La Durand Line: transumanza e letteratura

Atlante Geopolitico 2015 (2015)

di Emanuele Giordana

La Durand Line e in particolare i suoi passaggi, di cui il più famoso è quello di Khyber, sono sempre stati una grande attrazione per i viaggiatori occidentali. Anche prima che quel confine esistesse, un’enorme massa di persone aveva attraversato la frontiera geografica segnata dai monti Suleiman. Per commercianti, trafficanti, eserciti, contrabbandieri, guerriglieri, i passi che attraversano quella linea più o meno immaginaria sono l’accesso al subcontinente o l’uscita verso l’Asia centrale. Di questi protagonisti si è detto molto, ma minore attenzione si è prestata a quanti, nei secoli e in parte ancora oggi, la attraversano in una migrazione nomadica che spinge a varcare quella soglia in cerca di un clima meno rigido e pascoli più rigogliosi. Anche vecchi e nuovi nomadi (per scelta economica nel caso della transumanza, per scelta obbligata nel caso dei migranti in fuga dalla guerra, per scelta logistica nel caso dei viaggiatori) sono dunque tra i grandi protagonisti della frontiera più porosa del pianeta. Ma se i viaggiatori occidentali hanno soprattutto raccontato se stessi e il fascino del Khyber Pass, i pastori non si raccontano e ancor meno sono raccontati – non più di quanto non lo siano profughi e sfollati, obbligati a un nomadismo senza futuro dalle contingenze belliche. I pastori nomadi attraversano da secoli una frontiera che è per loro essenzialmente geografica. I nomadi ‘moderni’, i viaggiatori, sono invece stati attratti dall’idea di un passaggio culturale, molto mitizzato, tra due mondi.

Della migrazione dei nomadi afghani che attraversano stagionalmente il confine non si conosce molto, come poco si sa della loro storia e persino delle loro origini. In Afghanistan i nomadi vengono denominati kuchi, un termine che indica soprattutto (ma non solo) la realtà pashtun. In effetti, sebbene le maggior parte delle comunità nomadi o seminomadi siano pashtun, vi sono gruppi, benché minori, di origine beluci, araba, turcmena e così via. Il nomadismo è prevalentemente legato alle esigenze del pascolo e per molti kuchi le pianure al di là dei Suleiman erano una meta importante: non solo per la ricerca di pascoli ma per commerciare il surplus (bestiame, carne, lana, capelli, pelli, frutta ma anche artigianato – tappeti – scambiati per sale, tè, zucchero, abiti, ferro e, in tempi recenti, cherosene). Largamente tollerati dai britannici – che quando potevano tassavano le carovane – i nomadi hanno visto complicarsi le cose con le frizioni di frontiera tra Pakistan e Afghanistan, sia per la questione del ‘Pasthunistan’, sia per la necessità più recente di controllare il flusso transfrontaliero, specie se non passa da valichi stradali. Alle difficoltà di attraversare la frontiera, passaggio garantito dalla conoscenza del terreno e dalla rete delle parentele, si è aggiunto il problema della sicurezza (guerra, mine, bombardamenti) e la ricerca di lavori sedentari in Afghanistan: elementi che dagli anni Sessanta del secolo scorso hanno ridotto sempre di più il flusso tra le due frontiere, tanto che oggi la transumanza transfrontaliera, fortemente scoraggiata, è ormai un fenomeno residuale in quel milione e mezzo di nomadi kuchi (2,5 milioni in totale), di cui oggi si registrano soprattutto le contese con vecchi e nuovi proprietari terrieri sull’utilizzo dei pascoli afghani.

Il flusso dei nomadi per vocazione letteraria, di ricerca o piacere del viaggio, non è elemento recente, anche se fu l’epoca del Raj britannico, che aveva la sua frontiera più occidentale nei turbolenti territori sikh e afghani, a far guardare oltre la Durand Line prima e dopo che fosse tracciata. Si può citare per tutti sir Olaf Caroe e la sua storia dei pathan, lungo racconto di stili di vita e codici consuetudinari ammantato del fascino che le genti delle aree tribali avevano sull’ultimo governatore del Raj nella Provincia della frontiera. Giornalisti e scrittori, fuori dal circolo strettamente accademico, si sono esercitati, da Karl Meyer a Peter Hopkirk, ull’epopea britannico zarista del great game, locuzione che la vulgata attribuisce erroneamente a Rudyard Kipling, narratore delle avventure del piccolo Kim, circondate dal mito del fiero guerriero afghano e del compassionevole monaco buddista. Del resto anche Giuseppe Tucci racconta di quel fascino che circonda vallate e pianure «in quelle contrade dove prosperò l’arte del Gandhara». Incantato dalla storia del passo di Khyber, in epoca più recente, lo scozzese Paddy Doncherty vi ha passato mesi per raccontare un luogo dove, a ogni piè sospinto, si ricorda l’epopea militare del Raj che pende dalle pareti rocciose negli stemmi del Dorset Regiment o dei South Wales Borderer. Gli scrittori non mancano: dai maledetti, come la svizzera Annemarie Schwarzenbach accompagnata da Ella Mailart, ai semplici osservatori alla Nicolas Bouvier, anche lui svizzero, che con Thyerry Vernet attraversa il Khyber con una Fiat Topolino nel 1954. L’attenzione ai nomadi locali, i protagonisti nascosti dell’attraversamento della frontiera, è però rara: si ritrova in un libro appena dato alle stampe della scrittrice e fotografa Monika Bulaj o nel romanzo di Jamil Ahmad, scrittore pachistano che, forse per questo, cede meno al fascino orientalistico che inevitabilmente colpisce il viaggiatore occidentale.