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La scena pubblica

di Laura Barletta - Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)
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Filippo Carlà
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Nel Cinquecento è portata a compimento l’evoluzione delle feste rinascimentali. L’assunzione della loro direzione da parte del potere centrale, la sottrazione delle prerogative un tempo proprie di gruppi particolari e il depotenziamento dei contenuti di eversione dell’ordine insiti nella partecipazione individuale, così come la separazione delle manifestazioni laiche da quelle religiose e la divisione delle celebrazioni di corte dagli incontri cui partecipa tutto il popolo, costituiscono la cifra della vita cerimoniale cinquecentesca.

La festa

All’inizio dell’età moderna si verifica una serie di cambiamenti nella scena pubblica, cioè in quell’insieme di segni che in una società ritualistica e poco alfabetizzata ha larga parte nella manifestazione dei rapporti sociali e rappresenta uno strumento di comunicazione indispensabile tra i gruppi, i ceti, i diversi poteri. Nell’ambito di questo sistema simbolico la festa è un momento essenziale che, nella complessità degli elementi che la costituiscono – dalla musica ai versi, alla pittura, alla scultura, all’architettura, fino al ballo e al movimento scenico – meglio permette di registrare il modificarsi della società tra il XV e il XVI secolo. Più della parola scritta o orale o della sola iconografia, la festa permette di alludere, suggerire, trasmettere messaggi dalle molte sfaccettature, a volte anche ambigui. Anzi, proprio a partire dall’età moderna, le manifestazioni sono sempre più programmaticamente costruite per lanciare messaggi differenziati alle diverse componenti sociali, e si accentua la divaricazione nella loro percezione a seconda del ceto, dell’età, del sesso, della cultura e delle convinzioni politiche degli spettatori. Il linguaggio della festa può inoltre essere interpretato in modo distorto dai destinatari, soprattutto nei periodi in cui la società è sottoposta a profonde trasformazioni, e questi fraintendimenti ne diventano anzi indici significativi. In complesso, però, la simbologia è largamente intesa e mette capo a un sistema di comunicazione multidimensionale, ben compreso sia dagli abitanti del luogo, sia dai forestieri, rispetto ai quali si vuole presentare un’immagine del proprio Paese che dia un’idea di ricchezza, ordine, forza e felicità.

Nella festa viene esaltata l’identità di una comunità, magari riassumendone la storia, vengono narrate le gesta del suo capo, o viene offerta prova della considerazione portata a un ospite di riguardo (come accade nel 1547 in occasione dell’ingresso a Venezia di Enrico III di ritorno dalla Polonia, quando sono rievocate le sue battaglie contro gli ugonotti), sono messe in scena le alleanze (basti solo pensare alle fogge degli abiti che evidenziano l’appartenenza a una certa area d’influenza), sono rappresentati gli indirizzi politici del governo e il consenso o il dissenso della popolazione rispetto a essi e all’ordine sociale e, quindi, la solidità dello Stato. La festa è in grado, inoltre, di rappresentare non solo i rapporti di potere, ma anche i sentimenti, i desideri e le tendenze della società e consente di valutare il loro rapporto, sempre conflittuale e mobile, con la realtà. Così nel 1573, nelle feste a corte per l’elezione del fratello del re di Francia Carlo IX alla corona di Polonia, viene sottolineata agli occhi del pubblico la concordia fra i tre figli maschi di Caterina de’ Medici, concordia che costituisce un’aspirazione e un augurio, ma è palesemente contraddetta dai fatti. Anzi, le previsioni favorevoli hanno largo spazio nelle celebrazioni proprio per il loro valore benaugurante e produttore di influssi positivi, tanto più indispensabile quanto più le circostanze sono infauste. Con questo intento nel 1581, nelle manifestazioni per le nozze del duca di Joyeuse con la sorella della regina Luisa di Lorena, Enrico III è simboleggiato da un sole; le insegne della casa reale francese stanno a dominare l’universo proprio mentre la monarchia attraversa un periodo difficilissimo.

Inoltre la festa è essa stessa produttrice di nuovi legami, tanto da essere consapevolmente utilizzata come uno strumento di governo, ed è il momento in cui avanzare pubblicamente ai governanti richieste che riguardano gli interessi di interi ceti. Così il sovrano è invocato come l’unico capace di ripristinare l’età dell’oro, della pace e dell’abbondanza – ricordando velatamente il dovere del principe di provvedere al benessere del suo popolo – e di volta in volta vengono specificate le virtù che egli deve possedere: in genere la giustizia, la forza, la prudenza, la temperanza. È il caso dell’ingresso di Carlo VIII a Rouen nel 1485 dove, sotto al trono stanno conseil royal, haut vouloir, amour populaire, liberalité, espérance, sapience. Le richieste non si limitano a temi generici ma riguardano spesso problemi specifici come, ad esempio, quello che Carlo V è invitato a risolvere in occasione del suo ingresso a Bruges nel 1515, e cioè la perdita di importanza della città rispetto ad Anversa.

Dal Medioevo all’età moderna

La festa rinascimentale continua l’uso di far coincidere la celebrazione degli eventi politici con le feste popolari dei tempi passati e si rifà soprattutto alla tradizione medievale degli ingressi trionfali, dei tornei, delle feste in maschera e dei balli a corte. Ma gli ingressi dei sovrani nelle città, che fino al Trecento erano incentrati sul loro incontro alle porte dell’abitato con il clero, i maggiorenti locali, i rappresentanti della borghesia e delle corporazioni e sul corteo che li accompagnava nel centro, fra Quattrocento e Cinquecento diventano spettacoli imponenti che includono scene religiose, e in seguito anche profane, per sottolineare sempre più la sacralità, la discendenza dinastica, la legittimità, e le virtù del monarca, e per manifestare il suo legame diretto con tutta la popolazione. Ai tornei, nei quali era stata messa in mostra in particolare la posizione del re come signore feudale – dotato in massimo grado di quelle capacità belliche, di quel coraggio, di quel senso dell’onore cui dovevano essere educati i cavalieri – con la progressiva trasformazione dei nobili in cortigiani, si sovrappone un’esaltazione degli ideali cavallereschi finalizzata a imbrigliare l’aristocrazia, esaltazione che si traduce nella prevalenza dell’elemento scenico fino alla frequente sostituzione della giostra al torneo. Nella stessa direzione evolvono le danze e gli intermezzi scenici. Se, ad esempio, nel 1539 gli intermezzi fiorentini per l’ingresso di Eleonora di Toledo, sposa di Cosimo I de’ Medici, sono ancora elementi isolati e complementari rispetto alle altre forme festive, nel 1589, verso la fine del secolo, in occasione dell’entrata a Firenze di Cristina, figlia del duca di Lorena Carlo III il Grande , la rappresentazione acquisisce un suo valore artistico autonomo, mentre già si delinea il palcoscenico con le sue quinte laterali e il fondale, anche se non è ancora concepita una sala destinata specificamente agli spettacoli. Lo spostamento dal corteo alla rappresentazione teatrale fissa, con il suo assetto prospettico il cui punto focale è il luogo in cui sta il principe, rispecchia i nuovi rapporti di potere. E spesso alle rappresentazioni partecipa la famiglia del sovrano, come avviene nel 1573, quando alla corte francese vengono ricevuti gli ambasciatori polacchi dopo l’elezione di Enrico III di Valois, fratello del re di Francia Carlo IX, a re di Polonia: nel ballo offerto dalla regina madre Caterina de’ Medici, sedici dame di corte, tra cui Margherita di Valois, intervengono a rappresentare le province francesi. Più raramente vi partecipa il sovrano stesso, che recita così i due ruoli dello spettatore di elezione e del membro della corte, mettendo in atto quell’inversione rituale che nella festa costituisce un antico dato antropologico. Man mano che l’accentramento statale comporta il declino dei poteri locali, la corte si trasforma sempre più nel fulcro del rituale pubblico e le feste diventano essenzialmente mezzo di propaganda a sostegno della politica dei principi, uno strumento per esibire la loro forza e il loro splendore e vincere ogni opposizione. Non a caso Carlo V si occupa personalmente delle feste che scandiscono il suo regno e dà loro un rilievo maggiore di quanto esse avessero avuto nel passato. La festa di corte rappresenta allora un mondo ideale in cui una natura ordinata è sottoposta al dominio umano, così come il Paese reale deve essere controllato dal principe. L’armonia perfetta della festa è immagine, a un tempo, del macrocosmo – ad esempio, nel 1589, i quattro intermezzi per l’ingresso di Cristina di Lorena a Firenze, che rappresentano l’aria, il fuoco, la terra e l’acqua –e dell’ordine politico e sociale, e non può essere sovvertita neppure dalla novità degli allestimenti che producono scene mutevoli, eppure sostanzialmente simili. Da qui viene l’impressione di ripetitività che si ha scorrendo la documentazione relativa alle feste cinquecentesche. La loro interpretazione è facilitata dai libri di emblemi e di imprese e soprattutto dai dizionari di mitologia – come De deis gentium varia et multiplex historia (1548) di Lilio Gregorio Giraldi, Mythologiae (1551) di Natale Conti, Le imagini colla sposizione degli dei degli antichi (1556) di Vincenzo Cartari, l’Iconologia (1593) di Cesare Ripa. Sulla scorta di questa conoscenza mitologica, i principi sono presentati sotto le spoglie di déi (Enrico II, ad esempio, è rappresentato spesso come Ercole Gallico). La festa assume così un carattere iniziatico che la rende comprensibile in tutte le sue sfaccettature ai soli colti. D’altronde la tendenza verso una sorvegliata ricercatezza, verso un nuovo controllo di sé separa sempre più l’élite dal popolo e la festa si avvia a sdoppiarsi in episodi che si svolgono all’interno della corte e momenti cui è ammessa la partecipazione del popolo: alcuni fra questi, i più popolari, come le lotte fra animali o le partite di calcio, saranno in seguito sempre più destinate a un pubblico esclusivamente plebeo.

Nel Rinascimento si intensifica la sacralizzazione del principe: nel 1515, per l’ingresso a Bruges di Carlo V, la città si presenta come Gerusalemme, gli abitanti sono il popolo eletto e Carlo V viene equiparato a Cristo. Ma la legittimità dinastica è ora fondata anche sulla tradizione romana: già nel 1501, in occasione del matrimonio di Alfonso d’Este con Lucrezia Borgia, a Roma vengono richiamati i trionfi di Giulio Cesare, Paolo Emilio e Scipione l’Africano. Se la costruzione di una tradizione è indispensabile per tutte le dinastie, tanto più lo è per quelle assurte al potere in tempi recenti, come i Medici che per l’ingresso trionfale a Prato di Eleonora di Toledo, figlia del viceré di Napoli, si limitano a esporre dipinti che celebrano le gesta di Giovanni dalle Bande nere; ma nel 1565, quando entra a Firenze Giovanna d’Austria, sorella dell’imperatore Massimiliano II, presentano un quadro molto più complesso, in cui uno degli archi trionfali è dedicato al casato del duca Cosimo. Infine, in un crescendo significativo, quando la francese Cristina entra a Firenze nel 1589, si esibiscono la fondazione di Firenze da parte dei triumviri Augusto, Antonio e Lepido, la rifondazione di Carlo Magno e l’inaugurazione della nuova era da parte della dinastia medicea. Del tutto espliciti, in questa occasione, sono anche la raffigurazione della Toscana che Cosimo incorona, il richiamo all’insieme dei legami matrimoniali dei Medici, ai papi fiorentini Leone X e Clemente VII e alla discendenza della sposa da Caterina de’ Medici.

La magnificenza crescente delle manifestazioni è anche connessa con gli avanzamenti della tecnica e della scienza, soprattutto dell’ingegneria e della fisica, che permettono la moltiplicazione di macchine e congegni teatrali. Pesa anche il nuovo rapporto che si viene a creare fra il principe e i poeti, gli architetti, i pittori, gli scultori, gli inventori di danze, che si pongono al suo servizio. Grandi nomi allestiscono le feste: basti ricordare Tintoretto, Veronese e Palladio che nel 1574 partecipano agli allestimenti per l’ingresso a Venezia di Enrico III, o Leonardo da Vinci, Borghini, Vasari, Torquato Tasso, Pierre Ronsard e, tra i musicisti, John Dowland o Claudio Monteverdi. Si moltiplicano anche le opere che ricordano ai posteri le diverse ricorrenze e la liberalità dei principi, come le incisioni di Agostino Carracci, Epifanio d’Alfiano e Orazio Scarabelli per le feste fiorentine del 1589, e le numerose pubblicazioni che descrivono gli allestimenti, li commentano e spiegano nei dettagli gli intenti degli organizzatori. L’importanza degli spettacoli di corte e dello sfarzo che vi si dispiega è tale che essi non vengono affatto meno quando le finanze sono esauste, anzi: le feste sono considerate un modo per ottenere credito. D’altronde, da un lato, nel Rinascimento la grandiosità diventa una virtù regale e, dall’altro, si attribuisce alle feste una funzione educativa che rende accettabili le enormi somme impiegate.

Le resistenze

Tuttavia l’accentramento statale si scontra con i diversi poteri anche per quanto riguarda le manifestazioni festive: da un lato quelle laiche, di aristocratici, corporazioni e autorità civili che si svolgono ancora in concorrenza fra loro, e dall’altro quelle religiose, con l’obiettivo di esaltare il potere del proprio gruppo e di raccogliere il consenso dell’élite e del popolo. È soprattutto la Chiesa a resistere meglio all’assunzione della direzione delle feste da parte del potere centrale attraverso la più capillare penetrazione delle sue ricorrenze nella vita quotidiana dei fedeli, o attraverso l’inevitabile trionfo della morte sulla pochezza della vita terrena, celebrato con sempre maggiore pompa soprattutto nei funerali dei grandi.

La Chiesa stessa, come la corte, si allontana però dagli usi popolari tanto da respingere quelle feste che, come il carnevale, pur avendo in sé un potenziale di eversione dell’ordine, nel Medioevo erano celebrate perfino dai capitoli delle cattedrali. Così il trono e l’altare si trovano uniti nel limitare gli interventi degli aristocratici, delle corporazioni, delle comunità di stranieri e la spontaneità della partecipazione individuale alla festa, spingendola sotto il controllo di accademie e sodalizi legati al potere politico e religioso. È indicativo quanto avviene, ad esempio, a Norimberga, in Germania. Già nel 1469 le autorità della città avevano imposto ammende a chi indossava gli abiti a rovescio, mascherava il proprio viso, faceva questue, lanciava petardi, cenere, oppure oggetti sudici, secondo la tradizione. In più, nel corso del secolo, all’interno della sfilata delle maschere la presenza delle grandi famiglie si faceva sempre più evidente, mentre l’apparizione, nel 1475, di un carro a carico della collettività riduceva lo spazio lasciato all’inventiva dei singoli partecipanti. In seguito la presenza sul carro del diavolo, registrata nei primi decenni del Cinquecento, suggella la separazione rigida fra il regno del disordine terreno e quello dell’ordine religioso. E la battaglia ingaggiata contro la scorta del carro dai mercanti di lana mascherati da Turchi, fino alla presa finale del carro stesso, dimostra chiaramente, al di là delle riproduzione di uno scontro usuale con un nemico ben conosciuto, la tensione esistente fra i gruppi incaricati tradizionalmente di organizzare la festa e le autorità cittadine. Infine, nel 1539, il consiglio della città vieta la sfilata quando alcuni membri del patriziato mettono sul carro, tra figure di diavoli e matti, un’effigie di Andreas Osianders, capo religioso della città: la sfilata non si ripeterà più. Il passaggio sotto l’egida del potere centrale e la riduzione del potenziale eversivo delle feste sono dunque nel Cinquecento un fatto non solo delle monarchie e degli Stati principeschi ma anche di tutti gli altri organismi statali, sebbene con uno sfasamento temporale dovuto ai diversi contesti. Quanto allo stile degli allestimenti e al passaggio dalle forme medievali a quelle pienamente rinascimentali, Firenze è sempre all’avanguardia, mentre aree all’epoca marginali come l’Inghilterra e la Scozia vi giungono solo all’inizio del secolo successivo. Contemporaneamente procede dovunque la separazione delle manifestazioni laiche da quelle religiose e la divisione delle feste di corte da quelle alle quali è richiesta la partecipazione di tutto il popolo; si delinea, inoltre, quella emarginazione delle feste prettamente popolari e quella commercializzazione delle feste di piazza che andranno prendendo corpo durante l’età moderna.

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scena scèna s. f. [dal lat. scaena, gr. σκηνή «tenda, fondale del palcoscenico»]. – 1. a. Parte del teatro dove gli attori recitano; è costituita generalm. da una piattaforma sopraelevata rispetto al piano della sala, delimitata verso quest’ultima...
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pubblica pùbblica s. f. – Moneta di rame del regno di Napoli (così chiamata dalla prima parola della leggenda: Publica commoditas), emessa sotto Filippo III nel 1599, del valore di 1 tornese o 6 cavalli, poi sotto Filippo IV nel 1624 del...
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