La progettazione della modernita: l'Illuminismo giuridico

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Diritto (2012)

La progettazione della modernità: l’Illuminismo giuridico

Bernardo Sordi

Il varo delle riforme

«Changer toutes les magistratures»; «refondre les loix»: sono passati appena due mesi dall’arrivo dei lorenesi in Toscana, nell’estate del 1737. Emmanuel de Nay conte di Richecourt, autorevole e potente membro del Consiglio di reggenza, ha già stilato un incisivo e dettagliato Plan des changemens à faire en Toscane, che può inoltrare a Francesco Stefano di Lorena, alla Corte di Vienna.

È soltanto uno dei tanti inizi, nella penisola, di quel Settecento riformatore così magistralmente descritto nella monumentale ricerca di Franco Venturi (5 voll., 1969-1990).

Tempi, luoghi, protagonisti possono variare. Anticipazioni rilevanti possono cogliersi in diversi Stati regionali italiani già a fine Seicento. Nell’arco dei primi decenni del Settecento, in ogni caso, l’antico regime conosce un primo, importante, sussulto.

La stabilità dinamica che ha caratterizzato, negli antichi Stati italiani, il lento snodarsi di un lungo Medioevo fatto di pesanti persistenze e solide continuità, appena ordinate e segnate qua e là dall’incedere, sempre più vigoroso, a partire dal Cinquecento, di una sovranità già di chiaro conio moderno, ma ancora intrinsecamente limitata negli obiettivi e nei fini sostantivi di governo, conosce una prima, brusca, accelerazione.

I periodici interventi di assestamento di magistrature e statuti, tipici della pratica quotidiana di governo del territorio, propria di Stati regionali che hanno intessuto di paterni vincoli tutori i rapporti tra centro e periferia, lasciano il posto a disegni di larga portata che mettono in discussione, nella loro complessità, gli assetti istituzionali esistenti e la tradizione giuridica consolidata.

I materiali concettuali accumulati nelle grandi fratture della modernità, dall’Umanesimo al giusnaturalismo, dalla Riforma alla rivoluzione scientifica, per la prima volta vengono convogliati in una precisa prospettiva progettuale, di chiara matrice operativa.

Prende così, progressivamente, forma e consistenza un laboratorio politico-istituzionale inedito, in grado ora di tesaurizzare, ora di stimolare una riflessione teorica ad ampio spettro, che cattura sfere sempre più ampie del sociale, si propone di analizzarle, studiarle, classificarle, di farne oggetto di ‘aritmetica politica’, non per mera erudizione, ma al contrario in vista di un intervento concreto: di ‘riforme’, appunto, che modifichino l’esistente, lo riordinino sulla base di un progetto razionalmente elaborato.

La realtà sociale non è più soltanto una dimensione da conservare con un attento dosaggio di poteri giurisdizionali. Diventa, al contrario, una realtà da organizzare, da manipolare, da trasformare, sulla base di un disegno di autentica politica del diritto. I modelli giustiziali di governo non sono più sufficienti.

Da un lato, sarà sempre di più la legge (e, più tardi, il codice) la voce e lo strumento privilegiato delle riforme: una legge che cade dall’alto, dall’illuminato arbitrium del principe, ma che comincia pure a essere avvertita come il prodotto di una funzione, che richiede quindi ingenti lavori preparatori, inchieste, relazioni, scambi di memorie e discussioni collegiali, e quindi nuove prassi decisionali, da organizzare in commissioni, in giunte, che motivano e documentano millimetricamente il proprio lavoro.

Dall’altro lato, sul piano delle funzioni subordinate, occorre ormai, secondo l’icastica espressione di Pompeo Neri, «prevenire il male, innanzi che segua», offrendo nuovi canali esecutivi alla sempre più incisiva volontà legislativa del principe e inventando nuovi organi e nuove funzioni, cui attribuire compiti di governo tipicamente amministrativi.

La stessa cultura giuridica muta di segno. Da custode della tradizione e dello ius inventum, di un diritto esistente più che posto, cui si accede tramite l’interpretatio e la mediazione creativa del testo autorevole; ovvero, da depositario di grandi e spesso incontrollabili poteri giudiziari, il giurista, che inizia ad assimilare la ricca temperie dell’età dei lumi e abbraccia nuovi saperi, dalla philosophie all’economia politica, veste altri panni, ora da intellettuale, ora da uomo di governo; diventa un demolitore critico del passato e insieme un architetto del futuro, un autentico progettista del nuovo.

Operato questo lavacro, anche la cultura giuridica connota in profondità l’età delle riforme; diventa parte di una cultura orientata al fare, all’azione politica, alla realizzazione concreta: l’Illuminismo che incide nella trasformazione della realtà esistente investe direttamente l’ordine giuridico.

Il raggio delle riforme

L’onda riformatrice, certo, non può essere eccessivamente enfatizzata. Il Settecento riformatore in Italia non è un tessuto unitario; è anzi caratterizzato da isole e da fasi riformatrici ben precise: la Lombardia teresiana e la Milano del «Caffè»; la Toscana della Reggenza e, soprattutto, la Toscana leopoldina; la Napoli di Bernardo Tanucci e Antonio Genovesi, più tardi di Gaetano Filangieri e di Mario Pagano. Isole su cui convergono anche altre realtà che dimostrano un notevole dinamismo istituzionale, come il Piemonte sabaudo o i ducati padani di Parma e Piacenza, e di Modena e Reggio.

La cultura illuminista è, inoltre, l’espressione di un sapere prettamente elitario, non di rado di diretta espressione patrizia, e le pratiche di governo, che a quella cultura si ispirano, si presentano come iniziative e operazioni condotte dall’alto, promosse da ristretti circoli di intellettuali, con notevoli difficoltà di tradursi stabilmente nella pratica. Le isole riformatrici continuano a rimanere immerse in una vasta e spesso insormontabile cultura della conservazione e dell’immobilismo, di cui proprio i giuristi accademici e i giuristi di toga costituiscono non di rado la più diretta espressione.

Gli interventi di questa ristretta cerchia di intellettuali, che sempre più intesse collegamenti su scala europea, intendono dispiegarsi su settori assolutamente strategici: le magistrature, l’imposta, il catasto, le comunità, i grani, gli assetti fondiari, le manifatture. In certi casi, iniziano a investire le stesse fonti del diritto, con i primi tentativi di codificazione, e a lambire i delicati rapporti con la Chiesa, con lo scoppio delle lotte antigesuitiche e le prime espressioni di vigoroso giurisdizionalismo. Nondimeno, quegli interventi hanno carattere settoriale, si muovono in campi determinati e specifici, nei quali volta per volta occorre verificare le effettive possibilità di implementazione e le concrete capacità di innesto duraturo negli assetti istituzionali e sociali. Marce indietro e improvvisi revirements sono all’ordine del giorno. Ancora a fine Settecento, sui tavoli delle riforme dominano il ‘non finito’ e l’incertezza progettuale: per di più, da Milano a Firenze, a Napoli, quei tavoli stanno per essere investiti, agli inizi degli anni Novanta, da un'impetuosa ventata restauratrice.

Eppure, al tempo stesso, il messaggio che la cultura delle riforme riesce a ispirare trascende il piano concreto della lotta politica e il braccio di ferro tra un centro, che ha iniziato a progettare società e territorio, e una periferia che, vera roccaforte del patriziato, resiste impermeabile al mutamento.

Messo nel debito conto lo scarto, non di rado notevole, tra progettazione e realizzazione, la cultura delle riforme, anche dove non riesce a tradursi in concreta realtà istituzionale e forse proprio qui, dove il progetto si presenta più ardimentoso e quasi velleitario, nel suo astratto razionalismo, rispetto alla impermeabilità della tradizione, esprime una palingenesi radicale dell’ordine antico, una trasformazione insieme antropologica e concettuale: una palingenesi che avviatasi su questo lento sentiero riformatore, non ne può prefigurare il crollo improvviso; ne anticipa tuttavia incisive linee di trasformazione.

Un cuneo profondo inizia dunque a insidiare le architravi portanti dello Stato di giustizia di antico regime, immettendosi consapevolmente in un percorso di chiara natura europea e anticipando, di fatto, non pochi contenuti del progetto rivoluzionario.

Anche l’Illuminismo giuridico italiano contribuisce a progettare un nuovo ordine politico, gettando le basi di una diversa tipologia statuale e avvicinando la frattura di fine Settecento.

Il superamento della tradizione: «un codice fisso di leggi»

Pensare a un progetto unitario, perfettamente scandito sin dall’inizio e incrinatosi, ovvero sconfitto, soltanto per il peso delle resistenze e delle opposizioni, sarebbe far violenza a una realtà che vive di articolazioni plurali e di spiccate individualità e a un intreccio tra riflessione teorica e concreta azione politica che si tesse, invece, di volta in volta, progressivamente, in un lento, reciproco, scambio.

Eppure questa convergenza, sempre diversa, di teoria e prassi, restituisce, chiarissimo, il dipanarsi di un disegno collettivo univocamente indirizzato verso il superamento della tradizione. Un disegno che inizia a ruotare intorno ad alcuni snodi strategici e che progressivamente consolida alcuni punti di attacco: il rapporto legge-diritto e in parallelo la riscrittura della funzione giurisdizionale; la proprietà e il suo innesto in nuovi canali rappresentativi; infine, dopo alcune significative ma isolate anticipazioni, l’apertura generalizzata, a seguito dell’incontro con la frattura rivoluzionaria, di nuovi sentieri costituzionali.

Fermiamoci un attimo sul primo punto. L’analisi critica del sistema delle fonti del diritto si avvia per tempo, nella prima metà del Settecento, già negli scritti di Ludovico Antonio Muratori, un personaggio per molti versi lontano dall’Illuminismo maturo e ancora estraneo all’ansia palingenetica delle riforme.

Eppure, già con Muratori la tradizione è clamorosamente infranta. La giurisprudenza si carica di fardelli insostenibili e diventa oggetto di studio e di analisi critica per i suoi difetti. L’antiromanesimo di marca umanista non solo conosce ulteriori declinazioni, ma viene ormai superato da una prospettiva che richiede interventi concreti e diretti e presuppone, in primo luogo, la mano demiurgica del legislatore. Non conta, per riconoscere che un sentiero affatto nuovo è stato imboccato, che le proposte concrete siano state appena definite. Definito è ormai con chiarezza il futuro protagonista: il legislatore. Definito è il prepotente bisogno di certezza che condanna senz’appello la tradizione giurisprudenziale precedente, con il suo «foltissimo bosco» (Dei difetti della giurisprudenza, cap. II) e la sua «tanta farragine di libri di legge» (cap. XX).

È l’avvio di una riflessione binaria che abbraccia, in stretto parallelismo, da una parte le fonti del diritto e la loro ormai imprescindibile riorganizzazione legislativa, dall’altra i modi di esercizio della funzione giurisdizionale, secondo una costante che sarà propria di tutta la riflessione settecentesca, sino al varo del vasto progetto codificatorio della Rivoluzione e alle grandi leggi di organizzazione del potere giudiziario del 1790.

Il glorioso passato che discende dal Medioevo sapienziale, visto a valle del suo lungo percorso storico, si è pericolosamente ingrossato in un «diluvio di opere legali» che ha «riempiuta la scuola della giurisprudenza di incertezza» e ha «aperto un bel campo ai giudici» (cap. IV), riconoscendo loro, di fatto, un amplissimo e incontrollabile arbitrio decisorio: l’una e l’altro, ormai, definitivamente avvertiti come insostenibili degenerazioni di un ordine giuridico che deve essere interamente rifondato.

Il fervore di iniziative riformatrici che, dal Piemonte alla Toscana, ai ducati padani, investono il panorama delle fonti del diritto e l’organizzazione giudiziaria, toccando anche, per la prima volta, il tema del reclutamento e della professionalizzazione dei giudici, dimostra che il messaggio di Muratori interpretava lo spirito del tempo.

Neppure vent'anni dopo il libretto muratoriano, nel 1764, un altro «libriccino» (come lo definì Alessandro Manzoni) veniva concepito nell’ambiente colto dell’Accademia dei Pugni, inconfondibilmente segnato dalla forte personalità ispiratrice di Pietro Verri: il Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, ricco di ben altre letture, prima fra tutte quella, drasticamente selettiva e operativamente orientata, dell’«immortale Presidente di Montesquieu», tracciava, in un volume di rara efficacia e di grande fortuna, un disegno di ormai radicale superamento della tradizione.

Il celebre attacco antiromanistico dell’A chi legge iniziale, che abbraccia nel comune dileggio anche i sapientes dell'età del diritto comune, retrocessi al volgare ruolo di «privati ed oscuri interpreti», funge da collegamento stilistico con gli scritti precedenti. Ma un vero e proprio baratro concettuale si frappone ormai con la riflessione della prima metà del secolo. La critica alla tradizione si traduce nella progettazione di un’alternativa radicale all’ordine giuridico esistente, che rimodella non solo il sistema dell fonti, ma anche un soggetto giuridico che si va sempre più sagomando, a partire dal suo essere, in primo luogo, soggetto di diritti.

È il penale, certo, messo in discussione in tutti i suoi paradigmi fondativi, a occupare il proscenio e a vivere la sua trasformazione più profonda, a conferma di una vocazione tutta italiana alla sua riscrittura. «Diritto e processo vengono rigenerati in una griglia di principi emergenti da un'operazione epocale: il referente etico-religioso che aveva dominato il penale per secoli – ha scritto Mario Sbriccoli in una densa pagina di sintesi – viene ridimensionato per fare luogo alla prevalenza dei diritti, a laicità e ragione, utilità e proporzione, ordine, certezza e garanzia» (Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), 2009, p. 27). Non stupisce che le proposizioni normative che la dichiarazione dei diritti dedicherà nel 1789 al tema penale trovino nelle pagine di Beccaria così tante e significative anticipazioni.

In controluce, però, è l’intero ordine giuridico a essere investito da questa epocale rigenerazione. La certezza del diritto ha finalmente trovato un suo fondamento operativo. «Un codice fisso di leggi che si debbono osservare alla lettera» (Dei delitti e delle pene, § 4) si sostituisce ormai ai complessi meccanismi di sussidiarietà propri del sistema di diritto comune; interpreta la nuova, assoluta, centralità del legislatore, unico potere abilitato a leggere la natura delle cose e a tradurla in comando normativo; ridisegna gli antichi poteri giustiziali, neutralizzando la giurisdizione, al punto da ridurla a una mera applicazione sillogistica della norma astratta alla fattispecie concreta. Contro l’aborrito dispotismo giudiziario, un solo modello giurisdizionale – il montesquieuiano pouvoir nul – può avere ormai cittadinanza nel sistema: «non v'è cosa più pericolosa di quell'assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge» (§ 4). Lo confermerà dieci anni più tardi Gaetano Filangieri, attento interprete dei provvedimenti di riforma della giurisdizione degli ultimi anni del governo di Bernardo Tanucci: «l’arbitrio giurisprudenziale è incompatibile colla libertà civile» (G. Filangieri, Riflessioni politiche, 1774, § 3).

La potente semplificazione dell’obbligazione politica, operata dalla metafora giusnaturalistica, incomincia a caricarsi di valori costituzionali, precostituendo un nuovo ordine politico, per molti versi antitetico alla struttura nobiliare e cetuale antica, non solo fondando il primato della legge (in parallelo all'idealizzazione del principe), ma connotando la legge di quei caratteri di generalità e astrattezza che iniziano a evocare il presupposto fondamentale e rivoluzionario della «norma uguale» e a contraddistinguere come ‘antico’ l’ordine cetuale. L’ordine politico va ormai ridisegnato prescindendo dai corpi.

Lo Stato di giustizia, come «società di società» (J.-É.-M. Portalis, Discours préliminaire au premier projet de Code civil, 1801), come contenitore di «tutte le famiglie e di tutti i collegi» (J. Bodin, Les six livres de la République, 1576, § I, 2), di enti e soggetti minori, di status distinti e differenziati, come fattore di equilibrio e di contemperamento del fisiologico, naturale, pluralismo dei corpi, viene investito da una crescente delegittimazione.

Il ‘privilegio’ cessa di essere una categoria giuridica fondamentale; il diritto ha ormai nell’eguaglianza il suo principale e indefettibile fondamento (G. D’Amelio, Illuminismo e scienza del diritto in Italia, 1965). Lo stesso pluralismo diventa particolarismo e inizia a essere avvertito come disvalore.

La progettazione delle riforme accentua la crisi dell’ordine antico e ne avvicina il superamento, aprendo la strada a un inedito dispiegamento della sovranità e a una rifondazione completa della stessa tipologia statuale.

Il superamento della tradizione: l’interesse proprietario

Anche sotto un altro profilo, il secondo Settecento si apriva, nelle diverse isole riformatrici italiane, a una più ampia circolazione europea e parallelamente a un più incisivo intervento sulle sedimentate strutture patrizie dei ceti dirigenti.

Se l’«Assolutismo empirico» della prima metà del secolo – per riprendere una celebre distinzione di Franco Valsecchi – si era costruito secondo modelli di stretta assimilazione tra i sovrani e le diverse nobiltà territoriali, i cui criteri di legittimazione venivano autoritativamente scanditi dalla legge del principe – è il caso della legge toscana sulla nobiltà del 1750 –, l’«Assolutismo illuminato» della seconda metà innesca fermenti e contraddizioni del tutto nuovi.

Spicca certamente il tema della proprietà, centrale nei processi di contrasto delle grandi carestie degli anni 1763 e 1764 e ancora del 1766. È il caso della Napoli di Bernardo Tanucci, oppositore strenuo, sin dagli anni di Carlo di Borbone, della «mala bestia padronale» e della «tirannide feudale», e ora attento alle sollecitazioni che giungevano dalla riflessione di Antonio Genovesi e Ferdinando Galiani. È il caso, in particolare, in un contesto più favorevole di quello meridionale, della Toscana dei primissimi anni leopoldini, ispirati dal ritorno in patria di Pompeo Neri dopo l’esperienza milanese della giunta del censimento, che giunge a varare inediti provvedimenti di liberalizzazione del commercio dei grani e di superamento degli antichi meccanismi di regolazione annonaria.

Auspice la crescente diffusione nella penisola – Toscana in testa – della fisiocrazia, il commercio dei grani cessa, all’improvviso, di costituire il principale oggetto della polizia economica del principe. «Il principio di mercato», secondo la fortunata espressione di Steven Kaplan, prevale sul «luogo di mercato»; viene sottratto alla police, per essere interamente restituito all'economia politica.

Libera estrazione dei grani, sperimentazione e diffusione di nuove tecniche agronomiche, nuovi assetti fondiari da realizzare attraverso una politica generale di allivellazione di terre, in gran parte da sottrarre all’uso improduttivo della proprietà ecclesiastica, comunitativa o feudale, avrebbero avuto il compito di sviluppare l’agricoltura e la sua produzione.

Questa centralità della proprietà possiede, in ogni caso, una rilevanza che non è solo congiunturale. Intorno alla proprietà viene infatti a ruotare un decisivo percorso di aggiornamento istituzionale che tocca la riscrittura dei meccanismi di prelievo fiscale e dell’imposta, e insieme la messa a punto di nuovi criteri di legittimazione delle classi dirigenti. Si avvia una nuova direttrice – proprietà-censo-rappresentanza – dalle notevoli implicazioni costituzionali. La stessa pubblica felicità, tema ricorrente della letteratura politica settecentesca, inizia a battere nuove strade. Abbandona le minute regolazioni dell’Etat bien policé e si affida sempre di più alla centralità dell’interesse e a un potente desiderio di amministrare da sé i propri affari.

A Milano, il completamento del catasto geometrico-particellare avviene, intorno alla metà del secolo, parallelamente a una grande riforma delle comunità che affida la guida dei consigli comunitativi agli stessi estimati, ai maggiori proprietari fondiari, applicando per la prima volta il principio, già nel 1747 formulato da Pompeo Neri, secondo il quale «veramente la proprietà del terreno è il fondamento del censo, e il censo è il vero e primitivo fondamento della nobiltà» (Discorso secondo tenuto nell'adunanza dei deputati alla compilazione di un nuovo codice delle leggi municipali della Toscana. Sotto dì 22 giugno 1747, ora in app. a M. Verga, Da 'cittadini' a 'nobili'. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, 1990, p. 361). Così, in Piemonte, misurazioni delle terre e provvedimenti normativi sul «buon reggimento delle comunità» vanno di pari passo, ridefinendo ruolo e funzioni dei corpi locali e insieme i criteri di accesso alle magistrature municipali.

In Toscana, infine, è di nuovo Pompeo Neri, il grande realizzatore della riforma milanese, ad avviare nel 1769 un primo intervento diretto sulle magistrature sulla base della «regola di rilasciare a chi paga i tributi tutte le più desiderabili soddisfazioni» (Progetto di Pompeo Neri per l'Unione della Parte e de' Nove, in Archivio di Stato di Firenze, Segreteria di Gabinetto, filza 107, cc. 4-5), aprendo la strada a quella riforma delle comunità che verrà progettata e realizzata in continuo contrappunto con le elaborazioni teoriche della fisiocrazia. A conferma che l’Illuminismo giuridico italiano era in grado di progettare e mettere in pratica un proprio modello di administration des propriétaires e di porsi quindi in ravvicinata sintonia con i grandi esperimenti riformatori d'oltralpe, dai tentativi di Anne-Robert-Jacques Turgot e Pierre Samuel Du Pont de Nemours, alle assemblee provinciali di Jacques Necker.

La nobiltà – con l’affollarsi delle resistenze e delle opposizioni che è facile immaginare – inizia a passare in seconda linea: il censo e la proprietà esprimono, sempre di più, il principale canone di adeguatezza al governo della cosa pubblica.

Il governo rappresentativo, certo, è ancora di là da venire; la proprietà perimetra una 'libertà' che ha pur sempre il suo pernio nella «sicura possessione della vita, dell’onore, dei beni» e che poco ha a che spartire con il «governo democratico» (P. Verri, Lettera ad Alessandro Verri, 24 nov. 1779, in un passo recentemente messo in luce da Antonio Trampus nella sua Storia del costituzionalismo italiano nell'età dei lumi, 2009, pp. 64-65).

Il sentiero patrizio, nondimeno, si è bruscamente interrotto: «la proprietà è quella che genera il cittadino ed il suolo è quello che l’unisce alla patria» (G. Filangieri, La scienza della legislazione, libro II, cap. III). La proprietà si candida ormai a divenire l’imprescindibile criterio di legittimazione verso una piena cittadinanza politica.

Oltre il Settecento: l’incontro con la frattura rivoluzionaria

Dunque, anche gli italiani, come i francesi di un celebre luogo de L’ancien régime et la révolution (1856) di Alexis de Tocqueville, avevano «voluto le riforme prima di volere la libertà»? E, fortemente impregnati delle dottrine fisiocratiche, avevano «già concepito tutte le riforme sociali e amministrative che saranno poi fatte dalla Rivoluzione, prima ancora che l’idea delle istituzioni libere [avesse] cominciato a farsi strada nel loro spirito» (L’ancien régime et la révolution, libro III, cap. III; L'antico regime e la rivoluzione, a cura di G. Candeloro, 1981, p. 196)?

In realtà, in Italia, nei decenni antecedenti la rivoluzione, non erano mancati spunti costituzionali significativi. Si pensi ai voluminosi lavori preparatori del progetto costituzionale di Pietro Leopoldo, che si avvia in Toscana, nella primavera del 1779, su iniziativa diretta del principe e nella stupefatta diffidenza dei suoi ministri. Si pensi, in altro e diverso contesto e con diverse prospettive, alle pagine della Scienza della legislazione di Filangieri, che inizia a essere pubblicata a Napoli, nel 1780: pagine nelle quali fanno la loro comparsa i temi nuovissimi delle leggi fondamentali, dei censori, della libertà di stampa, dell’opinione pubblica. Anticipazioni in entrambi i casi rilevanti, che potrebbero far pensare a corposi, univoci, approdi costituzionali di un riformismo in grado di passare senza incertezze progettuali, dal piano fisiocratico della comunità dei possessori al piano nuovo e sconosciuto, improvvisamente dischiuso dall’esperimento rivoluzionario delle colonie americane, di un pieno approdo costituzionale alla comunità politica.

Ma se nella vorace curiosità di un principe illuminato come Pietro Leopoldo o nella complessa letteratura sottesa al capolavoro di Filangieri, è possibile tracciare una marcia di progressivo avvicinamento intellettuale alle fonti anche ravvicinate della Rivoluzione francese – troncate nel caso del giovane intellettuale napoletano da una morte precoce, nell’estate 1788, – nessun percorso dotato di sufficiente effettività può esser riscontrato nella concreta vicenda istituzionale. Generalizzando un giudizio di Mario Mirri, occorre francamente riconoscere che i molteplici interessi costituzionalistici che si diffusero in Italia, in particolare dopo la dichiarazione d’indipendenza americana, non divennero mai «l’occasione o lo stimolo per l’avvio di una coerente e forte iniziativa politica in vista di un nuovo assetto costituzionale» (Riflessioni su Toscana e Francia, riforme e rivoluzione, Atti del Convegno "1789 in Toscana. La Rivoluzione francese nel Granducato", «Annuario dell'Accademia etrusca di Cortona», 1990, p. 145).

L’approdo alla frattura rivoluzionaria, alle potenti novità del potere costituente e della dichiarazione dei diritti, avverrà per l’Italia, per linee esterne, imposte dalla folgorante campagna d’Italia del giovane Bonaparte, a conferma della difficile confluenza del percorso riformatore italiano nell’alveo degli esiti rivoluzionari d'oltralpe.

E il cantiere delle riforme, con le sue fughe in avanti e i suoi improvvisi arretramenti – come dimostrava emblematicamente, nel 1786, in campo penale la vicenda della Leopoldina, della grande riforma della legislazione criminale toscana, espressione di una mediazione particolarmente sofferta tra un progetto che aveva le sue radici nel più avanzato Illuminismo giuridico e una realizzazione che si scontrava con l'impermeabilità sarà, prima, di fatto bloccato dalla sordina imposta alle riforme dai cambi dinastici e dalla crescente impossibilità di serrare le fila del processo riformatore, e quindi invaso, all’improvviso, da un flusso istituzionale, ramificato e impetuoso, e già stratificato nelle formalizzazioni legislative delle novità rivoluzionarie.

Neppure il penale, la cerniera indubbiamente più stretta che poteva agganciare con significativa continuità la progettazione dell’Illuminismo giuridico italiano agli sbocchi rivoluzionari, riusciva completamente a serrarsi. Tanto meno le altre dimensioni fondamentali della modernità giuridica, dal potere costituente al grande progetto codificatorio, dalla definitiva neutralizzazione della funzione giurisdizionale al rapido sviluppo di un’amministrazione generale dello Stato: dimensioni rimaste, dal versante italiano, sul piano progettuale e ancor di più sul piano della formalizzazione normativa, sempre molto al di qua della frattura rivoluzionaria, a partire dall’assoluta estraneità di un riformismo, necessariamente circoscritto nei rigorosi limiti di compatibilità dell’assolutismo illuminato, alla straordinaria presa di forza del potere costituente, chiamato a cancellare l’ordine antico, a instaurare il nuovo ordine individuale del diritto e a fare dello stesso principe un semplice organo costituito. Quel potere costituente che in Francia si stava facendo forte non solo di astratte dichiarazioni dei diritti, ma di un assetto istituzionale fissato e compiutamente definito in un’ampia elaborazione normativa, dai corposi testi costituzionali del 1791, 1793, 1795, ai primi codici rivoluzionari, alle grandi leggi generali sull’organizzazione ministeriale, l’organizzazione della giustizia, la cassazione, l’articolazione del territorio, le assemblee amministrative, le municipalità.

Palestra di un inedito costituzionalismo nazionale e significativo momento di incubazione delle primissime prospettive risorgimentali, che si nutrivano di una forte continuità, sia di uomini sia di idee, con le precedenti fasi riformatrici – si pensi, in particolare, al caso napoletano –, il triennio giacobino non potrà così nascondere i segni inconfondibili di una forzata assimilazione di un tessuto istituzionale, ancora per molti versi ‘antico’, persino nelle più illuminate isole riformatrici, alla legislazione termidoriana, a partire dalla stessa trasfigurazione repubblicana, certo consapevolmente prefigurata da non pochi «patrioti», ma pure impostasi nel solco di una «trasmutazione» politica avvenuta pur sempre a «opera di avvenimenti casuali» (G. Compagnoni, Saggio di vocabolario democratico, 1798, in un passo opportunamente valorizzato da L. Mannori nel suo saggio La crisi dell'ordine plurale. Nazione e costituzione in Italia tra Sette e Ottocento, in Ordo Iuris. Storia e forme dell'esperienza giuridica, 2003, p. 160).

La promulgazione delle prime costituzioni italiane avveniva così in uno stampo già forgiato oltralpe, nel 1795, dalla «costituzione della madre repubblica francese» (Costituzione napoletana, 1799; Rapporto del Comitato di legislazione al governo provvisorio).

La forbice istituzionale si allarga quindi improvvisamente, con l’incalzare dei vorticosi tempi rivoluzionari. Il percorso tra riforme e rivoluzione si fa accidentato e quella che sinora è stata una piena compartecipazione dell’avanguardia della cultura giuridica italiana e dei suoi notevoli tentativi di radicamento istituzionale nel movimento dei lumi, prima si arresta bruscamente con l’archiviazione dell’assolutismo illuminato e della collaborazione tra intellettuali e principi riformatori, quindi, vestiti i nuovi panni rivoluzionari, deve forzatamente calarsi in un canale unidirezionale di recezione, su cui si appunteranno presto le feroci critiche di un Vincenzo Cuoco all’astrattismo dei giacobini italiani.

Il corto circuito del 1799 e la repressione nel sangue degli esperimenti rivoluzionari ne saranno la conferma drammatica: il travaso delle novità della rivoluzione, nonostante la sensibilità di non pochi intellettuali, da Filippo Buonarroti a Mario Pagano, con il suo lucido progetto di repubblica democratica, era avvenuto nel solco aperto dalle armate francesi.

‘Terminata la rivoluzione’, nel giugno 1800, Marengo apriva una più pacificata assimilazione delle disperse istituzioni italiane alla legislazione del consolato e presto dell’impero. Anche per la penisola, ormai, il secolo giuridico poteva dirsi iniziato.

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