La polemica sulla 'Voce' tra filosofi ‘amici'

Croce e Gentile (2016)

La polemica sulla «Voce» tra filosofi ‘amici’

Giuseppe Cacciatore

Il confronto sulla storia e sul marxismo

La più avvertita letteratura critica è ormai concorde nel considerare la cosiddetta «discussione tra filosofi amici» – secondo un’espressione dello stesso Croce – del 1913-14 come il momento dell’esplicitazione di un dissenso che, in forme più o meno palesi o addirittura non pubblicamente manifestate per ragioni di opportunità – è il caso della recensione gentiliana del 1907 al Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907), lasciata inedita e pubblicata solo nel 1920 in Frammenti di estetica e di letteratura – fin dall’inizio toccava il nerbo teorico di due modelli divergenti di idealismo, di due diverse interpretazioni di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, di due contrapposte genealogie (da un lato, la linea di Bertrando Spaventa seguita da Gentile, dall’altro, quella di Francesco De Sanctis cui si richiamava Croce), infine di due confliggenti idee di unità di filosofia e storia. Ciò che impediva che al dissenso venisse dato più spazio, rispetto alle ragioni pur non trascurabili dell’amicizia che fu almeno all’inizio vera e ricambiata, era la consapevolezza che dovesse su tutto prevalere quel programma di politica culturale elaborato fin dai primi anni del Novecento e che riguardava la formulazione di un modello di storia italiana, il quale non appariva solo come esito di un pur importante esercizio storiografico, né solo come il prodotto di una scelta di particolari oggetti di indagine, letteraria quella di Croce e filosofica quella di Gentile, ma come un organico progetto di riscrittura della storia nazionale, al fine di rintracciare in essa quei fili sparsi, ma anche quelle strutture più complesse di una tradizione risorgimentale e nazional-liberale che doveva confluire nell’annunciato disegno di costruzione e consolidamento della «nuova Italia» (cfr. Cacciatore 2010, pp. 477 e segg.).

Se è dunque individuabile nel quinquennio 1909-13 il periodo di massima concentrazione degli elementi di dissenso filosofico e di aperta polemica, resta, tuttavia, il dato di fondo di un rapporto che sin dall’inizio non era mai stato privo di sfumature e diversità, sia pur dentro il comune disegno teoretico idealistico. Lo riconosceva Croce nella lettera a Gentile del 22 novembre 1913, quando scriveva che alla meraviglia di qualcuno per il dissenso tra loro

ho risposto a tutti, ridendo, che mi meravigliavo della loro meraviglia, perché quel certo dissenso c’era stato sempre tra noi due e non solo non aveva impedito, ma era stato condizione di sana collaborazione, di amicizia sostanziale, di serietà (Lettere a Giovanni Gentile. 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, pp. 451-52).

Su questo punto concordi sono i giudizi dei maggiori interpreti e studiosi di Croce e Gentile. Di «diversità genetica e concettuale insorta già agli inizi del loro rapporto» parla Giuseppe Galasso (2002, p. 169). A sua volta Fulvio Tessitore fa risalire le prime differenze già al 1895, quando Gentile discuteva i primi scritti di Croce sulla teoria della storia e quando, poco dopo, venne profilandosi una diversa interpretazione del materialismo storico: una «filosofia della storia di origine hegeliana» per Gentile; una «metodologia, storicisticamente e filosoficamente consapevole, della realtà storica» per Croce (Tessitore 2012, pp. XI e 593-96). Raffaello Franchini, a sua volta, segnalava, in un suo intervento del 1980 (Franchini 1982, p. 155; cfr. anche Franchini 1978, pp. 116 e segg.) come la diversa interpretazione di Hegel, manifestatasi già nel 1907, doveva mutare completamente la «prospettiva “unitaria” e “collaborazionistica”». Si trattava, in fondo, della progressiva presa d’atto della inconciliabilità tra la prospettiva storico-dialettica di una filosofia della distinzione (Croce) e la prospettiva assolutamente idealistica di una filosofia monistica (Gentile). Qui sta

la vera, l’ultima radice della differenza tra Croce e Gentile […]; le filosofie di Croce e Gentile, lungi dall’essere assimilabili, identificabili sotto la medesima etichetta, si proponevano come due diverse visioni del mondo (e della storia e della politica e dell’etica) (Cotroneo 1994, p. 19).

Prima, allora, di passare a una rilettura critica dei testi (ma anche delle lettere risalenti allo stesso periodo) della discussione, è forse opportuno verificare la validità di una traccia interpretativa – peraltro, come si è visto, quasi generalmente accolta – che tende a individuare i motivi di dissenso, sia pur non così netti e poi addirittura traumatici, fin dai primi anni del sodalizio filosofico-culturale e amicale. Si pensi, per es., alla recensione che Gentile pubblicò su «Studi storici» nel 1897 sui Primi scritti di B. Croce sul concetto della storia (ora in Frammenti di estetica e di teoria della storia, a cura di H.A. Cavallera, 1992, pp. 121-35). Qui, pur cogliendo il nocciolo della visione crociana della storia, preoccupata di salvaguardare la realtà del singolo e del particolare da ogni riduzionismo aprioristico, già emergevano i segni sia pur sfumati di una diversa considerazione filosofica della storia. Anche nella manifestazione esplicita di un consenso rispetto alla chiarificazione crociana dei rapporti tra storia, arte e scienza, ciò che preme a Gentile è la definizione unitaria di un ambito più ampio e unitario di realtà costituito dal pensiero, del quale arte e storia rappresentano articolazioni concettuali (cfr. pp. 124-25). Tra il reale e il possibile non vi può essere distinzione di fatto, ma solo relazione tra parti di un medesimo tutto.

Ma elementi di ancora più evidente differenza si ritrovano a proposito del negativo giudizio di Croce sulla filosofia della storia. Se in quest’ultimo – con una linea di continuità che attraversa tutto il suo percorso di pensiero – appariva chiaro il rifiuto di ogni idea metafisica della realtà storica, ma anche di ricerca di leggi e di fattori storici quali presupposti di ogni agire e di ogni evento (cfr. B. Croce, Il concetto della storia nelle sue relazioni con il concetto dell’arte, 1896; Tessitore 2012, pp. 55 e segg.), in Gentile appare già profilarsi l’improponibilità di un’idea dei fatti sconnessa e autonoma rispetto all’unica vera realtà dello spirito.

I fatti sono tali per noi in quanto si rappresentano nello spirito; e in tanto se ne può discorrere e filosofare, in quanto sono stati già appresi ed elaborati dallo spirito stesso (Frammenti di estetica, cit., pp. 131-32).

Sia pur con una concessione a un ruolo autonomo del metodo storico e della narrazione storica, ciò che per Gentile viene in primo piano è la distinzione tra la metodica utilizzata dallo storiografo e una metodica prettamente filosofica quale ci è offerta dal primato della filosofia speculativa, un primato talmente comprensivo da mantenere ancora plausibile la filosofia della storia. La diversa valutazione della filosofia della storia doveva emergere ancora più nettamente nel 1903, in Il problema della filosofia della storia (cfr. pp. 141 e segg.) quando la relazione tra storia e filosofia è affidata a una differenza logico-gnoseologica, preludio di quella che poi diverrà differenza metafisico-ontologica, sciolta e risolta nell’unità dello spirito come atto puro.

Il filosofo della storia presuppone la conoscenza piena della storia come materia al suo filosofare; e non può avere altro ufficio che di scoprire la logica interna degli avvenimenti quale egli la vede ripercorrendo la storia apprestatagli dalla storiografia (p. 146).

Si può allora sostenere come negli anni che precedono la prima sistemazione teoretica di Gentile – avviata con la conferenza palermitana del 1912 e manifestatasi in modo organico tra il 1916 e il 1917 (quando appaiono in successione Teoria generale dello spirito come atto puro, I fondamenti della filosofia del diritto e il primo volume del Sistema di logica) – già potessero intravedersi alcune evidenti linea di frattura, ancora ‛sotto traccia’ e restate nei limiti della forma rispettosa del confronto tra amici. Era avvenuto, come si è visto, nelle pagine dedicate ai saggi crociani sulla storia, ma come molti studiosi hanno sostenuto (cfr. Tessitore 2012, pp. 56 e segg.; Galasso 2002, pp. 169 e segg.) le prime avvisaglie si erano già viste quando l’acuta e originale interpretazione gentiliana di Karl Marx, basata, com’è noto, su una «visione creativa della prassi nel suo risolversi nell’attività continuamente produttiva del pensiero» (Cacciatore 2003, p. 100), costituiva un evidente precorrimento delle future riflessioni sulla teoria generale dello spirito. Si comprende, allora, come Gentile – in ciò differenziandosi dall’interpretazione che del marxismo aveva dato Croce – fosse spinto, nella Filosofia di Marx del 1899, a sottolineare la centralità della filosofia della storia nel dispositivo teorico di Marx. Ma il contrasto delle interpretazioni era già abbastanza chiaro nello scambio epistolare del 1897, quando Gentile criticava la riduzione crociana del marxismo a canone di interpretazione storica, che finiva con il privare il comunismo della sua capacità di «antivedere un processo futuro» basato su antitesi e contraddizioni, ma pur sempre collocato lungo una linea di sviluppo tipica della filosofia della storia (cfr. Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 1° vol., 1972, pp. 31-32). Si scorgono già qui i prodromi della differenza tra la visione storicistica crociana (incentrata sull’idea della distinzione e sulla uguale legittimità dei saperi particolari) e quella attualistica gentiliana (preoccupata di costruire un’idea logicamente assoluta e filosoficamente univoca di pensiero).

Un ulteriore momento di confronto, dopo quello del 1903, incentratosi, come si è visto, sulla diversa considerazione della filosofia della storia, è senza dubbio rappresentato dalla prolusione palermitana del 1907 sul Concetto della storia della filosofia. Croce, come si evince dalla lettera inviata a Gentile il 26 gennaio del 1907, sperava ancora in un ‘ravvedimento’ del suo più giovane amico e gli sconsigliava di pubblicare la prolusione che restava un momento incidentale nell’analisi dell’hegelismo e lo spingeva piuttosto a dare una «trattazione sistematica» e, così facendo, «urterete in tali difficoltà che sarete costretto a correggere qualcosa nei principi stessi». La prolusione, continua Croce – e qui sta il fulcro del dissenso –, pubblicata autonomamente farebbe restare Gentile ancora dentro l’hegelismo tradizionale.

Non sarebbe per voi fastidioso se, dopo qualche tempo, raccogliendo i frutti delle vostre meditazioni, doveste più o meno rinnegare la vostra prolusione universitaria? (Lettere a Giovanni Gentile, cit., pp. 231 e segg.).

Gentile, nella lettera di risposta del 28 gennaio 1907, accoglieva con molta condiscendenza il suggerimento e dichiarava che avrebbe messo «a dormire per ora la mia prolusione fino a quando potrò mettere insieme il materiale del volumetto, di cui vi parlai: aspettando se nel frattempo il mio pensiero si maturasse modificandosi» (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., 1976, p. 25). E quel pensiero certamente maturò e si modificò, ma non nella direzione che avrebbe voluto Croce. Com’è noto, l’anno successivo la prolusione veniva pubblicata nella «Rivista filosofica» di Carlo Cantoni e Croce, ricevendo l’estratto, si mostra ancora convinto che le distanze in merito al rapporto filosofia e storia, filosofia e storia della filosofia, potessero essere appianate:

Ti farò vedere i risultati a cui sono giunto. Non sono in tutto i tuoi; ma mi sembra che, se la mia veduta è sbagliata, non dovrò fare che un piccolo passo per giungere alla tua; e così tu, se la tua è sbagliata, per giungere alla mia (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 326).

L’amicizia ancora salda prevaleva per il momento sulla consapevolezza delle distanze filosofico-speculative, ma ancora per poco. Basti considerare che siamo a ridosso del plesso di formulazioni crociane sulla storia, affidate in buona parte ai Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro del 1905, in cui la storia veniva considerata come «conclusione dello spirito teoretico»; e proprio perché la storia si colloca al di sopra e al di fuori delle altre categorie dello spirito (l’arte, l’economica e l’etica), essa non può che identificarsi con la filosofia. Erano le posizioni che sarebbero poi sfociate in Teoria e storia della storiografia (in modo particolare il riferimento va alle pagine scritte nel 1912 per l’«Annuario della biblioteca filosofica» di Palermo e poi rifuse nel volume del 1917, dedicate al tema della dissoluzione della filosofia della storia), dove proprio la negazione della filosofia della storia veniva a essere il punto dal quale muovere per fondare il principio della distinzione-relazione tra particolarità e unità, assunto polemicamente contro ogni aprioristica e monistica scienza dell’essere. Era la prosecuzione della diversa interpretazione della filosofia di Hegel, diventata, come ben si è visto, palese nel giudizio abbastanza critico che Gentile aveva dato della monografia crociana del 1907 e nelle osservazioni che a sua volta Croce aveva mosso alla prolusione palermitana. Tuttavia, siamo ancora in un fase in cui, come ha osservato Eugenio Garin, la revisione delle proprie posizioni non induce Gentile a disconoscere la fedeltà agli orientamenti iniziali.

Quel decennio circa di elaborazione, sbocciato nella produzione palermitana fra il 1907 e il 1911, in cui ormai l’attualismo si delinea con precisione, è senza dubbio caratterizzato da una costanza di temi, e da una fedeltà di ispirazione, che non contrastano né con la tensione di certe aporie sempre riemergenti, né con la presenza di difficoltà non superate (Garin 1991, p. 55).

In effetti, proprio la prolusione palermitana con la sua teoria del circolo di filosofia e storia della filosofia (che era poi la coerente esplicitazione teorica dell’iniziale idea dell’identità fra storia e filosofia della storia) doveva marcare la distanza dal convincimento di Croce della necessità di tenere distinti filosofia e storia, una distinzione che polemicamente Croce faceva risalire allo stesso Hegel «quando dice che la filosofia considera l’idea pura nell’elemento del pensiero, e la storia la cala nell’empirico e nell’individuale» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 224). Viene qui allo scoperto il punto di maggiore divaricazione tra l’idealismo storicistico di Croce e l’idealismo attualistico di Gentile, reso pubblico, come si è visto, dopo una lunga incubazione, nella discussione fra filosofi amici.

Il dissidio sull’idealismo

Fu Croce, per così dire, a prendere l’iniziativa di rendere pubbliche le ragioni del dissenso, come forse era giusto che fosse per chi era oggettivamente considerato l’iniziatore del rinnovamento e della riforma della filosofia idealistica. Ma, come tra gli altri ha osservato Galasso,

a ogni tappa dello svolgimento filosofico di Croce Gentile aveva avuto l’occasione di avanzare riserve, precisazioni, perplessità, critiche che, con l’andar del tempo, vennero formando una vera e propria cortina logico-filosofica fra loro (Galasso 2002, p. 173).

Dunque, la «discussione fra filosofi amici» fu inaugurata da Croce quando questi dovette alla fine prendere atto di come stessero ormai divaricandosi le rispettive posizioni e, in modo particolare, quando era stata concettualmente pensata e semanticamente definita la filosofia dell’idealismo attuale. Nella prefazione alla Riforma della dialettica hegeliana del 1913, Gentile ripropone, ancora una volta implicitamente criticando la filosofia dei distinti crociana, l’identità di storia e filosofia, secondo la quale tutta l’empiria si risolve nel pensiero, e il pensiero dimostra la sua apriorità e assolutezza, ossia la sua realtà, dando vita alla vera filosofia dell’immanenza assoluta.

Malgrado i tentativi di mantenersi dentro i limiti di un dissenso filosofico che non incrinasse il rapporto di amicizia (cfr. Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., pp. 225-26; Lettere a Giovanni Gentile, cit., pp. 451-54), la situazione precipitò quando Croce manifestò tutta la sua irritazione verso le critiche che gli vennero mosse dagli scolari di Gentile, in modo particolare da Adolfo Omodeo nella memoria pubblicata nell’«Annuario della biblioteca filosofica» di Palermo nel 1913, dove la posizione crociana veniva contestata alla radice alla luce del principio ispiratore dell’attualismo: l’identità tra il processo della storia e «il processo di realizzazione del perenne programma della filosofia» (cfr. A. Omodeo, Res gestae e historia rerum, «Annuario della biblioteca filosofica», 1913, rist. anastatica a cura di P. Di Giovanni, 2000, p. 28).

Fu Croce a volere che il luogo della discussione non fosse «La Critica», ma «La Voce» di Giuseppe Prezzolini, quasi a voler tener fuori dalla polemica ciò che rappresentava il frutto più importante e visibile di un sodalizio e di un’impresa filosofico-culturale che costituivano certamente uno dei motivi più originali e caratterizzanti della cultura italiana di inizio secolo. I testi a cui faremo riferimento sono i tre saggi che apparvero, appunto, sulla «Voce» fra la fine del 1913 e l’inizio del 1914: l’articolo di Croce Intorno all’idealismo attuale (13 nov. 1913, 46, poi ristampato come Una discussione tra filosofi amici, in Conversazioni critiche, serie II, 1918, 19504, pp. 67-82); la lettera di Gentile a Croce Intorno all’idealismo attuale. Ricordi e confessioni (11 dic. 1913, 50, poi in Saggi critici, serie II, 1927, pp. 11-35); le Postille a una risposta di Croce (13 genn. 1914, anch’esse poi apparse in Conversazioni critiche, cit., pp. 83-95).

L’inizio dell’intervento crociano è, per così dire, tranchant, dal momento che affronta subito l’argomento con un perentorio: «Il vostro idealismo attuale non mi persuade» (Conversazioni critiche, cit., p. 67) – i destinatari del saggio-lettera sono gli amici della Biblioteca filosofica di Palermo, innanzitutto Gentile, «primo fra tutti così nel valore come nell’amicizia» (p. 67). È ben vero, sostiene Croce con un evidente tentativo di ricondurre gli esiti dell’idealismo gentiliano alla matrice comune della critica al sistema hegeliano e al suo dualismo insuperato, alla sua «Metafisica della Mente», che vi è una comune opera di riduzione della filosofia a «pura Filosofia dello spirito» e di collocazione sul medesimo terreno dello spiritualismo assoluto. «Ma allorché soggiungete: “idealismo attuale”, nasce il dissenso; e nasce dal modo in cui voi intendete l’attualità» (p. 68).

Tuttavia, il problema, per Croce, va al di là della considerazione, centrale anche per lui, della natura dell’atto spirituale e arriva a toccare il vero nervo scoperto del contrasto: il problema della distinzione delle forme dello spirito e il concetto stesso dello spirito come circolarità e ricorso. Per questo, il significato che l’idealismo gentiliano dà all’idea di attualità trascende ogni distinzione perché è astratta la distinzione stessa filosoficamente intesa. Al concetto concreto, che è unità nella distinzione, si contrappone una «concretezza senza concetto» (p. 68). Ma ecco il punto certamente più polemico dell’analisi crociana.

Voi volete starvene immersi nell’attualità, senza veramente pensarla; perché pensare è unificare distinguendo o distinguere unificando, il che voi considerate come un trascendere l’attualità. Perdonate; ma codesta è la schietta posizione mistica, e si esprime, o piuttosto non si esprime, nell’Ineffabile (p. 68).

Questa tendenza al misticismo si mostra nella contraddizione evidente di una teoria che finisce con l’atteggiarsi a misticismo idealistico e al contempo storico. Anche il tentativo di identità tra atto e pensiero, affidato alla deduzione nell’atto della natura come pensiero nel suo cominciamento, appare a Croce altrettanto impacciato e oscuro quanto il passaggio hegeliano dal Logo alla natura.

Per mia parte, mi ero industriato a dedurre la natura in senso astratto come un prodotto della forma pratica dello spirito […]; e la natura, in senso concreto, come la stessa forma pratica dello spirito, nella sua immediatezza di vita, di passione, di volere economico (p. 70).

Anche le argomentazioni utilizzate per giustificare il passaggio dall’attualità alla storia appaiono per Croce ingiustificate, proprio perché la conseguenza dell’attualità immanente finirebbe per condurre la realtà, storica e spirituale, dentro la dimensione di un presente immobile in cui verrebbero cancellati non solo gli opposti, ma anche, ciò che al filosofo dei distinti stava certamente a cuore, ogni distinzione. Quello di Gentile e dei suoi allievi non è più idealismo né spiritualismo (giacché ponendo la natura come entità metafisica prodotto dello spirito stesso, mette in discussione lo spirito come unica realtà) e neanche storicità

che importa dramma delle forme spirituali l’una alimentante l’altra e tutte insieme crescenti sopra sé stesse, in quanto eterno lavoro che passa dalla vita e dalla volontà all’immagine, dall’immagine al pensiero, e dal pensiero di nuovo alla vita e alla volontà, premesse di una più ricca immagine e di un più ricco pensiero e di una più ricca vita. Il vostro è misticismo che indarno tenta superar sé stesso (p. 71).

L’origine dei fraintendimenti gentiliani dell’idealismo è tutta da ritrovare né in Immanuel Kant, né in Hegel, ma nello Spaventa che, pur avendo dato una svolta importante alla filosofia italiana, finì con l’essere «divorato dall’ansia religiosa dell’unità» (p. 71) e con l’approdare, appunto, al misticismo dell’astratta unità di pensiero ed essere.

Emerge sempre più, nel prosieguo dell’argomentazione crociana, il vero punto di discrimine, rappresentato dall’ormai sancita inconciliabilità tra una filosofia dell’unità di atto e pensiero e una filosofia della relazione tra particolarità e unità. Proprio per questo, l’idealismo attuale doveva sembrare a Croce addirittura come «una filosofia la quale si propone di liquidare la filosofia» (p. 72) che è fatta di dispute e argomenti basati su distinzioni e relazioni e, dunque, nell’ottica attualistica, astratte e arbitrarie.

Io la penso diversamente, perché considero che i problemi filosofici, che hanno agitato gli uomini, si riducono tutti a problemi di Psicologia trascendentale o di Filosofia dello spirito, a schiarimenti e approfondimenti delle forme dello spirito e delle loro relazioni; e tutti, […], si sono sempre aggirati, e si aggirano, sui concetti del Vero, del Buono, del Bello, dell’Utile, o sui loro sinonimi (p. 73).

L’opzione crociana per la particolarità e la distinzione era dunque quanto di più lontano dall’identità di atto e pensiero, giacché fin da adesso – e non solo nelle riflessioni dell’ultimo Croce (cfr. Cacciatore 2005, pp. 59-92) – si delinea il ruolo determinante che ha l’idea di vita nella costruzione della filosofia storicistica: una «filosofia affatto coincidente con la vita» (Conversazioni critiche, cit., p. 73), che si rinnova in ogni momento e, proprio per questo, nemica di ogni dottrina che voglia una volta per tutte sciogliere l’enigma della realtà, dal momento che non esiste l’enigma, ma gli infiniti enigmi della realtà che non si esauriscono mai. Ed è questa visione antidogmatica e plurale della realtà e dei suoi contrasti che Croce mette in campo quando vuole criticare un altro degli errori che derivano dalla «acquiescenza al fatto come fatto e all’atto come atto»: una teoria del male e dell’errore «da voi attenuati sino alla completa vanificazione e privati di ogni realtà» (p. 75). Croce non può accogliere l’idea dell’errore come verità passata e del male come moralità passata.

Giovandomi della distinzione di vita e di pensiero, ho detto che quel che si chiama errore non è già il pensiero passato, ma il non pensato, un atto di vita che, adoperando la vuota spoglia del pensiero, la parola o piuttosto il suono, dà non il pensamento, ma l’illusione del possesso del vero (p. 77).

La soluzione che non convinceva Gentile è in buona parte da ricondurre a quella dialettica dei distinti che cozzava fortemente con la filosofia attualistica. Alla forma pratica, distinta da quella etica, ciò che nella coscienza morale appare come male, fuori di essa non è né morale né immorale «perché è la forma economica, utilitaria e passionale dello spirito, che la moralità deve negare in sé, e non può non negare se prima lo spirito non l’abbia posta» (p. 77). Ma la disputa sul male e sull’errore e la rivendicazione del ruolo dell’utile-pratico non solo nella delineazione della filosofia dello spirito, ma anche nell’intellegibilità stessa della storia dell’etica, fanno da preludio all’attacco finale all’idealismo attuale e alla sua tendenza

a consentire col fenomenismo e col positivismo (positivismo assoluto). Ridotto tutto al prima e poi, al passato e al presente, non rimane altro che l’atto, il quale, così indifferenziato, non si distingue in nulla dal fatto bruto (p. 81).

È la strada lungo la quale l’attualismo finisce con l’incontrarsi con l’«indifferentismo teoretico ed etico», ma è – e qui Croce attenua i toni di un’accusa così pesante – un indifferentismo che non è praticato da uomini di riconosciuto senso storico e di elevato sentimento etico, ma come fautori di una teoria che «avrà, o sta già avendo, tutti quegli effetti che sono proprî delle teorie» (p. 82).

Gentile mette subito allo scoperto una verità troppe volte velata dal timore dell’allentamento del vincolo di amicizia e assume, evitando di coinvolgere allievi e amici della Biblioteca filosofica di Palermo, tutta la paternità del dissidio sull’idealismo attuale, un dissidio

che ci divide, e non da ora, poiché queste idee, da me ultimamente esposte […] rimontano a molti anni addietro, e si ritrovano più o meno chiaramente in tutti i miei scritti, come sono state sempre nel fondo del mio insegnamento (G. Gentile, Intorno all’idealismo attuale. Ricordi e confessioni, in Saggi critici, cit., pp. 11-12).

E non aveva tutti i torti Gentile quando rivendicava già al suo primo libro su Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti la presenza di una concezione del pensiero che si fa reale soltanto nella sua apriorità e attualità e di un’idea di spirito come «l’universale stesso nella sua reale concretezza» (p. 12). Sono le idee di un giovane filosofo – Gentile richiama persino un opuscolo del 1896 sull’arte caldamente lodato da Croce – che a proposito delle idee estetiche del suo più maturo amico sottolineava come lui fosse giunto a pensare l’inseparabilità di contenuto e forma nello spirito che insieme li produce in una compiuta unità. La discussione sarebbe, come si è visto, continuata sul concetto della storia, ma sempre restando dentro le coordinate del comune progetto di rifondazione della filosofia idealistica. Un punto più marcato di discrimine è richiamato da Gentile in relazione alla formulazione crociana del concetto dell’attività pratica ben distinto da quella teoretica.

E quando lessi la tua Filosofia della pratica, in cui il tuo concetto della volontà prendeva la sua forma definitiva, qua e là io riudii come l’eco delle nostre calorose discussioni di qualche anno prima, e vidi dirette contro di me le frecciate che, nel mondo dei puri concetti, in cui anch’io diventavo un’eterna posizione filosofica, tu vi scagliavi contro i negatori di un’attività pratica distinta dalla teoretica (p. 14).

Gentile in effetti ritrova, e non a torto, fin dalle Tesi fondamentali di estetica del 1900 l’origine della distinzione, il peccato capitale commesso contro la filosofia dell’attualismo, quel dualismo tra unità dell’intuizione e molteplicità del dato, tra fenomeno e noumeno, che fa cadere proprio in quel misticismo «che tu attribuisci a me e neghi a Kant» (p. 15). Ma la critica gentiliana si concentra sulla distinzione tra attività pratica e attività teoretica, basata su osservazioni «oscillanti tra l’empirico e il metaforico» (p. 16) e su constatazioni da senso comune e, quel che più conta, contraddittorie rispetto al fondamento filosofico dell’estetica crociana – l’assolutezza della forma prima di ogni contenuto – e aventi come conseguenza una «metafisica dualistica e dommatica, che contrasta con quei principi filosofici che abbiamo comuni» (p. 18). Non è sufficiente, per Gentile, il richiamo a Giambattista Vico e a Hegel e alla loro convinzione che chi fa il reale sia lo stesso che lo rifà idealmente, e questo perché non appare convincente il tentativo di comporre il dualismo facendo ricorso all’unità della relazione. Ed è da questo irrisolto dualismo che riemerge proprio quel concetto di natura contro il quale ha sempre combattuto lo spiritualismo. «E tu l’hai chiamata infatti natura o vita. E questa natura, che è la vita, l’essere, la realtà, m’è parso inghiottisse il tuo spiritualismo» (p. 19). Gentile ritorce contro Croce l’accusa di misticismo, quel misticismo che non è «negazione delle differenze, ma negazione dell’attività reale del soggetto» (p. 20). Quella di Croce resta in effetti una teoria correlativistica di essere e conoscere, di conoscere e di agire. Gentile, invece, distingue tra un conoscere che risolve il conosciuto nello stesso conoscere, e lo chiama il vero conoscere, e il conoscere che considera il conosciuto come realtà che si oppone all’attività conoscitiva, e lo chiama il falso conoscere del naturalismo. «Il conoscere come attuale conoscere è conosciuto, non dunque come conosciuto, ma come conoscere. Questa intimità del conoscere a se stesso è l’attualità dell’Io» (p. 22).

Il vero e ricorrente punto di dissenso è la diversa valutazione del posto che assume, nei rispettivi sistemi filosofici, l’idea della distinzione e con essa l’idea dell’individualità e del particolare. Un errore gnoseologico e metafisico derivante dalla concezione aristotelica dell’individualità che non è quella della filosofia idealistica in cui, da Kant in avanti, l’individuo è lo stesso universale «in quanto esso è relazione con se medesimo: spirito» (p. 25). Se Croce faceva derivare gli errori filosofici del suo amico dalla frequentazione e assimilazione delle posizioni di Spaventa, Gentile faceva risalire i difetti della teoria crociana al «grande errore speculativo del De Sanctis» (p. 26; Gentile si riferisce all’Estetica e, in particolare, alla teoria della fantasia come conoscenza dell’individuale da contrapporre all’intelletto come conoscenza dell’universale). E avevano tutti e due ragione. Una cosa è il concetto dell’arte che si manifesta nello stato d’animo di un artista, altra cosa è la filosofia vera e propria che è «liberazione assoluta dai limiti della soggettività» (p. 27). Paradossalmente, proprio quando la critica di Gentile diventa più aspra, essa coglie il vero fil rouge della filosofia storicistica di Croce, della quale, non a torto (a dispetto dei tanti luoghi comuni interpretativi della olimpica serenità del pensiero crociano) si sottolinea

il carattere di malinconia profonda, che pervade tutta questa tua contemplazione del mondo, in cui l’uomo par sequestrato in un cantuccio dell’universo o a guardare inoperoso questo universo, in cui non può riconoscersi, o a coltivare una piccola aiuola, fuor della quale si stendono spazi interminati. La verità gli si spiega in alto sul capo, inaccessibile; ma non gli si svela se non attraverso al duro e oscuro lavoro con cui egli dissoda in eterno le zolle di quell’aiuola (p. 29).

A nulla conta il senso dell’immanenza determinata se di essa non si riesce a dare una «congrua interpretazione» (p. 29). In tal modo Gentile rivendica – anche nei passaggi in cui controbatte le critiche mossegli da Croce sul male e l’errore – per il suo sistema il carattere della fedeltà al principio dell’idealismo: «Il pensiero che non presuppone nulla perché assoluto, e crea tutto» (p. 29).

Nelle Postille Croce riprende la questione se l’attualismo sia o meno una forma di misticismo e lo fa toccando il punto nevralgico del dissenso: l’attualismo è misticismo, il pensiero di cui esso parla resta ineffabile, «perché non ha altro da cui si distingua» (in Conversazioni critiche, cit., p. 83). Ciò che allontana i due amici è la diversa idea di spirito che è tale proprio per il fatto che si distingue dalla natura come entità metafisica. Insomma, ritorna al centro della discussione il tema della distinzione, che viene ripreso da Croce per confutare la teoria gentiliana dell’errore.

Senza distinzione di forme spirituali, la fenomenologia dell’errore e del male rimane inesplicabile. La storia […] non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice. Ma queste parole […] non significano altro se non che l’errore e il male in quanto negatività non esistono, e che la storia giustifica e non condanna appunto perché scopre sempre la positività (il momento economico, il momento estetico, ecc.) di ciò che nella lotta della vita si atteggiava a mera negatività (pp. 83-84).

Anche sul tema del passato Croce ripropone, per certi versi aumentando il tono polemico, la sua visione storicistica di un passato che è sempre pensabile e ripensabile nel presente, «come costitutivo della coscienza stessa del presente (storia)» (p. 84). Dunque l’attualismo non è solo misticismo, ma misticismo storico, un composto, dice Croce, di due insociabilia, nel momento in cui il fatto della natura e il fatto della storia si risolvono sempre e solo nell’atto del pensiero. L’idealismo attuale finisce per precludersi l’intellegibilità della diversità della storia che deve essere affidata al giudizio e alle sue categorie e non a una indistinta e assoluta unità del pensiero in atto. Ma per Croce la vera bestia nera di Gentile – «il fantasma diabolico che ti spinge a questo sforzo disperato» (p. 86) – è la paura del dualismo. E anche a tal proposito Croce ribadisce che c’è dualismo e dualismo: quello che anch’egli respinge tra spirito e natura, tra finalismo e meccanicismo e quello, ammesso che si voglia definirlo dualismo, che nasce dall’autodistinzione dello spirito «nelle forme che sono esso stesso, cioè la sua unità» (p. 86). Da questo dualismo non nasce certo il ricorso alla trascendenza e al misticismo e neanche quell’interpretazione estrema dell’hegelismo come intellettualismo e logicismo del quale un forte residuo restava, per Croce, nell’idealismo attuale, a cui giungeva dalla filosofia di Spaventa (ed era questa la risposta indiretta all’accusa gentiliana della dipendenza di Croce dal pensiero di De Sanctis). A proposito poi della storia, Croce respinge il rilievo di Gentile secondo il quale – e forse non a torto – la definizione della storia data nella memoria crociana del 1912 su Storia, cronaca e false storie si avvicinerebbe all’idealismo attuale, ma in effetti la storia pensata da Croce

è quella che ha compresente l’oggetto del suo conoscere, ed è perciò sempre “storia contemporanea” […]. E che tale e non altro fosse il mio pensiero, si vede da ciò che tutto il nerbo di quella memoria è nella distinzione tra la storia e le pseudostorie, condotta sulle distinzioni delle forme dello spirito (p. 88).

E ancora:

Il poeta, il filosofo, l’uomo pratico tu credi che, secondo me, siano separati l’uno dall’altro. E io debbo protestare che non solo non sono separati, ma che il poeta, il filosofo, l’uomo pratico, di cui si discorre empiricamente, non esistono, perché ciò che è reale è l’uomo, anzi l’umanità che è tutta queste cose insieme, ed è ciascuna di quelle forme particolari solo in quanto è tutte le altre insieme: eterna distinzione nell’eterna unità (p. 88).

Visione malinconica del mondo, come aveva detto Gentile? Probabilmente sì, se per atteggiamento malinconico verso il mondo si intende il «riconoscimento del duro lavoro della realtà» (p. 89).

L’ultima parte del terzo capitolo della discussione tra filosofi amici è dedicata da Croce alla riproposizione delle argomentazioni con cui veniva sottolineata l’incapacità dell’idealismo attuale di concepire filosoficamente la distinzione delle forme dello spirito: l’arte innanzitutto (con una puntigliosa rivendicazione dell’insegnamento di De Sanctis), ma poi la conoscenza della natura e le scienze, la religione e infine l’educazione fisica e la follia (quest’ultimo tema sollevato in riferimento a un saggio di Giuseppe Maggiore su Pazzia ed Errore comparso nel 1913 sull’«Annuario della biblioteca filosofica» di Palermo). Ciò che mette allo scoperto il difetto dell’idealismo attuale – secondo Croce – è il principio stesso su cui si fonda: l’hegelismo astratto o, se si vuol meglio dire, la diversa e opposta riforma dell’hegelismo proposta dai due filosofi idealisti, il diverso modo di considerare le distinte forme dello spirito, centrali nella declinazione storicistica dell’idealismo crociano, del tutto inglobate nell’unica realtà dell’atto del pensiero.

L’intervento di Croce si chiude con un augurio, quello di continuare a ripensare i punti di dissenso e di potersi ritrovare sul medesimo tracciato, «dopo aver percorso per qualche tempo strade separate sebbene prossime» (p. 95).

Se si leggono le lettere che i due filosofi si scambiano fino al momento della definitiva rottura del 1924-25, si vedrà che le distanze filosofiche restano tali e certo non si attenuano, ma sempre dentro una manifestazione di intenti che, almeno formalmente, non metteva in discussione il legame di amicizia. In effetti, come ha osservato Gennaro Sasso, Gentile, forse più di Croce, «avvertiva e misurava l’abisso che il suo amico aveva all’improvviso rivelato», mentre quest’ultimo

cercava bensì di persuadersi che dalla polemica l’amicizia non sarebbe stata travolta [basta, fra tutte, leggere la lettera del 3 dic. 1913, in Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 457], ma intanto sull’idealismo attuale aveva espresso un giudizio che, quanto alla sua espressione sostanziale, non ci fu certo bisogno di aggravare (Sasso 1994, p. 525).

Molti, a testimoniare di quanto fosse stato intenso il legame di amicizia e di intesa spirituale e intellettuale, sogliono citare la commossa e turbata annotazione dei Taccuini di Croce alla notizia dell’uccisione di Gentile avvenuta a Firenze il 15 aprile del 1944. Se queste parole possono sembrare l’effetto dell’intensa emozione del momento, in Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, posteriore di un lustro, si legge invece un passo dove prevale l’oggettivazione dello sguardo storico:

Il mio lungo sodalizio (che le vicende politiche dovevano dolorosamente spezzare) col Gentile, molto giovò, non so se a lui, ma senza dubbio a me, perché mi spinse a coltivare più di proposito integralmente la filosofia, e perché mi dette in lui un compagno che seguiva un indirizzo che non era il mio e che stimolava la mia alacrità mentale in quello mio, che era diverso (in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, 1952, a cura di A. Savorelli, 1998, p. 76).

Bibliografia

R. Franchini, Intervista su Croce, a cura di A. Fratta, Napoli 1978.

R. Franchini, Il diritto alla filosofia, Napoli 1982.

E. Garin, introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano 1991.

G. Cotroneo, Questioni crociane e post-crociane, Napoli 1994.

G. Sasso, Filosofia e idealismo, 1° vol., Benedetto Croce, Napoli 1994.

G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari 2002.

G. Cacciatore, Dal “logo astratto” al “logo concreto”, dal tempo all’eternità. Gentile e la storia, in Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, a cura di P. Di Giovanni, Milano 2003, pp. 97-122.

G. Cacciatore, Filosofia pratica e filosofia civile nel pensiero di Benedetto Croce, Soveria Mannelli 2005.

G. Cacciatore, Croce e Gentile: la funzione degli intellettuali e l’uso della storia italiana, in Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria, a cura di A. D’Orsi, F. Chiarotto, Torino 2010, pp. 477-92.

F. Tessitore, La ricerca dello storicismo. Studi su Benedetto Croce, Bologna 2012.