La danza dei secoli XI e XII: danza e religione

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Stefano Tomassini

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il teatro religioso medievale (oltreché profano, ma la distinzione non è affatto pacifica, e dunque è qui assunta come convenzionale) è ricco di eventi profondamente eterogenei tra loro, in cui la danza compare in forme non immediatamente storicizzabili, e in presenze legate più spesso a un immaginario teatrale nel suo divenire piuttosto che a un’effettiva storia della spettacolarità.

Corpo e liturgia

Il breve dialogo cantato Quem quaeritis, o Visitatio Sepulchri, in cui tre monaci rappresentano le tre Marie testimoni della resurrezione, segna di norma l’origine del teatro sacro medievale nella liturgia monastica, ed è conosciuto attraverso un tropario di San Marziale di Limoges, datato agli anni 923-934 (Parigi, BNF, ms. Lat. 1240), e per un altro di San Gallo della metà del X secolo (San Gallo, Stiftbibliothek, ms. 484). In questo testo è convocata immediatamente una questione centrale della relazione tra danza e religione, l’ambivalente presenza/assenza del corpo (qui, in presenza, dei monaci trasformati in attori e, in assenza, del Cristo risorto, con tutto ciò che ne consegue).

Alcuni storici parlano di una funzione coreografica fondamentale dei fedeli che assistono, e non di rado intervengono, alla processione prevista nei drammi liturgici, o parlano delle didascalie che contengono, spesso, indicazioni e schemi di movimento coreografici, o della danza come cornice alle sacre rappresentazioni.

Non di poco conto, per la sopravvivenza dal basso di pratiche e dell’immaginario coreutico, non meno che per l’irruzione del sacro nella vita di tutti i giorni, sono le processioni danzanti, i balli per la traslazione delle reliquie o la commemorazione dei defunti sotto i loggiati dei cimiteri (da cui, poi, le danses macabres), le danze “furiose” di invocazione dei santi, sempre sul limite della degenerazione in divertimenti molto liberi e senza ritegno; è il caso delle danze presenti nelle feste dei folli (o degli innocenti o degli episcopelli), ossia quell’insieme di cerimonie che dal XII secolo i suddiaconi compiono per celebrare l’anno nuovo, poi considerate (impropriamente) corrispondenti a quelle di tutte le quattro feste contemplate dalla liturgia in uso presso molte cattedrali e vari capitoli canonici medievali per la quindicina immediatamente seguente Natale. Non di rado, come nota Jacques Heers nel suo studio Le feste dei folli (1983), al termine delle funzioni, soprattutto in cattedrale, eletta a centro culturale, politico e anche ludico delle comunità, si terminava “con giochi, scherzi e danze dalle origini molto antiche (nascevano da riti e processioni) che accompagnavano canti e inni”. Probabilmente in una ideale continuazione dei Saturnali romani, queste sono occasioni per giochi consacrati all’inversione dei ruoli sociali e in cui contestare ritualmente il potere delle gerarchie ecclesiastiche. Sono, anche, danze rituali che spesso, come attestato in Francia, perdono la dimensione sacra che le contiene, vengono introdotti balli e variazioni ai canti in luogo delle risposte obbligate e monotone previste dai cerimoniali religiosi. O come, poi, nelle famosissime danze pasquali, quando, dopo le funzioni del mattino, a sermone concluso, canonici e cappellani tenendosi per mano ballano una “chorea” nel chiostro o, in caso di pioggia, nel mezzo della navata della chiesa; una nota variante è la danza o gioco della pelota per la Pasqua di Sens, poi diffusa in tutta Europa, che si gioca nella cattedrale utilizzando il labirinto disegnato sul pavimento al centro della navata. Il lancio della palla avviene “intonando tutti insieme il canto liturgico della Pasqua (Victimae Paschali laudes), il tutto in una tremenda confusione”. Le cosiddette Libertates Decembris, feste per la fine dell’anno, dal secolo X diventano esclusiva prerogativa delle scholae, e la danza nei luoghi sacri è ammessa per le celebrazioni liturgiche ma declinata in una dimensione fortemente simbolica.

Occorre ricordare, come fa ancora Heers, che il successo di queste attività ludiche nel contesto celebrativo dipende anche dal fatto che in queste società canonicali i ragazzi, e più in genere i giovanissimi, sono molto numerosi, poiché è pratica comune consentire il canonicato già a 14 anni. È soprattutto a partire dal XIII secolo che le autorità proibiscono agli ecclesiastici di unirsi o soltanto di assistere alle danze dei laici; in appoggio all’ammissibilità delle danze liturgiche, invece, che in chiesa accompagnavano talune funzioni, sono spesso citati alcuni testi favorevoli, per esempio la danza mistica negli Atti di Giovanni, o la danza del re David davanti all’Arca ricordata da Gregorio Nazianzeno. I cronisti parlano spesso di processioni religiose accompagnate da musica e da passi cadenzati, ottenendo un effetto di movimento solenne e particolarmente austero: “La sarabanda, tipo di danza molto lenta, sembra derivare direttamente da queste pratiche”.

La memoria di una più o meno pacifica presenza della danza nella chiesa primitiva, ripresa da quasi tutti i successivi trattatisti della danza dell’età moderna, da Claude-François Menestrier (1631-1705) a Vincenzo de Bartholomaeis (1867-1953), si fonda anche sulla presunta derivazione della parola latina chorus dal greco choros, ossia lo spazio riservato a manifestazioni drammatiche, e dunque la parte sopraelevata e recinta nelle chiese antiche che si trova di fronte all’altare, così chiamata perché destinata alle danze sacre del clero. Secondo san Giovanni Crisostomo, mentre è da censurare una danza che sostituisca al dominio del giusto l’arbitrio del piacere o dell’interesse (Hom. in Matth., XLVIII, 3), abbiamo ricevuto da Dio due piedi perché su in Cielo potessimo “danzare in coro con gli angeli”. Anche tra i Padri della Chiesa greca, come in san Giovanni Damasceno, in merito alla morte di Maria si parla di un ingresso solenne in Cielo fatto di danze e balli (Omelie sulla beata Vergine, II, 2 da 2Sam. 6,5 e 1Cron. 15,25). In seguito san Bernardino da Siena, nelle sue Prediche volgari chiama Davide il “ballerino dello Spirito Santo” (XLVIII, “Della gloria consustanziale del Paradiso”), mentre san Francesco di Sales nella sua Introduction à la vie dévote (1608 e 1619, capp. XXXIII-XXXIV) parla di ciò che, con giusta condiscendenza, può essere lecito e ricreativo nel ballo e nei giochi. La predicazione barocca ritroverà gran parte di questa tradizione medievale, come nelle Prediche della Quaresima, di Raffaello Delle Colombe (1622, vol. II, Feria Quinta della prima domenica di quaresima), per il quale “L’orazione è un ballo spirituale” a imitazione del “Sole [che] guidava la danza de gli altri pianeti”, e chiama “Choro” i monasteri, le Chiese, i sacerdoti e i religiosi cui ricorrere prima della “guerra spirituale”.

Censure e legittimazioni

Gli scrittori cristiani associano il divertimento mondano ai piaceri dei sensi, unitamente alla condanna per lo stravolgimento dell’assetto naturale del corpo, la deformazione dell’immagine divina dell’uomo e della gestica riprovevole dei giullari, poi legittimati nella distinzione in base al comportamento e al repertorio. La memoria del teatro è strettamente connessa con i riti pagani; per questo nel mondo morale dei cristiani non può che assumere un ruolo negativo – sancito da Tertulliano, sant’Agostino e Isidoro di Siviglia –, anche se la riprovazione verte più sull’aspetto spettacolare, risparmiando i testi drammatici. Per la danza il biasimo si indirizza contro le ricadute senza controllo della liberazione del corpo e delle emozioni, non perché esse siano in sé disdicevoli o inadatte alle celebrazioni del culto sacro e alle riunioni liturgiche nelle chiese.

San Tommaso, nel suo commento a Isaia (In Isaiam Prophetam Expositio, III), scrive che la danza non è di per sé cattiva, poiché è in base al suo scopo che può diventare atto di virtù o vizio; Eudes di Sully (morto nel 1208) proibisce le danze in chiesa e nei cimiteri, ma, anche se le direttive della Chiesa, in merito, non sono uniformi, come ricorda Alessandro Pontremoli (La danza negli spettacoli dal Medioevo alla fine del Seicento, 1995), è attraverso le deliberazioni dei concili – terzo concilio di Toledo (589), canone 23; concilio di Auxerre (573-603), canone 9; concilio di Chalon-sur-Saône (639-654), canone 19, ove sono prese disposizioni contro le danze corali nei luoghi sacri in onore del martirio dei santi – che la Chiesa “intese regolamentare gli atti del culto e le manifestazioni nei luoghi sacri”. In un contesto in cui la Chiesa esige che la cultura clericale guadagni una forte influenza, l’opposizione alla cultura folclorica si attesta, dunque, sul doppio livello della repressione (feroce) e dell’assimilazione (lenta), come è testimoniato nella letteratura degli exempla. Così “le principali scadenze dei cicli stagionali vengono fatte coincidere con le più importanti festività cristiane”, come ricorda Alessandro Pontremoli, e anche il Carnevale, in origine, è legato al ciclo liturgico, e corrisponde agli ultimi giorni che precedono la Quaresima.

Mito delle origini

Soprattutto con la diffusione delle illustrazioni miniate dei manoscritti dell’agostiniana Città di Dio, il racconto dell’origine dei ludi scenici è drammatizzato attraverso la pericolosità della danza; come ha rilevato Sandra Pietrini, “sebbene sant’Agostino non ne faccia menzione, il ballo [nelle illustrazioni] è spesso raffigurato per indicare il teatro antico” (Spettacoli e immaginario teatrale nel Medioevo, 2201).

Nell’immaginario si diffonde, con indice negativo, l’idea del teatro come una carola, e la danza quale rinvio iconografico privilegiato al teatro. Una traccia di questa tradizione è rilevabile nel riquadro inferiore di una miniatura in un manoscritto della Città di Dio posteriore al 1473 (Museo Meermanno-Westrenianum), dove è riportata una danza in tondo di coppie nude davanti a una statua pagana, in cui vengono raffigurati due concetti fondamentali: la lascivia, nell’esposizione delle nudità del corpo, e l’idolatria, nel rito pagano. Nell’immaginario medievale la danza si mescola, dunque, al mito delle origini del teatro antico, nato dal canto e dalla danza, che secondo Tito Livio dapprima consisteva in una semplice azione coreutica. In altre illustrazioni, sempre in manoscritti agostiniani del Quattrocento, la danza è, invece, contrapposta a un’altra forma spettacolare contemporanea, più positiva: la pratica dell’autoflagellazione. Determinanti per la diffusione della cultura penitenziale sono la proliferazione dei movimenti itineranti, caratterizzati da un entusiasmo collettivo di stampo popolare e paraliturgico, e il rituale drammatizzato delle confraternite di flagellanti, in forma processionale e di città in città, che comprende il canto di acclamazioni e di liriche di argomento religioso, ed è uno strumento di autopunizione rituale collettiva attribuibile alla rinascita del movimento dei disciplinati nel 1260.

Un’ultima questione riguarda la gestualità e la corporeità nella predicazione: Ugo di San Vittore nell’istruire i novizi sconsiglia il gesticolare tipico degli istrioni, smodato e innaturale, poiché contrario all’etica cristiana. Infine, Renato Torniai, a conferma della tesi sul nativo (ovvero originario) carattere spirituale della danza – tesi che proviene dagli studi di etnomusicologia e antropologia di primo Novecento (Sachs, Frazer) – ricorda che la terminologia ecclesiastica fornisce il vocabolario per parlare, in quegli stessi anni, delle novità della danza libera e moderna (La danza sacra, 1951). Come, ad esempio, farà Anton Giulio Bragaglia per Charlotte Bara, danzatrice tedesca di origine belga e vicina alle esperienze della Neue Tanz, su cui scrive: “la sua danza è come ‘una lode osannante al Creatore’, perché ‘danza pregando e per pregare danza”.

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