La danza nel Quattrocento: i trattati

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Germana Schiassi
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

I trattati sulla danza dei più celebri maestri attivi nelle corti italiane, assurte a lungo come modello in tutta Europa, attestano come nella compagine curtense del Quattrocento sia pienamente sviluppata un’idea di corpo danzante, per il quale vengono elaborate specifiche modalità di composizione e di esecuzione dei passi, facendo emergere le connessioni tra i momenti danzati e la società di cui essi sono frutto e specchio: la pratica della danza all’interno di eventi socialmente o politicamente rilevanti e nei momenti di svago attraversa un secolo in cui si sviluppa in modo raffinato e compiuto quella volontà di regolare il corpo che connota anche i secoli precedenti e che trova ora in quest’arte una via di concreta realizzazione.

La danza nelle corti italiane

Tra il Trecento e il Quattrocento la danza entra decisamente a fare parte della vita mondana e dell’educazione dei cortigiani, e, apprezzata da celebri dame come Isabella d’Este (1474-1539) e Lucrezia Borgia, si trasforma in una disciplina d’arte. La raffinatezza della danza aulica del Quattrocento italiano e l’esigenza, da parte della classe dirigente che la pratica, di apprendere o semplicemente rammentare passi e comportamenti connotanti il gruppo sociale di appartenenza fanno fiorire i trattati scritti in lingua volgare che rendono memorizzabile e trasmissibile l’arte del ballo e le regole a essa sottese, collocandosi con coerenza all’interno della forte istanza precettistica propria dell’umanesimo.

Nelle corti dell’epoca, ma anche nei palazzi agiati e nelle piazze cittadine, la danza è parte integrante dei festeggiamenti che segnano gli eventi importanti, come i fidanzamenti e le nozze, le visite di personaggi di rango, le ricorrenze. Gli stessi cortigiani si possono trovare a danzare in queste occasioni, oscillando tra il ruolo di spettatori e quello di interpreti, e l’assimilazione dei passi e degli atteggiamenti in uso diventa componente essenziale dell’educazione del buon cortigiano, aiutando uomini e donne di palazzo a conquistare bellezza, armonia, misura e portamento adeguati al ruolo che ricoprono. Inoltre, utile strumento di educazione al tempo stesso del corpo e della mente, secondo quanto è indicato dagli ammirati autori greci, la danza fa parte di momenti di svago più quotidiani, ed è quindi un piacevole passatempo da praticare in ameni contesti domestici, a cui prendono parte anche i giovani rampolli di entrambi i sessi. Fenomeno quindi di costume piuttosto che di spettacolo, sarà soltanto a partire dalla seconda metà del XV secolo che accanto alla funzione sociale della danza comincerà a delinearsi anche una sua funzione spettacolare, in direzione del balletto vero e proprio.

Assume quindi considerevole importanza la figura del “maestro di ballo”, un cortigiano-professionista versato nel danzare, capace di trasmettere un sapere pratico e teorico insieme, creativo nell’inventare combinazioni nuove e dilettevoli, regolarmente ricompensato per i servizi prestati. Apprezzati e ricercati, i maestri di ballo sono nel XV secolo piuttosto numerosi sul territorio italiano, anche se oggi la maggior parte di essi rimane senza nome, a eccezione di chi ha saputo lasciare parte del proprio sapere in un testo scritto.

I più importanti trattati manoscritti pervenutici sono tre: De arte saltandi et choreas ducendi (ante 1455), di Domenico da Piacenza; Libro dell’arte del danzare (1455), di Antonio Cornazano; De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum (1463), di Guglielmo Ebreo da Pesaro, poi Giovanni Ambrogio. Impiegati ai loro esordi come utili breviari, oggi diventati documenti fondamentali per ricostruire e per comprendere la danza e la cultura dell’epoca, in ciascuno di essi si ritrovano annotazioni teoriche, descrizioni di danze, melodie in notazione musicale e, nell’insieme, i tre testi vanno a tratteggiare quello che viene definito dallo stesso Giovanni Ambrogio il ballare lombardo, ovvero una moda che percorre la danza aulica del Quattrocento, imprimendole precise modalità stilistiche ed esecutive.

Gli autori

Domenico da Piacenza, maestro sia di Antonio Cornazano, sia di Guglielmo Ebreo, che lavora presso gli Este e probabilmente presso gli Sforza, prima del 1455 compone il suo De arte saltandi et choreas ducendi – una copia del quale è conservata presso la Bibliothèque Nationale di Parigi –, un testo di non eccelsa qualità letteraria, ma il cui contenuto fonda decisamente la teoria della danza dell’epoca, tanto da fungere da esplicito e ammirato riferimento per gli studi successivi.

Nella prima parte del trattato l’autore descrive le necessarie doti fisiche e intellettuali del buon ballerino, distingue i movimenti tra naturali e “accidentali”, elenca i quattro passi fondamentali (bassadanza, quaternaria, saltarello e piva) e ne afferma l’intrinseca connessione con la musica, anch’essa radicata nella quadripartizione delle voci della polifonia quattrocentesca (come, peraltro, quattro sono gli elementi fondamentali).

Nella seconda parte viene raccolto un repertorio delle danze, distinte in bassedanze e balli, create da Domenico (tranne una, la francese Figlia di Guglielmino), accuratamente descritte e integrate dalla notazione musicale, anch’essa opera di Domenico. Scorrono, tra le altre, Belriguardo, Ingrata, Gelosia, Prigioniera, Belfiore, Anello, Marchesana, Mercanzia; di tutte si specifica il numero degli interpreti – generalmente tra due e otto, a eccezione di alcune bassedanze che si fanno “in una fila in quanti si vole” –, il loro sesso, in proporzione variabile ma con una costante compresenza di uomini e donne, quindi la loro posizione di partenza, infine i passi, le traiettorie e il tempo che seguono.

Antonio Cornazano non è un vero e proprio maestro di danza, ma è un umanista minore dai molteplici e colti interessi che, dopo aver prestato servizio presso gli Este, succede a Domenico al servizio degli Sforza per poi stabilirsi a Venezia presso il condottiero Bartolomeo Colleoni e ritornare infine a Ferrara. Il suo Libro dell’arte del danzare, scritto nel 1455 per Ippolita Sforza e conservato oggi presso la Biblioteca Vaticana, comprende la descrizione, arricchita da alcuni commenti, delle danze più alla moda tra quelle già descritte da Domenico, oltre a tre bassedanze non presenti nel precedente trattato ma comunque non di mano di Cornazano. Se il testo non si contraddistingue per un’originalità peraltro non cercata, ne fanno un riferimento importante una chiarezza maggiore, rispetto al maestro, nella descrizione di alcune danze (che fa a volte da contraltare a un’eccessiva semplificazione) e alcune interessanti considerazioni teoriche, oltre all’uso – certo marginale rispetto ad altri apporti, ma storicamente rilevante – del termine “ballitto”.

Antonio Cornazano

Libro dell’arte del danzare

Il libro dell’arte del danzare

Mercantia e ballo appropriato al nome che una sol donna dança con tre homini e da audientia a tutti gli ne fossero pure assai come quella che fa mercantia d’amanti. et comincia così. La donna e a mano con uno homo inançi altri dui homini detro loro a mano a mano. In tale ordine fanno un deci tempi di saltarello et fermansi. Appresso gli homini che son detro ala donna se allargano con sei riprese in traverso l’uno a man sinestra l’altro a man dritta. [...]

Sobria come d’inançi e dicto e ballo tutto contrario della mercantia nel quale la donna s’attiene a colui solo che prima l’ha conducta in ballo et fassi in sei cinque homini e una donna a dui a dui ala fila e la donna e disopra a mano a mano con uno homo. In tale ordine fanno el saltarello et fermansi. Poi quelli quatro homini di detro se allargano con quatro riprese et fanno uno quadrangulo. Alhora l’homo disopra piglia la mano della donna et fanno tutti dui atorno atorno in piva una voltatonda et come l’homo ha finita la volta lassa la donna et va in piva lei continuando in mezo di quelli quatro et si ferma voltandosi verso el suo compagno [...]

A. Cornazano, Il libro dell’arte del danzare, cod. Capponiano 203, Biblioteca Apostolica Vaticana

Anche Guglielmo Ebreo si dichiara allievo di Domenico, a cui spesso si riferisce. Non solo apprezzato maestro di ballo attivo in numerose città italiane (lo accolgono le corti degli Sforza, degli Aragonesi, dei Montefeltro, degli Este), ma vero e proprio teorico di quest’arte, nel 1463 porta a termine il suo De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum, di cui esistono oggi sette redazioni, due delle quali conservate presso la Bibliothèque Nationale di Parigi. L’ormai usuale articolazione in parte teorica e parte pratica è integrata da un proemio in cui Guglielmo afferma che la musica, passando per l’udito, arriva al cuore liberando un ardore da cui scaturisce la danza; questa, quindi, da quella dipende e, di conseguenza, è altrettanto nobile: è, insomma, ““una actione demostrativa di fuori di movimenti spirituali: li quali si hanno a concordare colle misurate et perfette consonanze d’essa harmonia””.

Nella prima parte l’autore mette in chiaro i sei fondamenti della danza (“misura, memoria, partire del terreno, aiere, mayniera, movimento corporeo”), ampliando così l’elenco di cinque già definito da Domenico; quindi riporta una serie di esercizi utili ad affinare le capacità del ballerino intorno a quei fondamenti. Nella seconda parte, dopo un retorico dialogo con gli allievi, grazie al quale si approfondiscono alcuni concetti già enunciati, descrive bassedanze e balli composti da lui stesso o da Domenico.

Guglielmo Ebreo da Pesaro (Giovanni Ambrosio)

Arte del ballo

De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum

DAL ermonia suave el dolce canto

Che per l’audito passa drento al core

Di gran dolceça nasce un vivo ardore

Da cui el dançar puo vien che piace tanto

Pero chi di tal sciença vuol el vanto

Convien che sei partite sença errore

Nel suo concepto aprenda e mostri fuore

Sicome io qui discrivo insegno e canto

Misura e prima e seco vuol Mimoria

Partir puo di teren con ayre bella

Dolce maynera e movimento e poy

Queste ne danno del dançar la gloria

Con dolce gracia a chi l’ardente stella

Piu favoregia con gli Ragi suoi

E i passi e gesti tuoi

Sian ben composti e destra tua persona

Con lo intellecto atento a quel che sona

Paris, Bibliothèque Nationale de France, fonds ital. 476

Nel loro insieme, senza dimenticare le importanti peculiarità di ciascuno, i tre trattati vanno a formare un corpus che costruisce e rende esplicita, anche attraverso esempi pratici, una teoria organizzata ed esteticamente indirizzata dell’arte della danza, un’arte liberale e moralmente valida nel suo essere un gradevole esercizio del corpo regolato dall’intelletto. Essi sono infatti capaci di proporre un repertorio di movimenti utilizzabili in contesti differenti; di definire stili di azione e di interpretazione; di codificare regole di buon comportamento sociale e mettere alla berlina atteggiamenti inadeguati, in particolare da parte delle donne; di articolare un imprescindibile rapporto tra danza e musica; di trasmettere un repertorio di balli e suggerire modalità di composizione coreografica; di affermare una sorta di rudimentale proprietà intellettuale, attestando quindi la nascita della figura del compositore di danze, ovvero del coreografo, capace di pensare e creare opere dell’ingegno identificate da un titolo. Si può persino affermare, come fa Gino Tani (Storia della danza dalle origini ai giorni nostri, 1983), che si gettino qui le basi della danza accademica nel definire concetti e norme relativi all’uso dello spazio, al portamento e alla grazia, all’ aplomb e all’ élevation e al radicarsi del movimento d’arte su uno strutturato sistema musicale. Senza dubbio si parla di danze la cui ben chiara funzione sociale si intreccia con una non meno importante, anche se non sempre presente, funzione spettacolare, che informa e influenza la qualità e l’energia di chi si muove nello spazio con la consapevolezza di essere sotto lo sguardo di chi invece si limita a osservare, tutti comunque artefici di quei “ballitti” che “sono una compositione di diverse misure che po’ contegnire in se tutti gli nove movimenti corporei naturali ordinato ciascuno con qualche fondamento di proposito” (Antonio Cornazano, Libro dell’arte del danzare).

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