La poesia inglese

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Elisabetta Bartoli
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Nella storia della poesia inglese della prima metà del Seicento, accanto a Shakespeare e ai suoi straordinari e misteriosi Sonetti, la figura centrale è indubbiamente quella di John Milton, la cui parabola di poeta e prosatore corre parallela a quella della Rivoluzione, di cui egli è un convinto sostenitore. Immediatamente precedente è l’esperienza di John Donne, che esprime i dubbi e le incertezze dell’uomo di fronte alla crisi spirituale di fine Cinquecento, inaugurando la cosiddetta scuola metafisica. I poeti cavalieri continuano invece, per parte loro, la tradizione classicistica.

John Donne e la poesia metafisica

Nato nel terz’ultimo decennio del Cinquecento, John Donne si trova davanti alla crisi irrimediabile dei valori rinascimentali, a quella che è stata definita “la rottura del cerchio”, ossia la perdita della perfezione ideale e armonica rappresentata da questa figura geometrica.

John Donne

Busy old fool, unruly Sun

The Sun Rising

Stolto vecchio faccendiero, sfrenato Sole

perché così ci vieni

attraverso tende e finestre a ritrovare?

I tuoi moti seguire devono le stagioni degli amanti?

Pedantaccio insolente, va a sgridare

gli scolari in ritardo e gli acerbi apprendisti,

va a dire ai cacciatori della Corte che il re vuol cavalcare,

chiama le rustiche formiche al lavoro del raccolto;

l’amore, sempre eguale, non sa stagione o clima,

né ora, giorno o mese, che sono i brandelli del tempo.

Perché credi che siano

i raggi tuoi sì reverendi e forti?

Potrei eclissarli e velarli con un batter di ciglio,

senonché non voglio rinunciar così a lungo alla vista di lei;

se i suoi occhi non hanno accecato i tuoi,

guarda e dimmi, domani sul tardi,

se l’India delle spezie e quella delle miniere

son dove le lasciasti, o non giacciono invece qui con me.

Chiedi dei re che tu vedesti ieri

e ti diranno che son tutti qua in un letto.

Ella è tutti gli Stati, e io tutti i Sovrani,

null’altro esiste.

I sovrani non fanno che impersonarci; rispetto a questo

tutto l’onore è solamente mimica, tutta la ricchezza alchimia.

Tu, sole, felice la metà di noi

poiché il mondo si è ristretto tanto;

La tua età chiede sollievo, e poiché tuo è il compito

Di scaldare il mondo: lo fai noi scaldando

Splendi qui per noi, e sei ovunque;

Questo letto è il tuo perno, e queste mura la tua sfera.

Testo originale:

Busy old fool, unruly Sun,

why dost thou thus,

through windows, and through curtains call on us?

must to thy motions lovers’ season run?

Saucy, pedantic wretch, go chide

Late school-boys, and sour prentices,

go tell Court-huntsmen, that the King will ride,

Call country ants to harvest offices;

love, all alike, no season knows, nor clime,

nor hours, days, months, which are the rags of time.

Why shouldst thou think?

Thy beams so reverend, and strong

I could eclipse and cloud them with a wink,

But that I would not lose her sight so long:

if her eyes have not blinded thine,

look, and to-morrow late, tell me,

whether both th’Indias of spice and mine

be where thou left’st them, or lie here with me.

Ask for those Kings whom thou saw’st yesterday,

She’s all States, and all Princes, I,

and thou shalt hear, All here in one bed lay.

nothing else is.

Princes do but play us; compar’d to this,

All honour’s mimic; all wealth alchemy.

Thou, Sun, art half as happy as we,

In that the world’s contracted thus;

Thine age asks ease, and since thy duties be

To warm the world, that’s done in warming us.

Shine here to us, and thou art everywhere;

This bed thy center is, these walls thy sphere.

in Poeti metafisici inglesi del Seicento, a cura di G. Melchiori, Milano, Vallardi, 1964

La nuova filosofia, come Donne stesso scrive, mette tutto in dubbio: le nuove scoperte astronomiche segnano il passaggio da un mondo chiuso a un universo infinito, nel quale l’uomo si trova d’improvviso proiettato, senza più un centro, senza più certezze cui appigliarsi.

La perdita del centro, la consapevolezza di una lacerazione che non si può ricomporre si riflettono in una poesia aspra, inquieta, che mescola elementi e immagini appartenenti ai campi più diversi dell’esperienza, fondendo insieme sensualità e razionalità, pensiero e sentimento.

La definizione di poesia metafisica, usata inizialmente in senso negativo, mette in rilievo proprio la tensione oltre il dato concreto e particolare, che serve come punto di partenza, ma viene poi trasceso per attingerne, attraverso un tragitto imprevedibile, il significato metafisico. Pensiero e sensazione sono ancora, come dirà poi Thomas S. Eliot una potente unità.

I poeti metafisici attuano la fusione di piani diversi, accostando in modo inatteso immagini lontane, con effetti straordinari di straniamento, attraverso l’uso del wit, che per molti di essi costituisce un vero e proprio strumento conoscitivo e solo in un secondo tempo diventa veicolo di semplice arguzia verbale.

La poesia metafisica diviene così un’indagine conoscitiva, una ricerca attiva, una meditazione sui nodi essenziali del destino dell’uomo, a partire da una suggestione anche banale o quotidiana, che però, in un lampeggiamento fulmineo, svela le sue implicazioni cosmiche.

Della scuola metafisica, iniziata da Donne, fanno parte grandi lirici come Andrew Marvell, poeti mistici, come il cattolico Richard Crashaw ed Henry Vaughan, che si servono del wit come di uno strumento d’analisi dell’esperienza religiosa, ma anche imitatori di maniera, tra i quali Abraham Cowley e John Cleveland, che lo riducono il più delle volte a un abile esercizio di virtuosismo.

John Milton

Un posto a parte, nella storia della poesia inglese del Seicento, spetta a John Milton, la cui opera, attraverso un’ardimentosa sintesi culturale fra tradizione classica e religione cristiana, tende a creare una letteratura decisa a incidere attivamente sul mondo per cambiarlo.

John Milton

 Teoria e disciplina del divorzio, Libro I, prefazione  

Quale miglior istituzione per il conforto e la gioia dell’uomo che il matrimonio? Eppure, l’errata interpretazione di qualche passo della Sacra Scrittura, essenzialmente rivolto contro gli abusi della legge sul divorzio data da Mosè, ha non di rado mutato la benedizione del matrimonio in una comune penosa convivenza; o, per lo meno, in una triste e sconsolata prigionia domestica senza scampo o rifugio. A tale sfrenata e stolta cosa ci sospinge la superstizione, da un estremo di arbitrio e di libertà, all’altro di prigionia inesorabile. Ché, sebbene nell’istituire il matrimonio Iddio ci abbia edotti sul fine di esso, in termini che manifestamente implicano l’armoniosa e piacevole corrispondenza fra uomo e donna, acciocché quegli ne fosse confortato, e salvaguardato dai mali della vita solitaria, senza che si accennasse allo scopo della procreazione se non in seguito, essendo esso solo secondario dal punto di vista della dignità benché non da quello della necessità; tuttavia ora, se due sono stati una sola volta uniti dalla Chiesa, e hanno provato in qualche modo la gioia del letto coniugale, è da augurarsi che essi non debbano mai accorgersi di essersi ingannati nei loro rapporti in seguito a errori, simulazioni o disgrazie sì che a causa della diversità del loro carattere, della loro mentalità, e delle loro opinioni, essi non possano essersi di reciproco aiuto contro la solitudine, né vivere in alcun modo serenamente uniti tutta la loro vita; e tuttavia vi sono costretti, se solo saranno provveduti della pur minima possibilità del godimento sensuale, nonostante la loro avversione a vivere in armonia e a cooperare come possono contro la loro indicibile sfiducia di ogni sincero diletto nel decreto che Dio stabilì precisamente a quel fine. Qual sventura è mai questa; e come sospirerebbe il Savio, se fosse in vita, nella sua espressione: “qual tristo male sotto il sole!”. Il quale possiamo giustamente ascrivere a nessun’altra causa se non alla legislazione ecclesiastica e ai suoi seguaci, che non hanno preso consiglio della carità, interprete e guida della nostra fede, ma si son fermati alla lettera del Testo. Indubbiamente, è stata l’astuzia del demonio a rendere l’istituzione del matrimonio insopportabile, che ha potuto far regnare l’arbitrio più sfrenato, sia fra coloro che non osano arrischiarlo, sia tra quelli che ne sono stanchi. Fu per molto tempo che il matrimonio giacque in disgrazia presso la maggior parte degli antichi Dottori, che lo ritennero malizia carnale, quasi corruzione, e fu severamente negato ai preti, e poi sconsigliato a tutti, come chi legga Tertulliano o San Gerolamo può ampiamente rilevare. In seguito fu ritenuto così sacro che nessun adulterio o diserzione era in potere di scioglierlo; e così si ritiene a tutt’oggi nei tribunali ecclesiastici d’Inghilterra (ma non di altre Chiese riformate) i quali tuttora lo tengono anche sotto una condanna, grave quanto le altre due erano ignobili o superstiziose, e altrettanto ingiusta, e contraria alla legge non soltanto scritta da Mosè, ma segnata in noi dalla natura, e più antica e di più profonde radici che non il matrimonio stesso; la quale legge è di non sforzare nulla contro le sane esigenze della natura; e tuttavia, perché ciò possa speciosamente accadere, le parole del Redentore sul divorzio sono come rapprese in un rigore di pietra, incompatibile sia con la sua dottrina che con il suo operato, e ciò che egli predicò unicamente alla coscienza è dalla tirannia ecclesiastica soffocato nella censura coercitiva di una corte giudiziaria; dove le leggi sono imposte persino contro la sacra e occulta forza dell’impronta della natura, in modo che si debba amare qualunque cosa per la quale si senta ripugnanza. Il che è un’odiosa barbarie sia contro la dignità del matrimonio, che contro la dignità dell’uomo e della sua anima, il bene della Cristianità, e ogni umano rispetto della civiltà.

in Le più belle pagine della letteratura inglese. Vol. II. Dall’età di Milton a oggi, a cura di F. Ferrara, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1960

In Milton sono sempre presenti tanto l’umanista, educato sin dall’infanzia al culto dei classici, quanto il patriota protestante, cui la Rivoluzione puritana offre la possibilità di porsi al servizio del proprio Paese, con intrepida passione ed entusiasmo.

Dopo la condanna a morte di Carlo I, Milton, ne attacca aspramente l’operato e sostiene nell’Eikonoklastes (1649) che il popolo ha il potere di deporre e far giustiziare i sovrani che non ne rispettino i diritti.

Oltre a svolgere mansioni di cancelliere per il governo puritano, occupandosi della corrispondenza in latino, Milton ne difende l’operato davanti all’Europa con due trattati intitolati Pro populi anglicano defensio (1654).

Milton sente profondamente l’esigenza di combattere il male ovunque si annidi, di dare un ordine al mondo, portando a compimento quelle che erano state le ambizioni della Riforma protestante in Inghilterra: pertanto scende ripetutamente in campo con pamphlets e libelli polemici.

L’occasione di uno scritto gli può derivare dalla generalizzazione di esperienze personali, come nel caso della difesa del divorzio o degli opuscoli sull’educazione e la libertà di stampa; oppure da un dibattito in corso, come quello sull’organizzazione ecclesiastica, nel corso del quale Milton attacca duramente i prelati, sostenendo la struttura presbiteriana della Chiesa.

Conclusasi l’esperienza rivoluzionaria, Milton paga di persona la propria adesione agli ideali che l’avevano guidata, restando per alcuni mesi in carcere. Quindi, per uno strano paradosso del destino, si trova a ottenere grande successo con la pubblicazione del suo poema, il Paradiso perduto, in una società nella quale ormai non crede più.

Il Paradiso perduto

Fin dalla sua gioventù Milton ambisce a una poesia solenne, sull’esempio del Tasso epico, che tratti argomenti nobili e grandi e che sia insieme d’insegnamento per la nazione. Anche della religione lo affascinano gli aspetti eroici, la lotta vittoriosa contro il male (come quella di Cristo tentato nel deserto, che sarà poi oggetto del Paradiso riconquistato).

Milton è convinto che il soggetto del suo poema debba essere tratto dalla storia nazionale, ma quando le sue speranze politiche cominciano a crollare decide di cambiare tema, scegliendo l’argomento originario, la prima disobbedienza, l’inizio della storia dell’uomo.

Supremo tentativo di fondere la tradizione classica e quella cristiana, di proporsi come summa della poesia occidentale, il Paradiso perduto, scritto in un blank verse sonoro e scandito, solenne e musicale, costituisce il capolavoro della letteratura del Seicento inglese. Ma al tempo stesso il Paradiso perduto segna anche un ripiegamento, una sconfitta: come, dopo la caduta, Adamo ed Eva si accingono a una vita di fatica sulla terra; così anche Milton, perduta l’illusione che la Rivoluzione possa riportare il paradiso in terra, si ritira deluso in se stesso, a coltivare la propria virtù privata.

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