La risposta statunitense agli attentati dell'11 settembre

Atlante Geopolitico 2013 (2013)

Vedi La risposta statunitense agli attentati dell'11 settembre dell'anno: 2012 - 2013

Mario Del Pero

A dieci anni dall’evento rimane difficile sottovalutare l’impatto degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 sulla politica interna ed estera degli Stati Uniti. Il cambiamento, per molti aspetti radicale, si dispiegò su tre ambiti principali. Innervata da un discorso scopertamente e orgogliosamente nazionalista, la politica estera dell’amministrazione Bush si fece più assertiva e unilaterale. Alla sfida del terrorismo, gli Stati Uniti risposero con una campagna globale che indusse a riporre la promessa iniziale di Bush di ridurre gli impegni internazionali degli Usa, abbandonando il globalismo del decennio precedente. L’obiettivo divenne quello di attivare un processo di trasformazione dell’ordine internazionale, a cominciare da quel teatro mediorientale dove i compromessi politici e geopolitici dei decenni precedenti non apparivano più tollerabili. La condizione necessaria per promuovere questa politica globale e interventista ci porta alla seconda conseguenza dell’11 settembre: la decisione – contraria agli intenti originari di Bush e del suo segretario della difesa Donald Rumsfeld – d’intraprendere un massiccio processo di riarmo, che negli otto anni della presidenza Bush avrebbe portato il bilancio del Pentagono da circa 310 a 670 miliardi di dollari. Le armi, infatti, avevano un ruolo fondamentale nella strategia post 11 settembre: servivano non solo nella campagna antiterroristica, ma anche per rovesciare regimi autoritari, come quello di Saddam Hussein, e attivare processi di modernizzazione e democratizzazione ritenuti indispensabili per garantire la sicurezza degli stessi Stati Uniti. Infine, a questa azione internazionale corrispose un maggiore impegno nella lotta al terrorismo all’interno degli stessi Stati Uniti. Questo impegno si concretizzò con una legge – il Patriot Act – approvata nell’ottobre del 2001 col solo voto contrario del senatore democratico del Wisconsin, Russel Feingold. Il Patriot Act, che con alcune modifiche fu rinnovato nel 2006, accresceva la possibilità per varie agenzie federali di monitorare comunicazioni telefoniche, postali ed e-mail, rimuoveva restrizioni all’attività d’intelligence negli Stati Uniti e, soprattutto, garantiva ampia discrezionalità nel trattamento di immigrati sospettati di avere legami con organizzazioni terroristiche. La legge, e la filosofia che vi sottostava, ripropose un dilemma antico quanto gli Stati Uniti stessi: il problema – in tempi di pericolo, percepito e reale, per il paese – di conciliare libertà e sicurezza, protezione degli Stati Uniti e dei loro cittadini e preservazione delle libertà fondamentali e dei diritti costituzionali. Questa reazione all’aggressione terroristica dell’11 settembre si rivelò in ultimo contraddittoria e impraticabile. Gli interventi militari in Afghanistan e, soprattutto, in Iraq smentirono le ottimistiche previsioni dell’amministrazione Bush sulla possibilità di usare lo strumento militare per esportare democrazia e pro- muovere ambiziose operazioni di nation-building. I costi umani e materiali dei due conflitti – che ad oggi hanno causato circa 6000 vittime tra i soldati statunitensi – divennero inaccettabili per l’opinione pubblica statunitense. Le alte spese militari, combinate con significativi tagli alle tasse e a tassi di crescita più bassi rispetto agli anni Novanta, alimentarono deficit e debito. I metodi della campagna globale contro il terrore – fatti di incarcerazioni arbitrarie, ripudio delle convenzioni internazionali e utilizzo di metodi prossimi alla tortura – alimentarono l’indignazione e l’ostilità dell’opinione pubblica mondiale e di una parte, per quanto minoritaria, di quella statunitense. Il doppio consenso – interno e internazionale – di cui la principale potenza mondiale abbisogna per condurre un’efficace politica estera andò progressivamente in frantumi. L’elezione di Barack Obama nel 2008, e lo straordinario entusiasmo che essa ha generato fuori dagli Stati Uniti, può essere anche letta in questa chiave e certo ha contribuito a riattivare il soft power di cui storicamente godono gli Usa, riportandone la politica estera sul binario di un cauto e pragmatico internazionalismo. Il successo dell’operazione che ha portato all’eliminazione di Osama Bin Laden ha inoltre rafforzato Obama in un momento di particolare difficoltà per la sua amministrazione. Molte contraddizioni però rimangono. Obama ha deciso di alzare la soglia dell’impegno in Afghanistan, ma oggi una larga maggioranza degli americani sono contrari al proseguimento dell’operazione e chiedono un rapido disimpegno. La crisi economica e l’impressionante deterioramento dei conti pubblici ha reso ancor meno popolare l’idea che gli Usa debbano avere un ruolo di leadership della comunità internazionale. Al contempo, però, una maggioranza dell’opinione pubblica statunitense non giudica negativamente alcuni degli aspetti più controversi della campagna contro il terrorismo di Bush e ne chiede la prosecuzione (stando ai sondaggi, il 65% degli americani rimangono per esempio contrari alla chiusura del carcere di Guantánamo e al trasferimento dei prigionieri in carceri statunitensi). A un mondo che chiede un maggior impegno degli Stati Uniti, da realizzarsi attraverso la loro partecipazione a organizzazioni internazionali e fora multilaterali, corrisponde pertanto oggi un’America riluttante sia a sostenere politiche estere globali e interventiste, sia a rientrare pienamente nella comunità internazionale, accettandone norme e vincoli.

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