati dei distretti «agrari» del Nord, che non parlavano solo in nome del grande capitalismo agrario settentrionale, ma anche della media e piccola proprietà coltivatrice e di un proletariato rurale fortemente interessato alla salvaguardia degli interessi della cerealicoltura collegata al mercato. La cerealicoltura in crisi era non solo quella latifondistica ed estensiva del Mezzogiorno, ma era anche e soprattutto quella capitalistica e intensiva del Nord, unita alla miriade di medi e piccoli affittuari, coltivatori, coloni e anche contadini che in qualche misura, anche nel Mezzogiorno, producevano e vendevano grano.

Questo vasto schieramento formato solo in parte minoritaria da operatori parassitari e assenteisti, ma per lo più da forze produttive avanzate e da masse lavoratrici di ogni tipo della cerealicoltura nazionale, aveva in Parlamento una forza politica decisiva nella formazione delle maggioranze e nelle scelte economiche di fondo. Senza il suo appoggio gli industriali avrebbero continuato a strappare qualche provvedimento di sostegno ai settori strategici per l’armamento ma non sarebbero mai riusciti a costruire un blocco vincente capace di imporre una svolta della portata di quella indotta dalla tariffa protezionista del 1887. E difatti nel nuovo blocco di potere che i cerealicoltori saldarono non solo con gli industriali, ma anche con parte della classe operaia del Nord – sensibile alle prospettive di nuova, migliore e più larga occupazione nel settore secondario – e a quella dei pochi stabilimenti esistenti nel Mezzogiorno, la componente agraria era nettamente predominante. Quando nel 1887, assieme alla cerealicoltura, coperta da un dazio sul grano di 3 lire per quintale, poi portate a 5 e a 7,5, si decise di proteggere anche l’industria siderurgica, quella cotoniera, quella saccarifera e parte della meccanica, gli industriali erano consapevoli di inaugurare un nuovo modello di sviluppo, ma la maggioranza di coloro che vararono il provvedimento lo fecero per difendere soprattutto l’agricoltura nazionale nella sua componente ancora più importante, ossia la cerealicoltura e ritenevano che il destino economico dell’Italia sarebbe stato, come per diversi decenni ancora fu, un destino eminentemente agricolo. Nessuno di loro sospettava di avere imboccato una strada in fondo alla quale c’era non solo un modello di sviluppo industriale, ma addirittura la scomparsa dell’antica società rurale e il consolidamento di un dualismo economico Nord-Sud che assunse caratteri e dimensioni radicalmente diversi da quelli del 1861.

Con l’espansione industriale degli anni Ottanta si ebbe in effetti il primo vero passaggio a una economia dualista, non nel senso della separatezza delle due sezioni che componevano l’economia nazionale, ma nel senso della loro profonda diversità strutturale in un contesto capitalistico strettamente unitario e dal 1887 fortemente difeso dalla concorrenza estera. Nel 1887, a differenza che nel 1861-80, era inoppugnabile che nel Nord fosse in corso uno sviluppo industriale che in età giolittiana, al riparo del protezionismo, avrebbe dato luogo a un’autentica società industriale. Al contrario era altrettanto chiaro che quella meridionale restava un’economia agricola che registrava forti progressi nelle aree delle colture specializzate, ma che non aveva dato luogo ad alcun processo di sviluppo industriale analogo a quello del Nord, e non dava neppure segnali significativi di poterlo, e neanche di volerlo fare. Il divario tra Nord e Sud in termini di reddito nel 1887 non risultava allargato, perché i progressi delle colture specializzate meridionali coprivano le perdite del settore cerealicolo meridionale assai più di quanto accadeva nel Nord, dove a compensare interveniva lo sviluppo industriale. Ormai però si erano create le condizioni strutturali perché ciò avvenisse, come si vide subito già dal 1888-89 dopo la reazione della Francia e le ritorsioni tariffarie da essa adottate contro le esportazioni italiane di seta, vino e altri prodotti, che colpirono in modo micidiale e irreversibile soprattutto la viticoltura meridionale. La seta settentrionale riuscì, infatti, attraverso il mercato svizzero a penetrare ugualmente nel mercato francese. I vini da taglio siciliani e pugliesi trovarono invece una concorrenza micidiale nei vini spagnoli, che li sostituirono largamente ed efficacemente. Ma l’allargarsi del divario tra Nord e Sud non dipese certo dalle esportazioni in Francia. L’agricoltura meridionale, e soprattutto quella siciliana, si riprese negli anni seguenti alla guerra commerciale, conseguendo recuperi produttivi ragguardevoli. L’allargamento del divario dipese dal fatto che ormai il Nord aveva una marcia in più che si chiamava industrializzazione e un sistema economico strutturalmente diverso da quello meridionale, che dell’industria era privo. Nel sistema economico nazionale il Sud costituiva però un segmento di mercato molto forte per l’industria settentrionale, rafforzato nelle sue possibilità di acquisto di manufatti dai proventi delle esportazioni di prodotti agricoli e dalle rimesse degli emigrati. E solo con la riserva esclusiva del mercato meridionale l’industria dell’Italia settentrionale iniziò il recupero rispetto a quelle europee più avanzate.

Contro la tariffa del 1887 si indirizzarono gli strali più acuminati dapprima della polemica liberista e meridionalista e successivamente di settori della storiografia economica e non solo economica, che videro in essa lo strumento per difendere non settori produttivi di importanza nazionale, ma forze economiche settoriali, incapaci di sostenere il confronto sul libero mercato internazionale. In particolare proteste violentissime si levarono dal Mezzogiorno, dove si sostenne che per difendere la cerealicoltura assenteista del Sud si sacrificavano i settori più progrediti delle colture specializzate nei quali più si era investito dall’Unità in poi e che dimostravano capacità concorrenziali sui mercati internazionali. Alle vecchie argomentazioni anti-nordiste basate sulla denuncia del trasferimento di risorse da Sud a Nord operato dallo Stato all’indomani dell’Unità attraverso l’unificazione monetaria e del debito pubblico e attraverso una politica di commesse statali prevalentemente riservata a imprese del Nord, si aggiungeva ora la denuncia della politica protezionista: una politica che, riservando il mercato meridionale ai prodotti dell’industria settentrionale, costringeva i consumatori meridionali a pagare prezzi più elevati di quelli dei corrispondenti prodotti dell’industria straniera, mentre i prodotti agricoli meridionali subivano le ritorsioni della Francia. Da Antonio De Viti De Marco a Luigi Einaudi, da Gaetano Salvemini a Giustino Fortunato, al primo Nitti, la teoria del Sud mercato coloniale del Nord fu largamente sostenuta e insistentemente fu chiesta una revisione della politica doganale e un ritorno al liberismo. Il che, pur nell’ineccepibilità dell’analisi del meccanismo di subordinazione del mercato meridionale allo sviluppo capitalistico settentrionale, difettava tuttavia da parte liberista dell’indicazione di una alternativa di politica economica in grado di salvare lo sviluppo industriale non solo settentrionale, ma italiano, in un’epoca in cui tutti i paesi europei più avanzati, a cominciare dalla Germania nel 1879 e a eccezione della sola Inghilterra, abbandonavano ormai il liberismo e innalzavano ovunque barriere protezioniste.

Rinunciare al protezionismo industriale avrebbe allora significato rassegnarsi a un modello di sviluppo esclusivamente agricolo-commerciale. Ma proprio il divergente andamento delle due grandi macroaree italiane, l’una, quella settentrionale, industrializzata, l’altra non industrializzata, anche se riccamente agricolo-commerciale e comunque in progresso in termini assoluti, dimostrava cosa significasse avere o non avere un apparato industriale. Il Mezzogiorno aveva rimosso nel 1887 una parte considerevole dei fattori del ritardo che accusava nel 1861. La dotazione di ferrovie, strade, servizi civili era nettamente migliorata. Nel 1886 le grandi isole, che ne erano del tutto prive nel 1861, avevano 893 km di binari. Il Mezzogiorno continentale che ne aveva 184 nel 1861, nel 1886 ne aveva 2.698, il che significava che il Sud nel suo insieme era passato dal 7,3 al 33,2% del totale della rete nazionale. Nel 1861 tutta l’Italia aveva 8,8 km di ferrovie per ogni 1.000 kmq, la Sicilia zero e il Mezzogiorno continentale 2,4. Nel 1886 l’Italia aveva 42 km di ferrovie per 1.000 kmq, la Sicilia ne aveva 34,7 e il Mezzogiorno continentale ne aveva 35,2. I progressi in termini non solo assoluti, ma anche relativi, nel maggiore indicatore di arretratezza del Sud al momento dell’Unità erano evidenti. Il fatto discriminante diveniva ora un altro, e cioè che il Mezzogiorno continuava a non avere nel 1887 un apparato industriale che il Nord aveva cominciato seriamente a costruire e il divario di reddito pro capite che nel 1887 era ancora fermo intorno al 15-20%, alla vigilia della prima guerra mondiale sarebbe risultato di circa il 40%. Fu precisamente quanto comprese Nitti, quando all’inizio del XX secolo abbandonò il liberismo e accettò il protezionismo come strumento di difesa dei superiori interessi nazionali, ma chiese allo Stato di cominciare a farsi carico di politiche correttive a favore del Mezzogiorno per fronteggiare gli squilibri che lo sviluppo del capitalismo italiano generava. Fu quanto scrisse cinquant’anni dopo Rosario Romeo quando sottolineava che la via dell’industrializzazione protetta non aveva nell’Ottocento reali alternative storiche, ma che ormai a metà del XX secolo il perdurare del divario Nord-Sud rischiava di divenire un grave fattore di debolezza per lo sviluppo dell’intero paese e dello stesso Settentrione.

Nel 1887 l’adozione della cornice protezionista mise l’economia italiana nella condizione grazie alla quale nei decenni successivi essa sarebbe entrata a far parte del ristretto gruppo dei paesi più sviluppati e ricchi del mondo. Quel modello di sviluppo recava tuttavia in sé un fattore di debolezza, la questione meridionale, che lo Stato italiano ancora oggi non ha risolto, ma che non si potrebbe certo risolvere tornando a una condizione preunitaria, la cui debolezza nel 1861 al Nord come al Sud, si spera sia stata sufficientemente illustrata in queste pagine.

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