La ricezione dei classici

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Luciano Bottoni
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Nel panorama culturale dell’Europa del Duecento, caratterizzato dal trionfo degli studi filosofici e teologici su quelli grammaticali, più strettamente legati alla tradizione classica, l’Italia si distingue per la persistenza dell’antico, imitato con passione e indagato con nuova perizia filologica. Merito di un contesto politico (quello comunale) e di un sistema educativo che mettono al centro l’esempio di Roma antiqua e, assieme, di un milieu intellettuale capace di plasmare il gusto umanistico lungo una linea ininterrotta di letture e di manoscritti che collega l’esperienza municipale di Lovato e Mussato al classicismo internazionale di Petrarca.

I classici nel Duecento

Nicolas Trevet

La rappresentazione scenica nell’antichità

 Expositio Herculis furentis Senecae

A teatro le tragedie e le commedie si recitavano solitamente in questo modo: il teatro era una spazio semicircolare con al centro un piccolo edificio, detto “scena”, in cui si trovava un pulpito dal quale il poeta declamava i propri versi. Intorno c’erano i mimi che rappresentavano il testo declamato con le movenze del corpo, adattandole, di volta in volta, al personaggio che parlava. Dunque quando veniva letto il primo monologo, un mimo rappresentava Giunone nell’atto di lamentarsi e d’invocare le Furie infernali, spingendole ad impadronirsi di Ercole.

Testo originale:

[...] Tragedie et comedie solebant in theatro hoc modo recitari: theatrum erat area semicircularis, in cuius medio erat parva domuncula, que scena dicebatur, in qua erat pulpitum super quod poeta carmina pronunciabat; extra vero erant mimi, qui carminum pronunciationem gestu corporis effigiabant per adaptationem ad quemlibet ex cuius persona loquebatur. Unde cum hoc primum carmen legebatur mimus effigiabat Iunonem conquerentem et invitantem Furias infernales ad infestandum Herculem.

N. Trevet, Expositio Herculis furentis Senecae, a cura di V. Ussani jr., Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1959

Francesco Petrarca

A Marco Tullio Cicerone

 Epistole

Francesco saluta il suo Cicerone. Trovate, dopo molte e lunghe ricerche, le tue lettere là dove meno credevo, le ho lette avidamente. E ti ho inteso dir molte cose, molte deplorare, su molte cambiar parere, o Marco Tullio; e se da un pezzo sapevo qual precettore tu fossi agli altri, ora finalmente ho compreso qual tu sia davanti a te stesso. Ora a tua volta, dovunque tu sia, ascolta non un consiglio, ma un lamento, ispirato da vero affetto, che uno dei posteri, di te amantissimo, esprime non senza lacrime. O uomo sempre inquieto e ansioso, o meglio, per dirlo con le tue parole, “o vecchio impulsivo e infelice”, che hai inteso di fare con tante contese e inutili inimicizie? Dove hai lasciato quella calma così conveniente all’età, alla professione, alla fortuna tua? Qual falso splendore di gloria ti spinse vecchio in gare giovanili e dopo averti fatto ludibrio d’ogni fortuna ti condusse a una morte indegna di un filosofo? Ahimè! dimentico dei fraterni consigli e dei tuoi stessi salutari precetti, come un viaggiatore notturno che porta un lume fra le tenebre, mostrasti a chi ti seguiva la via sulla quale miseramente cadesti. [...] Mi dolgo della tua sorte, o amico, e provo vergogna e pietà dei tuoi errori, e insieme col medesimo Bruto “non do nessun valore a quell’arte, nella quale so che tu sei abilissimo”. Infatti, che giova ammaestrare gli altri, che giova parlar continuamente con belle parole di virtù, se poi non ascolti te stesso? Ah, quanto meglio sarebbe stato, soprattutto a un filosofo, invecchiare tranquillamente in campagna “meditando”, come tu stesso scrivi in un certo luogo, “sulla vita eterna, non su questa terrena così breve”, non aver avuto l’onore dei fasci, non aver aspirato a nessun trionfo, non aver messo superbia per alcun Catilina! Ma ormai ogni rimprovero è vano. Addio in eterno, o mio Cicerone.

Dal mondo dei vivi, sulla riva destra dell’Adige, nella città di Verona nell’Italia transpadana, il 16 di giugno nell’anno 1345 dalla nascita di quel Dio che tu non conoscesti.

Testo originale:

Franciscus Ciceroni suo salutem. Epystolas tuas diu multumque perquisitas atque ubi minimi rebar inventas, avidissime perlegi. Audivi multa te dicentem, multa deplorantem, multa variantem, Marce Tulli, et qui iampridem qualis preceptor aliis fuisses noveram, nunc tandem quis tu tibi esses agnovi. Unum hoc vicissim a vera caritate profectum non iam consilium sed lamentum audi, ubicunque es, quod unus posterorum, tui nominis amantissimus, non sine lacrimis fundit. O inquiete semper atque anxie, vel ut verba tua recognoscas, “o preceps et calamitose senex”, quid tibi tot contentionibus et prorsum nichil profuturis simultatibus voluisti? Ubi et etati et professioni et fortune tue conveniens otium reliquisti? Quis te falsus glorie splendor senem adolscentium bellis implicuit et per omnes iactatum casus ad indignam philosopho mortem rapuit? Heu et fraterni consilii immemor et tuorum tot salubrium preceptorum, ceu nocturnus viator lumen in tenebris gestans, ostendisti secuturis callem in quo ipse satis miserabiliter lapsus es. [...] Doleo vicem tuam, amice, et errorum pudet ac miseret, iamque cum eodem Bruto “his artibus nichil tribuo, quibus te instructissimum fuisse scio”. Nimirum quid enim iuvat alios docere, quid ornatissimis verbis semper de virtutibus loqui prodest, si te interim ipse non audias? Ah quanto satius fuerat philosopho presertim in tranquillo rure senuisse, “de perpetua illa”, ut ipse quodam scribis loco, “non de hac iam exigua vita cogitantem”, nullos habuisse fasces, nullis triumphis inhiasse, nullos inflasse tibi animum Catilinas. Sed hec quidem frustra. Eternum vale, mi Cicero.

Apud superos, ad dexteram Athesis ripam, in civitate Verona Transpadane Italie, XVI Kalendas Quintiles, anno ab ortu Dei illius quem tu non noveras, MCCCXLV.

F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955

Brunetto Latini

Introduzione alla Rettorica

 Rettorica

Sovente e molto ho io pensato in me medesimo se la copia del dicere e lo sommo studio della eloquenzia hae fatto più bene o più male agli uomini e alle cittadi: però che, quando io considero li dannaggi del nostro Comune, e raccolgo nell’animo l’antiche aversitadi delle grandissime cittadi, veggio che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti senza sapienza. [...] Rettorica è scienzia di due maniere: una la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio [Cicerone] nel suo libro; l’altra insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò così del tutto apertamente, sì ne tratterà lo sponitore [Brunetto] nel processo del libro. [...] L’autore di questa opera è doppio: uno, che di tutti i detti de’ filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicero, il più sapientissimo de’ Romani; il secondo è Brunetto Latino, cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio avea detto. [...] Questo Brunetto Latino, lo quale era buono intenditore di lettera ed era molto intento allo studio di rettorica, si mise a fare questa opera, nella quale mette innanzi il testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienzia e dell’altrui quello che fa mistieri. L’utilitade di questo libro è grandissima, però che ciascuno che saprà bene ciò che comanda lo libro e l’arte, sì saprà dire interamente sopra la quistione apposta.

in G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 2000

Nell’ambito di un’annosa querelle storiografica, l’idea del XIII secolo come “secolo senza Roma” (Giovanni Toffanin, Il secolo senza Roma) e senza classici, soffocato dalla scolastica, è stata gradualmente ridimensionata. Oggi piuttosto il Duecento appare come un sistema culturale complesso in cui elementi di continuità e di discontinuità, rispetto alla tradizione degli antichi, attraversano tutto il panorama europeo, e in cui, in Italia, già maturano i presupposti del movimento umanistico.

Continuità, innanzitutto, rispetto al canone delle letture scolastiche: Cicerone, Lucano, Orazio (Ars poetica, Epistulae, Sermones), Ovidio, Sallustio, Seneca morale, Stazio (Achilleide, Tebaide), Terenzio, Virgilio e i poeti satirici Giovenale e Persio restano parte integrante dell’educazione grammaticale e retorica, pur subendo la concorrenza di florilegi e di libri manuales pensati per snellire curricula di studio sempre più specializzati. Ovidio, fra tutti, è l’ auctor che esercita la maggiore influenza. Il XIII secolo, come il XII, è piena aetas ovidiana: chierici e magistri non cessano la propria opera di commento, concentrandosi in particolare sulle Metamorfosi (Giovanni di Garlandia, Integumenta Ovidii, 1220 ca.; l’adespoto Ovide moralisé, 1291-1328 ca.); i poeti saccheggiano a piene mani temi e modelli ovidiani (basti pensare alla centralità delle figure di Narciso e Pigmalione nel Roman de la Rose); il pubblico cittadino e laico, che apprezza soprattutto l’ urbanitas dell’ Ars amatoria e delle Eroidi, commissiona un numero crescente di traduzioni e di imitazioni (la commedia pseudoovidiana De vetula e i rimaneggiamenti dell’Ars amatoria come La Clef d’amors, L’Art d’amours di Jacques d’Amiens, l’L’Art d’amors di Guillaume Guiart, in Francia; la traduzione di passi delle Eroidi e delle Metamorfosi nella spagnola General Estoria; la versione antico-tedesca delle Metamorfosi di Albrecht von Halberstadt, del 1190-1210 ca.). La vitalità dei classici passa, ancora, per il progressivo recupero della storiografia antica in opere come i francesi Faits des Romains (1213-1214) o per l’azione di appassionati bibliofili: è il caso delle opere di Properzio, Tibullo e Seneca tragico che figurano nella collezione del poeta Richard de Fournival e approdano poi alla biblioteca della Sorbona, dove le avvicinerà, entusiasta, il filosofo inglese Ruggero Bacone.

Discontinuità, invece, rispetto alla posizione dei classici nella gerarchia dei saperi universitari. Mentre declina la fortuna delle scuole d’arti liberali di Chartres e Orléans, che nel XII secolo avevano promosso l’esegesi allegorica della poesia antica, nei prestigiosi studia di Parigi e di Oxford l’articolazione delle discipline segue quella delle scienze logiche di Aristotele, i cui scritti sono finalmente disponibili in latino. Dunque logica e teologia al vertice, mentre si consuma il divorzio tra grammatica, intesa come pura scienza del linguaggio, e letteratura. Se nelle più importanti università d’oltralpe la dialettica sconfigge in battaglia i vecchi studi grammaticali – come racconta Henri d’Andeli nel suo La bataille de VII arts (1236-1250) – si potrà comprendere allora come mai, nell’Europa del Duecento, si copino meno testi classici che nel secolo precedente.

Il primo umanesimo in Italia

Le radici dell’umanesimo affondano ben entro il XIII secolo, nell’Italia comunale, nell’incontro tra passione politica e riscoperta dell’antico. Mentre le città fanno a gara nel vantare origini classiche e affidano la memoria delle proprie imprese a iscrizioni monumentali che ricordano quelle del passato, le scuole e le università promuovono corsi di diritto romano e di composizione classica (dictamen), formando quella schiera di cancellieri, giudici, notai che, assieme a maestri e prelati, anima la vita civile del Paese.

È solo questione di tempo prima che questo milieu di professionisti si scopra anche élite culturale, promotrice di un nuovo classicismo. Esempi in tal senso punteggiano, a cavallo fra Due e Trecento, tutto il territorio italiano: Pier delle Vigne nella Sicilia fridericiana; Paolo da Perugia a Napoli; Landolfo e Giovanni Colonna a Roma; Geri d’Arezzo in Toscana. Ma è soprattutto nella vivace realtà dei Comuni lombardo-veneti – alimentata dal contatto diretto con la cultura d’oltralpe e dalla presenza di prestigiose università (Bologna e Padova) e di ricchi depositi librari (la biblioteca capitolare di Verona e la biblioteca dell’abbazia di Pomposa) – che vanno cercati i più forti segnali di ripresa dei classici. Padova, in particolare, è il centro da cui irraggia una nuova estetica, già umanistica, cresciuta sugli studi antiquari e filologici del giudice Lovato Lovati e della sua cerchia. Lovato detta la rotta: passione per l’antico tout court, che si tratti di scoprire ed emendare testi dimenticati (le opere di Catullo, Lucrezio, Marziale, Properzio, Tibullo, Valerio Flacco, la IV decade di Livio, le Odi di Orazio, l’Ibis di Ovidio, le tragedie di Seneca, le Silvae di Stazio) o di riportare alla luce e autenticare l’epigrafe di Tito Livio e la tomba di Antenore, il mitico fondatore di Padova; volontà di rilanciare, tramite l’imitazione dei classici, le sorti della poesia latina su quella volgare.

In questo senso la più grande prova del classicismo di Lovato, lo studio e il restauro filologico delle tragedie di Seneca, ha il suo naturale prolungamento nell’imitazione senechiana di un altro padovano, il notaio Albertino Mussato, che con la sua Ecerinis è il primo poeta, dall’antichità, ad affrontare il genere tragico. Poco importa poi che Mussato, come il contemporaneo Nicolas Trevet, quasi nulla sappia della drammaturgia antica e fatichi a distinguere, in sede stilistica, l’epica dalla tragedia. Ciò che conta è l’entusiasmo con cui viene accolto questo tentativo di fare della grandezza del passato il linguaggio e il modello del presente, culminato nell’incoronazione poetica dello stesso Mussato a Padova, nel 1315.

Petrarca e l’umanesimo del Trecento

Formatosi nell’Avignone papale, a stretto contatto con intellettuali e manoscritti provenienti da tutta Europa, Francesco Petrarca inaugura una nuova stagione degli studi e dell’imitazione dei classici, ripensando su base nazionale e cristiana la lezione del primo umanesimo, nato municipale e laico.

L’interesse per Livio ereditato dai padovani diventa così, fuori dall’agone comunale, aspirazione a una palingenesi etica e politica dell’Italia intera, sul modello di Roma antica. Lo si nota nelle prime opere di Petrarca, influenzate dall’assidua lettura degli Ab urbe condita libri, dei quali egli raccoglie il codice più corretto e completo dell’epoca (ms. London, BL, Harley 2493): il De viris illustribus ha una chiara funzione didattico-morale; l’Africa tenta la via dell’epopea nazionale, rifacendo l’Eneide su Scipione l’Africano e sui valori repubblicani; le epistole-orazioni indirizzate al tribuno Cola di Rienzo e al popolo romano, in occasione della rivoluzione del 1347, insistono sul nesso inscindibile tra azione politica e conoscenza del passato.

Allo stesso tempo Petrarca cerca di bilanciare culto dell’antico e devozione cristiana. Da un lato dando forma classica al proprio travaglio spirituale, come nel Bucolicum carmen – modello autorevole cui va collegata la rinascita del genere bucolico. Dall’altro sottolineando, nel dialogo tra antichi e moderni, l’essenziale continuità della natura umana, come nelle Lettere agli uomini famosi (Familiari, libro XXIV): di tono sorprendentemente intimo e colloquiale, ispirato all’epistolario di Cicerone (Ad Atticum, Ad Marcum Brutum, Ad Quintum fratrem), che lo stesso Petrarca riscopre nella Biblioteca Capitolare di Verona (1345).

La fama e gli scritti di Petrarca ne fanno l’interlocutore privilegiato e il modello degli umanisti del Trecento, capaci di tessere una rete di idee e di manoscritti che attraversa tutta la penisola, con centro a Firenze. Petrarca schiude ai suoi ammiratori tesori come Pomponio Mela e Petronio; Zanobi da Strada mette in circolo l’Asino d’oro di Apuleio, gli Annali e le Storie di Tacito, il De lingua latina di Varrone, rintracciati a Montecassino; Pietro da Moglio porta nelle aule universitarie di Bologna e Padova Seneca tragico, ma anche la voga della nuova bucolica latina (le Egloghe di Dante, e il Bucolicum carmen di Petrarca); Coluccio Salutati, suo allievo, guida la riscoperta delle Ad familiares di Cicerone nella Biblioteca capitolare di Vercelli, oltre a collezionare preziosi codici di Catullo e Tibullo.

Un bacino di autori e di testi destinato ad arricchirsi per la graduale riscoperta della letteratura greca: prima nelle traduzioni latine commissionate dagli stessi umanisti, come le versioni letterali di brani dell’Iliade, dell’Odissea, dell’Ecuba di Euripide e delle Vite di Plutarco preparate da Leonzio Pilato; quindi tramite l’apprendimento diretto della lingua, anche se è solo a partire dal 1397, con Emanuele Crisolora, che in Italia si tengono regolari lezioni di greco.

I volgarizzamenti dei classici

L’innesto dei modelli classici nella retorica volgare prepara – in Italia, prima che nel resto d’Europa – un nuovo approccio traduttorio agli auctores, alternativo alle pedisseque versioni verbum de verbo d’uso scolastico, come ai liberi rifacimenti dell’antico importati dalla Francia, dove pure andranno ricordati traduttori del calibro di Jean de Meun – per Vegezio e Boezio – e Pierre Bersuire – per Livio.

I primi volgarizzatori italiani sono mossi dalla volontà di offrire esempi di eloquenza da spendere nel contesto comunale. Da qui la scelta di tradurre, innanzitutto, le opere di Cicerone, orator per eccellenza: dalla Rhetorica ad Herennium (Guidotto da Bologna, Fiore di rettorica, 1258-1266; testo poi rimaneggiato da Bono Giamboni), in realtà pseudo-ciceroniana, al De inventione (Brunetto Latini, Rettorica, 1260-1262), alle orazioni (sempre Latini, nel 1267). Versioni che si segnalano per l’aderenza all’originale e per il tentativo di emulare la prosa latina. Seguono, nel corso del Trecento, soprattutto nella Toscana orientale, volgarizzamenti sempre più svincolati da finalità pratiche, spesso di elevata qualità artistica: a partire dalla Catilinaria e dal De bello Iugurthino di Sallustio (Bartolomeo da San Concordio, 1313), le Heroides (Filippo Ceffi, 1320-1330) e le Metamorfosi di Ovidio (Arrigo Simintendi, 1333), l’Eneide di Virgilio (Andrea Lancia, 1316; Ciampolo di Meo Ugurgieri, 1340), per citare solo esempi d’autore.

Un classicismo “borghese”, in lingua volgare, che procede parallelo all’umanesimo latino e stimola il confronto tra le due lingue e le due culture, classica e moderna. Basterà pensare al peso che la riflessione linguistica e la teoria della traduzione (Convivio e De vulgari eloquentia) acquistano in Dante, che fa di Virgilio il maestro di bello stile per la Commedia e, nel catalogo del Limbo (Inferno, IV), non esita a collocarsi – anche se poeta “romanzo” – al vertice di una tradizione che passa per Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio. O ancora a Giovanni Boccaccio, nella cui produzione convergono erudizione, passione traduttoria (la terza e la quarta Deca di Livio; forse i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo) e desiderio di emulazione degli antichi: tanto nelle opere latine, dopo l’incontro con Petrarca, che in quelle volgari della giovinezza (a partire dal Filocolo, 1336-1339).

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