La psichiatria

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Giorgio Strano
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

La psichiatria a orientamento biologico si origina in parte dalle controverse terapie da shock e dalla psicochirurgia nei primi tre decenni del Novecento, ma si delinea nella sua concezione attuale dalla metà del XX secolo, con lo sviluppo delle conoscenze di genetica dei disturbi del comportamento, delle acquisizioni e delle tecniche di ricerca neuropatologica e soprattutto grazie alla rivoluzione psicofarmacologica. Quest’ultima è al centro di una svolta radicale nel trattamento delle malattie mentali, nelle possibilità di indagarne e comprenderne le basi biologiche, nei sistemi con cui tali patologie vengono classificate e diagnosticate.

Psicologia e medicina

La psichiatria contemporanea si è sviluppata da due distinte tradizioni epistemologiche che per tutto il Novecento si sono fronteggiate senza riuscire mai a trovare una reale sintesi. Da un lato troviamo il modello psicologico nelle sue caratterizzazioni iniziali di tipo introspettivo e sperimentale e quindi nelle sue più recenti e influenti versioni di tipo psicodinamico (ovvero psicanalitico) e cognitivo. Il secondo modello epistemologico della psichiatria è invece quello medico, germogliato dalla neurologia e perciò tendente a concettualizzare la malattia mentale secondo gli schemi interpretativi e i richiami alle basi anatomo-funzionali attraverso cui la medicina spiega le patologie somatiche e in seguito strettamente intrecciato alla psicofarmacologia e alle neuroscienze.

Nel corso del Novecento l’elaborazione teorica nelle due tradizioni, l’accumulazione di esperienze ed evidenze cliniche, nonché, a partire dalla metà del secolo, la formidabile espansione delle conoscenze di base sulle funzioni del sistema nervoso e del cervello hanno progressivamente accentuato la frattura tra i due sistemi epistemologici. Dagli anni Cinquanta, la tradizione psicologica e psicodinamica, a sua volta, si è scissa in due vaste aree sempre più indipendenti l’una dall’altra. L’approccio psicologico ha mantenuto e anzi rafforzato i legami con la ricerca sperimentale (in particolare con la neuropsicologia, la psicologia fisiologica, l’etologia, l’intelligenza artificiale) ed elaborato approcci interpretativi e terapeutici con richiami a modelli animali, spiegazioni scientifiche e comunque aperti all’obiettivazione degli elementi teorici di fondo e alla misurazione nella procedura diagnostica e terapeutica, come quello cognitivo-comportamentale. Di contro, la distanza assoluta da riferimenti obiettivi e dalle scienze di base ha favorito in ambito psicodinamico una straordinaria proliferazione di sistemi dottrinali e pratiche cliniche: uno sgretolamento disciplinare che ha certamente accelerato il tramonto delle terapie psicodinamiche avviato dalla rivoluzione psicofarmacologica a partire dal 1950.

Le origini della tradizione biomedica

La tradizione biomedica ha origine nella seconda metà dell’Ottocento per un complesso di trasformazioni teoriche, pratiche e istituzionali. Tra queste vanno ricordate il progressivo avvicinamento della psichiatria alla neurologia e alla discipline di base; l’innesto dell’insegnamento e della ricerca all’interno dei manicomi; la creazione di cliniche psichiatriche e la loro unificazione a quelle neurologiche, dedicate finalmente all’insegnamento e alla ricerca piuttosto che alla sola custodia e istituzionalizzazione dei malati all’interno degli ospedali universitari; la nascita della farmacologia e l’avvio dell’uso di sostanze attive sul sistema nervoso centrale per l’indagine sui processi mentali.

Agli inizi del Novecento e almeno sino agli anni Trenta, la schiacciante affermazione della psicanalisi frena decisamente gli sviluppi dell’approccio biomedico. Pur minoritario, l’indirizzo biologico in psichiatria viene alimentato così soprattutto da una serie di scoperte piuttosto casuali sull’efficacia di alcuni trattamenti fisici della malattia mentale talora estremamente brutali, nonché prime sistematiche osservazioni sulla genetica dei disturbi psichici come quelle compendiate nel 1916 dal tedesco Ernst Rüdin (1874-1952) nella prima monografia dedicata all’ereditarietà delle patologie psichiatriche.Il primo tentativo di riaffermazione della psichiatria a indirizzo biologico si intreccia con i progressi nella comprensione dell’eziopatogenesi e nel trattamento della sifilide. Largamente presente ancora agli inizi del XX secolo, la sifilide era responsabile di larga parte delle sindromi psicotiche croniche allora diffuse.

Nel 1883, al manicomio di Vienna, Julius von Wagner-Jauregg (1857-1940) nota la remissione della psicosi in una sua paziente affetta dall’erisipela, una infezione da streptococchi che provoca l’infiammazione delle mucose e della pelle. Sulla base di questa osservazione, Wagner-Jauregg pubblica alcuni anni più tardi un lavoro in cui ipotizza la possibilità di curare i disturbi psicotici con la febbre, in particolare quelli causati dalla sifilide. Nel giugno del 1917, Wagner-Jauregg inocula il sangue di un paziente affetto da malaria a un medico con gravi sintomi psichiatrici da neurosifilide. Nel giro di poche settimane, gli attacchi febbrili risolvono le manifestazioni psichiatriche. Entro la fine dell’anno, Wagner-Jauregg dimostra l’efficacia della malarioterapia su altri otto pazienti sifilitici dementi. Con tutti i suoi limiti, peraltro seri, la malarioterapia costituisce una scoperta epocale, in quanto rappresenta il primo effettivo superamento del nichilismo terapeutico che sino allora affligge la psichiatria. La terapia della febbre, inoltre, dimostrava la base organica delle malattie mentali e la possibilità di intervenire su di esse attraverso terapie biologiche.

Le terapie da shock

L’idea che traumi, shock, convulsioni e ipertermia possano in qualche modo contrastare i sintomi psicotici non è una scoperta del Novecento ma appartiene alla storia della nostra tradizione medica, giustificata col principio dell’allopatia, elemento fondativo del trattamento medico occidentale, contrariorum contraria esse remedia .

La prima shock-terapia a larga diffusione è l’induzione del coma insulinico, messa a punto e praticata per la prima volta a Vienna nel 1933 da Manfred Joshua Sakel (1900-1957). La terapia risulta però piuttosto lunga e dolorosa. Il coma ipoglicemico, noto come la dose coma, viene indotto una volta al giorno, con un giorno di riposo la settimana. La cura completa comportava dalle 90 alle 120 dosi coma. Lo shock insulinico provoca, prima del coma, contrazioni cloniche, spasmi muscolari, tremori generalizzati, riflessi patologici: manifestazioni che talora sfociavano in un vero e proprio accesso epilettico.

Sulla base di questa evidenza e ipotizzando l’esistenza di un antagonismo tra epilessia e schizofrenia, lo psichiatra ungherese, Joseph Ladislas von Meduna (1896-1964), introduce nel 1937 la terapia convulsiva con shock indotto da cardiazol o metrazol, ossia sostanze eccitative in grado di aumentare la capacità del respiro e del sistema circolatorio.

La terapia in poco tempo si diffonde ampiamente a livello internazionale, nonostante la sua notevole brutalità. Prima di portare alla convulsione e quindi alla perdita di coscienza, l’iniezione di cardiazol infatti instaura nei pazienti una rigidità e un pallore cadaverici, accompagnati a sensazioni di morte. Questo particolare e penoso stato si fissa nella memoria del paziente, a differenza degli spasmi tonici generalizzati cancellati dall’amnesia postconvulsiva. Da qui la forte opposizione dei pazienti alla prosecuzione della cura. Tale inconveniente stimola soprattutto in Italia la ricerca di nuove sostanze o metodi alternativi per la terapia convulsiva in psichiatria. Il presupposto teorico continua comunque a essere quello di von Meduna sull’antagonismo tra convulsioni e schizofrenia: un’ipotesi ora associata all’idea che sostanze di natura sconosciuta vengano rilasciate dall’organismo in risposta agli accessi convulsivi. Su queste basi, ad esempio vengono eseguiti tentativi di trattare gli schizofrenici con sangue prelevato da epilettici dopo le convulsioni, ipotizzando che sostanze di natura sconosciuta venissero rilasciate dall’organismo in risposta agli accessi convulsivi.

Quest’ultima ipotesi guida dal 1935 le ricerche con cui Ugo Cerletti , allora direttore della clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Roma, tenta di introdurre l’elettroshock, cercando il modo di rendere innocuo per l’uomo il passaggio della corrente elettrica necessaria a provocare le convulsioni. La tecnica viene messa a punto da Lucio Bini, collaboratore di Cerletti e i due, nel marzo 1938, conducono il primo esperimento di elettroshock su un uomo. Il metodo di Cerletti, più sicuro ed economico dello shock cardiazolico e del coma insulinico, diventa in breve la terapia fisica per i disturbi mentali più usata al mondo.

La psicochirurgia

Verso gli anni Trenta le acquisizioni sulle correlazioni tra struttura e funzioni cerebrali evidenziate dalle scienze neurologiche e nei modelli sperimentali sugli animali si fanno sempre più numerose e precise, il che suggerisce l’efficacia dell’intervento chirurgico nella terapia psichiatrica. Nel 1935 Egas Moniz (1874-1955), già noto per aver messo a punto otto anni prima la tecnica dell’angiografia, esegue a Lisbona la prima leucotomia (o lobotomia), tecnica chirurgica con cui si disconnettono i lobi frontali dal resto del cervello.

Sull’esempio di Moniz, nel 1936, il neurologo americano Walter Freeman (1895-1972) conduce il primo intervento di lobotomia. Dieci anni più tardi Freeman rielabora la lobotomia transorbitale, una tecnica chirurgica che permetteva la disconnessione dei lobi frontali in via ambulatoriale, già introdotta nel 1937 dall’italiano Amarro Fiamberti. Il successo è incredibile. A testimonianza di ciò non solo le migliaia di interventi condotti sino ai primi anni Cinquanta, ma anche nel 1949 il premio Nobel attribuito a Moniz per la leucotomia frontale che, come veniva evidenziato nel discorso di presentazione, “a dispetto di alcune limitazioni del metodo operativo, deve essere considerata una delle più importanti scoperte mai fatte nella terapia psichiatrica, perché attraverso il suo uso un gran numero di persone malate e totalmente invalide è guarito ed è stato socialmente riabilitato”.

Per ironia della sorte, nell’anno del Nobel a Moniz, l’opposizione alla lobotomia si faceva finalmente consistente ed efficace. La psicochirurgia viene accusata di sostituire una psicosi con una più grave e irreversibile sindrome organica cerebrale, trasformando per sempre gli schizofrenici in dementi defrontalizzati. Ma più che le critiche fece la rivoluzione psicofarmacologica: tra il 1951 e il 1952 la dimostrazione della strabiliante efficacia della clorpromazina nel trattamento dei sintomi psicotici condanna definitivamente la psicochirurgia all’estinzione.

La seconda psichiatria biologica: genetica, neuropsicofarmacologia, neuropatologia

Un contributo fondamentale alla definitiva affermazione della psichiatria a indirizzo biologico giunge nel decennio che segue la fine della seconda guerra mondiale dal fiorire di studi di genetica applicati alle malattie mentali. Le indagini, sempre più vaste, meglio concepite, più rigorose e in particolare gli studi sui gemelli cresciuti in famiglie e contesti diversi, dimostrano ormai indiscutibilmente la forte componente ereditaria delle patologie psichiatriche maggiori, come la schizofrenia, il disturbo bipolare, la depressione. Il carico genetico delle malattie mentali costituisce una chiara dimostrazione della componente biologica dei disturbi psichiatrici e denuncia il carattere quantomeno parziale dell’approccio psicodinamico, che al contrario riduce la psicopatologia alla sola dimensione psichica.

L’indirizzo biologico in psichiatria si è imposto soprattutto per il progressivo accostamento e il reciproco stimolo tra ricerca psicofarmacologica e indagini neurobiologiche, in particolare quelle sulla farmacologia del sistema nervoso, e sulla neurotrasmissione. Questo processo ha largamente coinciso con l’evoluzione delle conoscenze sui neurotrasmettitori aminergici (serotonina, dopamina e noradrenalina), cioè con la loro caratterizzazione fisiologica, la localizzazione nel cervello e la loro interazione con le sostanze che la produzione psicofarmacologica via via mette a disposizione.

A partire dagli anni Cinquanta eccezionale impulso all’indirizzo biologico viene dalla rivoluzione psicofarmacologica. Da un lato infatti la scoperta dell’efficacia di farmaci sui sintomi dei disturbi psichiatrici ha messo fine all’era del nichilismo terapeutico e profondamente modificato la vita e il trattamento dei pazienti nelle istituzioni manicomiali. Dall’altro gli psicofarmaci, come anche alcune nuove sostanze d’abuso come l’LSD e le amfetamine, sono stati usati come sonde chimiche per individuare le basi neurofarmacologiche delle condizioni psichiatriche.

I contributi dalla neuropatologia alle tecniche di visualizzazione in vivo del cervello e delle sue funzioni

La rinascita negli anni Settanta degli studi neuropatologici e di istopatologia del sistema nervoso arricchisce ulteriormente la base scientifica della psichiatria a orientamento biologico. Fondamentale a questo proposito è stata la dimostrazione della correlazione tra traumi ostetrici e schizofrenia ma soprattutto, dagli anni Ottanta, le vaste indagini autoptiche sulla morfologia microscopica delle cellule nervose nei soggetti affetti da disturbi psicotici avviate alla UCLA (University of California, Los Angeles) da due giovani ricercatori Joyce Kovelman e Arnold Scheibel. Questi studi sembrano aver dimostrato in maniera definitiva che la schizofrenia è legata a un’alterata connettività delle fibre nervose e che quindi può essere il risultato di un neurosviluppo patologico su base genetica o indotto da traumi, infezioni, intossicazioni in età fetale.

L’avvento e lo sviluppo delle tecnologie di visualizzazione in vivo  del cervello, come la tomografia computerizzata (TAC), la tomografia a emissione di positroni (PET) o di singoli fotoni (SPECT), la risonanza magnetica hanno contribuito ad articolare ulteriormente queste teorie. L’osservazione delle anomalie strutturali e la possibilità di visualizzare anche le anomalie funzionali nel metabolismo – nella distribuzione dei neurotrasmettitori e dei relativi recettori nel cervello in azione – ha enormemente allargato la base di evidenze circa le componenti biologiche della schizofrenia e consentito di affrontare la biologia di disturbi mentali meno gravi. È emersa tra gli altri la teoria dell’ipofrontalità dei disturbi psicotici, secondo la quale la lesione primaria della schizofrenia è rappresentata dal deficit di attivazioni e funzioni della corteccia cerebrale frontale. L’ipoattivazione della corteccia frontale rilevata con la PET e la SPECT sembra caratterizzare anche la depressione, sindrome in cui è stata rilevata da più studiosi anche un’elevata funzionalità dei centri più profondi del sistema limbico, l’insieme di vie e nuclei cerebrali corticali e sottocorticali da cui dipendono le emozioni. Le stesse tecniche di visualizzazione delle funzioni cerebrali sembrano aver dimostrato un’iperattivazione correlata dei lobi frontali e dei gangli della base, centri cerebrali importanti nella regolazione delle attività motorie, anomalie che pare correggersi con la somministrazione di inibitori selettivi della ricattura della serotonina, come il Prozac.

Psichiatria, biologia molecolare e genomica

Negli ultimi anni del Novecento la biologia molecolare e la genomica funzionale hanno iniziato a indicare la possibilità di superare finalmente in psichiatria la classica contrapposizione epistemologica tra tradizione psicologica e tradizione biomedica.

La comprensione dei processi di regolazione della trascrizione dei geni sta infatti mettendo in evidenza i meccanismi fondamentali dell’integrazione dei vari sistemi fisiologici in gioco nei processi emotivi e di adattamento individuale, la rete causale con cui le esperienze e le storie individuali plasmano la forma e le funzioni dell’organismo, la circolarità e la continuità delle interazioni tra eventi mentali e fenomeni somatici, la sovrapposizione e la concatenazione di eventi metabolici e plastici con cui la dimensione psichica e i processi biologici interagiscono nel determinare un disturbo del comportamento.

La neurogenetica e la genomica funzionale hanno dimostrato che stimoli interni ed esterni quali gli stadi dello sviluppo, le concentrazioni di ormoni e di mediatori chimici, lo stress, l’apprendimento, l’interazione sociale, influenzano la formazione e il comportamento dei fattori di trascrizione genica, modulando l’espressione dei geni. Detto altrimenti: come una combinazione di geni dà forma al comportamento, incluso il comportamento sociale, così il comportamento e i fattori sociali – attraverso la loro azione sull’organismo e sul sistema nervoso centrale – modificano l’espressione dei geni e conseguentemente le funzioni delle cellule nervose, modulando di nuovo, allora, circolarmente, il comportamento e la proiezione dell’individuo nella dimensione psico-sociale. La regolazione dell’espressione genica delle cellule nervose incorpora, in senso letterale, i fattori ambientali e psico-sociali. Così nei processi di trascrizione del gene la cultura, i simboli, la dimensione psichica delle emozioni possono diventare natura, biologia. In questo senso diventa possibile spiegare le traiettorie patogenetiche attraverso cui le esperienze, i pensieri, i fenomeni affettivi possono contribuire a scatenare una patologia psichiatrica. Allo stesso modo, e quasi come per gli psicofarmaci, diventa possibile dar conto, in termini generali, dei meccanismi d’azione attraverso cui le parole, gli interventi sul comportamento, la sollecitazione e l’utilizzo di certe strategie cognitive, insieme ad altri vari strumenti di intervento della psicoterapia, possono produrre una risposta terapeutica.

L’evoluzione dei sistemi di classificazione e diagnosi delle malattie mentali

Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta l’eccezionale espansione della psichiatria e la crisi della tradizione psicodinamica fanno emergere la necessità di un sistema diagnostico che, come per le altre specialità mediche, sia capace allo stesso tempo di suscitare consenso e di fornire criteri rigorosi e standardizzati. Il raggiungimento di questo obiettivo presenta una formidabile difficoltà: la molteplicità, l’eterogeneità e il carattere controverso delle teorie con cui, in questi anni, si classificano e si spiegano le cause dei disturbi mentali. Alla metà degli anni Settanta, l’American Psychiatry Association da più parti sollecitata alla revisione della seconda e ormai obsoleta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali (DSM-II), l’American Psychiatry Association sceglie di aggirare la problematica dimensione teorica e causale e costruire quindi un sistema diagnostico puramente descrittivo, fondato sui soli sintomi. Nel 1980 il gruppo di lavoro coordinato da Robert Spitzer pubblica il DSM-III, che diventa il gold standard della diagnostica psichiatrica a livello internazionale. Il DSM-III promuove una profonda trasformazione della psichiatria, segnando allo stesso tempo un definitivo distacco dalla psicodinamica e una svolta della disciplina verso un approccio meno speculativo. In una specialità medica così controversa e così drammaticamente divisa su modelli teorici, strutture nosologiche e applicazioni terapeutiche, le categorie diagnostiche descrittive hanno portato l’apparenza di obiettività scientifica che era sempre mancata. Da qui forse il successo dell’approccio che porta alla classificazione diagnostica attraverso l’elencazione di sintomi, indipendentemente da ogni concettualizzazione eziopatogenetica e implicazione terapeutica.

Un po’ paradossalmente, il consenso della comunità psichiatrica sulla diagnosi descrittiva si è accompagnato alla parallela e profonda transizione verso l’indirizzo biologico e la completa assimilazione della psichiatria alle altre specialità mediche. Questo contraddittorio parallelismo ha generato una sorta di schizofrenia epistemologica. Il richiamo alle scienze biomediche enfatizza l’importanza della comprensione dei processi e dei meccanismi patogenetici ai fini della caratterizzazione e dell’intervento sui disturbi mentali, mentre al contrario i criteri definitori dei nuovi approcci diagnostici fanno esclusivo riferimento ai sintomi, escludendo programmaticamente ogni riferimento al dominio e ai meccanismi biologici. Proprio in ragione di questo impianto meramente descrittivo, il programma neokrapeliniano dei DSM ha promosso una straordinaria inflazione della nosologia psichiatrica, aumentando a ogni edizione il numero dei disturbi diagnosticabili. La seconda edizione del DSM rubrica 180 disturbi, il DSM-III 265, l’edizione aggiornata di quest’ultimo pubblicata nel 1987, il DSM-III-R, ne conta 292; il DSM-IV, pubblicato nel 1990 contemplava 297 disturbi mentali. Anche tenendo conto della complessità del cervello e delle sue funzioni, il numero eccezionalmente alto dei disturbi descritti sembra indicare che la definizione diagnostica basata sulla semplice composizione e accostamento di sintomi presenta seri limiti.

Vari studiosi hanno rilevato l’aspetto controverso di molti disturbi, legato all’incorporazione nei criteri diagnostici di variabili comportamentali e fattori socio-culturali, per loro natura relativi e di difficile obiettivazione. Secondo altri critici invece il maggiore limite dei DSM è l’etnocentrismo, nel senso che sono palesemente imperniati sulla cultura occidentale, e non rappresentano quindi l’universalità nelle sue categorie.

Altri studiosi, infine, sostengono che la particolare logica sottesa alla sua architettura può trasformare il DSM in uno strumento in cui si riversano, si compongono e attraverso cui si perseguono interessi economici. Secondo questi critici, in particolare, la pronunciata medicalizzazione di differenze individuali e tratti temperamentali sostenuta dai DSM serve anche a sostenere il mercato sempre più florido degli psicofarmaci e dell’economia sanitaria legata alla psichiatria e, più o meno consapevolmente, agli psichiatri stessi per garantirsi il primato nel trattamento dei disturbi del comportamento di fronte all’espansione della psicologia clinica.

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