La peste nera

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Maria Conforti
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

A metà Trecento, dopo un periodo di relativo benessere, la vita delle popolazioni di tutta l’Europa viene sconvolta da una catastrofe epidemica di proporzioni inaudite, che ha effetti profondi non solo a livello demografico, economico e sociale, ma anche sulle mentalità, sull’arte e sulla letteratura, e naturalmente sul sapere e la pratica medica. La peste – il nome “nera” è attestato solo dal Seicento, ma probabilmente risale a un periodo precedente – era una malattia solo relativamente nuova, ma poiché si era persa memoria delle ultime epidemie della tarda antichità, l’effetto che ebbe fu tanto più impressionante per coloro che vi assistono.

In tutta la storia dell’umanità, dopo la preistoria e fino al XIX secolo, le malattie infettive – a origine parassitaria, batterica o virale – furono le prime cause di mortalità. La spiegazione antica per le insorgenze epidemiche di questo tipo di malattie chiamava in casa la corruzione delle “arie, acque e luoghi” e il suo effetto sull’equilibrio umorale degli individui. Il meccanismo del contagio, pur osservato, era solo imperfettamente conosciuto e considerato dal sapere medico come un effetto della trasmissione degli umori imputriditi e “velenosi”. Negli ultimi secoli dell’Impero romano si verificarono diverse poussées epidemiche, come la celebre “febbre Antonina”, di cui fu testimone lo stesso Galeno. Tra le endemie si registrano la lebbra, diffusa a partire circa dal VI secolo dell’era cristiana, il vaiolo, e la malaria, inizialmente presente solo nelle aree meridionali del continente, ma poi diffusa anche nelle zone paludose e umide del nord. Particolarmente impressionante per i suoi effetti, che includevano allucinazioni e sintomi di tipo neurologico, è per tutto il Medioevo una malattia non infettiva, ma legata all’alimentazione e all’ambiente, trasmessa attraverso un fungo presente nella segale, cereale largamente utilizzato nella preparazione del pane.

La patologia

La peste si può presentare in diverse forme: bubbonica, caratterizzata dall’infiammazione dei linfonodi e trasmessa all’uomo da un parassita del ratto e di altri roditori; polmonare, a contagio interumano; e setticemica, più rara delle prime due, trasmessa dalle pulci. Le diverse forme sono caratterizzate da diversi decorsi e indici di letalità, e da un andamento stagionale: la peste bubbonica è più diffusa nelle stagioni calde, la polmonare in quelle fredde.

Negli ultimi anni si è aperto un vivace dibattito sul reale carattere delle epidemie di peste europee, in particolare di quella del 1348; benché sia stata avanzata da K.S. Cohn l’ipotesi che in questo, come in altri casi successivi, la malattia non corriponda a quella che oggi conosciamo come peste, e che è causata dal batterio yersinia pestis, non si sono raggiunti risultati definitivi di tipo paleopatologico, cioè verificati sperimentalmente su resti umani. La spiegazione generalmente accettata per il 1348 è che i sintomi descritti dai contemporanei, così come l’andamento dell’epidemia sul territorio e la sua stagionalità, corrispondano a un misto delle diverse forme di peste. La sola certezza che oggi abbiamo è che la mortalità fu altissima: nel giro di pochi anni – dalla fine del 1347 al 1350 circa – considerando la diffusione in aree più o meno lontane dai primitivi focolai di infezione, la peste uccide da un quinto a un quarto della popolazione totale europea. Si tratta solo di una media, che tiene insieme i dati sulle aree (come la Toscana) dove l’epidemia riduce la popolazione di circa il 50%, e le poche zone risparmiate, come la Polonia, la Boemia o i Paesi Bassi.

Una malattia “del benessere”

Una prima grave epidemia di peste, che colpì duramente Costantinopoli provenendo dall’Asia, si era verificata nel 542, sotto l’imperatore Giustiniano, da cui il nome (peste di Giustiniano). Dopo circa un millennio di latenza, la malattia colpìsce negli anni Quaranta del Trecento, di nuovo da Oriente; essa aveva infatti la sua origine nelle pianure dell’Asia centrale, e nei mutamenti nelle condizioni di vita dei roditori che le abitano. Benché l’Europa stia attraversando un periodo di relativo declino dopo il boom economico e demografico del Duecento e del primo Trecento, cui sono stati connessi fenomeni di carestia e di malnutrizione di alcune fasce della popolazione, la peste è di fatto una malattia veicolata dalla ricchezza di traffici e attività commerciali che collegavano i porti del Mediterraneo con le più remote località del continente.

Il percorso della malattia coincide in maniera impressionante con i percorsi dei commerci, in particolare quelli marittimi, e ne consente una ricostruzione. In questo senso, la peste del Trecento è una malattia “del benessere”, connessa, come quasi sempre le malattie infettive, allo spostamento di popolazioni e merci, a un generale incremento della popolazione e a fenomeni, come l’urbanizzazione, normalmente considerati uno specchio del miglioramento delle condizioni di vita.

La peste arriva in Sicilia, a Messina, su una nave genovese proveniente da est, probabilmente da Caffa; ne sono immediatamente colpiti i porti italiani, in particolare – oltre alla Sicilia – Genova e Venezia. Risalendo via mare e via terra verso nord, giunge in Inghilterra, attraversa la Germania e si propaga fino al Baltico e alla Russia, diventando in pochi mesi una pandemia. Inizialmente limitata alle città di mare, la malattia colpisce duramente anche l’entroterra, come nel caso di Firenze o di Siena. In Francia e in Renania l’epidemia risale i fiumi. Di fronte alla catastrofe, le autorità civili si sforzano di prendere misure adeguate, rivelando in questo momento di emergenza la presenza di reti sociali e organizzative sofisticate. Quasi tutte basate sull’osservazione del meccanismo del contagio, le misure messe in atto si rivelano però sostanzialmente inefficaci: risale solo al 1377 la prima organizzazione per la quarantena, a Dubrovnik. Ciò nonostante, emerge dalla documentazione l’interesse per la salvaguardia della salute dei cittadini, evidentemente già percepita come un bene primario.

Rimedi

Come reagiscono i medici di fronte alla peste? Il luogo comune, accentuato dallo scetticismo nei confronti della medicina che fu una delle conseguenze dell’epidemia, vuole che i medici siano nella maggior parte fuggiti di fronte alla malattia. La realtà fu più complessa, e in molti casi medici e di curanti sono morti nell’esercizio delle loro funzioni. La stessa sfiducia nella classe medica è limitata, come dimostrano i trattati scritti per il largo pubblico o episodi come quello di Filippo VI, re di Francia, che di fronte al diffondersi dell’epidemia chiede un parere esperto ai maestri della Facoltà medica di Parigi, ottenendone un Compendium de epidemia reso pubblico nel 1348.

Più interessante, probabilmente, è esaminare l’influenza che la peste ebbe sul sapere e sulla pratica medica. Anche in questo caso un luogo comune vuole che la ricca trattatistica prodotta sulla peste, e raccolta e studiata dagli storici della medicina da Karl Sudhoff a Vivian Nutton, sia sostanzialmente priva di interesse, ripetitiva e piena di antiquate superstizioni. Basterebbe un solo esempio a provare il contrario: Guy de Chauliac, medico alla corte papale di Avignone, riconosce rapidamente l’esistenza delle due forme, polmonare e bubbonica, della malattia. Ciò nonostante, è vero che la medicina non è in grado di offrire né una spiegazione eziopatogenetica convincente, in accordo con i fenomeni e i sintomi osservati, né forme di terapia efficaci. I rimedi principali che vengono applicati a livello individuale sono la flebotomia e i cauteri applicati ai bubboni, nonché alcune prescrizioni farmacologiche. La maggior parte delle prescrizioni, in accordo con una medicina incentrata, come si è visto, sul controllo delle res non naturales, è di tipo preventivo. Il consiglio di fuggire al primo manifestarsi dell’epidemia, e di non tornare se non dopo che fosse finita, non ne era che una forma estrema. Sul piano collettivo, si tentano forme ancora insufficienti di isolamento dei malati e delle merci provenienti dalle zone sospette, e si prendono misure di pulizia volte alla purificazione delle “arie” corrotte.

L’interesse dei medici universitari è rivolto a individuare le cause naturali della malattia e della sua diffusione, nonché il suo preciso quadro sintomatologico. Se in generale si concorda sulla causa prima, la divinità e la sua ira nei confronti delle popolazioni di peccatori, i trattati tendono però a concentrarsi sulle cause seconde, considerate di stretta pertinenza medica e filosofico-naturale. Nonostante si tengano in gran conto anche influenze celesti-astrologiche, la causa prossima della malattia è, per la maggior parte dei medici, “terrestre”, cioè da ricercarsi in un cambiamento d’aria – ad esempio l’emergere dalle viscere della terra di un miasma potentissimo, veicolato poi dagli umori putrefatti, e contagiosi, causati nei singoli individui. Secondo Jon Arrizabalaga non è vero che la spiegazione aerista escluda del tutto, almeno in questo periodo, quella contagionista; i due modelli tendono piuttosto a essere giustapposti. I medici universitari medievali consideravano piuttosto l’insorgenza della malattia come dovuta al miasma originario, e il successivo diffondersi del contagio al diffondersi del veleno e della corruzione: dunque due stadi successivi del medesimo processo.

La ricerca del capro espiatorio

Sul piano della mentalità la peste produce una catastrofe paragonabile a quella demografica. Il “disordine morale” cui viene attribuita l’epidemia, e la decisione divina di inviarla, restano nella trattatistica sulla peste, e nella mentalità comune, come causa primaria del suo insorgere almeno fino alla metà del XVIII secolo. L’insistenza su temi di morte nella cultura, nell’arte e nella letteratura europea, il riemergere di temi apocalittici, che sembravano accantonati nella cultura laica del primo Trecento, sono un fenomeno generalizzato.

Più grave e inquietante, specialmente se proiettato sul lungo periodo, è il tentativo di individuare “avvelenatori” che avrebbero diffuso volontariamente il veleno della peste. La ricerca del capro espiatorio, individuato in una minoranza della popolazione, cui si attribuscono comportamenti devianti e dunque colpevoli, è una caratteristica ricorrente delle pandemie a carattere contagioso, e ha colpito fino ad oggi società anche molto evolute. Nel Trecento il ruolo degli untori viene attribuito – in Francia meridionale e specialmente in Germania – agli ebrei, una minoranza religiosa i cui comportamenti erano da sempre sospetti, e in misura minore ai lebbrosi, che erano stati da poco sottratti all’ambiguo status di “impuri” per diventare oggetto di studi e attenzione medica. Massacri di ebrei si verificano in molte città e centri minori, intrecciandosi a fenomeni di religiosità penitenziale estrema, come quella dei Flagellanti, gruppi itineranti che organizzano cerimonie di autolesionismo collettivo di grande successo nell’atmosfera cupa indotta dall’epidemia. Le autorità ecclesiastiche e quelle civili e politiche prendono generalmente posizioni molto dure sia nei confronti dei penitenti e battenti che dei massacratori degli ebrei, senza però riuscire a controllarli o a impedire loro di agire. Nonostante l’emergere di questo lato oscuro, nella maggior parte dei casi documentati la “vita civile” continua ostinatamente, e i fenomeni di allentamento dei vincoli familiari e comunitari, descritti da diversi testimoni, sono relativamente di breve durata, rivelando un tessuto sociale e civile di notevole compattezza. Gli effetti della peste sul piano dei comportamenti demografici – strategie matrimoniali, riproduttive, di trasmissione del patrimonio – furono di grande importanza nel determinare la “rinascita” del secolo e mezzo che la seguì.

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