La famiglia e la patria potestà

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

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La famiglia e la patria potesta

Eva Cantarella

Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Distintivo della società romana, il potere del paterfamilias ha una estensione d’autorità e di diritti eccezionale rispetto ad altre culture: una capacità decisionale e una vastità di ambiti di intervento tale da disporre letteralmente della vita e della morte dei componenti del gruppo familiare e da bloccare per molti versi lo sviluppo autonomo dei singoli membri. La familia, il gruppo familiare, infatti, aggrega persone legate da vincoli di sangue, legami parentali e servitù, tutte ugualmente sottoposte alla patria potestas.

La parola famiglia (familia), a Roma, indica un gruppo diverso da quello che oggi intendiamo con questo termine (quale che sia il gruppo che di volta in volta così definiamo, dalla famiglia nucleare a quella di fatto, da quella monoparentale a quella omosessuale, e via dicendo). A Roma quello che accomuna i componenti di una familia non è né il matrimonio, né la convivenza, né il legame di sangue, di affinità o di affetto. È la comune sottoposizione a un paterfamilias, dotato di poteri fortissimi, che arrivano fino allo ius vitae ac necis, vale a dire il diritto di mettere a morte i componenti del gruppo, del quale fanno parte anche gli schiavi (servi), sottoposti a un potere che, a differenza di quello sui filii, non è detto patria potestas, bensì dominica potestas (da dominus, "padrone"). A dare un’idea di quanto forti siano i poteri paterni sui componenti liberi della familia basterà quello che scrive nel II secolo d.C. il giurista Gaio nelle sue Istituzioni (1, 55): “Nessun altro popolo ha sui figli un potere come quello che noi abbiamo”.

In effetti, la patria potestas romana è caratterizzata da un elemento che la distingue non solo dai poteri che spettano oggi sui figli (ispirati più a un criterio protettivo che a un principio potestativo), ma anche dal potere di altri padri dell’antichità (ad esempio quelli greci): a Roma la sottoposizione dei figli ai padri (a meno che il padre non decida di "emanciparli") non termina al raggiungimento della maggiore età dei figli, ma dura finché il paterfamilias è in vita. Al momento della morte del paterfamilias, inoltre, vengono liberati dalla sottoposizione alla patria potestas solo i suoi discendenti immediati, vale a dire i suoi figli e i discendenti di questi, se l’ascendente intermedio è premorto. Solo costoro, detti sui, alla morte del paterfamilias cessano di essere alieni iuris (letteralmente "di diritto altrui") o alienae potestatis subiecti ("sottoposti alla potestà di un altro"), e diventano sui iuris (letteralmente "di diritto proprio"), acquistando la capacità giuridica. Tutti gli altri passano sotto la potestas del nuovo paterfamilias, l’ascendente superstite. A Roma insomma, nel campo del diritto privato, solo il paterfamilias ha rapporti giuridici con gli appartenenti ad altri gruppi. Tutti gli altri componenti del gruppo sono giuridicamente incapaci. Quantomeno nei primi secoli di Roma, sotto questo profilo l’unica differenza tra i filii e gli schiavi è che i primi hanno nel loro futuro un’aspettativa normale di capacità; gli schiavi, invece, acquistano la libertà (e la capacità che ne consegue) solo se il paterfamilias decide di dar loro la libertà "manomettendoli", vale a dire compiendo un atto detto manumissio.

Venendo più specificamente ai poteri compresi nella patria potestas, è inevitabile ricordare che il primo potere dei patres è quello, quando una donna del gruppo partorisce, di decidere autonomamente e insindacabilmente se accettare il nuovo nato nella famiglia o rifiutarlo ed "esporlo", vale a dire abbandonarlo al suo destino. A questo scopo i neonati vengono deposti a terra ai piedi del paterfamilias, che può alternativamente sollevarli prendendoli fra le braccia (tollere o suscipere liberos), o lasciarli dove sono stati deposti, dando con questo l’ordine implicito di abbandonarli alla loro sorte. Il primo limite all’esercizio di questo potere viene posto da una lex regia attribuita a Romolo, che stabilisce una sanzione economica (la confisca di metà del patrimonio) a carico di chi espone un figlio maschio o la figlia primogenita. L’esposizione delle figlie cadette, dunque, non è sanzionata (Dionigi di Alicarnasso, 2, 15, 2). La ratio della norma è evidente: in una società agricola qual era Roma agli inizi della sua storia una figlia, appena raggiunta l’età, deve andare sposa, trasferendosi in un altro gruppo familiare e portando con sé una dote (l’ipotesi che una donna non si sposi è inconcepibile). Di conseguenza un numero eccessivo di figlie femmine costituisce un problema economico.

Sui poteri che spettano al pater sui figli accolti nella familia (tra i quali, ad esempio, quello di sceglier loro il coniuge) il più rilevante è il potere disciplinare, che arriva al diritto di metterli a morte. I comportamenti che giustificano socialmente l’esercizio di questo diritto (nel momento stesso in cui socialmente impongono al padre di esercitarlo), sono diversi a seconda del sesso dei figli. Sui figli maschi, di regola, esso viene esercitato quando si rendono colpevoli di crimini contro lo stato. Più in particolare quando commettono proditio o perduellio, vale a dire attentano alle istituzioni. Anche se normalmente questi crimini vengono puniti dallo stato stesso, quando vengono commessi da un filiusfamilias la civitas si ritrae di fronte al potere paterno. Sulle figlie femmine, invece, il ius vitae ac necis viene esercitato, di regola, nel caso abbiano perduto la pudicitia. In altri termini, nel caso in cui si rendano colpevoli del comportamento illecito che i romani chiamano stuprum, e che nulla ha a che vedere con il reato oggi così definito. Stuprum infatti, a Roma, è qualunque rapporto sessuale intrattenuto da una donna onesta (vale a dire non prostituta) al di fuori del matrimonio o del concubinato.

Un ulteriore potere che il pater può esercitare sui figli è il diritto di venderli (ius vendendi), trasferendoli presso un altro paterfamilias in una situazione formalmente diversa dalla schiavitù, ma nei fatti identica a questa (detta causa mancipi). Questo diritto originariamente può essere esercitato più volte: il potere paterno, infatti, è così forte che la vendita del figlio non è sufficiente a estinguerlo. Se dopo essere stato venduto il figlio viene liberato dall’acquirente o per qualunque altra ragione esce dalla sua potestà (ad esempio, se l’acquirente muore senza eredi), il pater riacquista la pienezza dei suoi poteri. Ma le XII Tavole (450 a.C) stabiliscono: si pater filium ter venum du [uit] filius a patre liber esto (Tab. IV, 2): “se un padre vende un figlio per tre volte, dopo la terza vendita il figlio sia libero dal padre”.

Un altro potere paterno che ha conseguenze gravissime sui figli è il diritto di darli "a nossa" (noxae deditio) , che consiste nel liberarsi di loro, qualora abbiano commesso un delitto "privato", vale a dire un illecito penale perseguibile su richiesta della parte lesa e punito con una pena in danaro: in questo caso, per evitare di pagare la pena, il padre può cedere il figlio alla parte lesa, ponendolo così in condizione di fatto di schiavitù. Ma al di là dell’esercizio di questi poteri per così dire estremi, quello che pesa maggiormente sulla vita dei filii è la loro incapacità economica. Data la struttura della patria potestas, può accadere e spesso accade, che un cittadino romano, se ha un ascendente maschio ancora in vita, non sia titolare di alcun diritto in materia di diritto privato, anche se oramai ampiamente adulto. Il paterfamilias, oltre ad esserne il capo, è il soggetto dal quale dipendono tutti gli interessi patrimoniali del gruppo. I beni familiari, dunque, sono di sua proprietà. Se un filius acquista un bene o un credito, li acquista per il pater. Se, viceversa, aliena dei beni o assume obblighi verso terzi, questi atti non diminuiscono il patrimonio paterno, né vincolano in alcun modo il paterfamilias. Per ovviare a questo inconveniente, i patres usano dare ai figli adulti un peculium, vale a dire una quantità di danaro che, pur rimanendo giuridicamente di loro proprietà, è considerata socialmente come appartenente al figlio. Ma nonostante questa prassi, e nonostante alcuni interventi legislativi in loro favore, i figli adulti, ancora in età imperiale, sono lontani dall’essere economicamente indipendenti. Se un figlio vuole intraprendere la carriera politica, ad esempio, il denaro per la campagna elettorale deve essergli fornito dal padre; e se il padre ha due o tre figli (come di regola accade) e decide di potere o di voler sostenere una sola campagna elettorale, è lui a scegliere il figlio preferito o quello ritenuto più idoneo: con ovvie conseguenze non solo sui rapporti padre/figli, ma inevitabilmente sui rapporti tra fratelli.

Per essere veramente libero un figlio deve aspettare il momento in cui erediterà. Ma che questo accada non è affatto scontato. Il paterfamilias, nel suo testamento, può diseredare i figli senza bisogno di alcuna motivazione. Ovviamente c’è da chiedersi con quale frequenza questo avvenga, e quanto spesso un figlio riceva una quota ereditaria inferiore rispetto ad altri figli (cosa anche questa consentita). Difficile avere certezze, ma alcune indicazioni vengono dalle fonti letterarie: nelle commedie di Plauto il personaggio del padre avaro è un topos così noto che non mette quasi la pena ricordarlo. Nei versi di apertura dell’Aulularia, il Lare familiare parla di un padre che neppure al momento della morte confida al figlio il luogo in cui ha nascosto i suoi tesori. Pur di non dividere il suo patrimonio con il figlio, sia pur per poche ore, sceglie di condannare quest’ultimo a essere povero per tutta la vita.

Negli Adelphoe di Terenzio si legge che per un padre la sola conseguenza dell’avere accumulato un ricco patrimonio è l’odio dei suoi figli, e in un altro celebre passaggio, a un figlio in difficoltà economiche, che pensa di chiedere del danaro a mutuo, uno schiavo ricorda, giustamente, che, finchè suo padre è vivo, nessuno gli farà mai credito. I creditori dei filiusfamilias, in effetti, sono consapevoli del fatto che otterrebbero la restituzione del denaro solo quando i figli diventeranno sui iuris, e questo fa sì che ai figli, spesso, non resti che ricorrere agli usurai. L’incapacità patrimoniale dei figli è un problema sociale così serio che si pensa che la necessità di ripagare un debito sia una buona ragione per commettere parricidio. Nella orazione in difesa di Roscio Amerino, accusato appunto di questo crimine, Cicerone risponde all’orazione dell’accusa con il seguente discorso: “Tu dici che il mio cliente ha ucciso suo padre. Che tipo di persona è il mio cliente? Un uomo giovane e corrotto, indotto a uccidere da criminali? No, ha più di quarant’anni. Allora, forse, è stata la corsa pazza ai piaceri, sono stati i debiti immensi e le passioni sfrenate che l’hanno spinto a questo delitto? Ma se non ha quasi mai partecipato nemmeno a un banchetto. Di debiti, poi, non ne ha mai avuti. E allora, se così stanno le cose, perché avrebbe dovuto uccidere suo padre? Aveva altre possibili ragioni? Forse suo padre voleva diseredarlo? Neanche per sogno, non ci pensava neppure”. Conclusione: Roscio non ha alcuna ragione per commettere parricidio.

Sono i debiti, l’incapacità patrimoniale, l’incertezza sul proprio futuro, dunque, le ragioni che possono indurre un figlio a uccidere suo padre. Con i mezzi più svariati: con il veleno, ad esempio, oppure assoldando un sicario.

Nel 55 o nel 52 a.C., la lex Pompeia de parricidiis ordina di punire come parricida anche il figlio che abbia comprato veleno allo scopo di uccidere suo padre, anche qualora non glielo abbia somministrato (un passo di Marciano nel Digesto di Giustiniano). Non meno significativo un passo di Ulpiano, sempre nel Digesto: se qualcuno ha dato del danaro in prestito a un filiusfamilias sapendo che questi intende usare il denaro per acquistare veleno o per assoldare un sicario che uccida il padre, deve essere punito come parricida. Non è tutto: secondo Tacito, Svetonio e Seneca il parricidio è un problema che preoccupa gli imperatori. Secondo Seneca (De clementia) l’imperatore Claudio ha messo a morte tanti parricidi che la pena del sacco (riservata a chi commette quel reato) diventa più frequente della crocifissione.

Ma la prova più significativa dell’ansia generata dal parricidio è un senatoconsulto approvato nell’ età di Vespasiano, il cosiddetto Senatoconsulto Macedoniano; chi presta denaro a un filiusfamilias non può recuperare giudizialmente il proprio credito, neppure dopo la morte del padre del suo debitore. Inutile chiedersi se il rimedio sia stato efficace. Secondo alcuni non lo è stato: al contrario, ha aumentato l’interesse dei figli a uccidere il loro padre. Ma non è il numero dei parricidi effettivamente commessi che qui interessa, comunque. Il discorso sul parricidio è interessante perché svela un’ansia (per non dire una patologia) nei rapporti familiari che induce a non poche riflessioni sulla crisi della famiglia odierna, di cui tanto si parla. Certo, la famiglia di cui oggi si rimpiange l’esistenza non è quella romana, ma è pur sempre la sua diretta discendente. In Italia, sino alla riforma del diritto di famiglia, del 1975, la famiglia era un gruppo sottoposto al potere autoritario di un capo, cui spettava la potestà esclusiva sui figli (solo a partire da quella data i figli minori sono sottoposti alla potestà "genitoriale", non più solamente "paterna"); e al padre-marito "capofamiglia" spettavano sulla moglie poteri fortemente lesivi della libertà e della dignità personale di questa. I cenni sin qui fatti ai problemi della famiglia romana inducono a pensare che sarebbe bene studiare e conoscere meglio la storia della famiglia nei secoli. Questo potrebbe, forse, indurre a chiedersi se e cosa vi sia veramente da rimpiangere in quella famiglia che, dopo secoli, è stata sostituita da tante, diverse "famiglie".

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