La nascita dell’opera impresariale

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Stefano Tomassini
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Approdato a Venezia relativamente tardi, il melodramma è sottoposto nei teatri della Laguna a un processo di istituzionalizzazione commerciale che ne garantisce non solo la sopravvivenza, ma anche la diffusione. Allestite in giro per l’Italia da compagnie itineranti di musicisti, le opere veneziane, e soprattutto quelle di Francesco Cavalli, finiscono per creare un gusto operistico italiano omogeneo, valevole al di là dei confini politici che attraversano la penisola.

L’opera a Venezia e l’affermazione del sistema impresariale

Capitale di una repubblica, e priva perciò di una casata regnante, in grado di promuovere e allestire di fronte alla propria corte magnifici eventi spettacolari a dimostrazione di splendore e potenza, Venezia fino alla fine degli anni Trenta del Seicento non conosce l’opera.

Non che nella città lagunare lo spettacolo melodrammatico rimanga totalmente sconosciuto (nel 1630 Claudio Monteverdi compone su testo di Giulio Strozzi Proserpina rapita, un’azione scenica cantata da recitarsi in quello stesso palazzo della famiglia Mocenigo dove sei anni prima, nel 1624, si era rappresentato Il combattimento di Tancredi e Clorinda “in genere rappresentativo”), ma, confinato com’è alla privata iniziativa di qualche nobile famiglia, esso si consuma come evento riservato a un pubblico scelto e limitato, senza godere né della rilevanza celebrativa conferita dal contesto cortigiano delle opere fiorentine o mantovane, né dello sfarzo degli allestimenti romani.

Uno spettacolo concepito in quei termini non si potrebbe allestire in una repubblica come quella veneziana, i cui governanti, istituendo una figura di pubblico ufficiale come quella del Magistrato alle pompe, si dimostrano tanto attenti a controllare, disincentivare e, se necessario, reprimere ogni tentativo di autocelebrazione scaturito dai privati interessi di una famiglia.

Del tutto casuale sarà l’evento che porterà alla nascita e all’istituzione del teatro d’opera a Venezia. In pieno Seicento la capitale della Serenissima è una città dalla grande vitalità teatrale, dotata di teatri stabili ai quali si accede previo pagamento di un biglietto d’ingresso per assistere alle recite di compagnie stabili o di giro di comici dell’arte.

Nel 1629 uno di questi teatri, il San Cassiano, così chiamato perché situato nell’omonima parrocchia, viene distrutto da un incendio. Alcuni anni dopo, al momento di ricostruirlo su imposizione del governo dogale, la famiglia Tron, proprietaria del fabbricato, richiede e ottiene dal Consiglio dei Dieci che il nuovo teatro possa venir destinato non più a commedie bensì a spettacoli in musica “qual seprattica in più parte per lo diletto de l’insigni pubblici”.

Ricostruito in meno di un anno, nell’inverno del 1637 il teatro di San Cassiano, il primo teatro pubblico nella storia del melodramma, è inaugurato da una compagnia di musicisti e cantanti, di provenienza per lo più romana, con la messa in scena dell’Andromeda, opera di Francesco Manelli su libretto di Benedetto Ferrari.

Il successo dell’Andromeda va oltre ogni aspettativa, e l’anno successivo la stessa compagnia, alla quale anche Ferrari e Manelli appartengono, presenta sempre al San Cassiano una loro seconda opera, La maga fulminata. L’affluenza di pubblico e l’interesse per gli spettacoli sono tali che nel giro di soli tre anni a Venezia sono convertite all’allestimento di melodrammi o costruite ex novo altre tre sale.

Nel 1639 sono inaugurati, il teatro dei SS. Giovanni e Paolo, vecchio teatro di proprietà della famiglia Grimani, rinnovato e rifatto in pietra per l’occasione (prima rappresentazione la Delia di Strozzi-Manelli), e il teatro di San Moisè, di proprietà della famiglia Zane, già attivo per recite di tragedie e commedie (prima rappresentazione, a trent’anni dalla prima mantovana, la già leggendaria Arianna di Monteverdi).

E nel 1641 apre i battenti il Novissimo, teatro voluto (più con intenti accademici e ricreativi che commerciali) da una compagnia di nobili facoltosi, e inaugurato con la rappresentazione di un’opera destinata a fare epoca: La finta pazza di Francesco Sacrati su libretto di Giulio Strozzi.

Il fiorire di tanti teatri a pagamento non deve tuttavia generare equivoci sulla loro reale destinazione sociale: l’opera nasce come e in quanto spettacolo eminentemente elitario, e tale rimane per quasi tutto il Seicento, anche quando, con l’apertura proprio a Venezia dei primi teatri pubblici, diviene una forma di spettacolo alla quale chiunque può virtualmente (e solo virtualmente) accedere. L’opera del Seicento è pubblica, ma non popolare.

Il sorgere nel giro di pochi d’anni di quattro sale d’opera in reciproca concorrenza, e la conseguente necessità degli organizzatori di assicurarsi, per un successo di pubblico della stagione, quanto di meglio sia disponibile sulla piazza teatrale compatibilmente con il budget a disposizione (per l’allestimento di uno spettacolo ci si rivolge sempre meno a una compagnia precostituita, stabile o di giro che sia, e sempre più a singoli professionisti scritturati di volta in volta), porta in breve all’affermazione di una figura professionale assolutamente nuova, quella dell’impresario.

I compiti dell’impresario consistono nel mantenere i rapporti con i proprietari del teatro, con i quali sono stabilite stagione per stagione le condizioni di locazione della sala e dell’attrezzatura di cui questa dispone (scene, macchine, cordami, costumi); nell’ingaggiare con offerte economiche allettanti per periodi più o meno lunghi e più o meno in esclusiva compositore, librettista, scenografo e cantanti (scegliendo, se possibile, quelli più in favore presso il pubblico al momento); nel provvedere alle spese di apertura e manutenzione dell’edificio (illuminazione e riscaldamento della sala); nel pagare il personale necessario all’allestimento dell’opera e alla gestione del teatro (musicisti dell’orchestra, copisti di musica, personale di sala e tecnico).

L’utile che l’impresario ricava dal suo lavoro deriva dall’affitto stagionale dei singoli palchetti in cui il teatro risulta suddiviso, e dalla vendita spettacolo per spettacolo dei biglietti d’accesso.

Fondato sul doppio regime di introiti derivanti dall’affitto preventivo dei palchetti e dalla vendita dei biglietti, un sistema così concepito tutela l’impresario dall’eventuale mancato smercio di questi ultimi dovuto al fiasco di una produzione.

Non sarà perciò difficile individuare nel progressivo prender piede di un sistema di questo tipo una delle cause dell’affermazione su larga scala del teatro “a palchetti” all’italiana.

Al fine di trarre il massimo profitto da un nuovo sforzo produttivo, l’impresario incrementa il numero delle recite estendendolo, qualora l’opera abbia successo, fino al massimo consentito dalla durata della stagione. In quella di carnevale (dal giorno di santo Stefano al martedì grasso), ad esempio, la più importante e sino alla fine degli anni Sessanta l’unica, il numero delle repliche può variare dalle 15 alle 30 (un numero di recite comunque di gran lunga superiore a quello degli spettacoli allestiti nelle corti di Firenze, Mantova e Roma).

Inoltre la partitura dell’opera, che rimane proprietà dell’impresario, potrà da questi essere ceduta, in originale o in copia, a chi gliene faccia richiesta in vista di riprese extra-veneziane (è questo uno dei motivi per cui le opere prodotte a Venezia, a differenza di quelle date nelle corti di Firenze, Mantova e Roma, non godranno mai dell’onore della stampa).

Nonostante queste forme di introito, data la forte esposizione economica che comporta l’organizzazione di una stagione teatrale, l’impresario non si sottrae mai del tutto al rischio di fallimenti. Se infatti l’insuccesso di un’opera può difficilmente provocare la rovina di un’impresa teatrale (sono necessari più fiaschi consecutivi perché l’impresario bancarottiere sia perseguito, o come spesso accade, fugga in fretta e in gran segreto con i residui di cassa), esistono altri eventi che possono provocarne lo sfascio.

Tra questi la chiusura inopinata e di imprevedibile durata che i teatri devono osservare in tempi di guerra, e che con ogni probabilità è la causa del tracollo economico e del fallimento del Novissimo che, costretto alla chiusura coatta dal 1645 a causa delle difficoltà in cui la repubblica si trova nella guerra contro i turchi per il possesso di Candia, cessa definitivamente la sua attività nel 1647.

Caratteri morfologici dell’opera impresariale veneziana

Introdotto a Venezia nella sua accezione “romana” dalla compagnia di Ferrari e Manelli, il melodramma, trapiantato in un contesto socio-politico e funzionale nettamente differente, non tarda ad assumere un carattere nuovo schiettamente veneziano: l’inserimento dell’opera in musica in un sistema commerciale, lungi dall’interessarne solo il momento produttivo, si riflette anche sulla sua morfologia drammatica e musicale.

La necessità di ridurre all’osso il pagamento di maestranze artistiche “superflue” è causa del progressivo assottigliamento del numero di personaggi in scena, che dai 20 e oltre delle prime opere date a Venezia nei primissimi anni Quaranta (19 ne Il ritorno di Ulisse in patria di Badoaro-Monteverdi, 21 ne L’incoronazione di Poppea di Busenello-Monteverdi, 20 nell’Egisto di Faustini-Cavalli, per citare tre titoli celebri) si assesta verso i primi anni Cinquanta su valori più contenuti (circa 10 personaggi).

Una ulteriore conseguenza è la pressoché totale scomparsa dei momenti corali, che tanta fortuna avevano avuto nelle opere di corte dei primi decenni. L’opera veneziana non conosce il grande momento celebrativo che rende plausibili le magniloquenti apoteosi corali. L’unica celebrazione pubblica possibile, è quella della Serenissima Repubblica, alla cui illustre discendenza da Enea (mediata, in base a una discutibile proprietà transitiva, da una discendenza spirituale dalla Roma repubblicana) alludono non di rado i libretti ispirati alla mitologia greco-troiana.

Duplice è poi l’effetto del regime di concorrenza instauratosi tra i diversi teatri attivi a Venezia, grazie al quale ogni anno vedono la luce dalle tre alle cinque nuove opere. Da un lato, la produzione in serie di prodotti artistici che rispondano alle aspettative di un pubblico sostanzialmente omogeneo, implica un livellamento della qualità artistica generale. Dall’altro, la necessità di mantener deste l’attenzione e la curiosità in spettatori che, se affittuari di un palchetto (e i più lo sono), di norma assistono a più e più repliche di una stessa pièce, spinge alla produzione di opere che, senza differenziarsi troppo dal già noto, riescano a soddisfare allo stesso tempo le ovvie esigenze di novità.

È perciò rarissimo che a Venezia si riprendano opere già allestite in precedenza. E i pochi casi documentati sono la significativa conferma di un successo di pubblico straordinario: La finta pazza del 1641 è ripresa nel 1644; il Giasone di CicogniniCavalli del 1649, che con l’Orontea di Cicognini-Cesti è l’opera più rappresentata del secolo, viene ripreso nel 1666.

La ricerca che compositori e librettisti avviano per ottenere una dosata miscela di nuovo e vecchio di sicuro effetto, porta al cristallizzarsi di alcuni stereotipi drammatici e musicali (sempre uguali a se stessi e tuttavia sempre diversi in qualcosa), nei quali confluiscono motivi della vecchia e arcinota commedia dell’arte (la gloriosa tradizione che l’opera si avvia a rimpiazzare sulle scene italiane) e dell’ancora poco convenzionalizzata opera in musica.

È il caso dell’immancabile presenza di personaggi buffi o grotteschi, portatori di una comicità spesso giocata sul registro dell’osceno (servi più o meno ubriaconi, servette e paggi leggiadri e lascivetti, vecchie nutrici vogliose e scaltre, dall’etica amorosa assai pratica, soldati fanfaroni). Oppure dell’introduzione a carnevale in una città come Venezia, chiaramente ammiccante verso gli spettatori, di personaggi mascherati, camuffati o più genericamente in incognito, protagonisti di intricatissimi qui pro quo, nei quali il pubblico nobile veneziano vede se stesso sulla scena, ritrova i propri stratagemmi, i propri raggiri, ne apprende di nuovi, vede la propria realtà farsi finzione, pronto a sua volta a farsi interprete di un nuovo passaggio, inverso, dalla finzione alla realtà.

O ancora della “scena di pazzia” (già patrimonio del teatro dell’arte, e ripresa di frequente da La finta pazza in poi), dove la follia è ritratta scenicamente e musicalmente attraverso continue deroghe alle convenzioni attoriali e musicali.

Oppure della “scena del sonno”, nella quale un personaggio si addormenta in scena sulle note di una cullante aria cantata da un altro personaggio, o cantando egli stesso al suono di dolci melodie.

O, infine, della “scena-lamento” (dall’Arianna di Monteverdi la situazione di maggior patetismo melodrammatico), che proprio a Venezia, a partire dalla fine degli anni Trenta finisce per “condensarsi” in una vera e propria forma musicale, in un particolare tipo di aria, il lamento, con il quale cimenteranno, variandolo continuamente pur conservandone sempre intatta la riconoscibilità, intere generazioni di poeti per musica e operisti.

Diffusione dell’opera veneziana: dalle compagnie itineranti ai primi teatri stabili

La fama degli spettacoli operistici veneziani non tarda a uscire dai confini della repubblica, è già a partire dal 1640 compagnie di cantanti sono chiamate, terminato l’impegno della stagione di carnevale, a rappresentare in altre città del Nord Italia le opere date sulle scene lagunari.

I primi allestimenti documentati sono legati all’attività della solita compagnia di Ferrari e Manelli, ad opera dei quali a Bologna tra il 1640 e il 1641 vanno in scena la Delia (Strozzi-Manelli, 1639), Il ritorno di Ulisse in patria (Badoaro-Monteverdi, 1640), La maga fulminata (Ferrari-Manelli, 1639) e Il pastor regio (Ferrari-Ferrari, 1640).

A partire dal 1644 circa, altre compagnie consimili (dette spesso degli Accademici Febiarmonici), organizzate a somiglianza delle troupe di comici dell’arte, girano l’Italia diffondendo in modo sempre più capillare il repertorio operistico veneziano.

Ecco a titolo d’esempio l’elenco delle rappresentazioni extra-veneziane documentate di due opere famosissime: La finta pazza (1641), forse l’opera più rappresentata negli anni Quaranta, raggiunge Piacenza nel 1644, Firenze nel 1645, Genova e Bologna nel 1647, Reggio Emilia nel 1648, Milano forse nel 1651, Napoli nel 1652; l’Egisto (1643), la prima opera a portare il nome di Cavalli in tutta la penisola, è rappresentato a Genova nel 1645, a Firenze nel 1646, a Bologna nel 1647, a Ferrara nel 1648, a Napoli nel 1651, a Bologna e Bergamo nel 1659, a Palermo nel 1661, a Firenze e Modena nel 1667.

Il raggio d’azione di queste compagnie non è limitato al territorio italiano. È di certo da attribuirsi a due compagnie di Febiarmonici (da un certo momento in poi l’appellativo di “Febiarmonici” designa semplicemente una compagnia di artisti d’opera) la responsabilità degli allestimenti parigini de La finta pazza (1645) e dell’Egisto (1646), con i quali Mazzarino tenta di inoculare nella corte di Francia il gusto per l’opera italiana.

La necessità dei promotori locali di far fronte a una richiesta sempre maggiore di spettacoli, fa sì che a Napoli, prima tra le città italiane (nonostante l’opera vi sia giunta al seguito di una compagnia di Febiarmonici solo nel 1650), attecchisca con successo il sistema di produzione impresariale veneziano presso un teatrale stabile.

L’istituzione di teatri stabili si rivelerà una delle condizioni necessarie perché, assimilati i caratteri poetici e musicali, e apprese le tecniche drammaturgiche e compositive dell’opera veneziana, possa avviarsi la produzione autonoma in loco di nuove opere (senza però che l’importazione di opere da Venezia, fino alla fine del Settecento il più importante centro di produzione operistico d’Europa, venga mai meno).

A poco a poco, a partire dalla metà del secolo, il sistema impresariale veneziano ha la meglio, nei regni, ducati e principati in cui l’Italia è frammentata, sull’occasionale mecenatismo principesco. I principi potranno ancora intervenire sulle scelte tematiche delle opere messe in scena o sul reclutamento dei cantanti, chiesti non di rado in prestito agli altri principi presso i quali questi prestano servizio. Parteciperanno, a bilancio passivo, al saldo finale delle spese, ma in un sistema produttivo-organizzativo pubblico, a pagamento e a gestione “borghese” radicalmente diverso rispetto a quello della vecchia opera principesca.

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